12/08/07 - Articolo di SANDRA TAFNER da www.ladige.it
Il versante destro del Leno si percorre su una strada stretta e tormentata che presta il fianco a pareti di roccia a strapiombo.
Dal fondovalle sale velocemente, le Piccole Dolomiti sullo sfondo.
Il verde è colore dominante dopo che i boschi hanno invaso ogni metro rubando pascoli e campi.
Sull'altra sponda il santuario di S. Colombano custodito da eremiti per tanti secoli.
Lungo la statale le insegne delle frazioni dai nomi strani, qualcuna dall'etimo tedesco forse a ricordo dell'immigrazione dei «roncadori», chiamati a disboscare dai signori feudali già verso la fine del 1000.
A Valmorbia ci si chiede perché, se la valle è «arsa», il villaggio sia «morbido d'acqua», ma la spiegazione sembra essere un'altra.
«Arsa» si vorrebbe derivata da orso, poiché il plantigrado amava aggirarsi su quelle montagne peraltro senza spaventare troppo gli abitanti, se è vero che per farlo allontanare dalle case si usava battere con la scure sul «zoc», il ceppo per tagliare la legna.
Era il 1870 quando fu abbattuto l'ultimo orso e adesso - suggeriscono ridendo - la mandino qui da noi la famosa Jurka, vedrete che non darà più fastidio.
Sullo stemma del Comune stanno due orsi che si guardano.
Valmorbia ha una targa di prestigio in ricordo di Eugenio Montale, perché il futuro premio Nobel, chiamato alle armi nel 1917, era stato inviato al fronte in Trentino con il grado di comandante di una postazione avanzata, proprio qui, nel posto che in seguito gli ispirò una delle famose 58 liriche degli «Ossi di seppia».
Scrive: «Valmorbia, discorrevano il tuo fondo/ fioriti nuvoli di piante agli àsoli./ Nasceva in noi, volti dal cieco caso,/ oblio del mondo. / Tacevano gli spari, nel grembo solitario/ non dava suono che il Leno roco./ Sbocciava un razzo su lo Stelo, fioco/ lacrimava nell'aria. / Le notti chiare erano tutte un'alba/ e portavano volpi alla mia grotta./ Valmorbia, un nome - e ora nella scialba/ memoria, terra dove non annotta».
La guerra. Tutto ancora la rievoca da queste parti, i nomi dei monti - Pasubio, Zugna, Corno Battisti - i racconti degli anziani.
Giulio Costa ha 86 anni e una memoria di ferro, lo sguardo chiaro rivede il lontano film di quei tempi.
Cinque anni in giro per il mondo, come ha descritto nel «diario della mia vita militare e della mia prigionia». Due-tre anni fa le Dame Inglesi di Rovereto l'hanno invitato a parlarne alla scuola elementare, i bambini a bocca aperta e le maestre che piangevano.
Questa è storia vera e sarebbe un'ottima iniziativa se gli insegnanti integrassero con racconti dal vivo i grandi fatti descritti sui libri di testo.
Giulio aveva 19 anni il 3 gennaio 1941 e partì in lacrime dal distretto con la gavetta, il cucchiaio, la forchetta e il gavettino.
Corpo 33° Reggimento Artiglieria. Destinazione Corfù per due anni, poi arrivò l'8 settembre del '43 e cominciò il calvario.
Dopo una ventina di giorni vennero fatti prigionieri: italiani dovete morire - dicevano - finché il 10 ottobre furono imbarcati sulla nave «Mario Rosselli» passata sotto il controllo tedesco e buttati come bestie nella stiva, una fortuna visto che quelli in coperta erano stati falciati dalle bombe e dalle mitragliatrici, la nave affondava e chi si calava in mare finiva annegato.
Cosa ti può aiutare in questi momenti - mormora Giulio - più che la preghiera? Un'Ave Maria e un Atto di dolore così come gli avevano insegnato da bambino.
Proprio nel giorno del compleanno di sua madre come in un sogno si avvicinò uno zatterone a raccogliere i naufraghi, poco importava che quelli minacciassero: vi porteremo in Germania a morire di fame.
A Salonicco lavoro di picco e badile a scavare trincee e fortini, un pezzo di pane e una tazza di caffè.
Allora sì che tornava in mente la polenta di casa, crauti e ancora crauti che a pensarli sembravano rosolio. Era dicembre quando li fecero salire sulla tradotta, ogni vagone cinquanta prigionieri, il tavolato come letto e un bidone per i bisogni. «Essen» chiedevano quando le guardie aprivano il portone per contarli; «andere Station» rispondevano.
Arrivò il giorno di Natale e col filo di voce che gli restava Giulio intonò «Tu scendi dalle stelle». Che bello, su in valle, andare alla messa delle 5 cantata a quattro voci o intonare canzoni al dopolavoro davanti a un bicchiere di rosso. La tradotta va mentre un compagno non ce la fa più, muore ed è buio pesto. Vennero le guardie al mattino, lo videro e non fecero nulla.
Vennero la sera e non fecero nulla. Vennero il giorno dopo, lo presero per la testa e i piedi e lo buttarono in corsa giù per la scarpata.
Scesero a Vilna in Lituania l'8 gennaio '44 dopo 22 giorni.
Il racconto continua e gli vengono gli occhi lucidi, i suoi amici di paese sanno già com'è andata a finire ma i giovani che dovrebbero ascoltare con le orecchie e col cuore non ascoltano perché non ci sono giovani a Costa di Raossi, dove fino agli anni Trenta c'erano 80 persone e tanti scolari.
Oggi gli abitanti sono una quindicina e scolari non ce n'è più (sono 38 in tutta la valle). E dire che fino agli anni Sessanta arrivavano tanti milanesi a passare le ferie e adesso non più.
Colpa anche dei nostri governanti - si lamentano - che non hanno permesso di toccare niente, né aprire una finestra né allargare un balcone né sostituire le tegole.
Le case ristrutturate o quelle nuove che stanno costruendo sono in genere di gente che è andata in altri posti a vivere perché qui non c'era lavoro, ma torna qui soprattutto l'estate, quando a 7-800 metri la brezza porta frescura soprattutto verso sera e allora si può fare merenda in compagnia sulle tavole all'aperto.
Come fa Tullio Brun con sua moglie Rosa nella casa che li vide ragazzi.
Lui dipinge quadri dalle trasparenze colorate, un tocco delicato per fissare paesaggi che lo hanno visto nascere, una preparazione col pittore roveretano Martinelli formatosi all'Accademia di Praga.
Una stradina sterrata da Costa porta alla «calchera». La si voleva asfaltare chissà perché ma i tempi si allungavano e i contributi non furono più all'altezza del progetto.
Così non se ne fece nulla e adesso è una piacevole passeggiata arrivare fino al grande buco dove si faceva la calcina.
Ce n'erano tante calchere nella zona, si riempivano di sassi e si accendeva il fuoco, prima una fascina di legna per cominciare e poi ancora e ancora per otto giorni e otto notti, qualcuno sempre a guardare che la fiamma non si spegnesse. Alla fine i sassi cotti erano pronti e ogni famiglia ne comprava 3-4 quintali a cinque lire il quintale e nella «busa dela calzina» con l'aggiunta di acqua bollivano e diventavano poltiglia, calce viva che aveva tanti usi, aggiunta alla sabbia per fare la malta e intonacare, aggiunta al verderame per irrorare le vigne.
E vigne crescevano su per l'erta dove ormai si è esteso il bosco.
Anche patate e alberi da frutto, ma a quelli niente antiparassitari, erano sani lo stesso.
O forse sembravano buoni così, come tutto sembrava buono e ciascuno aveva il fabbisogno, alla cooperativa si comprava soltanto zucchero e olio e si faceva annotare sul libretto per pagare a fine mese.
Il maestro, il medico, il messo comunale, lo stradino, quelli avevano la paga fissa, gli altri dovevano aspettare che la bestia diventasse grossa.
Era al maiale che si aggrappavano le speranze di tutta la famiglia, ma se moriva non si sapeva come tirare avanti e come pagare i debiti.
Allora bisognava arrangiarsi. Un franco le pagavano le cartucce e di più valevano le bombe.
I ragazzi andavano sui monti a cercarle per poi vendere il bottino. Paura neanche un po'. Anche i cadaveri dei soldati pagavano bene, ma bastava un pezzo e lo contavano come scheletro intero. Succedeva così - non per gusto del macabro né per spregio, solo su spinta del bisogno - che da un cranio ne facessero due e li portavano in Comune per riscuotere.
Il pericolo era parola sconosciuta. Le granate si facevano scoppiare nel «stol» e poi veniva su da Rovereto il Briata a prenderle quando erano diventate innocue, oppure veniva il Versini.
Un'abitudine che fu alla base di uno strano episodio appena una quindicina d'anni fa.
Era stata scoperta una bomba, ma proprio una bomba grande.
Avvisati, i carabinieri arrivarono ma della bomba neanche l'ombra.
Nella notte qualcuno l'aveva issata sul trattore - una cosa da 10-12 quintali - ed era sceso a Valdagno per venderla.
Non si faceva così anche una volta? Quando però fu scoperto il fatto la bomba, ancora inesplosa dopo un viaggio di andata e ritorno e sballottamenti vari, ricomparve nel posto originario e a quel punto, con tutti gli accorgimenti del caso, si procedette a evacuare la valle per una giornata intera.
I discorsi girano intorno alla Vallarsa di oggi e di ieri, ma è soprattutto la guerra che ha lasciato il segno, la prima e la seconda.
C'erano i tedeschi qui, ma Agostina Costaraoss assicura che nessuno volle mai imparare la lingua.
Si parlava dialetto forse con qualche influenza vicentina, l'italiano appena appena sui banchi di scuola.
Eppure dell'Austria dicono un gran bene, c'era disciplina, i bambini dovevano frequentare la scuola rigorosamente e se mancavano per tre giorni arrivavano in casa i carabinieri.
Quanti episodi legati a quel periodo.
Le mine, ad esempio. A Costa Violina c'era un gruppo di guardia e il Banconota disse: scappiamo, andiamo giù dagli italiani che forse si sta meglio.
Scapparono di notte e andarono avanti i più giovani, però giunti sopra Lizzana saltarono in aria.
Guardano le montagne intorno gli uomini di Costa, quante ne hanno visto quelle cime, quante ne ha passate la gente.
Adesso invece sembra tutto facile e le poche case hanno i fiori sul balcone, il sole scalda il riposo dei pensionati, la strada porta in cinque minuti in chiesa, in negozio, all'ambulatorio, all'osteria.
Non occorre più andare a piedi fino ad Anghebeni per pagare meno il biglietto della corriera, cinque lire fino a Rovereto.
E al ritorno sosta alla Genovesa dove la Beppa faceva un piatto di trippe da risuscitare i morti.
Il sole tramonta e i boschi sembrano ancora più verdi.
Giulio si allontana e torna a casa, due passi più in là.
Poco dopo è in cima alla scala con la gavetta in mano e sorride di malinconia. Risalendo in sponda sinistra si annunciano le cime delle Piccole Dolomiti, del Baffelan, del Pian delle Fugazze a chiudere la valle, mentre sui due versanti si adagiano trenta e più frazioni e i sentieri puntano a malghe e rifugi, meta di escursioni per chi parte da Rovereto ma ancor più forse per il turista vicentino.
La strada da questa parte è molto più agevole e accorcia le distanze con la città:
Alle Porte, Albaredo, Foppiano, Matassone (occasione per una battuta dialettale in versione «femminista» che, invece di Matasòn, lo fa pronunciare Matilori), S.Anna, Riva di Vallarsa e Obra, che è probabile prenda il nome da Oberau, prato di sopra, a memoria dei coloni tedeschi arrivati nel Medioevo. Pare che Obra abbia esportato un nome d'alto rango nel mondo.
Da qui partirono infatti, nell'ultimo decennio dell'800, i due fratelli Broz diretti in Jugoslavia per un lavoro stagionale.
Dei due però uno decise di non tornare e di metter su famiglia in terra di Croazia.
Il figlio Giuseppe altri non sarebbe che il maresciallo Tito.
Nei paraggi sono sorte parecchie nuove case che tuttavia molti hanno già rivenduto ed altri tentano ancora di farlo abbassando i prezzi.
Troppo decentrati, dicono, troppa quiete. Rovereto sta a 20 chilometri scarsi.
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