18/02/03




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L'AMMUTINAMENTO DI VALLARSA
Il commento - di Mauro Marcantoni


Senza scatenare lo sdegno o il plauso dei politici e nel sostanziale silenzio delle istituzioni, l'autonomia trentina ha subito in questi giorni uno dei più preoccupanti scossoni della sua cinquantennale esperienza. E questa volta la minaccia non è arrivata dal solito centralismo romano e neppure dal più recente centralismo europeo: l'assalto al nostro orgoglio autonomista, almeno così come lo abbiamo conosciuto fino ad ora, è arrivato da un piccolo comune.
Ecco in sintesi i fatti: il consiglio comunale di Vallarsa ha approvato una modifica del proprio statuto con la quale, appellandosi alla Costituzione, ha deciso di non rispettare quanto sancito da una legge regionale.
Più in particolare, l'oggetto di questo singolare «ammutinamento» giuridico riguarda la volontà di non applicare la legge regionale che, recependo in modo più compiuto una norma statale dei primi anni Novanta, ribadisce la separazione delle funzioni di indirizzo e controllo, spettanti alla giunta, da quelle di gestione, di competenza dei dirigenti.
Al di là delle valutazioni di merito, la questione è di straordinaria importanza in quanto, se altri comuni adottassero comportamenti analoghi, il rischio di far saltare «dal basso» l'architettura interna dell'autonomia trentina sarebbe oggettivamente elevato.
I riferimenti normativi su cui si fonda l'«ammutinamento» derivano dalle recenti modifiche del titolo quinto della Costituzione e in particolare dall'introduzione chiara e inequivocabile del principio di sussidiarietà, per cui non deve fare l'ente di livello superiore (ad esempio la Regione) ciò che può fare quello di livello inferiore (è il caso, appunto, del Comune).
Le ragioni giuridiche della scelta compiuta dal consiglio comunale di Vallarsa sono state supportate dal parere legale dell'avvocato Maria Cristina Osele: parere che chiama in causa due importanti modifiche apportate al titolo quinto della Costituzione dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. La prima modifica è contenuta nel nuovo articolo 114 secondo il quale i Comuni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni. Ciò significa che l'organizzazione interna e le competenze istituzionali vengono direttamente ricondotte alla Costituzione, senza prevedere una subordinazione del comune rispetto ad altri enti territoriali quali la Provincia o la Regione. La seconda modifica riguarda il nuovo articolo 118 secondo cui non è più prevista una attribuzione delle funzioni amministrative al Comune da parte della Regione, ma direttamente dalla Costituzione. Ciò che viene affermata, di conseguenza, è la pari ordinazione degli enti territoriali, cui corrisponde una soppressione delle tradizionali forme di controllo di legittimità. Detto in altri termini: la sovranità di Regione e Provincia sui Comuni trentini, come su quelli altoatesini, può essere considerata «costituzionalmente» superata, indipendentemente da ciò che sancisce lo Statuto di autonomia. Fatte queste premesse si possono trarre due conclusioni di non poco conto per la natura e i rapporti tra i diversi livelli istituzionali che insistono sul territorio regionale.
Innanzitutto la nostra Autonomia è ormai in cronico ritardo rispetto a una dimensione statale più dinamica e attenta alle innovazioni. Basti pensare che le grandi riforme della pubblica amministrazione, partite nei primi anni Novanta, sono state recepite, in sede provinciale e regionale molto in ritardo, quando ormai gli orientamenti nazionali erano mutati (ad esempio la separazione delle funzioni tra politica e amministrazioni solo nei comuni con più di cinquemila abitanti).
In secondo luogo è ormai evidente la necessità di passare da una concezione autocentrica dell'Autonomia, dove il soggetto preminente è la Provincia, a una concezione pluricentrica, caratterizzata dal concorso di più livelli istituzionali di «pari-ordinazione». Per sbloccare questa situazione divenuta ormai insostenibile è necessario innanzitutto riportare «a normalità» i meccanismi decisionali. Non è vero che in ambito locale manchino le buone idee. Anzi in più di un settore i livelli di elaborazione e le «buone prassi» presenti nelle nostre istituzioni sono all'avanguardia e di esempio anche a livello nazionale. Il problema è liberare queste risorse innovative e supportarle con un adeguato sistema di regole e di scelte organizzative.
In secondo luogo è indispensabile che la Provincia faccia un passo indietro nella sua presunzione di essere il grande regolatore che tutto controlla e che tutto indirizza e che i Comuni (unitamente alla società civile) facciano un passo avanti non solo in termini operativi, ma anche di responsabilità collettiva. Da questo punto di vista il problema è capire perché, nonostante tutti siano d'accordo sull'importanza e sull'urgenza della riforma, non si riesca a sbloccare la situazione di stallo in cui ci troviamo individuando una proposta politicamente praticabile. Certamente alcune responsabilità vanno attribuite alla tendenza della Provincia ad auto riprodurre se stessa e le proprie prerogative. E non meno importanti sono gli effetti dell'alta conflittualità in seno ai Consigli provinciale e regionale, che hanno ridotto al lumicino la capacità di approvare leggi, specie se di rilievo.
A monte di tutto vi è comunque l'ipoteca posta da una cultura centralistica che permea non solo le istituzioni, ma anche la stessa società civile. Davanti alle difficoltà grandi e piccole (una crisi industriale piuttosto che un'emergenza sociale) e davanti alle sfide della quotidiana convivenza, l'immaginario collettivo dei trentini corre subito a «mamma Provincia». Tutto ciò ha finito con l'indebolire e talvolta anche con l'inibire la capacità d'iniziativa dei Comuni come dei soggetti privati.
La riforma del titolo quinto della Costituzione ha quindi colto di sorpresa la realtà locale minando alla base un modello centralista da anni immutabile, nonostante le reiterate e quasi patetiche dichiarazioni di intenti che si sono avvicendate in quest'ultimo ventennio.
Forse l'«ammutinamento» di Vallarsa non giova a un ridisegno dell'Autonomia, che richiede grande coralità e la capacità di mettere i campanili al servizio degli interessi più generali della Provincia. Tuttavia, è indubbia la sua capacità, e il merito, di mettere in crisi un'autoreferenza provinciale (e di conseguenza regionale) che ha finito con l'essere prigioniera di se stessa: prigioniera di una concezione totalizzante che le impedisce di scommettere sui comuni e sulle forze vive della società civile.




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