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Via alla pagina principale Sesta Giornata, Novella nona

Il protagonista di questa novella è “Guido di messer Cavalcante de’ Cavalcanti”, che viene nominato la prima volta così, chiamando in causa anche il padre. Cavalcante lo troviamo nel canto X dell’Inferno di Dante, collocato tra gli eretici, in quanto epicureo e quindi non credente nella sopravvivenza dell’anima dopo la morte.

Silografia nell'ed. De Gregori

Questa caratteristica del padre la rincontriamo anche nel figlio, che, proprio in questa novella, viene descritto un po’ filosofo, distaccato dagli uomini comuni attaccati ai beni materiali. È citata la sua fede epicurea, che viene però ridotta a macchietta dal popolo che diceva “che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse”. Anche la scelta sintattica di congiuntivi e infiniti, all’interno di questo segmento, vuole forse sottolineare con tono ironico il biasimo della massa nei confronti della presunta e ostentata superiorità culturale dell'intellettuale.

Guido Cavalcanti ha una mente brillante e acuta e non vuole omologarsi all’identità della massa dei signori fiorentini, che perdevano il loro tempo in osterie e con feste. Di queste brigate parlano molti scrittori e soprattutto cronisti che le dipingono ricche di allegrezze, balli, conviti, vestiti candidi e nuovi, musiche, giochi e corone di fiori. Cavalcanti, invece, non è interessato a tali divertimenti mondani, ma preferisce, da vero distinto signore, dedicarsi alla filosofia e alla poesia. Ha una grande abilità dialettica che deriva  dalla sua agilità mentale e che si riflette nell’aspetto fisico. Boccaccio lo descrive come “colui che leggerissimo era”: oltre alla corporatura minuta e scattante è palese che Boccaccio allude anche a una finezza d’ingegno capace di un pronto salto al di sopra degli altri.

Cavalcanti  era conosciuto, all’epoca, come uomo gentile e bizzarro, concentrato nella sua solitudine dedicata allo studio; anche se veniva biasimato per il suo contegno sdegnoso e la sua miscredenza, era comunque riconosciuta la sua notevole abilità di ingegno e di eloquenza.

Proprio per queste sue virtù, messer Betto Brunelleschi, amerebbe inserirlo nella sua brigata e avere il prestigio della sua compagnia.

Betto, diminutivo di Brunetto, era un fiorentino ricco che si adoperava in ambascerie, vista la sua buona capacità oratoria. Non viene descritto fisicamente, perché i tratti fisiognomici non avrebbero rilevanza alcuna: la scena è infatti completamente dominata dalla guizzante vitalità di Guido.

È comunque importante sottolineare che Betto compie una trasformazione nel corso della novella: nella parte iniziale, quale capo di una festosa brigata, adopera le parole solo per muovere le risa della sua congrega di ignoranti; alla fine dimostra di avere un briciolo di intelligenza che gli permette di comprendere il motto di Guido Cavalcanti e di essere stimato dai suoi compagni “sottile intendente cavaliere”. (Giulia Giacometti)