Senza scatenare lo sdegno o il plauso dei
politici e nel sostanziale silenzio delle istituzioni, l'autonomia
trentina ha subito in questi giorni uno dei più preoccupanti
scossoni della sua cinquantennale esperienza. E questa volta la
minaccia non è arrivata dal solito centralismo romano e neppure dal
più recente centralismo europeo: l'assalto al
nostro orgoglio autonomista, almeno così come lo abbiamo conosciuto
fino ad ora, è arrivato da un piccolo comune.
Ecco in sintesi i
fatti: il consiglio comunale di Vallarsa ha approvato una modifica
del proprio statuto con la quale, appellandosi alla Costituzione, ha
deciso di non rispettare quanto sancito da una legge
regionale.
Più in particolare, l'oggetto di questo singolare
«ammutinamento» giuridico riguarda la volontà di non applicare la
legge regionale che, recependo in modo più compiuto una norma
statale dei primi anni Novanta, ribadisce la separazione delle
funzioni di indirizzo e controllo, spettanti alla giunta, da quelle
di gestione, di competenza dei dirigenti.
Al di là delle
valutazioni di merito, la questione è di straordinaria importanza in
quanto, se altri comuni adottassero comportamenti analoghi, il
rischio di far saltare «dal basso» l'architettura interna
dell'autonomia trentina sarebbe oggettivamente elevato.
I
riferimenti normativi su cui si fonda l'«ammutinamento» derivano
dalle recenti modifiche del titolo quinto della Costituzione e in
particolare dall'introduzione chiara e inequivocabile del principio
di sussidiarietà, per cui non deve fare l'ente di livello superiore
(ad esempio la Regione) ciò che può fare quello di livello inferiore
(è il caso, appunto, del Comune).
Le ragioni giuridiche della
scelta compiuta dal consiglio comunale di Vallarsa sono state
supportate dal parere legale dell'avvocato Maria Cristina Osele:
parere che chiama in causa due importanti modifiche apportate al
titolo quinto della Costituzione dalla legge costituzionale n. 3 del
2001. La prima modifica è contenuta nel nuovo articolo 114 secondo
il quale i Comuni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e
funzioni. Ciò significa che l'organizzazione interna e le competenze
istituzionali vengono direttamente ricondotte alla Costituzione,
senza prevedere una subordinazione del comune rispetto ad altri enti
territoriali quali la Provincia o la Regione. La seconda modifica
riguarda il nuovo articolo 118 secondo cui non è più prevista una
attribuzione delle funzioni amministrative al Comune da parte della
Regione, ma direttamente dalla Costituzione. Ciò che viene
affermata, di conseguenza, è la pari ordinazione degli enti
territoriali, cui corrisponde una soppressione delle tradizionali
forme di controllo di legittimità. Detto in altri termini: la
sovranità di Regione e Provincia sui Comuni trentini, come su quelli
altoatesini, può essere considerata «costituzionalmente» superata,
indipendentemente da ciò che sancisce lo Statuto di autonomia. Fatte
queste premesse si possono trarre due conclusioni di non poco conto
per la natura e i rapporti tra i diversi livelli istituzionali che
insistono sul territorio regionale.
Innanzitutto la nostra
Autonomia è ormai in cronico ritardo rispetto a una dimensione
statale più dinamica e attenta alle innovazioni. Basti pensare che
le grandi riforme della pubblica amministrazione, partite nei primi
anni Novanta, sono state recepite, in sede provinciale e regionale
molto in ritardo, quando ormai gli orientamenti nazionali erano
mutati (ad esempio la separazione delle funzioni tra politica e
amministrazioni solo nei comuni con più di cinquemila
abitanti).
In secondo luogo è ormai evidente la necessità di
passare da una concezione autocentrica dell'Autonomia, dove il
soggetto preminente è la Provincia, a una concezione pluricentrica,
caratterizzata dal concorso di più livelli istituzionali di
«pari-ordinazione». Per sbloccare questa situazione divenuta ormai
insostenibile è necessario innanzitutto riportare «a normalità» i
meccanismi decisionali. Non è vero che in ambito locale manchino le
buone idee. Anzi in più di un settore i livelli di elaborazione e le
«buone prassi» presenti nelle nostre istituzioni sono
all'avanguardia e di esempio anche a livello nazionale. Il problema
è liberare queste risorse innovative e supportarle con un adeguato
sistema di regole e di scelte organizzative.
In secondo luogo è
indispensabile che la Provincia faccia un passo indietro nella sua
presunzione di essere il grande regolatore che tutto controlla e che
tutto indirizza e che i Comuni (unitamente alla società civile)
facciano un passo avanti non solo in termini operativi, ma anche di
responsabilità collettiva. Da questo punto di vista il problema è
capire perché, nonostante tutti siano d'accordo sull'importanza e
sull'urgenza della riforma, non si riesca a sbloccare la situazione
di stallo in cui ci troviamo individuando una proposta politicamente
praticabile. Certamente alcune responsabilità vanno attribuite alla
tendenza della Provincia ad auto riprodurre se stessa e le proprie
prerogative. E non meno importanti sono gli effetti dell'alta
conflittualità in seno ai Consigli provinciale e regionale, che
hanno ridotto al lumicino la capacità di approvare leggi, specie se
di rilievo.
A monte di tutto vi è comunque l'ipoteca posta da una
cultura centralistica che permea non solo le istituzioni, ma anche
la stessa società civile. Davanti alle difficoltà grandi e piccole
(una crisi industriale piuttosto che un'emergenza sociale) e davanti
alle sfide della quotidiana convivenza, l'immaginario collettivo dei
trentini corre subito a «mamma Provincia». Tutto ciò ha finito con
l'indebolire e talvolta anche con l'inibire la capacità d'iniziativa
dei Comuni come dei soggetti privati.
La riforma del titolo
quinto della Costituzione ha quindi colto di sorpresa la realtà
locale minando alla base un modello centralista da anni immutabile,
nonostante le reiterate e quasi patetiche dichiarazioni di intenti
che si sono avvicendate in quest'ultimo ventennio.
Forse
l'«ammutinamento» di Vallarsa non giova a un ridisegno
dell'Autonomia, che richiede grande coralità e la capacità di
mettere i campanili al servizio degli interessi più generali della
Provincia. Tuttavia, è indubbia la sua capacità, e il merito, di
mettere in crisi un'autoreferenza provinciale (e di conseguenza
regionale) che ha finito con l'essere prigioniera di se stessa:
prigioniera di una concezione totalizzante che le impedisce di
scommettere sui comuni e sulle forze vive della società
civile.