E' un grave sbaglio, potenzialmente molto pericoloso,
utilizzare gli evidenti insuccessi dell'iniziativa militare
americana in Iraq per ribadire alcuni luoghi comuni privi di reale
fondamento, solo perché si è contrari alla guerra.
Non è vero, ad
esempio, che l'attacco contro Saddam sia stato principalmente
motivato da interessi specifici per l'area petrolifera irachena. Non
è vero neppure che gli Usa stiano semplicemente proponendo una
politica imperialistica "classica", paragonabile a quella sviluppata
nel secondo dopoguerra. Ed è infine soltanto caricaturale dipingere
Bush e Blair come spavaldi pistoleri avidi di avventure pericolose:
può andar bene come slogan semiserio per una manifestazione di
piazza, ma certamente non serve a capire che cosa stia realmente
accadendo. Attribuire a coloro con i quali si è in disaccordo
intenzioni e comportamenti stravaganti, solo per convincersi di
avere ragione, non serve né alla causa della verità, né a quella
della pace. Un esame accurato dei documenti strategici prodotti
dall'amministrazione americana a partire dal 1991, e poi soprattutto
dopo l'11 settembre, può dimostrare al di fuori di ogni dubbio che
la linea di condotta seguita negli ultimi due anni non è affatto il
risultato di una generica ed irrazionale propensione alla
guerra.
Siamo in presenza invece di un
ragionamento lucido e complesso, basato su alcuni dati di fatto
inoppugnabili, e per certi aspetti perfino ammirevole dal punto di
vista della coerenza logica. Detto in grande sintesi: dopo il crollo
dell'impero sovietico, e il conseguente venir meno della diarchia
che aveva controllato il mondo per quasi mezzo secolo, si sono
create condizioni generali a livello planetario virtualmente
esplosive. Le disuguaglianze e gli squilibri fra i popoli, anziché
diminuire, sono cresciuti in maniera drammatica, fino a raggiungere
le proporzioni tante volte denunciate, ma ormai accolte quasi con
indifferenza. Più di un miliardo di persone che sopravvivono con
meno di un euro al giorno, 11 mila bambini che muoiono tutti i
giorni per problemi connessi all'alimentazione, l'80% delle risorse
nelle mani del 20% della popolazione, il reddito di alcuni signori
che è pari al Pil di numerosi paesi dell'Africa, e via
dicendo.
Di fronte ad una situazione di questo genere, destinata
ad aggravarsi ulteriormente nel corso dei prossimi 15 anni, come è
emerso dalla recente riunione della Fao, il Presidente Bush ha
dichiarato testualmente, e spesso ripetuto, che "il tenore di vita
dei cittadini americani non è negoziabile". Al di fuori della
formula, quella affermazione vuol dire che lo standard di vita
occidentale, del 20% della popolazione mondiale, deve essere
considerato una variabile indipendente, non suscettibile di alcuna
variazione. In un regime di risorse scarse, quale è quello attuale e
del prossimo futuro, tutto ciò significa che le condizioni di vita
della stragrande maggioranza delle persone su questo pianeta
resteranno stazionarie o peggioreranno nei decenni che ci
attendono.
In presenza di questo quadro, è del tutto evidente, è
perfino elementare, che l'unico modo per "tenere in forma" un mondo
così strutturalmente squilibrato è quello riassunto nella formula
studiata dal vice di Donald Rumsfeld: guerra infinita. Non ha
nessuna importanza il fatto che, almeno in apparenza, la guerra non
sia condotta direttamente contro i poveracci che languono in
condizioni di miseria e sottosviluppo. In condizioni critiche quali
quelle attuali, la guerra è di per sé un fattore di possibile
stabilizzazione, se non altro perché preserva la quota di cittadini
il cui tenore di vita è dichiarato non negoziabile dalla possibilità
di vedersi ridimensionati i propri standard.
Insomma, nessuna
irrazionale propensione alla guerra, ma un progetto lucido e
consapevole per conservare un pur precario equilibrio, senza
minimamente mettere in discussione ciò che è detenuto da una quota
minoritaria di privilegiati. Di qui il fatto che è perfettamente
inutile contestare agli Usa l'ormai provata inefficacia della
strategia assunta nei confronti del terrorismo: perché l'obbiettivo
non è affatto la sconfitta del terrorismo, ma la conservazione di
uno status complessivo, minacciato nella sua sopravvivenza dalla
pressione di una miseria crescente, molto più che dai disegni
criminali di un manipolo di fanatici. Vogliamo allora davvero porre
le basi un'alternativa concreta alla realissima prospettiva della
guerra infinita? La direzione da intraprendere - già abbozzata in
nuce nell'iniziativa del digiuno promossa dal Papa - dovrebbe essere
evidente.