SETTEMBRE
1
LA CASSAPANCA
C'era una
volta, un commerciante che, dopo una vita trascorsa nel commercio, aveva messo
da parte un'enorme ricchezza. L'uomo però, sperperò in breve tempo i tanti
guadagni vivendo nel più grande sfarzo, spendendo per bere e per il gioco
d'azzardo. Quest'uomo aveva due figli.
Quando questi furono cresciuti e iniziarono a guadagnare tanto di che vivere, si
adirarono profondamente col padre che aveva scialacquato tutti i suoi beni e
risparmi. Nonostante l'uomo fosse ormai anziano e non godesse di buona salute,
non riceveva nessun aiuto dai suoi due figli.
Un giorno allora l'uomo, disperato, andò da un suo vecchio caro amico sperando
nell'utilità di un suo consiglio. Appena l'uomo spiegò all'amico come i suoi
figli non l'amassero e come gli facessero mancare ogni tipo di sostegno, l'amico
gli rispose: "Non preoccuparti, caro amico. Ecco cosa devi dire ai tuoi figli:
Una volta ho prestato ad un amico una grossa somma di denaro e ora egli me la
restituirà". L'uomo, ampiamente soddisfatto, ringraziò e tornò sereno verso
casa.
Qualche giorno
dopo, come d'accordo, l'amico venne a trovarlo portando con sé una grossa e
pesante cassapanca. Entrando disse: "Che Dio accresca le tue ricchezze! È
passato tanto tempo, ma finalmente eccoti indietro il denaro che mi avevi
prestato!". L'uomo allora mostrò davanti ai figli grande entusiasmo e con
felicità disse: "Cari figli, il denaro che il mio amico mi sta restituendo sarà
vostro, lo lascio in eredità a voi! Un terzo del denaro sarà distribuito ai
poveri, tutto il rimanente lo dividerete voi due! Io controllerò solo che nulla
vada perduto".
Da allora in poi l'uomo fece costante guardia alla cassapanca. Se si fosse
dovuto assentare un attimo, avrebbe chiuso accuratamente la porta della stanza a
chiave. I suoi due figli, finalmente, non gli facevano più mancare nulla ed
esaudirono ogni suo desiderio sino alla sua morte. L'uomo gioiva di aver
finalmente rieducato i suoi figli al bene.
Quando l'uomo morì, i figli poterono finalmente aprire la cassapanca ma ebbero
una grossa delusione: la cassapanca era colma solo di sassi! Subito però i figli
capirono e riconobbero sereni una cosa basilare: l'educazione al bene e
all'amore verso i genitori è meglio di qualsiasi ricchezza esistente al mondo .
. .
2
IL MUSO BIANCO DELL'ASINO
Tutti sanno che l'asino è l'animale più paziente e che più di tutti gli altri può essere caricato sino all'inverosimile. L'asino sopporta tutto. Ci si rende conto di quanto si pretende da lui solo quando schiatta, e allora vuol dire che era davvero troppo carico. Gli asini patiscono le maggiori pene dai bambini, soprattutto quando questi li portano al pascolo. Come si sa, i bambini percuotono l'asino con bastoni, gli tirano pietre, gli saltano in groppa e si fanno trasportare in cinque o sei alla volta. L'asino, sempre paziente, li lascia fare senza opporsi.
Un bel giorno,
alcuni angeli si rivolsero al Signore dei Mondi e gli dissero: "Signore! Osserva
l'asino. È l'immagine della pazienza e della resistenza. Non pensi che anche lui
avrebbe diritto al Paradiso?" Il Signore diede subito ragione agli angeli e,
senza esitare, ordinò che l'asino fosse condotto in Paradiso. Gli angeli,
allora, volarono subito dall'asino per cantargli la buona notizia, prenderlo con
loro e condurlo all'ingresso del Paradiso.
Appena arrivati davanti alla grande e lucente porta del Paradiso, l'asino sporse
il muso verso l'interno ma subito si irrigidì e non volle più proseguire. Gli
angeli non capivano, non si spiegavano. Provarono e riprovarono, prima
delicatamente poi con forza, a spingere la bestia aldilà della porta, ma ...
niente, non c'era verso. L'asino aveva, con circospezione, messo solo il muso,
guardato all'interno e subito si era fermato come paralizzato. Ma cosa stava
succedendo? Perché l'asino non voleva in nessun modo proseguire all'interno di
quel mondo magicamente perfetto e felice? Non passò molto che gli angeli
capirono il motivo: a spaventare l'asino sino a non farlo più proseguire era
stato il gran numero di bambini che aveva visto sporgendosi dalla porta del
Paradiso. Era troppa la paura che l'asino aveva dei bambini, aveva subito tanti
maltrattamenti da loro. Gli angeli, a malincuore, dovettero rinunciare a far
entrare l'asino tra i prediletti del Paradiso e lo riaccompagnarono al suo
pascolo.
Appena tornato sulla terra, tutti si accorsero del cambiamento dell'asino. L'asino non era entrato in Paradiso, ma ci aveva infilato il muso che, illuminato dalla folgorante luce divina, era diventato bianco. L'asino ora aveva il muso bianco. Fu così, che da allora, tutti gli asini nacquero con quella caratteristica. Ecco perché oggi l'asino ha il muso bianco!
3
L'ORO
C'era una volta una grande città con palazzi e alte mura, governata da un re. Un giorno vi giunse uno scienziato e si fece assumere come insegnante in una delle scuole più importanti. Costui era in grado di trasformare in oro qualsiasi vile metallo. La notizia si sparse e arrivò alle orecchie del re che lo volle al suo cospetto e gli chiese se la notizia era vera. Lo scienziato negò. Il re si arrabbiò molto, lo interrogò ancora, ma siccome questi continuava a negare lo fece rinchiudere nei sotterranei del castello.
Dopo qualche tempo, il re, fingendosi un prigioniero, si fece rinchiudere insieme allo scienziato e lo invitò a confidarsi con la massima fiducia. Questi, rassicurato, confidò al re di sapere effettivamente trasformare i metalli in oro e spiegò il procedimento.
Il re si allontanò, poi lo fece chiamare e gli raccontò dell'inganno. Lo scienziato fu molto contrariato e quando tornò a casa scrisse molte copie sulle quali spiegava il procedimento e poi le diffuse nelle case della città. Ben presto tutti furono in grado di trasformare il metallo in oro e tutti divennero incredibilmente ricchi. Ma con la ricchezza si diffuse la pigrizia, la negligenza e il grano che nessuno aveva più divenne così caro che ogni chicco era venduto a peso d'oro.
Poi non ci fu più grano e la gente moriva di fame. La terra improvvisamente crollò, le mura caddero e la città adesso non è più abitata da nessuno.
4
L'ASTUZIA DELLE DONNE
C'era una volta un orfanello che viveva con una sorella sposata. Un giorno, nonostante fosse ancora poco più che adolescente, le disse di volersi sposare. La sorella non era affatto d'accordo, perché, e suo dire, era troppo giovane e non abbastanza maturo per il matrimonio.
Il ragazzo insisteva e questa fu costretta a fornirgli un esempio molto istruttivo per mostrargli quanto le donne possono essere potenti e spietate. Gli ordinò di andare al mercato e di comperare un pesce. Quando il ragazzo ritornò con il pesce, lei lo nascose sotto le vesti e insieme si recarono nei campi dove il marito stava arando per portargli il pranzo di mezzogiorno. Mentre il marito mangiava la moglie disse: "Stanotte ho fatto un sogno, sognavo che avremmo fatto una bella festa", poi di nascosto mise il pesce in un solco. Finito il pranzo, l'uomo riprese il suo lavoro mentre lei e il fratello si incamminavano verso casa. "Venite qui" gridò, guardate che cosa ho trovato, Dio ci aiuti, ho trovato un pesce nel solco. Vai a casa prepara tutto, invita i vicini, faremo una bella festa". "D'accordo" disse la moglie. Andò a casa, cucinò il pesce, se lo mangiò con il fratello e nascose le lische. Quando il marito tornò a casa con gli invitati, chiamò la moglie e le chiese se aveva preparato tutto. La moglie si finse stupita e disse: " Hai forse comprato cibo e bevande? Con che cosa volevi festeggiare?". Ma non, ti avevo dato quel pesce che ho trovato nel solco mentre stavo arando?", gridò il marito. La donna si rivolse ai vicini: "Vi prego aiutatemi quest'uomo è impazzito, avete mai sentito che si trovino pesci nei campi?". I vicini le diedero ragione e legarono il marito. "Gettatelo in cantina" disse la donna "in modo che non mi possa far del male". I vicini eseguirono e se andarono.
Quella sera la donna prese la macina di pietra e si sedette sopra la botola della cantina a macinare fagioli. Il rumore che faceva sembrava il rombo di un tuono. Con la fiaccola passava di tanto in tanto davanti alle fessure, di modo che il marito credesse che fossero i lampi. Infine, versò molta acqua sopra l'apertura ed egli dovette rifugiarsi in un angolo per non bagnarsi. La mattina ritornano i vicini per chiedere all'uomo come stava "Grazie a Dio", disse, "Sto bene, anche se cercano di farmi passare per matto. Ma, ditemi come sono ridotti i campi con tutta quella pioggia? Deve aver rovinato tutto!" Allora quelli gli dissero: "Che Dio possa rinsavirti, pover'uomo!".
Ormai tutti credevano che fosse davvero pazzo e lo fecero uscire dalla cantina solo dopo due settimane. Il giovane rifletté a lungo su quello che aveva fatto la sorella e decise che non si sarebbe mai sposato.
5
ANCORA ASTUZIA DELLE DONNE
C'era una volta una donna bellissima che si innamorò di un uomo molto povero. "Io ti sposerò", gli disse, "Ma tu mi lascerai libera di fare tutto quello che voglio". L'uomo acconsentì, si sposarono e andarono a vivere insieme. Un giorno la donna ricevette in casa un ebreo che da tempo la corteggiava, ma da lì a poco sentirono bussare alla porta. La donna disse: "Di sicuro è mio marito, se ci trova insieme ci uccide, per favore, prendi questi vestiti vecchi, togliti i tuoi abiti eleganti e i tuoi gioielli, prendi quelle pietre e va a lavorare sul terrazzo come se fossi un muratore". L'uomo, spaventato obbedì. Il marito entrò, lo vide e gli chiese: "Quanto ti debbo per il tuo lavoro?" "Due reali", rispose l'uomo e se andò di corsa. La donna si recò subito a vendere al mercato i vestiti e i preziosi dell'ebreo.
Un'altra volta fece entrare in casa il cadì che da tempo era innamorato di lei. Mentre i due erano seduti uno accanto all'altro, sentirono bussare alla porta. "Sarà sicuramente mio marito", disse la donna, "Se ti trova qui ci ucciderà tutti i due. Entra presto in questa cassapanca". Il cadì, pallido di paura, obbedì. Il marito entrò, prese dei chiodi, inchiodò la cassapanca e insieme alla moglie la portò al mercato per venderla al miglior offerente. Fecero intanto avvisare il figlio del cadì che nella cassapanca si trovava nascosto il padre. Questi accorse e acquistò la cassapanca ad alto prezzo per poter portare a casa il padre, passando inosservato.
6
CHI SCENDE E CHI SALE
Un bel giorno un signore molto ricco incontrò uno sciacallo e lo salutò esclamando: "Buongiorno, dove stai andando?" "Me ne vado a cercare fortuna" rispose lo sciacallo. "Vengo con te", replicò il ricco signore e si incamminarono insieme.
Il sole batteva, i due avevano percorso molta strada e avevano tanta sete. Videro un pozzo con una carrucola dalla quale pendeva una corda alla cui estremità c'erano due secchi. Il ricco fu più rapido del suo compagno sciacallo e saltò con un balzo dentro al secchio lasciandosi cadere dentro al pozzo. Bevve a volontà e quando ebbe soddisfatto tutta la sua sete gridò: "Qui sotto ci sono sei pecore con i loro agnellini!". Allora il suo compagno sciacallo disse: "Aspettami, voglio venire giù anch'io!", balzò nell'altro secchio precipitando in fondo al pozzo.
In questo modo il ricco poté risalire, usci dal secchio e guardò giù. "Cosa sta succedendo?", chiese lo sciacallo che era ancora sorpreso. Il ricco rispose: "Cosi va il mondo, c'è chi scende e c'è chi sale!".
7
CONSIGLI
Un padre prima di morire volle dare a suo figlio tre consigli: primo, non avrebbe mai dovuto sposare una vedova, secondo, non avrebbe mai dovuto comprare un cavallo ostinato, terzo non avrebbe dovuto stringere amicizia con il cadì [dall'arabo qadi, colui che giudica]. Il figlio non seguì i consigli del padre perché era incuriosito e fece il contrario: sposò una vedova, comprò un cavallo ostinato e cercò di far amicizia con il cadì.
Una notte prese una pecora nel cortile, la ricoprì col suo mantello e la mise accanto al cavallo, poi rientrò a casa e sveglio la moglie e le disse: “Un ladro vuole portarmi via il mio cavallo. La moglie gli suggerì di prendere il fucile, di sparare sul ladro e di nascondere il cadavere in una cassa. Così fece, ma subito iniziò a picchiare forte la moglie finché questa non si mise a gridare raccontando a tutti quello che era successo.
I soldati
vennero ad arrestarlo, cercò di fuggire sul cavallo, ma l’animale non gli fu di
nessun aiuto. I soldati lo portarono dal cadì che lo fece gettare in prigione.
L’uomo iniziò a ridere in modo così forte e incessante che il cadì lo fece
chiamare chiedendo la ragione di tanta ilarità. “se tu sapessi la mia storia
ridiresti anche tu” e gli raccontò quello che suo padre gli aveva consigliato in
punto di morte e perché avesse fatto tutta quella commedia. Anche il cadì rise
quando i soldati invece del cadavere portarono una pecora morta.
Il padre aveva avuto ragione. RACCONTO ARABO
8
AVARIZIA
C'era una volta una tribù berbera, che viveva in mezzo alle montagne, chiamata Beni Shahih che significa Figli dell'Avarizia. In effetti, i componenti della tribù erano conosciuti da tutti per la loro taccagneria. I viandanti che si dovevano fermare a riposare nel loro villaggio sapevano già che sarebbe stato loro offerto solo un po’ di siero di latte allungato con acqua, beveraggio che di solito si dà ai cani.
Un giorno, un uomo della tribù, stanco di essere preso in giro con la sua gente per l'avarizia, pensò di dover liberare il villaggio da questa cattiva fama, rifletté a lungo e alla fine gli venne un'idea. Il giorno di mercato si recò sulla piazza, convocò a gran voce tutto il paese e disse: " É vergognoso che tutti ci considerino avari, dobbiamo cambiare e dare agli altri una prova di generosità e ospitalità ". Le sue parole furono accolte con entusiasmo e tutti chiesero che cosa dovessero fare. L'uomo disse: " Ognuno di noi, domani mattina, porterà un otre di ottimo siero con il quale riempiremo questa cisterna, così gli stranieri assetati che si troveranno a passare di qui, potranno bere invece dell'acqua dell'ottimo siero di latte. La notizia circolerà di paese in paese e tutti ci loderanno per la nostra generosità ". I presenti furono d'accordo e decisero di trovarsi la mattina seguente per riempire la cisterna. A casa però, ognuno riempì il proprio otre d'acqua, senza farne parola agli altri, in quanto ognuno pensò che in una cisterna piena di latte nessuno si sarebbe accorto di un po' d'acqua versata.
La mattina seguente tutto il villaggio si trovò intorno alla cisterna, ma questa era completamente vuota e nessuno voleva iniziare a riempirla. Alla fine, uno degli uomini disse: " Scommetto che i vostri otri sono pieni d'acqua ". E gli altri replicarono: " E noi scommettiamo che anche il tuo otre contiene solo acqua! ". Tutti scoppiarono in una risata e si resero conto di quanto sia difficile cambiare il proprio carattere.
9
IL MAESTRO DI PREGHIERA TRA I BERBERI
In mezzo alle alte montagne dell'Atlante, vivevano molte tribù berbere che parlavano solo la loro lingua e non conoscevano una sola parola in arabo. Avevano una vaga idea del Corano e delle preghiere, ma si sentivano musulmani e si addoloravano di non poter pregare con le parole del Libro Sacro. Durante una riunione annuale, un anziano di una di queste tribù propose di recarsi dal sultano per chiedergli di mandare nei villaggi una persona colta in grado di istruirli almeno sulle cose essenziali. I notabili del paese si recarono quindi dal Sultano di Fès, il quale si commosse di tanto zelo religioso e promise che avrebbe mandato uno degli uomini più sapienti della famosa e antichissima università di Fès.
La tribù
accolse quest'uomo con entusiasmo e grande ospitalità. Nel pomeriggio
l'I convocò la gente alla preghiera, tutti fecero le abluzioni e si disposero in
file; in prima posizione si unisce il maestro e stava già per iniziare quando si
accorse che il terreno era bagnato e fangoso. Per non sporcare l'abito bianco
prese un pezzo di una porta le cui assi erano però sconnesse e formavano delle
fessure e vi salì sopra. Sollevò le mani come prescrive la tradizione ed
esclamò: "Allahu Akbar" (Dio è grande) e tutti gli uomini schierati dietro di
lui ripeterono: "Allahu Akbar". Dopo la Fatiha e la Sura del Corano, l'Imam si
inchinò e tutti ripeterono le sue parole. Quindi si prostrò a terra fino a
toccare le assi con la fronte e tutti lo imitarono e ripeterono le sue parole in
arabo senza capire nulla. Purtroppo, le fessure delle assi si allargarono e il
naso del sapiente rimase nello spazio tra le due assi e quando si volle rialzare
lo spazio si chiuse e il naso rimase intrappolato. A nulla valsero I suoi sforzi
per liberarlo. Allora gridò ad alta voce: "Ho il naso imprigionato!" e tutti
ripeterono in arabo: "Ho il naso imprigionato". Allora gridò: "Venite ad
aiutarmi!" e tutti ripeterono con fervore: "Venite ad aiutarmi!". Sempre più
esasperato e dolorante l'Imam gridò: "Ma allora non capite proprio niente?" e
tutti ripeterono con partecipazione "Ma allora non capite proprio niente?".
A questo punto l'Imam diede un forte strattone e si liberò, terminò la
preghiera, salì sull'asino per ritornare in città e furioso disse: "Prima
imparate l'arabo, poi ritornerò ad insegnarvi a pregare!".
10
LA LUCE NELLA CAVERNA
San Pacomio voleva conoscere il significato della vita e meditava ogni giorno le parole sacre e quelle dei sapienti per scoprirne il segreto. Una notte il Signore lo accontentò e gli mandò un sogno.
Pacomio vide
che il mondo era una immensa caverna nera e buia. In essa gli esseri umani si
aggiravano a tentoni, urtandosi, talvolta ferendosi, incespicando, sempre più
sfiduciati e depressi perché non riuscivano a trovare una via d’uscita. Poi,
improvvisamente, un uomo (o una donna) accese una luce. Una luce minuscola, ma
non esiste tenebra così profonda da non poter essere vinta da una luce anche
piccolissima. Con una luce si può sempre trovare una via di scampo, così tutti
si misero dietro alla persona che aveva il lumino.
Dapprima si accalcarono, ostacolandosi a vicenda, poi cercarono di mettersi in
fila indiana.
Ma erano tanti e il buio era profondo e la luce appena percettibile.
Alla fine, trovarono la soluzione adeguata: si presero tutti per mano. BRUNO FERRERO
11
L’AMICIZIA IN ISTITUTO
Il piccolo e
zoppo Leonardo (detto Leo) e Tommaso erano arrivati all’istituto per bambini
senza famiglia lo stesso giorno, pochi mesi dopo la nascita. Le volontarie erano
molto buone con loro, un po’ meno i bambini della scuola pubblica che
frequentavano. Erano crudeli spesso con il timido Leo, ma Tommaso sapeva
metterli a posto, perché era un bambino robusto e intelligente: il più bravo a
scuola e il più svelto in cortile. Era Tommaso che aiutava Leo, gli stava sempre
vicino. Lo consolava quando aveva paura, lo aspettava durante le passeggiate,
giocava con lui perché non sentisse la malinconia del suo handicap, lo faceva
ridere raccontandogli le storie buffe. All’istituto venivano spesso le coppie
che facevano conoscenza con i bambini e li portavano fuori a mangiare in vista
di una possibile adozione.
Nessuno si interessava a Leo e Tommaso inventava sempre una scusa o si metteva a
fare mattane per non uscire. Lo aveva fatto solo due volte, con il dottor
Turrini e sua moglie Anna.
Una domenica, il dottor Turrini chiamò Tommaso e lo guardò negli occhi:
“Sei un bambino veramente in gamba! Ti piacerebbe venire a vivere con noi?
Saresti in affidamento per un po’, ma noi ti vorremmo adottare. Come un vero
figlio. Che ne dici?”
Tommaso rimase senza parole. Avere una mamma e un papà, come tutti.
“Oh, oh s-s-sì, signore!” mormorò.
Improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi. Se Tommaso se ne andava, chi si
sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Leo?
“lo … vi ringrazio tanto, signore!” disse, “Ma non posso venire, signore!”
E prima che il
dottore scorgesse le sue lacrime, corse via. Poco dopo, il dottore lo andò a
cercare con una delle volontarie.
Tommaso stava aiutando Leo a infilarsi la scarpa speciale. Il dottore lanciò uno
sguardo penetrante a Tommaso: “È per lui che non sei voluto venire a stare con
noi, figliolo?”
“Beh, io … io sono tutto quello che lui ha.” rispose il bambino
12
“IL SAGGIO E LA NOCE DI COCCO”
Una scimmia da un albero gettò una noce di cocco in testa ad un saggio. L’uomo la raccolse, ne bevve il latte, mangiò la polpa, e con il guscio si fece una ciotola.
La vita non smetterà mai di gettarci addosso palate di terra o noci di cocco, ma noi riusciremo a uscire dal pozzo, se ogni volta reagiremo. Ogni problema ci offre l’opportunità di compiere un passo avanti. Ogni problema ha una soluzione, se non ci diamo per vinti… BRUNO FERRERO
13
“LA VITA NON PUÒ ESSERE UN TRATTINO TRA DUE DATE”
L’incisore di
lapidi funerarie alzò lo scalpello e disse: “Ho finito!”
L’uomo esaminò la pietra: la foto del padre, le due date 1916 e 2000 separate,
soltanto, da un trattino di un paio di centimetri. Poi scosse la testa e disse:
“Non so come spiegarmi, ma mi sembra così poco. Vede, mio padre ha avuto una
vita piena, lunga, avventurosa. Vorrei si intuisse in qualche modo la sua
infanzia in una grande famiglia, la campagna ricca di verde e di animali, i
lavori pesanti, la soddisfazione di un buon raccolto, le preoccupazioni per i
temporali estivi, la siccità… Poi la guerra, le divise, le tradotte, la ferita,
la fuga da un campo di prigionia, l’incontro con mia madre… I figli che nascono,
crescono, si sposano, i nipotini che arrivano uno dopo l’altro… Poi la vecchiaia
serena, la malattia, certo, ma anche l’affetto, l’amore, l’entusiasmo, la
passione, le lunghe giornate di lavoro, le ansie, le preoccupazioni, le gioie…”
L’incisore ascoltava con attenzione, poi impugnò lo scalpello e il martello e
con quattro rapidi colpi allungò il trattino tra la data di nascita e quella di
morte di quasi mezzo centimetro.
Si voltò verso l’uomo e fece: “Va meglio così?”
La vita non può
essere un trattino tra due date. Abbraccia ogni istante della tua vita.
Adesso. La vita è tutto quello che hai. BRUNO FERRERO
14
IL LEONE, IL MOSCERINO ED IL RAGNO
Sulla riva del
ruscello, un moscerino minuscolo si era addormentato. Ma dal profondo della
foresta arrivò un ruggito sordo e possente. Il povero moscerino sì spaventò
terribilmente.
Un grande, grosso, grasso leone alla ricerca della cena, ruggiva a pieni
polmoni.
Il moscerino gridò indignato: “Ehilà! La volete smettere? Cos’è tutto questo
trambusto. Non potete lasciar dormire in pace la brava gente? Che diritto avete
di stare qui?”
Il leone sbuffò: “Che diritto? Il mio diritto! Io sono il re della foresta.
Faccio quello che mi piace, dico quello che mi piace, mangio chi mi piace, vado
dove mi piace, perché io sono il re della foresta!”
“Chi ha detto che voi siete il re?” domandò tranquillamente il moscerino.
“Chi l’ha detto?” ruggì il leone, “Io lo dico, perché io sono il più forte e
tutti hanno paura di me.”
“Ma io, tanto per fare un esempio, non ho paura di voi, quindi voi non siete
re.”
“Non sono re? Ripetilo se hai coraggio!”.
“Certo, lo ripeto. E non sarete re se non vi battete contro di me e non
vincete.”
“Battermi con te?” sbuffò il leone calmandosi un po’. “Chi ha mai sentito niente
di simile? Un leone contro un moscerino? Piccolo atomo insignificante, con un
soffio ti mando in capo al mondo!”
Ma non mandò niente da nessuna parte. Ebbe un bel soffiare e sforzarsi con tutta
la forza dei polmoni. Tutto quel che ottenne fu un moscerino che faceva
l’altalena sullo stelo d’erba e gridava: “Sono più forte di voi! Sono io il re!”
Allora il leone perse definitivamente il senso delle proporzioni e si buttò
avanti a fauci spalancate per inghiottire il moscerino, ma inghiotti solo una
zolla d’erba.
E l’astuto insettino dov’era? Proprio in una narice del leone e là cominciò a
solleticarlo e punzecchiarlo. Il leone sbatteva la testa contro gli alberi, si
graffiava con i suoi unghioni, strepitava, ruggiva… “Oh! Il mio naso! Il mio
povero naso! Pietà! Esci di lì! Sei tu il re della foresta, sei tutto quello che
vuoi… Ma esci dal mio naso!” piagnucolò infine il leone.
Allora il
moscerino volò fuori dalla narice del leone, che mortificato e umiliato sparì
nel profondo della foresta.
Il moscerino cominciò a danzare di gioia: “Sono il re, re, re, re! Ho battuto un
leone! L’ho fatto scappare! Sono il più forte e il più furbo, io!”.
A forza di saltellare, esultando, qua e là, il moscerino non si accorse di
essersi avvoltolato in qualche cosa di fine, e di leggero e di forte… dei lunghi
fili bianchi, quasi invisibili tra i fili d’erba e che si attorcigliavano
intorno al corpo dell’insetto, legando le sue zampe e le sue ali.
Il ragno arrivò sulle sue otto zampe, borbottando: “Che bello stuzzichino per la
cena…”
Grossi o piccoli, i superbi sono sempre stupidi. BRUNO FERRERO
15
PER UNA GOCCIA DI MIELE
Tanti anni fa,
in un villaggio, un uomo aveva appena aperto una bottega di alimentari.
Non faceva grandi guadagni, ma non poteva lamentarsi. A quel tempo non occorreva
molto per vivere dignitosamente ed essere felici. Un bel mattino, la porta della
drogheria si aprì davanti al primo cliente della giornata. Era il pastore del
villaggio vicino, con il suo nodoso bastone in mano e un grosso splendido cane
accanto.
“Buongiorno, amico mio!” disse il pastore gentilmente, “Avrei bisogno di un po’
di miele.”
Il droghiere si avvicinò premuroso al banco: “Buongiorno, signor pastore! Siate
il benvenuto!
Che bel cagnone, il vostro! Miele avete detto? Ne ho, certo, e della migliore
qualità! Avete portato un vasetto? Perfetto! Quanto ne volete?”
“Una libbra,
grazie. È davvero bello il mio cane, non è vero?” continuò il pastore. “È
l’essere che amo di più al mondo. È il mio fedele compagno ed è anche molto
intelligente. Dovreste vederlo in azione quando è con me al pascolo…”
Il droghiere annuiva con grandi cenni del capo. Mentre affondava il mestolo nel
barilotto del miele e lo versava nel vasetto del pastore, una goccia di miele
cadde a terra. In quell’istante una mosca, venuta da chissà dove, si lanciò in
picchiata sulla goccia. Il gatto del droghiere, che fingeva di dormire
raggomitolato in un angolo, seguì la manovra della mosca con un occhio solo. Poi
scattò come una molla e appiattì la mosca con un solo colpo di zampa. Fino a
quel momento il cane del pastore aveva finto di ignorare la presenza del gatto.
Irritato dal movimento improvviso del gatto, suo nemico atavico, ringhiò e si
gettò sulla povera bestiola.
Un parapiglia
spaventoso: latrati, miagolii, zanne e unghie.
Prima che gli uomini potessero fare un solo gesto, il gatto giaceva stecchito ai
piedi del padrone.
“Oh, maledetta bestia! Il mio povero micino…” gridò il bottegaio.
Accecato dalla collera impugnò il primo oggetto pesante che gli capitò tra le
mani e colpì ripetutamente il cane: “Tieni! Così impari!” Colpito alla testa il
povero cane piombò morto al suolo, vicino al gatto.
Il pastore si disperò: “Selvaggio! Assassino! Hai massacrato il mio cane! Il mio
unico amico!
Il mio compagno di lavoro! Che farò io adesso? Guarda come finiscono i
disgraziati come te!”
Il gigantesco pastore brandì il suo bastone e, folle di rabbia, colpì a morte il
droghiere.
“Aiuto! Correte! Addosso all’assassino!”
Da una strada all’altra, la notizia della morte del droghiere si diffuse in
tutto il villaggio come una folata di polvere sollevata dal vento. Lugubri
rintocchi di campana si mescolarono a grida di collera e di vendetta, insieme a
pianti e lamenti. Uomini, donne, bambini accorrevano da tutte le parti. Si
impadronirono del pastore e lo massacrarono.
Il corpo del pastore fu steso accanto a quello del droghiere, del cane, del
gatto e della mosca…
Lassù, nel villaggio vicino, quello del pastore, fu dato l’allarme:
“Aiuto! Hanno
ucciso il nostro pastore… Andiamo a vendicarlo!”
Gli abitanti del villaggio, armati di pietre, zappe, forconi, cioè di tutto
quello che trovarono a portata di mano, alcuni a piedi, altri a cavallo,
attaccarono il villaggio nemico. La loro rappresaglia fu terribile. Colpirono,
uccisero, saccheggiarono, incendiarono… Gli altri risposero con altrettanta
violenza. Ben presto non rimasero nei due villaggi che cenere, cadaveri e
desolazione. Per combinazione, quei due villaggi così vicini erano sulla linea
di due stati diversi.
Il re del primo, messo al corrente della distruzione del suo villaggio di
frontiera, s’infiammò di collera, riunì il suo stato maggiore e fece redigere
una dichiarazione di guerra che venne affissa in tutti gli angoli del regno.
Il re dell’altro paese non tardò a reagire rendendo pubblico il suo proclama:
“Davanti a Dio e agli uomini, io protesto contro l’arroganza dei nostri vicini.
Il loro re ha calpestato tutti i trattati e le leggi esistenti. Sono obbligato a
rispondere con la forza, in nome dell’Onore e della Giustizia, in nome della
Gloria eterna del nostro popolo!”
E scoppiò la
guerra. Una guerra terribile e letale.
I due paesi furono messi a ferro e fuoco. Durante l’inverno, la primavera,
l’estate, per anni e anni. I campi di grano si trasformarono in campi di
battaglia; le fattorie furono devastate, il bestiame massacrato… La guerra
infuriava ancora, quando sopravvenne la carestia, poi le epidemie, i morti senza
numero e… il freddo di un inverno che non si era visto a memoria d’uomo. Sui
campi e sui cimiteri coperti di neve dal campanile di un paese lontano giunse
l’eco del suono delle campane che si perdeva nel vento gelido.
Era il primo gennaio.
Quei pochi che sopravvissero per miracolo si domandavano e si domandano ancora
come e perché tutto questo era potuto cominciare e come sarebbe potuto essere
evitato.
BRUNO FERRERO.
16
DOV’È IL MIO BACIO?
C’era una volta
una bambina che si chiamava Cecilia. Il papà e la mamma della bambina lavoravano
tanto. La loro era una bella famiglia e vivevano felici. Mancava solo una cosa,
ma Cecilia non se ne era mai accorta.
Un giorno, quando aveva nove anni, andò per la prima volta a dormire a casa
della sua amica Adele.
Quando fu ora di dormire, la mamma di Adele rimboccò loro le coperte e diede a
ognuna il bacio della buonanotte.
“Ti voglio bene!” disse la mamma a Adele.
“Anch’io!”
sussurrò la bambina.
Cecilia era così sconvolta che non riuscì a chiudere occhio.
Nessuno le aveva mai dato il bacio della buonanotte o le aveva detto di volerle
bene.
Rimase sveglia tutta la notte, pensando e ripensando: “È così che dovrebbe
essere!”
Quando tornò a casa, non salutò i genitori e corse in camera sua. Li odiava.
Perché non l’avevano mai baciata? Perché non l’abbracciavano e non le dicevano
che le volevano bene? Forse non gliene volevano? Cecilia pianse fino ad
addormentarsi e rimase arrabbiata per diversi giorni. Alla fine, decise di
scappare di casa. Preparò il suo zainetto, ma non sapeva dove andare! Era
bloccata per sempre con i genitori più freddi e peggiori del mondo.
All’improvviso, trovò una soluzione. Andò dritta da sua madre e le stampò un
bacio sulla guancia: “Ti voglio bene!” Poi corse dal papà, lo abbracciò e gli
disse: “Buonanotte papà! Ti voglio bene!”
Quindi andò a
letto, lasciando i genitori ammutoliti in cucina. Il mattino seguente, quando
scese per colazione, diede un bacio alla mamma e uno al papà. Alla fermata
dell’autobus si sollevò in punta di piedi e diede ancora un bacio alla mamma:
“Ciao, mamma. Ti voglio bene!”
Cecilia andò avanti così giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo
mese.
A volte, i suoi genitori si scostavano, rigidi e impacciati. A volte ne
ridevano. Ma Cecilia non smise. Aveva il suo piano e lo seguiva alla lettera.
Poi, una sera, si dimenticò di dare il bacio alla mamma prima di andare a letto.
Poco dopo, la porta della sua camera si aprì e sua madre entrò. “Allora, dov’è
il mio bacio?” chiese, fingendo di essere contrariata.
Cecilia si sollevò a sedere: “Oh, l’avevo scordato!” La baciò e poi: “Ti voglio
bene, mamma!” Quindi tornò a coricarsi e chiuse gli occhi. Ma la mamma rimase lì
e alla fine disse: “Anch’io ti voglio bene!”
Poi si chinò e baciò Cecilia proprio sulla guancia. Poi aggiunse con finta
severità:
“E non ti dimenticare più di darmi il bacio della buonanotte!”
Cecilia rise e promise: “No mamma, non succederà più!” BRUNO FERRERO
17
BASTA DIRE GRAZIE
Dalla cucina,
come al solito, la donna disse: “È pronto!”
Il marito, che leggeva il giornale, e i due figli, che guardavano la televisione
e ascoltavano musica, si misero rumorosamente a tavola e brandirono
impazientemente le posate.
La donna arrivò.
Ma invece delle
solite, profumate portate, mise in centro tavola un mucchietto di fieno.
“Ma… ma!” dissero i tre uomini, “Ma sei diventata matta?”
La donna li guardò e rispose serafica: “Be’, come avrei potuto immaginare che ve ne sareste accorti? Cucino per voi da vent’anni e in tutto questo tempo non ho mai sentito da parte vostra una parola che mi facesse capire che non stavate masticando fieno!” BRUNO FERRERO
18
DIMITRI E GESÙ
C’era una volta
un santo buono buono, che si chiamava Dimitri. Un giorno, mentre pregava, Gesù
gli disse: “Mio caro Dimitri, oggi voglio incontrarmi con te. Troviamoci al
piccolo santuario della Santissima Trinità, sulla via per Kiev, a mezzogiorno.”
Figuratevi la gioia del buon Dimitri!
Non si prese neanche il mantello e partì di corsa.
Camminava in fretta, con il cuore che batteva forte, perché aveva un
appuntamento con Dio.
La strada che portava al santuario era sconnessa e tormentata e non gli era mai
sembrata così lunga. Improvvisamente, dove c’era un po’ di discesa, si imbatté
in un povero carrettiere che si affannava inutilmente a riportare sulla strada
il suo carro che si era semi rovesciato nel torrentello che fiancheggiava la
strada. Da solo, il pover’uomo non ci sarebbe certamente riuscito. Dimitri non
sapeva proprio che cosa fare: “Devo fermarmi ad aiutare questo pover’uomo in
difficoltà o far finta di niente e proseguire velocemente per arrivare al mio
unico e imperdibile appuntamento? Dopotutto carrettieri in difficoltà ne
incontrerò ancora. Ma mancare all’appuntamento con Dio sarebbe gravissimo. Non
mi capiterà mai più nella vita!”
Era veramente dibattuto fra una cosa e l’altra. Fu il suo cuore a decidere.
Dimitri si fermò e si affiancò al carrettiere, appoggiò anche lui le spalle al
carro, che era finito di traverso nel fosso, e unì i suoi sforzi a quelli
dell’uomo che lo ringraziò con gli occhi. Sbuffando e sudando, i due riuscirono
a riportare sulla strada le ruote del carro.
Dimitri non
sentì neppure i ringraziamenti del carrettiere. Appena il carro fu sulla strada
ripartì di corsa verso il suo appuntamento, verso il suo incontro con Dio.
Ma quando, stanco e ansimante, arrivò nel posto convenuto per l’incontro, Dio
non c’era.
Forse stanco di aspettare se n’era andato.
Con il cuore spezzato per la delusione, Dimitri si accasciò piangendo sul ciglio
della strada.
Dopo un po’ passò di là il carrettiere che, vedendolo così abbattuto, si fermò,
si sedette sull’erba accanto a lui, lo guardò con occhi pieni di dolce
comprensione, trasse dalla bisaccia una pagnotta, la divise in due e gliene
porse metà, mormorando: “Dimitri…”
Con l’animo in subbuglio, davanti a quel pane spezzato. Dimitri capì.
Abbracciò quell’uomo piangendo di felicità: “Gesù mio, eri tu! Eri tu, il carrettiere! Mi eri venuto incontro…” BRUNO FERRERO
19
E TU, CHE COSA HAI FATTO DELL’ORA APPENA TRASCORSA?
Un saggio teneva nel suo studio un enorme orologio a pendolo che ad ogni ora suonava con solenne lentezza, ma anche con gran rimbombo.
“Ma non la disturba?” chiese uno studente.
“No!” rispose il saggio, “Perché così ad ogni ora sono costretto a chiedermi: che cosa ho fatto dell’ora appena trascorsa?”
E tu, che cosa hai fatto dell’ora appena trascorsa? BRUNO FERRERO
20
IL PICCOLO MAGO E LA CIVETTA
Il piccolo mago
era sempre stato allegro e di buon umore. Ma negli ultimi tempi, veniva assalito
da un’improvvisa tristezza e pensieri pieni di nuvoloni neri.
Le mele sono mature, pensava, e io non ho nessuno con cui condividere una bella
mela rossa.
I funghi sono cresciuti nel bosco, ma non c’è nessuno che viene a raccoglierli
con me per fare insieme una squisita pizza ai funghi. E sospirava pensando a
come sarebbe stato bello avere un amico.
Un giorno passò di là un ragazzo. Lesto il piccolo mago uscì dalla sua casetta
nel bosco e gli domandò: “Vuoi essere mio amico?”
“Ho già un
amico, si chiama Mariolone.” rispose il ragazzo e continuò la sua strada.
Allora il piccolo mago andò a trovare il leprotto e gli chiese: “Vuoi essere mio
amico?”
Ma il leprotto si accontentò di scuotere la testa e fare “no” con le lunghe
orecchie.
La stessa cosa risposero il capriolo, il cinghiale ed il boscaiolo.
“Tanto peggio per voi!” pensò il piccolo mago. “Io posso farmi un amico perfetto
con un colpo di bacchetta magica.”
Salì su una grossa pietra, si avvolse nel mantello blu picchiettato di stelle
dorare, alzò la bacchetta e pronunciò una formula magica. Poi chiuse gli occhi,
perché voleva farsi una sorpresa e, quando li aprì, accanto a lui era ferma una
minuscola civetta.
“Abracada… braccidenti!” esclamò sorpreso il piccolo mago, “Mi ero immaginato un
amico un po’ più grosso.”
“Un amico non si può fabbricare con un colpo di bacchetta magica!” dichiarò la
civetta, aprendo e chiudendo gli occhi grossi e tondi, “Un amico, bisogna
meritarlo e guadagnarselo. E poco importa se è piccolo o grosso!”
Allora il
piccolo mago si sforzò di guadagnarsi l’amicizia della piccola civetta.
Cantavano insieme, giocavano agli indovinelli ed il piccolo mago portava la
civetta a passeggio tenendola sulla sua mano. Così un giorno si accorsero che
erano diventati veramente amici ed era una cosa stupenda. Ma un giorno,
vagabondando nel bosco, giunsero in una dorata radura di faggi.
“Guarda!” esclamò subito la civetta che indicò una cavità nera nel tronco di un
albero, “È là che voglio abitare!”
“Ma,” obiettò il piccolo mago, “tu non puoi abbandonarmi. Tu sei mio amico.”
“Si!” rispose la civetta, che era già scivolata nella cavità dell’albero, “Ma io
sono una civetta e una civetta deve abitare in un albero. È sempre stato così!
Per favore, dammi il permesso!
Io sarò felice.
E chi ama veramente un amico, deve aiutarlo ad essere felice!”
“Chi ama veramente un amico, deve aiutarlo ad essere felice!” ripeté lentamente
il piccolo mago. Così rimasero amici per sempre. BRUNO
FERRERO
21
IL RE CHE NON SAPEVA ASCOLTARE
C’era una volta
un Re che non sapeva ascoltare. Quando i suoi sudditi si rivolgevano a lui, li
interrompeva non appena aprivano bocca e gridava: “Va bene, va bene, ho capito!
Ti credo! Guardie, dategli mille monete d’oro!”
Oppure: “Basta, basta, non ti credo! Guardie, frustatelo e buttatelo fuori di
qui!”
Insomma, il Re era un tipo lunatico e agiva secondo il suo umore.
Non voleva saperne di ascoltare, e quindi era buono e generoso con le persone
sbagliate, e viceversa. I sudditi lo sapevano bene, cercavano di girare alla
larga dal castello e speravano ardentemente di non aver mai niente a che fare
con il re. Ma quelli che ci rimettevano più degli altri erano la sua povera
moglie e i due principini, perché il re non solo non li ascoltava, ma giudicava
stupido e senza senso tutto quello che loro dicevano. Li criticava continuamente
e non prestava mai attenzione alle loro parole, neppure quando gli parlava con
la voce del cuore e dell’affetto. Se, per esempio, la principessina Adelaide si
avvicinava al regale papà per mostrargli il disegno fatto a scuola, dicendo
timidamente: “Papà, guarda questo…” il re la interrompeva con aria infastidita e
borbottava: “Va bene, va bene eccoti una moneta d’oro…”
Se il principino Roberto osava chiedere: “Dove vanno quelli che muoiono?” il
regale papà lo zittiva dicendo: “Piantala con queste stupidaggini!”
Un giorno, il
re e la regina litigarono furiosamente, e dal momento che la donna ribadiva le
sue ragioni, il re la spinse giù dal trono. Poi si mise a spiegare alla moglie
che se le aveva fatto del male era per il suo bene, e che avrebbe dovuto
ringraziarlo, per questo. La regina, profondamente offesa e indignata, con le
ossa rotte e doloranti, gli lanciò una terribile maledizione: “Che te ne fai di
due orecchi, dal momento che non ascolti mai nessuno? Tu non fai che parlare:
bla, bla bla e ancora bla! Vorrei che ti cadessero le orecchie e che ti
venissero due bocche!”
Il Mago Cavatorti, lontano parente della regina, si trovava per caso nelle
vicinanze e sentì la maledizione della donna. Conosceva il re, e sapeva di cosa
fosse capace. Così, impietosito dalla triste sorte della regina, esaudì il suo
desiderio. Il Mago si presentò al re e gli agitò sotto il naso la nodosa
bacchetta di legno di nespolo. Il re che non voleva mai ascoltare cadde in un
sonno profondo, e quando si risvegliò si ritrovò con due bocche identiche, una
accanto all’altra, e un orecchio minuscolo sulla fronte, vagamente simile a un
cece.
Le altre due orecchie, invece, giacevano sul cuscino come foglie secche.
All’inizio, il re ringraziò il Mago per quel bellissimo regalo. Adesso poteva
parlare più velocemente e ad alta voce.
Ma ben presto si rese conto che non riusciva più a stare zitto. Parlava, parlava
sempre, senza un attimo di tregua. E mentre beveva e mangiava con una bocca, con
l’altra continuava a parlare. Per i poveri sudditi le cose peggiorarono. Se
prima non ascoltava, adesso il re non faceva che straparlare e interrompere gli
altri.
E la moglie che già non sopportava una bocca del marito, con la seconda non ce
la faceva proprio più. Inoltre, il re ora russava il doppio, e la notte non le
faceva chiudere occhio.
Con il passare del tempo, il re cominciò ad ascoltare solo le sue due voci, ed
amici e nemici presero ad evitarlo come la peste.
Insomma, era insopportabile. Anche gli affari di stato peggiorarono. Quando
arrivavano gli ambasciatori dei regni vicini con i messaggi dei loro sovrani, il
re non prestava la minima attenzione alle loro parole, anzi se quelli avessero
parlato di “terra” avrebbe capito “guerra”, se avessero detto “doni” avrebbe
pensato ai “cannoni.”
Così, poco alla volta, tutti lo abbandonarono.
Il re fu avvolto da una terribile solitudine e cominciò a rendersi conto dei suoi errori.
Decise che da
allora in poi avrebbe tenuto sempre conto della dura lezione che il Mago gli
aveva impartito.
Adesso teneva la bocca, anzi le due bocche chiuse, e con il suo piccolo orecchio
si sforzava di ascoltare meglio di quando ne aveva due.
In cuor suo, anzi, sperava che il Mago tornasse con la sua bacchetta di nespolo
per ridargli le sue due orecchie, che ora rimpiangeva con tutte le sue forze.
Passarono gli anni e la regina cominciò a provare una gran pena per il marito.
Persino i sudditi e i sovrani dei regni vicini avevano dimenticato l’astio che
avevano sempre provato nei suoi confronti e si auguravano che venisse perdonato.
Ma trascorsero parecchi anni prima che il Mago Cavatorti si decidesse a tornare
da lui.
“Riconosci i tuoi errori?” gli chiese, scuro in volto. Il re annuì.
“E faresti
qualsiasi cosa pur di avere due orecchi e una bocca?”
Il re era pronto a tutto. Il Mago agitò la sua bacchetta al contrario e il re si
ritrovò con una bocca sola e due splendidi orecchi nuovi. Invece di ricominciare
come prima, si fermò ad ascoltare il canto degli uccelli, la musica del vento,
le voci dei bambini. Era la prima volta e gli vennero le lacrime agli occhi per
la commozione. La regina, il principe Roberto e la principessa Adelaide lo
abbracciarono e gli dissero: “Ti vogliamo bene!”
Il re pensò che non avesse mai sentito niente di più bello in tutta la sua vita
e che era stato proprio stupido a non accorgersene prima. BRUNO FERRERO
22
IL RIFLESSO DELLA LUCE
Uno specchio
finì in tanti minuscoli frammenti. Tutti si ritrovarono sparpagliati in un
mucchio di rifiuti e naturalmente cominciarono a lagnarsi del loro crudele
destino.
“Ahinoi! Che fine infame!” si lamentava uno, “Eravamo il riflesso di volti
graziosi e sorrisi attraenti. Ora solo questo orribile ciarpame! Chi ci
spolvererà, adesso? Chi ci laverà con il detersivo profumato?”
I pezzetti di specchio caddero in una profonda depressione. Ma un giorno, la
mano paffuta di un bambino afferrò uno dei frammenti di specchio e cominciò a
giocare. Catturò un po’ di sole e lo diresse in una fessura del muro. Così
scoprì che là viveva un minuscolo fiorellino azzurro.
Gli sembrò che tremasse di felicità.
Raccolse un altro raggio di sole e lo inviò nello scantinato buio dove lavorava
Giovanni il calzolaio. Giovanni sorrise. Il bambino continuò fino a sera,
incantato dalla possibilità di dirigere la luce riflessa negli angoli bui dove
il sole non brillava mai: buche profonde, crepacci, ripostigli. A cena, quando
il papà chiese al bambino: “Che cosa hai fatto oggi?”
Il bambino rispose: “Ho inventato un gioco bellissimo!” BRUNO FERRERO
23
IL SAGGIO E LE DUE DONNE
Due donne si
recarono da un saggio, che aveva fama di santo, per chiedere qualche consiglio
sulla vita spirituale. Una pensava di essere una grande peccatrice. Nei primi
anni del suo matrimonio aveva tradito la fiducia del marito. Non riusciva a
dimenticare quella colpa, anche se poi si era sempre comportata in modo
irreprensibile, e continuava a torturarsi per il rimorso.
La seconda invece, che era sempre vissuta nel rispetto delle leggi, si sentiva
perfettamente innocente e in pace con sé stessa.
Il saggio si
fece raccontare la vita di tutte e due. La prima raccontò tra le lacrime la sua
grossa colpa. Diceva, singhiozzando, che per lei non poteva esserci perdono,
perché troppo grande era il suo peccato. La seconda disse che non aveva
particolari peccati da confessare.
Il sant’uomo si rivolse alla prima: “Figliola, vai a cercare una pietra, la più
pesante e grossa che riesci a sollevare e portamela qui!”
Poi, rivolto alla seconda: “E tu, portami tante pietre quante riesci a tenerne
in grembo, ma che siano piccole.”
Le due donne sì affrettarono a eseguire l’ordine del saggio. La prima tornò con
una grossa pietra, la seconda con un’enorme borsa piena di piccoli sassi.
Il saggio
guardò le pietre e poi disse: “Ora dovete fare un’altra cosa: riportate le
pietre dove le avete prese, ma badate bene di rimettere ognuna di esse nel posto
esatto dove l’avete presa. Poi tornate da me.” Pazientemente, le due donne
cercarono di eseguire l’ordine del saggio.
La prima trovò facilmente il punto dove aveva preso la pietrona e la rimise a
posto.
La seconda invece girava invano, cercando di ricordarsi dove aveva raccattato le
piccole pietre della sua borsa.
Era chiaramente un compito impossibile e tornò mortificata dal saggio con tutte
le sue pietre.
Il sant’uomo
sorrise e disse: “Succede la stessa cosa con i peccati. Tu,” disse rivolto alla
prima donna, “hai facilmente rimesso a posto la tua pietra perché sapevi dove
l’avevi presa: hai riconosciuto il tuo peccato, hai ascoltato umilmente i
rimproveri della gente e della tua coscienza, e hai riparato grazie al tuo
pentimento.
Tu, invece,” disse alla seconda, “non sai dove hai preso tutte le tue pietre,
come non hai saputo accorgerti dei tuoi piccoli peccati. Magari hai condannato
le grosse colpe degli altri e sei rimasta invischiata nelle tue, perché non hai
saputo vederle!” BRUNO FERRERO
24
IL MAGLIONE MULTICOLORE
C’era un
villaggio, molto tempo fa, i cui abitanti erano molto poveri.
L’inverno da quelle parti era terribile e tutti erano preoccupati per un povero
vecchio che avrebbe certamente sofferto molto: non aveva nulla con cui coprirsi
se non qualche straccio.
Gli sarebbe
servito un maglione. Ma nessuno in quel villaggio ne possedeva due e nessuno
aveva il denaro per aiutarlo.
Alla fine una donna ebbe un’idea: “Se ogni persona del villaggio toglie un filo
da suo maglione, riusciremo ad avere abbastanza filo da fare un maglione nuovo
da regalare a quel povero vecchio. E nessuno se ne accorgerà!”
Accettarono tutti. Ognuno portò un filo. Tutti i fili furono attaccati l’uno all’altro e si formarono diverse matasse di lana. La brava donna lavorò per giorni con i ferri e confezionò un magnifico maglione multicolore. Tutti insieme lo portarono al povero vecchio, all’inizio dell’inverno.
Il pover’uomo l’accettò con le lacrime agli occhi. Così in quel gelido inverno nessuno nel villaggio ebbe freddo. E il povero vecchio era senza dubbio il più elegante. BRUNO FERRERO.
25
L'ASINO E IL BUE
Mentre Giuseppe e Maria erano in viaggio verso Betlemme, un angelo radunò tutti gli animali per scegliere i più adatti ad aiutare la Santa Famiglia nella stalla.
Per primo, naturalmente, si presentò il leone. "Solo un re è degno di servire il Re del mondo - ruggì - io mi piazzerò all'entrata e sbranerò tutti quelli che tenteranno di avvicinarsi al Bambino!". "Sei troppo violento" disse l'angelo.
Subito dopo si avvicinò la volpe. Con aria furba e innocente, insinuò: "Io sono l'animale più adatto. Per il figlio di Dio ruberò tutte le mattine il miele migliore e il latte più profumato. Porterò a Maria e Giuseppe tutti i giorni un bel pollo!". "Sei troppo disonesta", disse l'angelo.
Tronfio e splendente arrivò il pavone. Sciorinò la sua magnifica ruota color dell'iride: "Io trasformerò quella povera stalla in una reggia più bella del palazzo di Salomone!". "Sei troppo vanitoso", disse l'angelo.
Passarono, uno dopo l'altro, tanti animali ciascuno magnificando il suo dono. Invano.
L'angelo non riusciva a trovarne uno che andasse bene. Vide però che l'asino e il bue continuavano a lavorare, con la testa bassa, nel campo di un contadino, nei pressi della grotta.
L'angelo li chiamò: "E voi non avete niente da offrire?". "Niente - rispose l'asino e afflosciò mestamente le lunghe orecchie - noi non abbiamo imparato niente oltre all'umiltà e alla pazienza. Tutto il resto significa solo un supplemento di bastonate!".
Ma il bue, timidamente, senza alzare gli occhi, disse: "Però potremmo di tanto in tanto cacciare le mosche con le nostre code".
L'angelo finalmente sorrise: "Voi siete quelli giusti!". BRUNO FERRERO
26
LA PREGHIERA
Andrea aveva un
solo grande desiderio: una bicicletta.
Una bicicletta gialla super-accessoriata che aveva visto in una vetrina della
città. Non se la poteva più togliere dalla mente. Vedeva la bicicletta gialla
nei sogni, nel caffelatte, nella figura di Carlo Magno che c’era sul libro di
scuola. Ma la mamma di Andrea aveva tante cose da pagare ancora e le spese
aumentavano ogni giorno. Non poteva certo comprare una bicicletta costosa come
quella sognata da Andrea. Andrea conosceva le difficoltà della mamma e così
decise di chiedere la bicicletta direttamente a Dio. Per Natale. Tutte le sere
Andrea cominciò ad aggiungere una frase alle sue preghiere: “Ricordati di farmi
avere la bicicletta gialla per Natale. Amen
Ogni sera la
mamma sentiva Andrea pregare per ottenere la bicicletta gialla e ogni sera
scuoteva tristemente la testa. La mamma sapeva che Natale sarebbe stato un
giorno ben doloroso per Andrea. Non ci sarebbe stata la bicicletta e il bambino
ne sarebbe stato mortalmente deluso.
Venne il giorno di Natale e naturalmente Andrea non ricevette nessuna
bicicletta.
Alla sera, il bambino si inginocchiò come al solito accanto al lettino per dire
le preghiere. “Andrea”, gli disse dolcemente la mamma, “penso che sarai
scontento, perché non hai ricevuto la bicicletta per Natale. Spero che tu non
sia arrabbiato con Dio, perché non ha risposto alle tue preghiere”.
Andrea guardò la mamma. “Oh no, mamma. lo non sono arrabbiato con Dio. Ha
risposto alle mie preghiere. Dio ha detto: “No!”. BRUNO FERRERO
27
IL GIURAMENTO
Un antico imperatore cinese fece, un giorno, un solenne giuramento: “Conquisterò e cancellerò dal mio regno tutti i miei nemici!”
Un po’ di tempo
dopo, i sudditi, sorpresi, videro l’imperatore che passeggiava per i giardini
imperiali a braccetto con i suoi peggiori nemici, ridendo e scherzando.
“Ma…” gli disse sorpreso un cortigiano, “…non avevi giurato di cancellare dal
tuo regno tutti i tuoi nemici?”
“Li ho cancellati, infatti!” rispose l’imperatore, “Li ho fatti diventare tutti miei amici!”
BRUNO FERRERO.
28
IL GRILLO E LA MONETA
Un saggio
indiano aveva un caro amico che abitava a Milano. Si erano conosciuti in India,
dove l’italiano era andato con la famiglia per fare un viaggio turistico.
L’indiano aveva fatto da guida agli italiani, portandoli ad esplorare gli angoli
più caratteristici della sua patria.
Riconoscente, l’amico milanese aveva invitato l’indiano a casa sua. Voleva
ricambiare il favore e fargli conoscere la sua città. L’indiano era molto restio
a partire, ma poi cedette all’insistenza dell’amico italiano e un bel giorno
sbarcò da un aereo a Malpensa.
Il giorno dopo, il milanese e l’indiano passeggiavano per il centro della città.
L’indiano, con il suo viso color cioccolato, la barba nera e il turbante giallo
attirava gli sguardi dei passanti e il milanese camminava tutto fiero d’avere un
amico così esotico.
Ad un tratto, in piazza San Babila, l’indiano si fermò e disse: “Senti anche tu
quel che sento io?”
Il milanese, un po’ sconcertato, tese le orecchie più che poteva, ma ammise di
non sentire nient’altro che il gran rumore del traffico cittadino.
“Qui vicino c’è un grillo che canta.” continuò, sicuro di sé, l’indiano.
“Ti sbagli,”
replicò il milanese, “io sento solo il chiasso della città. E poi, figurati se
ci sono grilli da queste parti.”
“Non mi sbaglio. Sento il canto di un grillo!” ribatté l’indiano e decisamente
si mise a cercare tra le foglie di alcuni alberelli striminziti.
Dopo un po’ indicò all’amico che lo osservava scettico un piccolo insetto, uno
splendido grillo canterino che si rintanava brontolando contro i disturbatori
del suo concerto.
“Hai visto che c’era un grillo?” disse l’indiano.
“È vero!”
ammise il milanese, “Voi indiani avete l’udito molto più acuto di noi bianchi!”
“Questa volta ti sbagli tu!” sorrise il saggio indiano, “Stai attento…”
L’indiano tirò fuori dalla tasca una monetina e facendo finta di niente la
lasciò cadere sul marciapiede.
Immediatamente quattro o cinque persone si voltarono a guardare.
“Hai visto?” spiegò l’indiano, “Questa monetina ha fatto un tintinnio più esile
e fievole del trillare del grillo. Eppure, hai notato quanti bianchi lo hanno
udito? BRUNO FERRERO.
29
IL LAMA, IL GATTO ED IL TOPOLINO
In una notte
gelida, fino da poco l’inverno, un lama buddhista trovò sulla soglia della porta
un topolino intirizzito e quasi morto di freddo. Il lama raccolse il topolino,
lo ristorò e gli chiese di restare a fargli compagnia. Da quel momento la vita
del topolino fu piacevole. Ma nonostante questo, la bestiola non aveva l’aria
felice.
Il lama si preoccupò: “Che hai, piccolo amico?” gli chiese.
“Tu sei molto buono con me. E tutto nella tua casa è molto buono con me. Ma c’è
il gatto…” rispose il topolino.
Il lama sorrise. Non aveva pensato al gatto di casa, un animale troppo saggio e
troppo ben pasciuto per degnarsi di dare la caccia ai topi.
Il lama
esclamò: “Ma quel bel micione non ti vuole certo male, amico mio! Non farebbe
mai male a un topolino! Non hai niente da temere, te lo assicuro!”
“Ti credo, ma è più forte di me!” piagnucolò il topolino, “Ho tanta paura del
gatto. Il tuo potere è grande. Trasformami in gatto! Così non avrei più paura di
quella bestia orribile!”
Il lama scosse la testa. Non gli sembrava una buona idea…
Ma il topolino lo supplicava e allora disse: “Sia fatto come desideri, piccolo
amico!”
E di colpo il topolino fu trasformato in un grosso gatto.
Quando morì la
notte e nacque il giorno, un bel gattone uscì dalla camera del lama.
Ma appena vide il gatto di casa, il gatto-topolino corse a rifugiarsi nella
camera del lama e si infilò sotto il letto.
“Che ti succede, piccolo amico?” chiese il lama, sorpreso, “Avrai mica ancora
paura del gatto?”
Il topolino-gatto si vergognò moltissimo. E implorò: “Ti prego trasformami in un
cane, un grosso cane dalle zanne taglienti, che abbaia forte…”
“Dal momento che lo desideri ti accontento e così sia!”
Quando il giorno morì e si accesero le lampade a olio, un grosso cane nero uscì
dalla camera del lama. Il cane andò fin sulla soglia della casa e incontrò il
gatto di casa che usciva dalla cucina. Il gattone quasi svenne per la paura alla
vista del cane. Ma il cane ebbe ancora più paura. Guaì penosamente e corse a
rifugiarsi nella camera del lama.
Il saggio guardò il povero cane tremante e disse: “Che ti succede? Hai
incontrato un altro cane?” Il cane-topolino si vergognò da morire.
E chiese: “Trasformami in una tigre, ti prego, in una grossa terribile tigre!”
Il lama lo accontentò e, il giorno dopo, una enorme tigre dagli occhi feroci
uscì dalla camera del lama.
La tigre passeggiò per tutta la casa spaventando tutti, poi uscì nel giardino e
là incontrò il gatto che usciva dalla cucina. Appena vide la tigre, il gatto
fece un balzo terrorizzato, si arrampicò su un albero e poi chiuse gli occhi,
dicendo: “Sono un gatto morto!”
Ma la tigre, vedendo il gatto, miagolò lamentosamente e fuggì ancora più veloce
del gatto e corse a rifugiarsi in un angolo della stanza del lama.
“Che bestia spaventosa hai incontrato?” gli chiese il lama.
“Io… io ho paura… del… gatto!” balbettò la tigre, che tremava ancora.
Il lama scoppiò in una gran risata.
“Adesso capisci, piccolo amico!” spiegò, “L’apparenza non è niente!
Di fuori hai l’aspetto terribile di una tigre, ma hai paura del gatto perché il
tuo cuore è rimasto quello di un topolino!” BRUNO
FERRERO
30
IL SEGRETO DEL CACCIATORE
In un villaggio
dell’Africa, c’era una volta un giovane cacciatore. Un giorno s’inoltrò nella
foresta. Seguiva ormai da molte ore le tracce di un leone. Camminava guardingo,
pronto a scagliare la lancia: doveva essere un leone enorme, a giudicare dalle
impronte che lasciava.
Improvvisamente udì uno schianto secco di rami, mentre risuonava un rabbioso
ruggito.
La giungla piombò in un silenzio terrorizzato.
Il giovane
attendeva, fermo… Ma dal fitto della giungla uscì una bellissima fanciulla. Il
giovane, come emergendo da un incubo, sorrise. Tra i due fiorì subito una grande
simpatia.
Il giovane, però, non sapeva una cosa importante: quella ragazza non era altri
che il più feroce leone della foresta, il re dei leoni, che aveva il potere di
trasformarsi in quello che voleva.
Qualche giorno dopo la ragazza andò al villaggio a trovare il giovane.
Conversarono allegramente, come avessero tante cose da dirsi. A un tratto,
facendosi seria, la ragazza si interruppe e chiese: “Come fai a dare la caccia
ai leoni, senza aver paura di venire sbranato?”
Lui sorrise, poi le confidò che era un segreto, proprio un segreto che lui
aveva: poteva trasformarsi in albero, in fiore, in roccia, in a…
In quel momento s’affacciò all’uscio della capanna sua madre, che gli fece un
cenno, come per dirgli: “Non dire tutto a chi non conosci bene!”
Il sole era
vicino al tramonto e il giovane cacciatore si offrì di accompagnare a casa la
sua nuova amica. La strada lasciava il villaggio e si inoltrava subito nella
foresta.
Dopo un po’ la ragazza chiese: “Conosci questo posto?”
“Oh sì, ci venivo a giocare da bambino!” rispose il ragazzo.
Camminarono ancora per un lungo tratto.
“Conosci questo posto?” chiese di nuovo la ragazza. “Vedi quel gruppo di banani
laggiù?
Vengo spesso fin qui!” replicò lui.
Proseguirono in silenzio.
“E questo posto lo conosci?” domandò ancora la ragazza. “Sì, mi pare di sì. Ci
sono venuto con mio padre!” spiegò il ragazzo.
Ripresero a camminare. Il sole ormai era quasi al tramonto e la foresta
diventava sempre più nera.
“E questo lo conosci?” lo interrogò lei.
Il giovane si
guardò attorno a lungo, poi si volse verso la ragazza per dire che no, quel
posto non lo conosceva… Ma di fronte a lui c’era un leone enorme pronto a
saltargli addosso e stritolarlo con le possenti zanne.
Immediatamente il giovane si trasformò in albero; ma anche il leone si trasformò
in albero.
Divenne un fiore; anche il leone si mutò in fiore. Allora divenne roccia; il
leone a sua volta si trasformò in roccia.
Il giovane divenne a…
Il leone si fermò. Non vedeva più il cacciatore. Non capiva. Non sapeva più
nulla del segreto del cacciatore.
Ebbe paura. A grandi balzi, ruggendo di rabbia, scomparve nella foresta.
Il giovane ritornò a casa di corsa e, ancora ansimando, raccontò tutto a sua
madre.
“Hai visto?” disse la madre, “Non si racconta tutto a chi non si conosce!”
BRUNO FERRRERO