24/11/03




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USA e IRAQ
L'equilibrio della guerra.

di Umberto Curi


E' un grave sbaglio, potenzialmente molto pericoloso, utilizzare gli evidenti insuccessi dell'iniziativa militare americana in Iraq per ribadire alcuni luoghi comuni privi di reale fondamento, solo perché si è contrari alla guerra.
Non è vero, ad esempio, che l'attacco contro Saddam sia stato principalmente motivato da interessi specifici per l'area petrolifera irachena. Non è vero neppure che gli Usa stiano semplicemente proponendo una politica imperialistica "classica", paragonabile a quella sviluppata nel secondo dopoguerra. Ed è infine soltanto caricaturale dipingere Bush e Blair come spavaldi pistoleri avidi di avventure pericolose: può andar bene come slogan semiserio per una manifestazione di piazza, ma certamente non serve a capire che cosa stia realmente accadendo. Attribuire a coloro con i quali si è in disaccordo intenzioni e comportamenti stravaganti, solo per convincersi di avere ragione, non serve né alla causa della verità, né a quella della pace. Un esame accurato dei documenti strategici prodotti dall'amministrazione americana a partire dal 1991, e poi soprattutto dopo l'11 settembre, può dimostrare al di fuori di ogni dubbio che la linea di condotta seguita negli ultimi due anni non è affatto il risultato di una generica ed irrazionale propensione alla guerra.
Siamo in presenza invece di un ragionamento lucido e complesso, basato su alcuni dati di fatto inoppugnabili, e per certi aspetti perfino ammirevole dal punto di vista della coerenza logica. Detto in grande sintesi: dopo il crollo dell'impero sovietico, e il conseguente venir meno della diarchia che aveva controllato il mondo per quasi mezzo secolo, si sono create condizioni generali a livello planetario virtualmente esplosive. Le disuguaglianze e gli squilibri fra i popoli, anziché diminuire, sono cresciuti in maniera drammatica, fino a raggiungere le proporzioni tante volte denunciate, ma ormai accolte quasi con indifferenza. Più di un miliardo di persone che sopravvivono con meno di un euro al giorno, 11 mila bambini che muoiono tutti i giorni per problemi connessi all'alimentazione, l'80% delle risorse nelle mani del 20% della popolazione, il reddito di alcuni signori che è pari al Pil di numerosi paesi dell'Africa, e via dicendo.
Di fronte ad una situazione di questo genere, destinata ad aggravarsi ulteriormente nel corso dei prossimi 15 anni, come è emerso dalla recente riunione della Fao, il Presidente Bush ha dichiarato testualmente, e spesso ripetuto, che "il tenore di vita dei cittadini americani non è negoziabile". Al di fuori della formula, quella affermazione vuol dire che lo standard di vita occidentale, del 20% della popolazione mondiale, deve essere considerato una variabile indipendente, non suscettibile di alcuna variazione. In un regime di risorse scarse, quale è quello attuale e del prossimo futuro, tutto ciò significa che le condizioni di vita della stragrande maggioranza delle persone su questo pianeta resteranno stazionarie o peggioreranno nei decenni che ci attendono.
In presenza di questo quadro, è del tutto evidente, è perfino elementare, che l'unico modo per "tenere in forma" un mondo così strutturalmente squilibrato è quello riassunto nella formula studiata dal vice di Donald Rumsfeld: guerra infinita. Non ha nessuna importanza il fatto che, almeno in apparenza, la guerra non sia condotta direttamente contro i poveracci che languono in condizioni di miseria e sottosviluppo. In condizioni critiche quali quelle attuali, la guerra è di per sé un fattore di possibile stabilizzazione, se non altro perché preserva la quota di cittadini il cui tenore di vita è dichiarato non negoziabile dalla possibilità di vedersi ridimensionati i propri standard.
Insomma, nessuna irrazionale propensione alla guerra, ma un progetto lucido e consapevole per conservare un pur precario equilibrio, senza minimamente mettere in discussione ciò che è detenuto da una quota minoritaria di privilegiati. Di qui il fatto che è perfettamente inutile contestare agli Usa l'ormai provata inefficacia della strategia assunta nei confronti del terrorismo: perché l'obbiettivo non è affatto la sconfitta del terrorismo, ma la conservazione di uno status complessivo, minacciato nella sua sopravvivenza dalla pressione di una miseria crescente, molto più che dai disegni criminali di un manipolo di fanatici. Vogliamo allora davvero porre le basi un'alternativa concreta alla realissima prospettiva della guerra infinita? La direzione da intraprendere - già abbozzata in nuce nell'iniziativa del digiuno promossa dal Papa - dovrebbe essere evidente.




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