LA MALIA DEL PADRE
di GIANNI ZANON
da "Ti Racconto..."
La casa del vecchio Minco era giù nel fondo della valle, con alle spalle il monte che la sovrastava e pareva volerla seppellire un giorno o l'altro.
Il rustico era l'ultimo del paese, perso giù verso il torrente.
Talmente discosto che dava l'impressione di far storia a sé.
D'inverno era il ricettacolo del gelo, senza mai prendere una spera di quel magro sole che se ne stava tutto il tempo dietro il monte.
Solamente d'estate compariva a tratti con qualche sprazzo fugace e allora sembrava irrompere sull'aia una ventata di allegria e fuori dal mondo e lì avessero deciso di mettere radici, non si sa.
Certo s'erano dati da fare parecchio. Con le unghie avevano strappato al bosco di pecci, metro dopo metro, un po' di terreno.
Poi avevano tirato su alla meglio quattro muri di sassi. I sassi erano andati a prenderli giù al torrente.
Infine, con pazienza e sudore avevano dissodato la terra lì attorno, liberandola dalle pietre e dai ciocchi.
Quel tanto che bastava al fabbisogno. Sui magri prati delle radure conducevano le bestie al pascolo. Una mucca e qualche capra, tanto da avere un po' di latte e un po' di formaggio come companatico.
Il resto, mai abbondante, lo davano i campi, bagnati più dal sudore che dalle piogge. Miseria in solitudine, eppure bisognava viverci.
Il mondo di fuori poi, solo una chimera. E su quel pezzetto di terra il Minco ci aveva vissuto una vita, sommando fatica e fatica, senza chiedersi il perché.
Se n'era allontanato solo una volta, al tempo della chiamata di leva. Quella era stata l'unica occasione di vedere cose nuove e di tastare spezzoni di vita diversa.
Eppure anche allora aveva finito per sentire nostalgia per quello straccio di terra. E quando, smessa la vidima, un giorno di primavera aveva fatto ritorno e nell'avvicinarsi aveva sentito il mugghiare fondo delle bestie nella stalla, gli era scoppiata l'allegrezza.
Dopo, la vita aveva ripreso a srotolarsi uguale, giorno dopo giorno. Il tempo era voltato via, più veloce dell'acqua del torrente. Lui aveva avuto modo di sposarsi con la Nerina dei Pergheri, una donna mite e sempre affaccendata che prima di morire giovane portata via da una cancrena, aveva fatto in tempo a dargli una figlia.
La Nella era venuta su aspra e selvatica, peggio di uno stazzo di ortiche. Fin da ragazza non aveva fatto molti giochi, presa com'era, lei, unica donna nel rustico dai lavori di casa.
E sbrigati quelli, fuori a dar di vanga e di zappa nel campetto o giù in stalla a governar le bestie o su nel bosco a menar di scure per far legna per l'inverno.
Quando non c'era da serenarsi tra frasche e cespugli spinosi per roncare una mano di terra in più.
Così, amicizie su in paese non ne aveva mai avute e il paese stesso lo frequentava raramente, proprio quando era spinta dal bisogno.
Per qualche tempo, la domenica, ecco, i paesani, ma soprattutto le vecchiette, l'avevano vista accostarsi alla chiesa, la messa prima.
Sempre di fretta e furtivamente però senza perdersi in chiacchiere.
Ma poi aveva smesso anche quell'abitudine. "Tanto - pensava - se Dio c'è, è dappertutto, sui prati, sui campi e sugli alberi".
Però non si dimenticava di segnarsi quando passava davanti alla Cappelletta votiva posta a lato la stradetta, a cento passi dal rustico.
"Più selvatica delle sue bestie" - diceva la gente.
Del resto, i lavori, giù al rustico erano tanti ed anzi aumentavano man mano che il vecchio Minco invecchiava ancora di più e le forze gli andavano scemando.
O forse lei si trovava a proprio agio in quella sua vita di solitudine oppure l'amore per quel vecchio che aveva sempre più bisogno di lei la riempiva tutta.
Ogni minuto libero dai quotidiani impegni lo dedicava a lui accudendolo come un bambino.
Comunque, per gli uomini non aveva mai manifestato interesse, tanto meno attenzione.
Come se non esistessero. "E chi la vorrebbe quella, bizzosa come una capra?" mormoravano i paesani.
Crescendo, ormai donna matura aveva raddoppiato le energie e non c'era maschio che le potesse star dietro nei lavori di fatica.
Non dava mai segni di stanchezza e già ai primi albori, quando fuori dalla finestra il nero della notte lasciava il posto al grigio ancora incerto, lei era già in faccende.
Non spendeva mai molte parole e col vecchio s'intendeva più a gesti che alla voce.
Più facile che buttasse bruschi comandi alle bestie, giù in stalla o rincorrendo le galline alla sera, per cacciarle nel pollaio.
Perfino il cane alla catena aveva imparato ad interpretarne solo le movenze.
Il vecchio Minco non ne aveva a male per quei silenzi. Gli bastava sentirsela muovere attorno.
E sapere che, lei era presente, tutte le cose, lì al rustico, sarebbero sempre filate lisce.
A questo pensava spesso ed era un pensiero benefico. Soprattutto nelle lunghe notti invernali, quando se ne stava al caldo nel suo letto ad ascoltare i cento rumori e sussurri della vecchia casa, si sentiva rassicurato pensando che lei, Nella era di là nell'altra stanza, sempre e comunque pronta ad ogni evenienza.
E si diceva fortunato di aver avuto una figlia così e che al mondo, in fondo, c'era giustizia se la sua precoce vedovanza era stata compensata da quella presenza.
Talvolta pensava anche che, una volta che lui se ne fosse andato, la Nella sarebbe rimasta sola e però neanche allora lei si sarebbe persa.
Per questo si sentiva sereno ed in pace col mondo. Se solo gli fosse restata un po' più di forza, da darle una mano, da levarle almeno gli imbrogli più leggeri.
Questo veramente lo angustiava, anche se non poteva farci niente. Qualche volta si sforzava, con falsa noncuranza e senza quasi dar nell'occhio, di fare qualche cosa, di spaccare pian piano un po' di legna o di scopare l'aia o di buttare un pugno d'erba ai conigli.
Ma la Nella non tardava ad accorgersene e allora insorgeva con furia, sospingendolo in cucina, a starsene quieto.
Curare il fuoco dell'economica, quello era l'unico lavoro che gli concedeva, specialmente nelle stagioni fredde.
E allora lui se ne stava lì, rannicchiato al caldo e, non visto, la sogguardava mentre lei si muoveva rapida dietro a questo o a quello.
Oppure mentre, seduta all'altro capo del fornello, rammendava con gesto deciso qualche straccio.
Poi, d'un colpo magari si alzava e gli metteva fra le mani una tazza di latte caldo e con fare sbrigativo gli rassettava addosso la camicia stazzonata o gli accomodava sulle spalle lo scialle di lana.
E lui, confortato leggeva in quei gesti quasi rabbiosi l'affetto di quella figlia che diversamente non sapeva esprimersi.
Talvolta era lei a guardarlo fisso, di nascosto, quasi con occhio torvo ma materno, proprio come se fosse una sua creatura.
- Chissà cosa le passasse per la testa in quei momenti.
Magari solo che quel vecchietto lì, suo padre, s'era dannato l'anima e il corpo per tirarla su e che adesso toccava lei tenerlo d'acconto meglio che poteva.
E ancora che, in quella dannata solitudine e a dispetto del mondo ostile di fuori, quell'uomo lì era l'unica persona che le aveva voluto bene.
O anche, più semplicemente, che nel lungo sfilare delle stagioni loro due e solo loro due si erano trovati a passare, giorno dopo giorno, gli stessi momenti belli e brutti, accontentandosi del poco e che dunque tutto il senso della vita era lì e che, insomma, il destino era quello, senza bisogno di cercare dell'altro.
Così i giorni si rincorrevano e dietro ai giorni gli anni.
E intanto il vecchio Minco diventava sempre più decrepito e lei, Nella, sempre più muta.
Si accorgeva che l'uomo andava rinsecchendosi sempre più proprio come i vecchi larici malati che perdono pezzo dopo pezzo e poi, all'improvviso, si schiantano di colpo.
Adesso non gli bastava più la sedia accanto all'economica.
Il più tempo lo passava a letto e sotto il lenzuolo pareva non esserci alcunché tanto era smagrito.
Finchè un mattino di tardo autunno, portandogli il latte caldo, lo vide fermo immoto con lo sguardo piantato nel soffitto.
Lo scosse allora per un braccio, ma era come scuotere un ramo secco...
Gli passò la mano sulla fronte e la sentì fredda come il marmo.
Neanche in quel momento le venne di invocare "Pà"!
Le uscì solo un urlo disumano, disarticolato, da bestia ferita.
Le risposte l'ululare disperato del cane scosso dal suo torpore da quel grido inatteso.
Poi Nella si riebbe presto. Il padre se n'era voluto andare, certo, senza disturbare nessuno, quasi in punta di piedi.
Certo, la ruota della vita aveva finito di girare per lui.
Ma lui era ancora lì, nella sua stanza, nel suo letto. Era una presenza, ancora adesso.
Proprio come quando lei stava fuori, a sgobbare nella stalla o su nel bosco, sapendo che quando lui era là, accanto al fuoco o nel suo letto.
E dunque, lì era stato tutta la sua vita e lì doveva rimanere, nel suo rustico, accanto a lei.
Allora fu presa da un gran fervore. Lo lavò con delicatezza, senza una lacrima e poi lo rivestì col suo abito da sposo, quello nero che era rimasto per anni sepolto nel baule, coperto di naftalina.
Lo accomodò per bene, le mani secche congiunte sul petto. Poi andò fuori e tagliò tutti i fiori dei gerani e ne fece grandi mazzi che gli mise lungo i fianchi.
Infine accese un piccolo lumino e lo pose sul comodino, quasi a fargli compagnia.
Nei giorni seguenti Nella riprese i suoi lavori, come sempre.
Ma ogni tanto metteva la testa dentro la stanza, lo guardava con dolcezza, poi piano gli diceva: "Ho presto finito, pà, poi vengo da te".
Trascorsero i giorni. Nella viveva con il suo segreto e le pareva di non aver mai vissuto così intensamente.
Via di lì nessuno sapeva niente, come nessuno aveva mai saputo niente della vita di loro due.
Successe una quindicina di giorni dopo. L'Angel "posta" trottò giù per la vecchia stradetta, rimuginando sulla maledizione di quei due, il Minco e la figlia, abbarbicati a quel rustico fatiscente posto laggiù, a cà del diavolo.
Gli capitava di rado di doversi spingere fin laggiù. Del resto, chi mai poteva scrivere a quei due selvatici?
Ma stavolta doveva portare a tutti i residenti un avviso del Comune. Così, giunto sull'aia, si accostò all'uscio mentre il cane si limitava a mugolare, diffidente, tirando nella catena cigolante.
"C'è nessuno? Buttò lì a voce alta, l'Angel "posta". Non ebbe risposta. L'Angel non si meravigliò per niente.
"Chissà dove si sono cacciati il Minco e la Nella - si disse - magari in alto, nel bosco a tagliar frasche".
Alzò le spalle. Avrebbe lasciato l'avviso sul tavolo di cucina e amen. Varcò la soglia ed entrò nello scuro interno.
Lo colse subito una zaffata di odore dolciastro, come di fiori marciti, ma con alcunché di nauseante insieme.
Veniva da dentro, dalla stanza adiacente. L'Angel avanzò con circospezione, s'appressò alla porta della stanza, la socchiuse e rimase impietrito.
Il lumino gettava flebili barbagli ondeggianti sul volto grigiastro del Minco.
L'ovale glabro di quel volto non ancora sfatto era come una macchia chiara che spiccava sul nero del vestito.
E quella pelle di cartapecora pareva animarsi a sbalzi, al comando dei riflessi del lumino. Sopraffatto dalla violenza dell'odore, l'Angel non ebbe neanche la forza di buttar fuori un grido.
Scappò fuori e si gettò di corsa su per la stradetta, inseguito dai latrati rabbiosi del cane.
Piombò ansante e spiritato nel municipio ed affrontò il commesso chiedendo del Sindaco.
"Non c'è - fece quello - quest'ora è giù a prendere il bianchetto all'osteria del Pinter".
L'Angel si precipitò. Dalla soglia dell'osteria colse il Sindaco al banco, col suo bicchiere di bianco in mano.
Entrò, cercando di raffrenarsi per non sollevar sospetti.
Si avvicinò al Sindaco, lo trasse in disparte e gli parlò nell'orecchio. Il Sindaco lo ascoltò, gli occhi sparati nel vuoto.
Poi posò il bicchiere mezzo pieno sul banco e si affrettò fuori. Poco dopo la camionetta dei carabinieri sollevava nugoli di polvere giù per la stradetta.
E dietro rombava la "galera" del medico condotto al quale si aggrappava il Sindaco appollaiato sul sellino posteriore.
La camionetta si arrestò sull'aia, con un gran stridore di freni. Il cane pareva strozzarsi alla catena, in un abbaiare furioso.
Dall'angolo del pollaio sbucò la Nella ed alla vista delle divise lanciò un urlo disumano.
I carabinieri le furono a subito addosso. Ma solo a fatica riuscirono a rinserrarla, lei si dibatteva come un'ossessa e a caricarla di peso sulla camionetta che s'involò immediatamente su per la stradetta.
Non si poteva dire se erano più alti e strazianti gli strepiti disperati della Nella o gli abbai rabbiosi del cane impazzito.
Poi si fece una calma strada ed improvvisa. Il cane, ora, come avesse consumato tutte le energie, mugolava soltanto, facendo avanti e indietro pancia a terra.
Il medico condotto, frattanto, era uscito aggrondato dalla stanza, tirandosi dietro la porta.
Il Sindaco, con lo sguardo inebetito, disse: "Com'è - e fece per entrare. Ma il medico condotto lo bloccò.
"No, no - disse con autorità - meglio di no. Torniamo piuttosto e poi voi farete subito quello che dovete fare!"
E il Sindaco infatti si diede subito le mani d'attorno, disponendo le cose a modo, con discrezione, per non sollevar troppo chiasso.
Il povero Minco fu prelevato in tutta fretta e depositato, nella bara ermetica di zinco, in un angolo della sacrestia.
Il prete fu d'accordo che tutto dovesse essere fatto rapidamente.
La funzione religiosa, ridotta al minimo, fu tirata via all'alba del giorno dopo, alla sola presenza del sacrestano e del segretario comunale.
Il vecchio Arnaldo, che fungeva da becchino aveva già scavato la fosse nottetempo, in fondo allo spiazzo del cimitero, ai piedi del muro di recinzione.
Il prete tracciò nell'aria un segno di croce, buttando coll'aspersorio qualche goccia di acqua benedetta sulla bara posata sul terreno e già imperlata di rugiada.
Infine l'Arnaldo calò il Minco giù nella buca, di terra.
Così tutto fu finito. Ma le voci si sparsero comunque per il paese. Non vi fu clamore, assolutamente.
I paesani parlavano del fatto sommessamente, quasi sottovoce e a scarsi accenni. C'era in loro un misto di timore reverente e quasi di vergogna, come se l'enormità dell'evento fosse in parte connessa a un vago senso di colpa collettiva.
Ed una voglia di dimenticare in fretta.
Della Nella non si seppe più nulla.
Ci fu chi disse che era stata rinchiusa in manicomio. Chi affermò che era stata pietosamente affidata alle cure delle suore, in un qualche istituto religioso.
Qualcun altro spergiurò che invece era morta di crepacuore.
Intanto, qualche anima pia aveva provveduto a portar via le bestie, ma fu un'impresa strascinare il cane, incaponito a restare attaccato alla catena a far la guardia al niente.
Poi il rustico rimase definitivamente abbandonato, porte e finestre sbarrate.
Adesso, visto da lontano, dà l'impressione di un grumo grigio rotolato lì per caso e quasi inghiottito dal bosco che la fa sempre più da padrone.
Anche i campetti attorno sono ormai inselvatichiti e la stradetta che con il suo bianco sporco ne taglia il confuso verde delle erbacce non serve più a nulla e a nessuno.
Non c'è ombra di cristiano che vorrebbe prendersi quei posti, il rustico e tutto, neanche per tutto l'oro del mondo.
Men che meno si troverebbe qualcuno disposto, per scommessa, a filare laggiù, di notte e da solo.
Del resto, è ormai difficile anche cercare di parlare di quei fatti.
Ad accennarne, i paesani guardano di sbieco e poi preferiscono tirar via.
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