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Via alla pagina principale Sesta Giornata, Novella nona

In questa novella troviamo molte tematiche sfiorate con riferimenti sottili, che meriterebbero di essere sviluppate. Ad esempio, Boccaccio accenna con un filo di ironia all’avarizia, giudicandola causa del decadimento e della corruzione fiorentina. L’identificazione del peggiore dei mali nella cupidigia sta a cuore anche a Dante che addirittura la considera la generatrice di tutti i vizi dell’uomo e della società contemporanea.

Il fatto che nel XIII secolo fosse frequente e consueto essere affezionati ai beni strettamente materiali, lo dimostrano le numerose testimonianze di scrittori e storici riguardo alle brigate. Questa signorile usanza viene descritta da Boccaccio nel “Trattatelo in laude di Dante”, in cui racconta che esse erano tipiche della città di Firenze, soprattutto per festeggiare l’arrivo della primavera nel periodo chiamato calendimaggio.

Anche Boncompagno da Signa, nel suo “Cedrus”, parla di questa consuetudine di formare gruppi e andare in giro per le strade, in cerca di giovani da reclutare dopo aver fatto loro giurare fedeltà alla brigata. Il cronista Giovanni Villani sottolinea che queste brigate si formavano durante i periodi di pace e felicità, nella seconda metà del Duecento. Questi periodi di feste e divertimenti potevano durare anche svariati mesi, in momenti di prosperità, per celebrare festività religiose o vittorie belliche.

Non mancavano dispute tra diverse fazioni politiche, in particolare Guelfi Bianchi contro Guelfi Neri. Dino Compagni (altro grande cronista fiorentino) presenta un’immagine di brigata legata a scontri armati e violenze, in netto contrasto a quella di compagnia dedita ai piaceri. Corso Donati, capofazione dei Neri, nutriva odio profondo per Guido Cavalcanti, suo avversario politico, tanto da progettare il sua assassinio al ritorno da un pellegrinaggio a Santiago di Compostela; ma la congiura viene scoperta e Guido decide di sferrare egli stesso l’attacco ai Donati, tuttavia rimane ferito a una mano e il suo odio aumenta ancora di più.

Il passaggio che descrive questo assalto è molto simile a quello sferrato da Betto con la sua brigata: ”Essendo un dì a cavallo con alcuni da casa Cerchi, con un dardo in mano, spronò il cavallo contro messer Corso, credendo sé esser seguitato da Cerchi per fargli trascorrere nella briga”. Questo episodio narrato dal Compagni ha la funzione di base storica per la novella di Boccaccio, sia dal punto di vista contenutistico, sia per i termini “spronare il cavallo” e “dare/fare briga”.

Sempre dalla “Cronica” di Compagni leggiamo una descrizione decisamente negativa di Betto Brunelleschi. Il cronista lo definisce un uomo insensibile, avaro e egoista che, nato da famiglia ghibellina, passò a parte guelfa nera. Per dimostrare la sincerità di questa sua conversione, si comportò in modo duro e violento nei confronti dei Bianchi e dei Ghibellini. Questa figura negativa è confermata anche da Villani, ma non concorda col Betto di Boccaccio che  gli dona un carattere brillante di fronte al motto di Guido, e positivo, in quanto capace di trarne un insegnamento.

La Firenze dell’epoca ci ha tramandato documenti dai quali spicca la stima riposta nelle qualità di uomo di mondo di Guido. Era considerato una persona illustre, dall’immagine un po’ schiva, ma decisamente apprezzata per i suoi valori di intellettuale, di poeta e di capofazione dei Bianchi. Non rimaneva in secondo piano la sua abilità di filosofo dall’acutissimo ingegno, virtù riconosciuta da intellettuali come Sacchetti e Manetti.

Proprio la filosofia ha un ruolo interessante anche in questa novella di Boccaccio che pone a confronto due tipi di epicureismo: da una parte quello esteriore della brigata intenta al lusso e ai piaceri, dall’altra quello di Cavalcanti, che respinge la vita mediocre, ricercando un’individualità più complessa che segue l’averroismo. Questa dottrina identifica nella morte la fine dell’anima sensitiva, quella dei sensi e quindi dell’individualità; immortale è invece l’intelligenza comune, un intelletto superiore nel quale le singole esperienze non contano.

Quindi, quando leggiamo che Guido voleva dimostrare la non esistenza di Dio e la non sopravvivenza delle anime dopo la morte, dobbiamo considerare non solo la sua fede epicurea ma anche avverroista.

Boccaccio, attraverso questa e molte altre novelle, vuole dimostrare la forza e il potere della parola che ha una funzione etica e salvifica all’interno di una società moderna, le cui leggi punivano, o per lo meno vietavano, le sopraffazioni fisiche.

Giuseppe Gherardi, Il Battistero e la piazza di San Giovanni (1835-40), Firenze, Collezione privata

Il motto attribuito a Cavalcanti è in realtà antecedente, in quanto Petrarca nel “Rerum Memorandarum Libri” (una raccolta di esempi di virtù), racconta di un giovane fiorentino chiamato Dino del Garbo, che attraversando un sepolcreto incontra un gruppo di anziani che lo provocano e a quali lui risponde per liberarsi: “Questo duello è impari: voi siete più baldanzosi davanti alle nostre case.” (Rerum Memorandarum II, 60). Questo motto ha solo valore comico e non filosofico, in quanto allude non alla morte spirituale dei suoi antagonisti, ma semplicemente alla loro età avanzata.

In ogni caso il motto ha una forma breve e concisa che ha il potere di stupire e divertire chiunque, anche a distanza di secoli.

Numerose novelle di Boccaccio sono fondate su un motto di spirito al quale è affiancata un’ambientazione in una Toscana borghese. I motteggiatori possono essere non solo personaggi di spicco e di nota cultura, ma anche individui umili e ignoranti come il veneziano cuoco Chichibìo e Frate Cipolla, entrambi protagonisti delle novelle narrate nella giornata VI; costoro si servono della loro abile eloquenza per sfuggire alla sfortuna, suscitando meraviglia e indulgenza in chi li ascolta. Che sia una breve ma pronta risposta o un lungo e complesso discorso, la parola può essere considerata il riflesso dell’ingegno, e ciò, a distanza di oltre sei secoli, è più attuale che mai.  (Giulia Giacometti)