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Il protagonista di questa novella è “Guido di messer Cavalcante de’ Cavalcanti”, che viene nominato la prima volta così, chiamando in causa anche il padre. Cavalcante lo troviamo nel canto X dell’Inferno di Dante, collocato tra gli eretici, in quanto epicureo e quindi non credente nella sopravvivenza dell’anima dopo la morte. |
Questa caratteristica del padre la rincontriamo anche nel figlio, che, proprio in questa novella, viene descritto un po’ filosofo, distaccato dagli uomini comuni attaccati ai beni materiali. È citata la sua fede epicurea, che viene però ridotta a macchietta dal popolo che diceva “che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse”. Anche la scelta sintattica di congiuntivi e infiniti, all’interno di questo segmento, vuole forse sottolineare con tono ironico il biasimo della massa nei confronti della presunta e ostentata superiorità culturale dell'intellettuale.
Guido Cavalcanti ha una mente brillante e acuta e non vuole omologarsi all’identità della massa dei signori fiorentini, che perdevano il loro tempo in osterie e con feste. Di queste brigate parlano molti scrittori e soprattutto cronisti che le dipingono ricche di allegrezze, balli, conviti, vestiti candidi e nuovi, musiche, giochi e corone di fiori. Cavalcanti, invece, non è interessato a tali divertimenti mondani, ma preferisce, da vero distinto signore, dedicarsi alla filosofia e alla poesia. Ha una grande abilità dialettica che deriva dalla sua agilità mentale e che si riflette nell’aspetto fisico. Boccaccio lo descrive come “colui che leggerissimo era”: oltre alla corporatura minuta e scattante è palese che Boccaccio allude anche a una finezza d’ingegno capace di un pronto salto al di sopra degli altri.
Cavalcanti era conosciuto, all’epoca, come uomo gentile e bizzarro, concentrato nella sua solitudine dedicata allo studio; anche se veniva biasimato per il suo contegno sdegnoso e la sua miscredenza, era comunque riconosciuta la sua notevole abilità di ingegno e di eloquenza.
Proprio per queste sue virtù, messer Betto Brunelleschi, amerebbe inserirlo nella sua brigata e avere il prestigio della sua compagnia.
Betto, diminutivo di Brunetto, era un fiorentino ricco che si adoperava in ambascerie, vista la sua buona capacità oratoria. Non viene descritto fisicamente, perché i tratti fisiognomici non avrebbero rilevanza alcuna: la scena è infatti completamente dominata dalla guizzante vitalità di Guido.
È comunque importante sottolineare che Betto compie una trasformazione nel corso della novella: nella parte iniziale, quale capo di una festosa brigata, adopera le parole solo per muovere le risa della sua congrega di ignoranti; alla fine dimostra di avere un briciolo di intelligenza che gli permette di comprendere il motto di Guido Cavalcanti e di essere stimato dai suoi compagni “sottile intendente cavaliere”. (Giulia Giacometti)