L'abbandono
Nel buio della stanza rifletto sulla mia disastrosa condizione. La fioca luce di un'insegna al neon filtra attraverso le tende scolorite sfumando i mobili di un azzurrognolo triste e desolato. Tutto riflette il mio stato d'animo, persino l'umidità che penetra dal muro e si allarga in una grande macchia scura sulla parete. Sono sola oramai da tredici mesi e quasi non me ne rendo ancora conto. Lui mi ha lasciata. Se n'è andato. Probabilmente per sempre. Ed io vivo i miei giorni in una sorta di limbo sudato e appiccicaticcio, tentando di sottrarmi al dolore che puntuale, tutte le mattine al risveglio, mi attanaglia il cuore. Voglio reagire, richiamare la mia fedele razionalità e dare un senso logico a questo abbandono. Sono convinta che una volta compresa la ragione e capiti i motivi che hanno spinto lui a lasciarmi, ricomincerò serenamente a vivere. Archivierò la spinosa vicenda come una pratica scaduta, la sistemerò in fondo ad uno scaffale lasciando che si ingiallisca e si impolveri con il passare del tempo. Ma non sarà così.
A settembre eravamo andati in montagna, nella grande casa dei miei genitori piena di colori, di profumi e di ricordi. La sera ci addormentavamo dopo aver fatto l'amore e la mattina facevamo l'amore prima di alzarci. Camminavamo sui sentieri in mezzo al bosco, accarezzati dalla fresca ombra degli alberi, parlando della nostra vita, un'esistenza del tutto comune, ma egualmente speciale e unica. Progettavamo grandi cose per il futuro, tenendoci per mano e accarezzandoci le dita intrecciate le une nelle altre. Dopo pranzo ci sdraiavamo nel prato offrendo i nostri visi al sole e sonnecchiando nella quiete odorosa del pomeriggio. La sera ci sedevamo nella veranda, chiacchieravamo fino a tardi sorseggiando infusi aromatici di fiori e mangiando biscotti profumati di burro. Ero innamorata e felice e per nulla al mondo avrei creduto di ritrovarmi, tre mesi più tardi, sola in questa squallida camera bagnata da un riverbero azzurrognolo, triste e desolata.
L'omicidio d'altronde è una gran brutta cosa. Credetelo, soprattutto se lo dice qualcuno che l'ha commesso. La frustrazione ingigantita, repressa fino a poco prima, urta con violenza contro cancelli della razionalità e li travolge riversandosi in tutto il corpo con un urlo rabbioso di guerra, sbriciolando le solide fondamenta della coscienza. Il sapore metallico della collera ti riempie la bocca e la gola. Il cuore batte il suo tam tam e lo senti pulsare con forza in ogni singola vena ricamata sui muscoli. L'odio acceca la mente e guida i tuoi movimenti e tu, marionetta senza fili, esegui alla perfezione ogni mossa che l'ira ti impone. E poi, frastornata come dopo un furioso orgasmo, ti ritrovi imbrattata di un sangue che non è il tuo. Spossata, con le mani tremanti e il fiato strozzato, fissi un corpo riverso sulle belle mattonelle rosa della cucina. Naturalmente ogni assassino ha una propria e personale esperienza: questo è ciò che io ho provato.
Ripensandoci poi, credo sia stato un bene che il delitto sia avvenuto in cucina, poiché il sangue, che usciva copioso dalla testa della mia vittima allargandosi sul pavimento in un'intensa nuance rubino, avrebbe guastato il costoso legno del salotto. Credo sia stato per l'omicidio che lui mi ha lasciata. Sì. Non trovo un'altra ragione plausibile.
Non potevo evitare di uccidere. Quei piccoli e odiosi occhietti che mi perseguitavano severi e accusatori ora non ci sono più. E questo è un bene. In fondo io e lei (la vittima) non ci siamo mai sopportate. Era inevitabile che una di noi due passasse alle maniere forti e decidesse di porre la parola 'fine' all'esistenza dell'altra. Diciamo che l'iniziativa l'ho presa io. All'ennesima discussione 'tac' due colpi ben piazzati in mezzo al cranio e 'goditi tanto l'aldilà'. Non vorrei sembrare cinica, ma è andata proprio così.
Credo sia stato per l'omicidio che lui mi ha lasciata. Il sangue deve averlo spaventato. L'avevo rassicurato che con un buon detersivo e olio di gomito le belle mattonelle rosa sarebbero tornate come nuove, ma era troppo sconvolto per darmi ascolto. Sul suo bel viso si era disegnata una strana espressione di paura, di pena e di delusione. Più mi avvicinavo a lui, cercando di pulirmi le mani sulla gonna di velluto bianco, più lui indietreggiava. Cercando di calmarlo scivolai nel sangue e rovinai pesantemente sul cadavere imbrattandomi dalla testa ai piedi. Fu a quel punto che lui urlò e corse in salotto per telefonare, presumo, alla polizia. Il tempo di rialzarmi dalla vischiosa pozza rossa e già ero al suo fianco e lo colpivo più volte alla schiena. Volevo richiamare la sua attenzione… abbracciarlo, tranquillizzarlo e dirgli che avrei sistemato tutto e saremo tornati in montagna a fare l'amore e a masticare fiori. Ma, nonostante io lo chiamassi, lui non si girava verso di me. Più io lo colpivo più lui si accasciava. Quando infine lasciò andare il ricevitore la sua testa si inclinò poco prima di sbattere sul costoso legno del salotto. I suoi occhi mi interrogavano con una domanda destinata a gelarsi tra i suoi denti. 'Perché?'. Mi accorsi di stringere fra le mani il coltello da cucina con il quale avevo freddato 'gli odiosi occhietti severi e accusatori'. Era con quella lama che avevo colpito la sua bella schiena piena di muscoli guizzanti? Credo di sì. Vedete, dico 'credo' poiché da quel momento tutto mi appare ora confuso e sfuocato. Decisi di andarmene, lui non si alzava ed io ero al quanto indispettita. Fu l'ultima volta che lo vidi. Presi l'impermeabile dall'appendiabiti laccato di nero e spensi le luci di casa. Chiusi a chiave e salii in macchina. Non so per quanto tempo guidai, ma venne giorno e accostai in una piazzetta lungo la strada. Come spensi il motore e appoggiai la testa contro il sedile mi addormentai e sognai di prati verdi e di maestosi alberi scompigliati dal vento. Fui svegliata da una sirena. La mia auto era circondata da macchine della polizia. I poliziotti mi aiutarono a scendere e mi fecero salire su una delle loro auto. Ero stanchissima e sudicia di sangue rappreso. Lui non c'era, non era venuto. Non avrei comunque voluto che mi vedesse in quello stato, con i capelli incrostati di rosso e il rimmel sciolto e colato sulle guance. Fu davvero meglio così.
Lui non venne neppure al processo. Il procedimento giudiziario fu breve e fui dichiarata affetta da infermità mentale. L'avvocato, scrutandomi attraverso le sue spesse lenti bifocali, mi disse che la condanna sarebbe stata più mite. Ma a me non interessava, io volevo lui, mi mancava e la notte sognavo la sua testa inclinata, poco prima di sbattere sul costoso legno del salotto, e i suoi occhi che cercavano i miei. Quel settembre felice trascorso in montagna sembrava oramai trascorso da secoli.
Sono rinchiusa da tredici mesi in questa casa che chiamano 'Istituto psichiatrico' e vivo con altre persone rimbambite che colano bava da bocche dischiuse in una smorfia di perenne stupore. Alcune camminano in tondo in stanze con pareti trapuntate e gridano la notte. Altre dondolano lentamente su seggiole di legno canticchiando nenie incomprensibili. Ma io non sono così. Io ho amato. Io ho odiato. Io ho ucciso.
Lui non mi viene a trovare. Credo sia stato per l'omicidio che lui mi ha lasciata. Nel buio della stanza rifletto sulla mia disastrosa condizione. Sola in questa fioca luce azzurrognola, triste e desolata, aspetto, incapace di scrollarmi di dosso questa perfida indolenza che mi rattrappisce la mente, subendo gli sguardi delatori dell'infermiera, che mi guarda con i suoi piccoli, odiosi, occhietti severi e accusatori. E intanto sento la mia frustrazione che sale, sale, sale…
Fabiola
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