MITI ITALICI. Eroi. Come fanno presto i
politici a usare l´eroismo altrui. E per ragazzoni trentenni come i nostri
ostaggi, mandati allo sbaraglio in una terra complicata e violenta, in una
guerra che non conoscevano, da parte di "agenzie" private con pochi scrupoli e
forti appetiti di profitti facili, parassitari rispetto al grande business del
dopoguerra iniziato imprudentemente mentre è ancora guerra piena, crudele,
infida. Certo che è stato coraggioso, Fabrizio Quattrocchi, a morire così. Ma il suo gesto andrebbe rispettato con un po´
più di silenzio, un po´ meno retorica (anche da parte dell´ottimo presidente
Ciampi, con la sua ribadita fierezza di italianità). L´appello dei
familiari, letto ieri tra le lacrime dal fratello di Cupertino, ha invece gli
accenti giusti: qui non c´entra la politica, i nostri cari volevano solo
lavorare, risparmiateli nel nome di Dio, del vostro Dio che ha un nome diverso
ma che noi rispettiamo. Così, come è morto Fabrizio Quattrocchi, muore con
dignità un uomo, prima ancora che un eroe. L´eroismo è una categoria che non mi
piace, perché ha giustificato fin troppe guerre, troppe inutili stragi, ma
semmai mi viene da applicarla a una come Annalena Tonelli, assassinata nel
Somaliland dopo una vita - quella sì eroica - spesa a curare gli africani.
Così,
come è morto Fabrizio Quattrocchi, muore con coraggio un uomo, prima ancora che
«un italiano». L´italianità non potremmo lasciarla perdere? Così uccidono
solo i nazisti, ha scritto il Corriere della Sera, citando il premio Nobel ebreo
Wiesel. Purtroppo uccidono così, un colpo di pistola alla testa, anche gli
italiani: vi ricordate gli italianissimi brigatisti che ammazzarono, per citarne
solo due, Aldo Moro e Vittorio Bachelet?
BOY-SCOUT. Keith Matthew Maupin
ha appena vent´anni e un bambino di dieci mesi che l´aspetta in America, e forse
non lo rivedrà più. Più che un soldato di Bush, sembra un boy-scout dell´Ohio,
nel video impietoso che ne annuncia il sequestro: un boy-scout con gli occhi
bassi e lo sguardo triste prima ancora che spaventato, circondato da
guerriglieri armatissimi e mascheratissimi, probabilmente giovani come lui, ma
soverchianti, dominanti, padroni della sua vita. Ma a George W. , nella sua
stanza da letto alla Casa Bianca, magari prima di dare il bacio della buona
notte a lady Laura, non verrà neanche l´alito di un dubbio, a pensare a Keith e
agli altri baby-soldati che ha mandato a morire in Iraq per vendicare l´orrendo
macello dell´11 settembre che non è stato compiuto dagli iracheni (e ormai è
chiaro, anzi, che la guerra all´Iraq è stata decisa PRIMA dell´attacco alle
Torri)? Non un dubbio? Non un rimorso? Neanche uno piccolo, piccolo come il
soldatino Keith, finito in un ingranaggio terribilmente più grande di
lui?
PASDARAN. Quelli che non hanno mai dubbi sono i pasdaran
anti-islamici all´italiana: dopo Oriana Fallaci (che Vittorio Sgarbi e Giorgio
La Malfa - che coppia scoppiettante - vorrebbero candidare alle europee nel
partito della bellezza) ecco Vittorio Feltri che titola, sul suo "Libero",
«Abbiamo 800.000 ostaggi»: e si riferisce alle persone di fede musulmana che
abitano in Italia, alle quali manda a dire: noi siamo civili e democratici, ma
non fateci arrabbiare, perché comincerebbe la caccia all´uomo. Ecco, uno può
pensarla come vuole e scrivere quello che vuole, ma non è onesto e non è
responsabile far passare nella testa dei lettori più arrabbiati spaventati e
sprovveduti l´equazione islamico=terrorista, così come non era onesta,
trent´anni fa in Italia, l´equazione comunista=brigatista. E anche guardando
agli scopi pratici: se vogliamo salvare l´occidente dalle orde maomettane
dipinte e detestate da Fallaci e Feltri, è più sensato fomentare l´odio
reciproco e il fondamentalismo omicida, oppure trovare una strada di convivenza
che in diversi periodi storici e in diverse parti del mondo è già stata ed è
serenamente sperimentata?
INFERNO. Ilaria, studentessa del professor
Ruele, Liceo Prati, mi viene a fare l´intervista più strana che abbia mai
subìto: mi chiede dell´inferno, partendo da Dante per arrivare ai giorni nostri.
Dico che me lo posso anche immaginare vuoto, ma non posso pensare che Anne Frank
e Adolf Hitler stiano nello stesso posto. E se proprio Dio esistesse, e fosse
l´Essere assolutamente misericordioso di cui ci parlano i teologi, mi immagino
che faccia stare in purgatorio per qualche secolo gli assassini e i calpestatori
degli innocenti, prima di ammetterli a un pallido riflesso della luce che da
subito dovrebbe scaldare i cuori degli innocenti vissuti nella miseria e nella
paura, torturati o uccisi prima del tempo. Insomma, se perfino Hitler e
Stalin fossero infine perdonati (e come si potrebbe impedirlo all´Infinitamente
Buono?) mi auguro - con logica biecamente umana, s´intende - che godano un
millesimo dell´Amore riversato sulle loro vittime. Mi aspetto insomma, se ci
sarà qualcosa «dopo», che ci sia la giustizia che quaggiù non c´è: anche se mi
rendo conto che è una sciocchezza immaginare con logiche umane l´eternità
sovrumana. Ma piccoli uomini siamo, e se ce´è qualcuno lassù, lo sa. E non si
arrabbierà troppo.
PASSIONE. Effetto strano, vedere "The Passion" dopo i
dolci, profondi, pasquali, riconciliati canti ortodossi ed ecumenici intonati
dal coro di Alessandro Martinelli (un´isola acustico-spirituale di perfetta
armonia, ponte sonoro tra oriente e occidente) in memoria di don Silvio Franch,
a tre anni dalla sua dipartita. Come passare dal pentagramma della resurrezione
agli urli di un´agonia. Non è un brutto film, alla fine, questa Passione
secondo Gibson, di cui hanno già scritto benissimo altri, la settimana scorsa su
questo giornale: cinematograficamente sta in piedi, è coerente con l´idea di
fondo, rispetta sostanzialmente il racconto dei vangeli, certo si compiace del
sangue versato e dei pestaggi sadici dei romani, ma non manca di intensità,
soprattutto nei grandi sguardi di Maia Morgenstern, attrice rumena ebrea, nel
film la madre del figlio di Dio torturato e ucciso. Non voleva essere un
Vangelo completo e dunque non lo è: troppa violenza e rare beatitudini. Ma
non è, non voleva essere una summa teologica, non è una predica o un editoriale
domenicale (che sono più o meno la stessa cosa), è semmai un reportage di
cronaca nera-giudiziaria. E dunque crudo, duro, ruvido. Ma mi sembra, tutto
sommato, onesto. Certo, ha ragione Giovanni De Luna, che nel «Tuttolibri» di
ieri scriveva che «The Passion» racconterà - agli storici futuri - più del mondo
del 2004 (il mondo post-11 settembre), che delle ultime ore del Nazareno, poco
meno di duemila anni prima. Non so però se sia vero che questa Passione -
mai raccontata con tanta "efferatezza" - si inscriva nel fondamentalismo
religioso americano che assume, dopo l´11 settembre, una vocazione sacrificale e
dipinge i nemici della civiltà occidentale come il "male assoluto". In
realtà, la Passione ripropone comunque l´antica e mai esaurita contesa tra bene
e male, e nella sofferenza di un Dio fatto uomo si può benissimo leggere i
dolori (spesso ancora più terribili di quelli affrontati da Cristo) delle donne
e degli uomini qualunque - di ogni razza e religione - che hanno insanguinato le
strade della storia. Oggi, per esempio, i montagnard cristiani del Vietnam,
perseguitati e uccisi da un regime che le democrazie occidentali si guardano
bene dall´accusare, per non mettere a repentaglio il grande business della
modernizzazione.
SGUARDI. Nella scuola dell´informatica, dell´inglese,
dell´impresa, che qualcuno pensi ancora alla poesia ha del miracoloso (oltre che
dell´antimorattiano). Non c´è da meravigliarsi dunque che venerdì l´aula magna
dell´Iti di Trento fosse tutt´altro che affollata per ascoltare il professor
Pietro Cataldi dell´università di Siena sul tema "Perché la poesia". Già
Leopardi, ben prima di Montale, vaticinava che la poesia - col trionfo della
modernità - si sarebbe trovata fuorilegge. E quando la grande letteratura - ha
spiegato Cataldi - perde, a metà del Novecento e in favore della televisione, la
funzione formativa di guida delle nuove generazioni alla scoperta del mondo e
delle passioni, si potrebbe considerare perduta anche la scommessa del
romanzo. Eppure c´è bisogno dello sguardo della poesia per non annegare nella
banalità violenta del reale: c´è bisogno del cigno straniato di Baudelaire che
attraversa le strade di Parigi in cerca del suo canneto, c´è bisogno del poeta
straccivendolo, per dirla con Benjamin, che recupera ciò che non è più
«funzionale» (orrida parola) e ha il coraggio di parlare con la lingua dei
morti. Mi imbatto in un verso di Rilke: «Giacché nel contemplare, ecco, c´è
un limite./ E il mondo quando lo si guarda di più/ vuol fiorire nell´amore. /
L´opera dello sguardo è compiuta/ compi ora l´opera del cuore». Ma lo
leggeranno, Rilke, a Baghdad? Lo leggeranno a Washington? Leggere poesia,
oggi, è una forma di resistenza nonviolenta all´universale, multiforme (e non
solo americano) Impero dei soldi e dei soldati.
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