18/04/04




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L'eroismo, la bandiera
Gli ostaggi, la passione e la resistenza della poesia

di Paolo Ghezzi


MITI ITALICI. Eroi. Come fanno presto i politici a usare l´eroismo altrui. E per ragazzoni trentenni come i nostri ostaggi, mandati allo sbaraglio in una terra complicata e violenta, in una guerra che non conoscevano, da parte di "agenzie" private con pochi scrupoli e forti appetiti di profitti facili, parassitari rispetto al grande business del dopoguerra iniziato imprudentemente mentre è ancora guerra piena, crudele, infida. Certo che è stato coraggioso, Fabrizio Quattrocchi, a morire così. Ma il suo gesto andrebbe rispettato con un po´ più di silenzio, un po´ meno retorica (anche da parte dell´ottimo presidente Ciampi, con la sua ribadita fierezza di italianità).
L´appello dei familiari, letto ieri tra le lacrime dal fratello di Cupertino, ha invece gli accenti giusti: qui non c´entra la politica, i nostri cari volevano solo lavorare, risparmiateli nel nome di Dio, del vostro Dio che ha un nome diverso ma che noi rispettiamo.
Così, come è morto Fabrizio Quattrocchi, muore con dignità un uomo, prima ancora che un eroe. L´eroismo è una categoria che non mi piace, perché ha giustificato fin troppe guerre, troppe inutili stragi, ma semmai mi viene da applicarla a una come Annalena Tonelli, assassinata nel Somaliland dopo una vita - quella sì eroica - spesa a curare gli africani.
Così, come è morto Fabrizio Quattrocchi, muore con coraggio un uomo, prima ancora che «un italiano». L´italianità non potremmo lasciarla perdere?
Così uccidono solo i nazisti, ha scritto il Corriere della Sera, citando il premio Nobel ebreo Wiesel. Purtroppo uccidono così, un colpo di pistola alla testa, anche gli italiani: vi ricordate gli italianissimi brigatisti che ammazzarono, per citarne solo due, Aldo Moro e Vittorio Bachelet?

BOY-SCOUT. Keith Matthew Maupin ha appena vent´anni e un bambino di dieci mesi che l´aspetta in America, e forse non lo rivedrà più. Più che un soldato di Bush, sembra un boy-scout dell´Ohio, nel video impietoso che ne annuncia il sequestro: un boy-scout con gli occhi bassi e lo sguardo triste prima ancora che spaventato, circondato da guerriglieri armatissimi e mascheratissimi, probabilmente giovani come lui, ma soverchianti, dominanti, padroni della sua vita.
Ma a George W. , nella sua stanza da letto alla Casa Bianca, magari prima di dare il bacio della buona notte a lady Laura, non verrà neanche l´alito di un dubbio, a pensare a Keith e agli altri baby-soldati che ha mandato a morire in Iraq per vendicare l´orrendo macello dell´11 settembre che non è stato compiuto dagli iracheni (e ormai è chiaro, anzi, che la guerra all´Iraq è stata decisa PRIMA dell´attacco alle Torri)? Non un dubbio? Non un rimorso? Neanche uno piccolo, piccolo come il soldatino Keith, finito in un ingranaggio terribilmente più grande di lui?

PASDARAN. Quelli che non hanno mai dubbi sono i pasdaran anti-islamici all´italiana: dopo Oriana Fallaci (che Vittorio Sgarbi e Giorgio La Malfa - che coppia scoppiettante - vorrebbero candidare alle europee nel partito della bellezza) ecco Vittorio Feltri che titola, sul suo "Libero", «Abbiamo 800.000 ostaggi»: e si riferisce alle persone di fede musulmana che abitano in Italia, alle quali manda a dire: noi siamo civili e democratici, ma non fateci arrabbiare, perché comincerebbe la caccia all´uomo.
Ecco, uno può pensarla come vuole e scrivere quello che vuole, ma non è onesto e non è responsabile far passare nella testa dei lettori più arrabbiati spaventati e sprovveduti l´equazione islamico=terrorista, così come non era onesta, trent´anni fa in Italia, l´equazione comunista=brigatista. E anche guardando agli scopi pratici: se vogliamo salvare l´occidente dalle orde maomettane dipinte e detestate da Fallaci e Feltri, è più sensato fomentare l´odio reciproco e il fondamentalismo omicida, oppure trovare una strada di convivenza che in diversi periodi storici e in diverse parti del mondo è già stata ed è serenamente sperimentata?

INFERNO. Ilaria, studentessa del professor Ruele, Liceo Prati, mi viene a fare l´intervista più strana che abbia mai subìto: mi chiede dell´inferno, partendo da Dante per arrivare ai giorni nostri. Dico che me lo posso anche immaginare vuoto, ma non posso pensare che Anne Frank e Adolf Hitler stiano nello stesso posto. E se proprio Dio esistesse, e fosse l´Essere assolutamente misericordioso di cui ci parlano i teologi, mi immagino che faccia stare in purgatorio per qualche secolo gli assassini e i calpestatori degli innocenti, prima di ammetterli a un pallido riflesso della luce che da subito dovrebbe scaldare i cuori degli innocenti vissuti nella miseria e nella paura, torturati o uccisi prima del tempo.
Insomma, se perfino Hitler e Stalin fossero infine perdonati (e come si potrebbe impedirlo all´Infinitamente Buono?) mi auguro - con logica biecamente umana, s´intende - che godano un millesimo dell´Amore riversato sulle loro vittime. Mi aspetto insomma, se ci sarà qualcosa «dopo», che ci sia la giustizia che quaggiù non c´è: anche se mi rendo conto che è una sciocchezza immaginare con logiche umane l´eternità sovrumana. Ma piccoli uomini siamo, e se ce´è qualcuno lassù, lo sa. E non si arrabbierà troppo.

PASSIONE. Effetto strano, vedere "The Passion" dopo i dolci, profondi, pasquali, riconciliati canti ortodossi ed ecumenici intonati dal coro di Alessandro Martinelli (un´isola acustico-spirituale di perfetta armonia, ponte sonoro tra oriente e occidente) in memoria di don Silvio Franch, a tre anni dalla sua dipartita. Come passare dal pentagramma della resurrezione agli urli di un´agonia.
Non è un brutto film, alla fine, questa Passione secondo Gibson, di cui hanno già scritto benissimo altri, la settimana scorsa su questo giornale: cinematograficamente sta in piedi, è coerente con l´idea di fondo, rispetta sostanzialmente il racconto dei vangeli, certo si compiace del sangue versato e dei pestaggi sadici dei romani, ma non manca di intensità, soprattutto nei grandi sguardi di Maia Morgenstern, attrice rumena ebrea, nel film la madre del figlio di Dio torturato e ucciso.
Non voleva essere un Vangelo completo e dunque non lo è: troppa violenza e rare beatitudini.
Ma non è, non voleva essere una summa teologica, non è una predica o un editoriale domenicale (che sono più o meno la stessa cosa), è semmai un reportage di cronaca nera-giudiziaria.
E dunque crudo, duro, ruvido. Ma mi sembra, tutto sommato, onesto.
Certo, ha ragione Giovanni De Luna, che nel «Tuttolibri» di ieri scriveva che «The Passion» racconterà - agli storici futuri - più del mondo del 2004 (il mondo post-11 settembre), che delle ultime ore del Nazareno, poco meno di duemila anni prima.
Non so però se sia vero che questa Passione - mai raccontata con tanta "efferatezza" - si inscriva nel fondamentalismo religioso americano che assume, dopo l´11 settembre, una vocazione sacrificale e dipinge i nemici della civiltà occidentale come il "male assoluto".
In realtà, la Passione ripropone comunque l´antica e mai esaurita contesa tra bene e male, e nella sofferenza di un Dio fatto uomo si può benissimo leggere i dolori (spesso ancora più terribili di quelli affrontati da Cristo) delle donne e degli uomini qualunque - di ogni razza e religione - che hanno insanguinato le strade della storia.
Oggi, per esempio, i montagnard cristiani del Vietnam, perseguitati e uccisi da un regime che le democrazie occidentali si guardano bene dall´accusare, per non mettere a repentaglio il grande business della modernizzazione.

SGUARDI. Nella scuola dell´informatica, dell´inglese, dell´impresa, che qualcuno pensi ancora alla poesia ha del miracoloso (oltre che dell´antimorattiano). Non c´è da meravigliarsi dunque che venerdì l´aula magna dell´Iti di Trento fosse tutt´altro che affollata per ascoltare il professor Pietro Cataldi dell´università di Siena sul tema "Perché la poesia". Già Leopardi, ben prima di Montale, vaticinava che la poesia - col trionfo della modernità - si sarebbe trovata fuorilegge. E quando la grande letteratura - ha spiegato Cataldi - perde, a metà del Novecento e in favore della televisione, la funzione formativa di guida delle nuove generazioni alla scoperta del mondo e delle passioni, si potrebbe considerare perduta anche la scommessa del romanzo.
Eppure c´è bisogno dello sguardo della poesia per non annegare nella banalità violenta del reale: c´è bisogno del cigno straniato di Baudelaire che attraversa le strade di Parigi in cerca del suo canneto, c´è bisogno del poeta straccivendolo, per dirla con Benjamin, che recupera ciò che non è più «funzionale» (orrida parola) e ha il coraggio di parlare con la lingua dei morti.
Mi imbatto in un verso di Rilke: «Giacché nel contemplare, ecco, c´è un limite./ E il mondo quando lo si guarda di più/ vuol fiorire nell´amore. / L´opera dello sguardo è compiuta/ compi ora l´opera del cuore».
Ma lo leggeranno, Rilke, a Baghdad? Lo leggeranno a Washington?
Leggere poesia, oggi, è una forma di resistenza nonviolenta all´universale, multiforme (e non solo americano) Impero dei soldi e dei soldati.




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