"Nessuna donna creda ormai a un uomo che giura /
nessuna speri che i discorsi di un uomo siano degni di fede": sono
parole pronunciate da Arianna, ma in modo estensivo diventano emblematiche
per esprimere la disperata condizione emotiva di ogni eroina sedotta e
abbandonata.
Catullo dà voce al suo personaggio utilizzando un
elegante artificio poetico: nel carme 64, un raffinato epillio dedicato alle
nozze di Peleo e Teti, il poeta descrive un'opera d'arte; si tratta di
un'erudita digressione debitrice, certo, alla cultura ellenistica, forse una
sorta di rielaborazione di una composizione di Callimaco, purtroppo non
pervenuta.
Il capolavoro effigiato è la coperta che abbellisce il
letto nuziale dei due novelli sposi: una storia d'amore infelice diventa
pertanto la cornice d'arredamento di un talamo destinato a suggellare il
rito della perfetta felicità coniugale, non senza un intento etico, in
quanto l'unione di Teseo e Arianna si configura invece come irregolare
rispetto alle norme sociali, che esigono il pieno ossequio delle tradizioni
e della volontà dei parenti.
Le sequenze descritte dagli ornamenti ricamati sul
tessuto rappresentano una narrazione che ricorre anche alla tecnica della
analessi: l'esordio è infatti costituito dal risveglio di Arianna, che
scopre di essere stata abbandonata dall'amante sulla spiaggia deserta di
Dia, l'odierna isola di Naxos, mentre le scene seguenti ricostruiscono a
ritroso le vicende che hanno portato il fedifrago a Creta, la patria della
disillusa fanciulla.
Ella, come ricorda il celebre mito trapunto sulla
stoffa, ha aiutato l'eroe a vincere le insidie del labirinto, agevolando in
tal modo l'uccisione del Minotauro, mostruoso fratello della stessa Arianna,
la quale non ha esitato a tradire i congiunti, pur di assecondare il proprio
impulso passionale nei confronti dell'ardimentoso straniero.
Il mitografo Igino annovera infatti anche l'infelice
figlia di Minosse tra le donne empie, in quanto traditrici dei parenti:
costoro, condannate senza possibilità d'appello all'isolamento sociale,
costituiscono un modello comportamentale da rifuggire.
Il giudizio di Catullo è assai meno severo:
l'atteggiamento dell'innamorata appare persino scusabile, poiché la
passione fisica è generata da una forza fatale e ineluttabile ispirata da
Venere: "Non distolse il dolce sguardo da Teseo, prima di sentire tutto
il corpo pervaso dalla fiamma, e arse d'amore nelle più intime
viscere" (Carme 64, vv.91-94).
La nostalgia della patria e dei congiunti si fa
lacerante, allorché Arianna scopre d'essere ormai sola su un'isola
selvaggia, in una condizione che diviene paradigmatica di quella esclusione
sociale precedentemente menzionata.
Tra pianti, lamenti e paure la donna non manca di
lanciare una terribile maledizione contro Teseo che dovrà abbattersi anche
sui suoi parenti.
La maledizione si avvera: ritornato in patria per
ricongiungersi al padre Egeo, l'eroe è dimentico della raccomandazione
ricevuta, non rammenta infatti di issare le vele bianche, simbolo della
impresa vittoriosa, al posto delle luttuose vele nere, alla cui vista il
disperato genitore decide di morire, gettandosi da una rupe.
Catullo non dimostra una particolare empatia nei
confronti di Teseo, che egli definisce ferox: il suo lutto sembra
quasi essere la giusta punizione per quanto egli ha inflitto ad Arianna.
L'ultima sequenza d'epilogo, effigiata sulla coperta,
rappresenta un lieto fine: sull'isola di Dia è giunto Bacco insieme ai suoi
satiri; invaghitosi della fanciulla, il dio la sposa.
La narrazione si conclude pertanto con una sorta di
implicito sottinteso, perché il poeta, così attento ad evocare i
sentimenti di Arianna nei confronti dell'amante, non rivela assolutamente
nulla a riguardo degli stati d'animo che la giovane prova nei confronti del
proprio salvatore.
In conclusione Arianna sembra possedere un carattere
indefinibile, perché agisce quasi fosse dominata da correnti di energia
dettate soltanto dai suoi stati d'animo. L'amore sensuale fa di lei una
creatura dotata di un potere decisionale che è solo apparente, poiché la
sua volontà dipende dai progetti perseguiti dall'essere amato e la induce
ad agire in funzione delle aspettative maschili.
Allorché è terrorizzata dalla solitudine, è ben
contenta di aggrapparsi al primo uomo che si affaccia all'orizzonte.
La sua grande fortuna consiste nell'avere incontrato un
dio, ma ancora una volta non è lei a scegliere, bensì quell'ingranaggio di
forze imperscrutabili che la lingua latina denomina fatum.
Un altro poeta classico, Ovidio, si è prodigato nella
rielaborazione del mito, valendosi di una finzione letteraria assai
suggestiva: Heroides è una singolare raccolta di lettere che le
donne abbandonate indirizzano ai loro seduttori.
Pertanto Ovidio immagina che Arianna, nella solitudine
di Dia, scriva una struggente epistola a Teseo, invocandone il ritorno.
Perfide
, traditore
della parola data, è l'epiteto che la ripudiata attribuisce al letto, le cui
coltri recano ancora l'impronta del corpo dell'amante: "Perfido letto,
dov'è la parte più grande di noi?"(Heroides, 10, v.58).
Nella mente della disperata riecheggiano ancora le
parole alle quali ha prestato incondizionata fiducia: "Ti giuro, su
questi stessi pericoli, che per tutta la vita sarai mia!"(Heroides,
10, vv.73-4).
Peraltro l'ipallage, che attribuisce al letto quella
perfidia in realtà perpetrata dal fuggiasco, svela la fiducia riposta non
solo in un vincolo verbale, ma soprattutto in un patto carnale vissuto in
forma totalizzante: i codici comunicativi interpretati dalla innamorata
esulano dai parametri della logica e lasciano invece affiorare gli imperiosi
dettami delle pulsioni primordiali.
Il poeta di Sulmona è altresì molto attento a indagare
la fenomenologia della paura atavica che contraddistingue la condizione di
solitudine nella quale si trova l'eroina.
Ella teme la presenza di qualche animale feroce, lupo,
leone e tigre, e ancora di più paventa che il suo corpo, dopo la morte,
giaccia insepolto, preda degli uccelli marini: la mancata sepoltura porrà
infatti la sua anima nella condizione di una dannazione perenne, condannata
a volteggiare nell'aria, senza mai trovare la pace.
L'Arianna ovidiana, disperata, patetica e fragilissima,
non può nemmeno maledire l'amante, perché è incapace di odiare, anzi,
continua a sperare in un suo ritorno.
"Nessuna donna creda a un uomo". La
reminiscenza catulliana riecheggia proverbiale anche nei Fasti di
Ovidio, dove, per ironia della sorte, Arianna è destinata a subire
l'oltraggio del tradimento anche da parte del coniuge Bacco.
La fama che consegna l'eroina alla tradizione
letteraria, dal barocco al romanticismo, l'associa definitivamente a una
immagine femminile lamentosa, consentendo che il personaggio divenga spesso
oggetto d'una trattazione nella quale trova sfogo la misoginia. Misoginia,
invero, dettata da antiche inquietudini: grazie alla "barbara"
donna di Creta, gli inventori del mito decantarono i sentimenti della
diffidenza maschile nei confronti di una femminilità prorompente e
minacciosa.