Qui sotto, sto. Ai piedi di queste pareti dure e grigie, roccia su roccia su roccia, e sopra cielo blu lapislazzuli, come nella volta del Giudizio Universale. E torri di nuvole bianche, e la valle che si sdraia verso nord ancora addormentata nel freddo della primavera che non vuole arrivare. I prati che assomigliano ai fianchi di un animale, prati in pelliccia invernale, a pelo lungo, gialli, coi molli fili flosci e lanosi come i dorsi delle capre tibetane. Cuscini di erica, sorprendenti freschi freddi erti vivi, rossi, in mezzo al grigio secco sfinito dell'inverno asciutto. E' buono l'odore dell'aria. Un odore largo e vasto, passato dentro il silenzio dei crepacci e tra le dita dei pini. Pulito dal pettine profumato delle mughe. Ti sorprende ogni volta che apri la finestra. Ogni volta non ti ricordi che profuma così. Ogni volta sorridi, stupito. E lui ti nutre. Ti sazia. E poi c'è la terra. Questa terra. Concreta e bruna. E sai che ossa di uomini ci si impastano dentro. Calchi le zolle, e sai che dentro, diluiti nella terra scura, ci sono loro. Italiani, austriaci. Un unico impasto di fango, lombrichi, radici, foglie, pallottole, bulbi di crochi, fibbie di zaini, suole di scarpe, nidi di termiti, culatte di bombe, sassi, formiche, escrementi di cervo e ossa ormai disfatte. Da tanti anni. Le cartucce sono rimaste. Le ossa si sono sciolte, le cartucce sporgono la corona ossidata dalle spaccature del terreno. Sai che sono state sparate dal colpo che il percussore ha lasciato marchiato sul fondo. Le raccogli, le spolveri. Te le metti in tasca. Non sai perché. Te le metti in tasca. E ti senti un po' colpevole. Souvenir dalla Grande Guerra? No. Presenza. Segno, ricordo, materia concreta del loro essere qui. Impastati dentro la terra su cui cammino. Presenti, presenti. Dentro l'aria che respiro. |