BREVIARIO

 
     
     

AGOSTO

 

1

IL SEGRETO DEL VECCHIETTO

Un giovane medico si trovava in un lebbrosario in un’isola del Pacifico. Un incubo di orrore.
Solo cadaveri ambulanti, disperazione, rabbia, piaghe e mutilazioni orrende.
Eppure, in mezzo a tanta devastazione, un anziano malato conservava occhi sorprendentemente luminosi e sorridenti. Soffriva nel corpo, come i suoi infelici compagni, ma dimostrava attaccamento alla vita, non disperazione, e dolcezza nel trattare gli altri.
Incuriosito da quel vero miracolo di vita, nell’inferno del lebbrosario, il giovane medico volle cercarne la spiegazione: che cosa mai poteva dare tanta forza di vivere a quel vecchio così colpito dal male? Lo pedinò, discretamente. Scoprì che, immancabilmente, allo spuntar dell’alba, il vecchietto si trascinava al recinto che circondava il lebbrosario, e raggiungeva un posto ben preciso. Si metteva a sedere e aspettava. Non era il sorgere del sole che aspettava.
Né lo spettacolo dell’aurora del Pacifico. Aspettava fino a quando, dall’altra parte del recinto, spuntava una donna, anziana anche lei, con il volto coperto di rughe finissime, gli occhi pieni di dolcezza. La donna non parlava. Lanciava solo un messaggio silenzioso e discreto: un sorriso.
Ma l’uomo si illuminava a quel sorriso e rispondeva con un altro sorriso.
Il muto colloquio durava pochi istanti, poi il vecchietto si rialzava e trotterellava verso le baracche. Tutte le mattine. Una specie di comunione quotidiana.
Il lebbroso, alimentato e fortificato da quel sorriso, poteva sopportare una nuova giornata e resistere fino al nuovo appuntamento con il sorriso di quel volto femminile.
Quando il giovane medico glielo chiese, il lebbroso gli disse: “È mia moglie!”

E dopo un attimo di silenzio: “Prima che venissi qui, mi ha curato in segreto, con tutto ciò che riusciva a trovare. Uno stregone le aveva dato una pomata. Lei tutti i giorni me ne spalmava la faccia, salvo una piccola parte, sufficiente per apporvi le sue labbra per un bacio… Ma tutto è stato inutile. Allora mi hanno preso, mi hanno portato qui. Ma lei mi ha seguito. E quando ogni giorno la rivedo, solo per lei so che sono ancora vivo, solo per lei mi piace ancora vivere.”

Certamente qualcuno ti ha sorriso stamattina, anche se tu non te ne sei accorto. Certamente qualcuno aspetta il tuo sorriso, oggi. E se entri in una chiesa e spalanchi la tua anima al silenzio, ti accorgerai che Dio, per primo, ti accoglie con un sorriso….

 

2

IL SEGRETO DELLA BILANCIA

Un uomo gravemente ammalato fu accolto in una comunità e messo in una grande stanza insieme a molti altri ammalati. Ma poco dopo essere deposto sul suo giaciglio, chiamò a gran voce il superiore. “In che luogo mi avete portato?” protestò, “Le persone che ho intorno ridono e scherzano come bambini! Non sono certe ammalate come me!”
“A dire la verità lo sono molto più di lei!” rispose il superiore, “Ma hanno scoperto un segreto, che oggi pochissimi conoscono o in cui, pur conoscendo, non credono più.”

“Quale segreto?” domandò l’uomo.

“Questo!” rispose un anziano dal letto confinante. Estrasse dal comodino una piccola bilancia, prese un sassolino e lo depose su un piatto; subito l’altro si alzò.
“Che stai facendo?” chiese l’uomo.
“Ti sto mostrando il segreto! Questa bilancia rappresenta il legame che esiste fra uomo e uomo. Il sassolino è il tuo dolore che ora ti abbatte.

Ma mentre abbatte te, solleva l’altro piatto della bilancia permettendo ad un altro di gioire.
Gioia e dolore si tengono sempre per mano.
Ma bisogna che il dolore sia offerto, non tenuto per sé; allora fa diventare come bambini e fa fiorire il sorriso anche in punto di morte.”
“Nessuna scienza giustifica quello che tu dici!” fu la riflessione dell’uomo.
“Appunto per questo c’è in giro tanto dolore vissuto con amarezza. Qui non è questione di scienza ma di fede. Perché non entri anche tu nella bilancia dell’amore?”
L’uomo accettò la strana proposta. E fu così che, quando guarito, rivisse istanti di gioia, non poté non pensare alla sofferenza degli altri.
E si sentì legato agli uomini di tutto il mondo da un sottile filo d’oro.”

 

3

IL CIELO E L'INFERNO

Un uomo, il suo cavallo e il suo cane camminavano lungo una strada. Mentre passavano accanto a un albero gigantesco, si abbatté un fulmine e morirono tutti fulminati.
Ma l'uomo non si accorse di avere ormai lasciato questo mondo e continuò a camminare con i suoi due animali. A volte occorre del tempo perché i morti si rendano conto della loro nuova condizione. Era una camminata molto lunga, su per la collina, il sole era forte e loro erano tutti sudati e assetati. Avevano disperatamente bisogno di acqua. A una curva della strada, avvistarono un magnifico portone, tutto di marmo, che conduceva a una piazza pavimentata con blocchi d'oro, al centro della quale c'era una fontana da cui sprizzava dell'acqua cristallina.
Il viandante si rivolse all'uomo che sorvegliava l'entrata.

- Buongiorno.
- Buongiorno - rispose l'uomo.
- Che posto è mai questo, così meraviglioso?
- Qui è il Cielo.
- Che bello essere arrivati nel cielo, abbiamo molta sete.
- Lei può entrare e bere a volontà.
E il guardiano indicò la fontana. - Anche il mio cavallo e il mio cane hanno sete.
- Mi spiace molto, ma qui non è permessa l'entrata di animali.

L'uomo ne rimase assai deluso, perché aveva molta sete, ma non avrebbe mai bevuto da solo. Ringraziò e proseguì. Dopo aver camminato a lungo, ormai esausti, arrivarono in un luogo la cui entrata era segnata da una vecchia porta, che si apriva su di un sentiero sterrato, fiancheggiato da alberi. All'ombra di uno degli alberi, c'era un uomo sdraiato, con il capo coperto da un cappello, che probabilmente stava dormendo.

Buongiorno - disse il viandante.
L'uomo fece un cenno con il capo. - Abbiamo molta sete, il mio cavallo, il mio cane e io.
- C'è una fonte tra quelle pietre - disse l'uomo indicando un posto. - Potete bere a volontà.
L'uomo, il cavallo e il cane si avvicinarono alla fonte e ammazzarono la sete. Poi, l'uomo tornò indietro per ringraziare. - A proposito, come si chiama questo posto?
- Cielo.
- Cielo? Ma il guardiano del portone di marmo ha detto che il cielo era là!
- Quello non è il cielo, quello è l'inferno.
Il viandante rimase perplesso. - Voi dovreste evitarlo! Una tale informazione falsa causerà grandi confusioni!
L'uomo sorrise: - Assolutamente no. In realtà, ci fanno un grande favore. Perché laggiù rimangono tutti quelli che sono capaci di abbandonare i loro migliori amici. PAOLO COHELO

 

4

L'AMORE PUO' GUARIRE

Ho letto sul giornale che un bambino, a Brasilia, è stato brutalmente picchiato dai genitori. Per questo motivo ha perso la capacità di muoversi e di parlare. Ricoverato in ospedale, è stato curato da una infermiera che ogni giorno gli diceva: «Io ti amo». Anche se i medici garantivano che non poteva udirla e che i suoi sforzi erano inutili, l'infermiera continuava a ripetergli: «Io ti amo, non dimenticarlo». Tre settimane dopo, il bambino aveva riacquistato la capacità motoria. Quattro settimane dopo, tornava a parlare e a sorridere. L'infermiera non ha mai rilasciato interviste e il giornale non pubblicava il suo nome, ma qui ne rimane l'annotazione, affinché non dimentichiamo mai che l'amore guarisce.      PAOLO COHELO5

ERRORI

Disse l'Occhio: "Guardate che bella montagna abbiamo sul nostro orizzonte!". L'Orecchio tentò di udirla, ma non ci riuscì. Allora la Mano disse: "Sto cercando di sentirla, ma non la trovo". Fu la volta del Naso: "Non c'è nessuna montagna, perché non ne sento l'odore". E tutti giunsero alla conclusione che l'Occhio era in errore.        GIBRAN

 

5

“IL MAESTRO ED IL DISCEPOLO”

Un giorno un discepolo si macchiò di una grave colpa.
Tutti si aspettavano che il maestro lo punisse in modo esemplare.
Ma passò un anno e il maestro non diede segno di reazione.

Allora un altro discepolo protestò:

“Non si può ignorare ciò che è accaduto: dopo tutto, Dio ci ha dato gli occhi!”
Il maestro replicò:
“È vero, ma anche le palpebre!”

 

 

 

6

RESIDUI

Una volta domandarono a Michelangelo come riuscisse a creare delle opere tanto magnifiche.

"È molto semplice," rispose Michelangelo. "Quando guardo un blocco di marmo, io riesco a scorgervi dentro la scultura. Tutto ciò che mi rimane da fare è togliere i residui."

C'è un'opera d'arte che siamo destinati a creare. Essa è il punto centrale della nostra vita e, per quanto tentiamo di ingannarci, sappiamo come sia importante per la nostra felicità. Eppure, quest'opera d'arte generalmente è coperta da anni di paure, colpe, indecisioni.

Ma, se decideremo di eliminare questi residui, se non dubiteremo delle nostre capacità, saremo in grado di proseguire nella missione che ci è stata destinata. E questa è l'unica giustificazione della nostra vita.        PAOLO COLHELO

 

7

I TRE ALBERI

Sulla vetta di una montagna, coperta di pascoli e pinete profumate di resina, spuntarono un giorno tre piccoli alberi. Nei primi tempi erano così teneri e verdi che si confondevano con l'erba e i fiori che prosperavano intorno a loro. Ma, primavera dopo primavera, il loro piccolo tronco si irrobustì. Le sfide autunnali e invernali per fronteggiare i venti e le bufere li riempivano di gioia baldanzosa. Dall'alto della loro casa verde guardavano il mondo e sognavano. Come tutti coloro che stanno crescendo, sognavano quello che avrebbero voluto diventare da grandi.

Il primo albero guardava le stelle che brillavano come diamanti trapuntati sul vestito di velluto nero della notte. "Io sopra ogni cosa vorrei essere bello. Vorrei custodire un tesoro" disse. "Vorrei essere coperto d'oro e contenere pietre preziose. Diventerò il più bello scrigno per tesori del mondo".
Il secondo alberello guardava il torrente che scendeva serpeggiando dalla montagna, aprendosi il cammino verso il mare. L'acqua correva e correva, gorgogliando e scherzando con i sassi, un momento era lì e poco dopo già era scomparsa all'orizzonte. E niente riusciva a fermarla. "Io voglio essere forte. Sarò un grande veliero" disse. "Voglio navigare sugli oceani sconfinati e trasportare capitani e re potenti. Io sarò il galeone più forte del mondo".
Il terzo alberello contemplava la valle che si stendeva ai piedi della montagna e guardava la città che si indovinava nella foschia azzurrina. Laggiù formicolavano uomini e donne. "Io non voglio lasciare questa montagna" disse. "Voglio crescere tanto che, quando la gente si fermerà per guardarmi, dovrà alzare gli occhi al cielo e pensare a Dio. Io diventerò il più grande albero del mondo!”. Gli anni passarono. Caddero le piogge, brillò il sole, e i piccoli alberelli divennero tre alberi alti e imponenti.
Un giorno, tre boscaioli salirono sulla montagna, con le loro scuri a tracolla.
Uno dei boscaioli squadrò ben bene il primo albero e disse: "E' un bell'albero. È perfetto".
Dopo pochi minuti, stroncato da precisi colpi d'ascia, il primo albero piombò al suolo.
"Ora sto per trasformarmi in un magnifico forziere" pensò l'albero. "Mi affideranno in custodia un tesoro favoloso".
Il secondo boscaiolo guardò il secondo albero e disse: "Questo albero è vigoroso e solido. È proprio quello che ci vuole". Sollevò la scure, che lampeggiò al sole, e abbatté l'albero.
"D'ora in poi, navigherò sui mari infiniti e i vasti oceani" pensò il secondo albero. "Sarò una nave importante, degna dei re".
Il terzo albero si sentì mancare il cuore, quando il boscaiolo lo fissò. "Per me va bene qualunque albero" pensò il boscaiolo. L'ascia balenò nell'aria e, poco dopo, anche il terzo albero giaceva sul terreno. I loro bei rami, che fino a poco prima avevano scherzato con il vento e protetto uccelli e scoiattoli, furono stroncati uno a uno.
I tre tronchi furono fatti rotolare lungo il fianco della montagna, fino alla pianura. Il primo albero esultò quando il boscaiolo lo portò da un falegname. Ma il falegname aveva ben altri pensieri che mettersi a fabbricare forzieri. Con le sue mani callose trasformò l'albero in una mangiatoia per animali. L'albero che era stato un tempo bellissimo non fu ricoperto di lamine d'oro né riempito di tesori. Era coperto di rosicchiature e riempito di fieno per nutrire gli animali affamati della fattoria.
Il secondo albero sorrise quando il boscaiolo lo trasportò al cantiere navale, ma quel giorno nessuno pensava a costruire un veliero. Con grandi colpi di martello e di sega, l'albero fu trasformato in una semplice barca da pescatori. Troppo piccola, troppo fragile per navigare su un oceano o anche solo su un fiume, la barca fu portata in un laghetto. Tutti i giorni, trasportava carichi di pesce, che la impregnavano di odore sgradevole.
Il terzo albero divenne tristissimo quando il boscaiolo lo squadrò per farne rozze travi che accatastò nel cortile della sua casa. "Perché mi succede questo?" si domandava l'albero, ricordando il tempo in cui lottava con il vento sulla cima della montagna.
"Tutto quello che volevo era svettare sul monte per invitare la gente a pensare a Dio".
Passarono molti giorni e molte notti. I tre alberi quasi dimenticarono i loro sogni.

Ma una notte, la luce dorata di una stella accarezzò con i suoi raggi il primo albero, proprio nel momento in cui una giovane donna con infinita tenerezza sistemava nella mangiatoia il suo bambino appena nato.
"Avrei preferito costruirgli una culla" mormorò suo marito. La giovane mamma gli sorrise, mentre la luce della stella scintillava sulle assi lucide e consunte che un tempo erano state il primo albero.
"Questa mangiatoia è magnifica" rispose la mamma.
In quel momento, il primo albero capì di contenere il tesoro più prezioso del mondo.
Altri giorni e altre notti passarono. Una notte, un viaggiatore stanco e i suoi amici si imbarcarono sul vecchio battello da pesca, che un tempo era stato il secondo albero.
Mentre il secondo albero, diventato barca, scivolava tranquillamente sull'acqua del lago, il viaggiatore si addormentò. All'improvviso, dopo lo schianto di un tuono, in una ridda di fulmini e violente ondate, scoppiò la tempesta. Il piccolo albero tremò. Sapeva di non avere la forza di trasportare in salvo tante persone con quel vento e con la violenza di quelle onde. Le sue fiancate scricchiolavano penosamente per lo sforzo.
Preoccupati, gli amici svegliarono il misterioso viaggiatore. L'uomo si alzò, spalancò le braccia, sgridò il vento e disse all'acqua del lago: "Fa' silenzio! Calmati!". La tempesta si quietò immediatamente e si fece una grande calma.
In quel momento, il secondo albero capì che stava trasportando, come desiderava, un re, anzi, il re dei cieli, della Terra e degli infiniti oceani.
Poco tempo dopo, un Venerdì mattino, il terzo albero fu molto sorpreso quando le sue rozze travi furono tolte di malagrazia dalla catasta di legname dimenticato.
Furono trasportate nel mezzo di una folla vociante e irosa, sbattute sulle spalle torturate di un uomo, che poi su di esse fu inchiodato. Il povero albero si sentì orribile e crudele. E piangeva, reggendo quel povero corpo tormentato... lui che voleva che la gente grazie a lui vedesse Dio! Ma la domenica mattina, quando il sole si levò alto nel cielo e tutta la Terra vibrò di una gioia immensa, il terzo albero seppe che non aveva trasportato un uomo qualunque, ma aveva trasportato Dio!
In quel mattino seppe e capì che l'amore di Dio aveva trasformato tutto.
Aveva fatto del primo albero il meraviglioso scrigno del più tenero e incredibile dei tesori. Aveva reso il secondo albero forte portatore del Creatore del cielo e della Terra.
E ogni volta che una persona avesse guardato il terzo albero avrebbe visto Dio! Ogni persona, anche noi, non solo i pochi della Valle...
E questo era più che essere solo il più bello, il più forte o il più grande albero del mondo...

 

8

COPRIRE IL SOLE CON UNA MANO

Un discepolo cercò il rabbino Nahman di Braslaw. "Non continuerò i miei studi dei Testi Sacri", disse. "Abito in una piccola casa con i miei fratelli e i genitori, e non trovo mai le condizioni ideali per concentrarmi su ciò che è importante".

Nahman indicò il sole e chiese al suo discepolo di mettersi la mano davanti al viso, in modo da occultarlo. Il discepolo lo fece. "La tua mano è piccola, eppure riesce a coprire completamente la forza, la luce e la maestosità dell'immenso sole. Nella stessa maniera, i piccoli problemi riescono a darti la scusa necessaria per non proseguire nella tua ricerca spirituale. Così come la mano può avere il potere di nascondere il sole, la mediocrità ha il potere di nascondere la luce interiore. Non incolpare gli altri per la tua incompetenza".

 

9

IL RE DI SPAGNA

C'era un re spagnolo che era molto orgoglioso della sua stirpe. Era anche conosciuto per essere crudele con quelli più deboli. Un giorno stava camminando con i suoi anziani consiglieri in un campo in Aragona, dove, anni prima, suo padre era caduto in battaglia. Lì incontrarono un sant'uomo, che stava raccogliendo un enorme mucchio di ossa. "Cosa stai facendo?" chiese il re. "Onore a Sua Maestà" disse il sant'uomo. "Quando ho saputo che il re di Spagna sarebbe venuto qui, ho deciso di ritrovare le ossa di suo padre per dargliele. Ma per quanto cerchi, non riesco a trovarle. Sono uguali a quelle dei contadini, dei poveri, dei mendicanti e degli schiavi".

 

10

PENSIERI NEGATIVI

Il discepolo disse al suo maestro: "Ho trascorso la maggior parte del giorno pensando cose che non avrei dovuto pensare, desiderando cose che non avrei dovuto desiderare e a preparare piani che non dovrebbero essere fatti". Il maestro invitò il discepolo a fare una passeggiata con lui nella foresta dietro la sua casa. Lungo il cammino, indicò una pianta, e chiese al discepolo se ne conoscesse il nome. "Belladonna", disse il discepolo. "Può uccidere chiunque mangi le sue foglie". "Ma non può uccidere nessuno che semplicemente la osservi", disse il maestro. "Allo stesso modo, desideri negativi non possono causare del male se non permetti a te stesso di esserne sedotto".

 

11

L'ILLUMINAZIONE

Il discepolo si avvicinò al suo maestro: "Per anni sono stato alla ricerca dell'illuminazione", disse. "Sento che sono vicino a raggiungerla. Ho bisogno di sapere qual è il prossimo passo". "Come ti mantieni?", chiese il maestro. "Non ho ancora imparato ad essere autonomo; i miei genitori mi aiutano. Ma quello è solo un dettaglio". "Il tuo prossimo passo è guardare direttamente al sole per mezzo minuto", disse il maestro. Il discepolo obbedì. Quando passarono i trenta secondi, il maestro chiese di descrivere ciò che li circondava. "Non riesco a vedere. Il sole mi ha accecato la vista", disse il discepolo. "Un uomo che cerca solo la luce, evitando le proprie responsabilità, non troverà mai l'illuminazione. E uno che tiene i propri occhi fissi sul sole rimane cieco", fu il commento del maestro.     STORIA ZEN

 

12

LE TENTAZIONI

Uno straniero incontrò il Padre Superiore nel monastero di Sceta. "Voglio rendere la mia vita migliore", disse. "Ma non riesco a trattenermi dall'avere dei pensieri peccaminosi". Il Padre notò che il vento stava soffiando forte fuori, e disse allo straniero: "Fa piuttosto caldo qui. Mi chiedo se tu potessi trattenere un po' di vento là fuori e portarlo qui per rinfrescare la stanza". È impossibile", rispose lo straniero. È impossibile anche tenere sé stessi dal pensare cose che offendono Dio", rispose il monaco. "Ma, se sai come dire di no alle tentazioni, non ti causeranno alcun danno".  PAOLO COLHELO

 

13

IL SIGNIFICATO DELLE BANANE

Un mio amico decise di passare alcune settimane in un monastero del Nepal. Un pomeriggio, entrò in uno dei numerosi templi del monastero e trovò un monaco che, sorridente, era seduto sull'altare. "Perché sorridete?" domandò. "Perché capisco il significato delle banane", rispose il monaco, aprendo la borsa che aveva con sé, tirandone fuori una banana marcia e mostrandola al mio amico. "Questa è la vita che è passata e non è stata goduta al momento giusto - disse - ora è troppo tardi". Estrasse poi dalla borsa una banana ancora acerba, gliela mostrò e la ripose di nuovo. "Questa è la vita che non è ancora accaduta, bisogna aspettare il momento giusto". Infine, estrasse una banana matura, la sbucciò e la divise con il mio amico. "Questa è la vita al momento giusto: il presente. Alimentati con esso, e vivilo senza paura e senza colpa".

 

14

VERA RICCHEZZA

È importane osservare la natura

Un padre ricco, volendo che suo figlio sapesse quale fosse il significato di essere povero, gli fece passare alcune giornate con una famiglia di contadini.
Il bambino trascorse tre giorni e tre notti nei campi. Di ritorno in città, ancora in macchina, il padre gli chiese: “Cosa mi dici della tua esperienza?”

“Bella!” rispose il bambino.

“Hai appreso qualcosa?” insistette il padre.
Il bimbo in quel momento iniziò a parlare:
Noi abbiamo un cane, loro ne hanno quattro.
Noi abbiamo una piscina con acqua trattata, che arriva in fondo al giardino. Loro hanno un fiume, con acqua cristallina, pesci e altre belle cose.
Noi abbiamo la luce elettrica nel nostro giardino ma loro hanno le stelle e la luna per illuminarli. Il nostro giardino arriva fino al muro. Il loro, fino all’orizzonte. Noi compriamo il nostro cibo; loro lo coltivano, lo raccolgono e lo cucinano. Noi ascoltiamo CD… Loro ascoltano una sinfonia continua di pappagalli, grilli e altri animali… tutto ciò, qualche volta accompagnato dal canto di un vicino che lavora la terra. Noi utilizziamo il microonde. Ciò che cucinano loro, ha il sapore del fuoco lento Noi per proteggerci viviamo circondati da recinti con allarme… Loro vivono con le porte aperte, protetti dall’amicizia dei loro vicini. Noi viviamo collegati al cellulare, al computer, alla televisione. Loro sono collegati alla vita, al cielo, al sole, all’acqua, ai campi, agli animali, alle loro ombre e alle loro famiglie.
Il padre rimase molto impressionato dai sentimenti del figlio.

Alla fine, il figlio concluse: “Grazie per avermi insegnato quanto siamo poveri!”

Ogni giorno, diventiamo sempre più poveri perché non osserviamo più la natura!

 

15

È TEMPO, VIENI!

Un’anziana signora stava stirando! Arrivò l’Angelo della morte e le disse: “È tempo, vieni!”

La donna rispose:  “Va bene, ma lasciami finire di stirare tutta la biancheria! Chi lo fa altrimenti? E poi devo cucinare; mia figlia lavora fino a tardi: ha bisogno di qualcosa da mangiare quando torna a casa sfinita…Lo capisci questo?”
L’Angelo se ne andò… Dopo un po’ di tempo, tornò! Chiese alla donna se fosse pronta a lasciare la casa… “È tempo, vieni!” le disse.

La donna rispose: “Questa è la mia ora per il turno alla casa di riposo per anziani!
Là mi aspettano almeno dieci persone dimenticate dalla loro famiglia… Posso piantarle in asso, così?”
L’Angelo se ne andò! Dopo un po’ di tempo tornò e disse: “È l’ora, andiamo!”
La donna rispose: “Sì, sì! Hai ragione! È giusto! Ma chi va a prendere il mio nipotino alla Scuola Materna se io non ci sono più?”
L’Angelo sospirò: “D’accordo, aspetterò finché il tuo nipotino potrà andare a Scuola da solo!”
Alcuni anni dopo, la donna era stanca e piena di acciacchi e, seduta sulla sua poltrona, pensava: “Adesso potrebbe arrivare l’Angelo… Dopo tutta la fatica, la Casa di Dio deve essere meravigliosa!”
L’Angelo arrivò…

La donna chiese: “Mi porti, adesso, nelle braccia di Dio?”
L’Angelo rispose: “Dove credi di essere stata in tutto questo tempo?”

 

16

ABBRACCIO LA POVERTA'

In che modo possiamo abbracciare la povertà come via di Dio, quando tutti intorno a noi vogliono diventare ricchi? La povertà ha molte forme. Dobbiamo chiederci: “Qual è la mia povertà?”. È mancanza di denaro, di stabilità emotiva, mancanza di garanzie, di sicurezza, di fiducia in me stesso? Ogni persona umana ha un luogo di povertà. Questo è il luogo dove Dio vuole abitare! “Beati i poveri” dice Gesù (Mt 5,3). Questo significa che la nostra benedizione è nascosta nella povertà. Siamo così inclini a nascondere la nostra povertà e a ignorarla che perdiamo spesso l’occasione di scoprire Dio. Egli dimora proprio in essa. Dobbiamo avere l’audacia di vedere la nostra povertà come la terra nella quale è nascosto il nostro tesoro.

H. J. M. NOUWEN

 

17

ACCENDI LA LAMPADA

Un tale aveva un alloggio al pian terreno che dava su un vicolo stretto e buio.
Annottava quando, per un guasto al suo impianto elettrico, rimase avvolto dalle tenebre.
Allora cominciò ad annaspare incespicando. Fu preso dal panico e gridava: “Aiuto! Aiuto!”
Proprio in quel momento passava di lì un amico. Sentì e s’affacciò alla finestrella di quel monolocale. Aveva acceso, intanto, il suo “accendino.” Rendendosi conto dell’accaduto, disse: “Ti faccio luce io. Mi ricordo che hai un’antica lampada a petrolio lì in mezzo, sul camino. Sta’ calmo, va al centro della tua casa.”
All’uomo non sembrò vero di potersi muovere pur con quella fioca luce, e subito trovò la lampada. L’amico gli prestò l’accendino allungando il braccio dalla finestra. La fiamma divampò sullo stoppino e ci fu una calda luce in tutto il monolocale…

Non importa da dove ti viene l’accendino. Forse da un libro, da un amico, da altro.
Ricorda però che la lampada puoi accenderla solo tu, se vai con calma al centro del tuo cuore.
La luce che conta è Dio-Amore, Dio-luce che abita il tuo cuore profondo.
Credilo e vivrai.                 SUOR MARIA PIA GIUDICI.

 

18

AIUTARE IN CASA

Un giorno un uomo andò a trovare un amico a casa sua per prendere un caffè insieme.
Seduto con lui in cucina iniziarono a chiacchierare, parlando della vita.
“Vado un attimo a lavare i piatti rimasti nel lavabo.” disse l’amico.
L’ospite lo guardò a bocca aperta, un po’ ammirandolo, ma anche un po’ perplesso e disse:

“Buon per te che aiuti tua moglie! Quando lo faccio io, mia moglie non lo apprezza. Ho lavato i pavimenti la scorsa settimana e non ho ricevuto nemmeno un grazie!”
L’amico che si era alzato tornò a sedersi accanto a lui e gli spiegò la sua situazione:
“Amico mio, io non aiuto mia moglie. Come regola, mia moglie non ha bisogno di aiuto, ha bisogno di un socio. Io sono un socio in casa e per via di questa società vengono divise le mansioni, ma di certo non si tratta di un supporto nella casa. Io non aiuto mia moglie a pulire casa, perché ci abito anch’io e bisogna che pulisca anche io. Io non aiuto mia moglie a cucinare, perché anche io voglio mangiare e bisogna che cucini anche io. Io non aiuto mia moglie a lavare i piatti dopo cena, perché ho usato questi piatti anch’io. Io non aiuto mia moglie con i figli, perché sono anche figli miei ed è il mio ruolo essere padre e genitore.
Io non aiuto mia moglie a stendere o piegare i panni, perché sono anche vestiti miei e dei miei figli. Io non sono un aiuto in casa, sono parte della casa.”
Questi poi fece una domanda all’amico perplesso: “Quando è stata l’ultima volta che, dopo che tua moglie ha finito di pulire casa, fare il bucato, cambiare lenzuola ai letti, fare la doccia ai figli, cucinare, organizzare… le hai detto grazie? Ma intendo un grazie del tipo: WOW! Cara, sei la migliore!”
L’amico colpito, si mise a riflettere su questa considerazione.

L’altro aggiunse ancora: “Quando tu una volta ogni tanto pulisci per terra, ti aspetti un premio o la gloria? Perché? Ci hai mai pensato, amico? Forse perché per te è scontato che tutto ciò sia compito di tua moglie. Forse ti sei abituato all’idea che tutto questo viene fatto senza che tu debba alzare un dito.”

 

19

AMARE DIO ED AMARE GLI ALTRI

Ci fu un tempo, dice una leggenda, in cui l’Irlanda era governata da un re che non aveva figli maschi. Così, il sovrano inviò i suoi messi ad affiggere dei bandi sugli alberi di tutte le città del regno, per invitare ogni giovanotto che ne avesse i requisiti a presentarsi a palazzo e avere un colloquio con il re come possibile successore al trono.
Le caratteristiche richieste erano le seguenti: “Amare Dio ed amare gli altri esseri umani.”

Il giovanotto di cui parla la leggenda vide i bandi e riflette fra sé e sé che amava Dio e gli altri esseri umani. Tuttavia, data la sua estrema indigenza, non possedeva degli abiti che lo rendessero presentabile alla vista del re; ne disponeva dei mezzi per acquistare le vettovaglie necessario per il viaggio sino al castello. Perciò mendicò ed ottenne dei prestiti finché non ebbe denaro a sufficienza per dei vestiti adeguati e per le provviste necessarie, e finalmente poté mettersi in viaggio alla volta del castello. Lungo la strada, giunto quasi nei pressi della meta, incontrò un mendicante, il quale stava seduto tutto tremante, e non indossava altro che stracci; il poveretto allungò le braccia per implorare aiuto e con voce debole disse piano:

“Ho fame e ho freddo. Mi aiuti?”

Il giovane fu così commosso dallo stato di bisogno del povero mendicante che si privò immediatamente degli abiti, facendo il cambio con gli stracci del mendicante. Senza pensarci un attimo, inoltre, gli diede tutte le sue provviste. Poi, benché titubante, riprese il cammino verso il castello, con indosso gli stracci e senza provviste per il viaggio di ritorno. All’arrivo al castello, una persona al seguito del sovrano lo fece entrare e, dopo una lunga attesa, finalmente poté accedere nella sala del trono. Quando il giovane, chinatesi profondamente davanti al sovrano, sollevò gli occhi, fu colmo di stupore: “Voi… voi siete il mendicante che ho incontrato lungo la strada!”
“Sì!” rispose il re, “Quel mendicante ero proprio io.”
“Ma non siete un vero mendicante. Siete il re.” esclamò il giovane.

“Sì, sono il re!” spiegò.

“Perché avete fatto questo?” chiese, allora, il giovane.
“Perché volevo scoprire se tu ami veramente, se ami Dio e gli altri esseri umani. Sapevo che se mi fossi presentato a te come il re, saresti stato molto colpito dalla mia corona d’oro e dai miei abiti regali. Avresti fatto qualunque cosa io chiedessi per via del mio aspetto regale, ma in questo modo non avrei mai saputo com’è realmente il tuo cuore. Perciò mi sono presentato a te come un mendicante, senza pretese nei tuoi confronti se non quella dell’amore del tuo cuore. Ed ho scoperto che tu ami realmente Dio e gli altri esseri umani.
Tu sarai il mio successore. Tu avrai il mio regno!”     JOHN POWELL

 

20

CHI BUSSA ALLA MIA PORTA

Sembra una storia umoristica ma, a pensarci bene, molta gente affronta la vita «senza pilota». È importante far capire che non è possibile vivere soltanto seguendo gli istinti.

L'aeroporto di una città dell'Estremo Oriente venne investito da un furioso temporale. I passeggeri attraversarono di corsa la pista per salire su un DC3 pronto al decollo per un volo interno. Un missionario, bagnato fradicio, riuscì a trovare un posto comodo accanto a un finestrino. Una graziosa hostess aiutava gli altri passeggeri a sistemarsi.
Il decollo era prossimo e un uomo dell'equipaggio chiuse il pesante portale dell'aereo. Il missionario guardava fuori. La pioggia continuava ad abbattersi sulla pista. Improvvisamente si vide un uomo che correva verso l'aereo, riparandosi come poteva, con un impermeabile. Il ritardatario bussò energicamente alla porta dell'aereo, chiedendo di entrare. L'hostess gli spiegò a segni che era troppo tardi. L'uomo raddoppiò i colpi contro lo sportello dell'aereo. L'hostess cercò di convincerlo a desistere. «Non si può... E tardi... Dobbiamo partire», cercava di farsi capire a segni dall'oblò.
Niente da fare: l'uomo insisteva e chiedeva di entrare. Alla fine, l'hostess cedette e aprì lo sportello. Tese la mano e aiutò il passeggero ritardatario a issarsi nell'interno. E rimase a bocca aperta. Quell'uomo era il pilota dell'aereo.

 

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LO SCOMPARTIMENTO

Lo scompartimento sottolinea l'inerzia che impedisce spesso all'uomo di «convertirsi». Convertirsi è «cambiare» con prontezza, anche se costa.

Eravamo in due nello stesso scompartimento del treno. La giornata era fredda e piovosa. Dai finestrini si vedeva scorrere un paesaggio grigio e nelle stazioni i pochi passeggeri erano intabarrati in cappotti e sciarpe. Ma lo scompartimento era confortevolmente riscaldato e il ritmico sferragliare del treno conciliava una quieta beatitudine. Il passeggero che divideva lo scompartimento con me, invece, era stranamente inquieto. Ad ogni fermata del treno scattava in piedi, correva al finestrino e leggeva ad alta voce il nome della stazione.
Poi si sprofondava nel sedile emettendo un sospiro da strappare il cuore.
Dopo sette od Otto stazioni, preoccupato gli chiesi: «C'è qualcosa che non va? Non si sente bene?». Con un nuovo desolato sospiro, rispose: «Non proprio. È che sto andando nella direzione sbagliata. Avrei dovuto cambiare treno già da molte stazioni. Ma si sta così bene e al calduccio, qui...».

 

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LE SCARPE DI NATALE

Le scarpe di Natale è un invito a fare del Natale un inizio di cambiamento reale nella vita di tutti i giorni. Il Natale non può lasciare le cose come stanno: deve incidere nell'esistenza degli uomini. come in questa storia!

C'era una volta una città i cui abitanti amavano sopra ogni cosa l'ordine e la tranquillità. Avevano fatto delle leggi molto precise, che regolavano con severità ogni dettaglio della vita quotidiana. Tutte le fantasie, tutto quello che non rientrava nelle solite abitudini era mal visto o considerato una stranezza. E per ogni stranezza era prevista la prigione. Gli abitanti della città non si dicevano mai «buongiorno» per la strada; nessuno diceva mai «per piacere»; quasi tutti avevano paura degli altri e si guardavano sospettosamente. C'erano anche quelli che denunciavano i vicini, se trovavano un po' troppo bizzarro il loro comportamento. Il commissario Leonardi, capo della polizia, non aveva mai abbastanza poliziotti per condurre inchieste, sorvegliare, arrestare, punire...
Già nella scuola materna, i bambini imparavano a stare ben attenti alle loro chiavi. E c'erano chiavi per ogni cosa: per le porte, per l'armadietto, per la cartella, per la scatola dei giochi e perfino per la scatola delle caramelle!
La sera, la gente aveva paura. Rientravano tutti a casa correndo e poi sprangavano le porte e chiudevano ben bene le finestre.
Erano rimasti tuttavia dei ragazzi che sapevano ancora scambiarsi qualche strizzata d'occhi e anche degli insegnanti che li incoraggiavano... Ma, soprattutto, c'era Cristiana. Cristiana aveva i capelli biondi come il sole, gli occhi scintillanti come laghetti di montagna e non pensava mai: «Chissà che cosa dirà la gente». Nella città si facevano molte dicerie sul suo conto. Perché Cristiana aiutava tutti quelli che avevano bisogno di aiuto, consolava i bambini che piangevano e anche i vecchietti rimasti soli, perché accoglieva tutti coloro che chiedevano un po' di denaro o anche solo qualche parola di speranza. Tutto questo era scandaloso per la città. Non potevano proprio sopportare ulteriormente quel modo di vivere così diverso dal loro. E un giorno il commissario Leonardi, con venti poliziotti, andò ad arrestare Cristiana, o Cri-Cri, come l'avevano soprannominata gli amici. E per essere sicuro che non combinasse altre stranezze, la fece mettere in prigione. Questo accadde qualche giorno prima di Natale. Natale era una festa, ma molti non sapevano più di chi o di che cosa. Sapevano soltanto che in quei giorni si doveva mangiare bene e bere meglio. Ma senza esagerare, per non prendersi qualche malattia... Soprattutto, la sera della Vigilia di Natale, tutti dovevano mettere le proprie scarpe davanti al camino, per trovarle piene di doni il giorno dopo. Una cosa questa che, nella città, facevano tutti, ma proprio tutti. Così fu anche quel Natale.
All'alba, tutti si precipitarono dove avevano messo le scarpe, per trovare i loro regali. Ma... che era successo? Non c'era l'ombra di un regalo. Neanche un torrone o un cioccolatino! E poi... le scarpe! In tutta la città, le scarpe risultavano spaiate. Il commendator Bomboni si trovò con una scarpina da ballo, una vecchia ottantenne aveva una scarpa bullonata da calcio, un bambino di cinque anni aveva una scarpa numero 43, e così di seguito. Non c'erano due scarpe uguali in tutta la città! Allora si aprirono porte e finestre e tutti gli abitanti scesero in strada. Ciascuno brandiva la scarpa non sua e cercava quella giusta. Era una confusione allegra e festosa. Quando i possessori delle scarpe scambiate si trovavano, avevano voglia di ridere e di abbracciarsi. Si vide il commendator Bomboni pagare la cioccolata a una bambina che non aveva mai visto e una vecchietta a braccetto con un ragazzino.
Solo qualche finestra restava ostinatamente chiusa. Come quella del commissario Leonardi. Quando però il commissario sentì il gran trambusto che veniva dalla strada, pensò a una rivoluzione e corse a prendere le armi che teneva sul camino. Immediatamente il suo sguardo cadde sulle scarpe che aveva collocato davanti al camino. E anche lui si bloccò, sorpreso. Accanto alla sua pesante scarpa nera c'era... una pantofola rossa di Cri-Cri. Stringendo la pantofola rossa in mano, il commissario corse alla prigione. La cella dove aveva rinchiuso Cri-Cri era ancora ben chiusa a chiave. Ma la ragazza non c'era. Ai piedi del tavolaccio, perfettamente allineate c'erano l'altra scarpa del commissario e l'altra pantofola rossa. Dal finestrino, protetto da una grossa inferriata, proveniva una strana luce. Il commissario si affacciò. Nella strada la gente continuava a scambiarsi le scarpe e ad abbracciarsi.
Con un insolita commozione, il commissario si accorse che la luce che veniva dal finestrino era bionda e calda come il sole e aveva dei luccichii azzurri, come succede nei laghetti di montagna.
E incominciò a capire.

 

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L' ALBERO DI NATALE CHE TORNO' A CASA

Il piccolo abete aveva impiegato tutta l'estate a crescere. Si era proprio messo d'impegno e ora giocava felice con i venti invernali. Si sentiva abbastanza robusto per resistere anche ai più forti. Le radici, che si erano ramificate in profondità, conferivano al giovane abete una baldanzosa sicurezza. Ma una gelida mattina di dicembre, mentre i fiocchi di neve sfarfallavano pigri, l'abete avvertì uno strumento acuminato che gli tagliava e strappava le radici. Poco dopo due mani d'uomo, rudi e sgarbate, lo estirparono dalla terra e lo caricarono nel baule puzzolente di un'automobile che ripartì subito verso la città. Il viaggio fu terribile per il povero abete, che pianse tutte le sue lacrime di profumata resina. Dopo mille dolorosi sballottamenti, si ritrovò finalmente alla luce. Lo misero in un grosso vaso, in bella mostra. La terra del vaso era fresca e l'abete ebbe un po' di sollievo e ricominciò a sperare. Divenne perfino euforico, quando mani di donna e piccole mani di bambini cominciarono a infilare tra i suoi rami fili dorati, luci colorate e lustrini scintillanti. «Mi credono il re degli alberi», pensava. «Sono stato veramente fortunato. Altro che starmene là al freddo e alla neve...».
Per un po' di giorni tutto andò bene. L'abete faceva un figurone, nel suo abbigliamento luccicante. Era contento anche del presepio che avevano collocato ai suoi piedi: guardava con commozione Maria e Giuseppe, il Bambino nella mangiatoia e anche l'asino e il bue. Di sera, quando tutte le piccole luci colorate erano accese, gli abitanti della casa lo guardavano e facevano: «Ooooh, che bello!».
Poi gli venne sete. Sul principio era sopportabile. «Qualcuno si ricorderà di sicuro di darmi un po' d'acqua», pensava l'abete. Ma nessuno si ricordava e la sofferenza dell'abete divenne terribile. I suoi aghi, i suoi bellissimi aghi verde scuro, cominciarono a ingiallire e cadere. Si rese conto che aveva lentamente cominciato a morire.
Una sera, ai suoi piedi vennero ammucchiati molti pacchetti confezionati con carta luccicante e nastri colorati. C'era molta eccitazione nell'aria. Il mattino dopo scoppiò il finimondo: bambini e adulti aprivano i pacchetti, gridavano, si abbracciavano. L'abete riuscì appena a pensare: «Tutti qui parlano d'amore, ma fanno morire me...».
Improvvisamente una piccola mano lo sfiorò. La sorpresa dell'abete fu infinita: davanti a lui c'era il Bambino del presepio.
«Piccolo abete», disse il Bambino Gesù, «vuoi tornare a vivere nel tuo bosco, in mezzo ai tuoi fratelli?».
«Oh sì, per piacere!».
«Ora, che hanno avuto i regali, non gliene importa più niente dite... E nemmeno di me».
Il Bambino Gesù prese l'abete, che d'incanto ridivenne verde e vigoroso. Poi insieme volarono via dalla finestra.

 

 

 

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UN GRIDO NELLA NOTTE

In una notte buia e profonda un uomo stava per morire. Era la Vigilia di Natale. L'uomo era diretto a casa. Per tutto l'anno aveva lavorato nei boschi, sulle montagne, lontano dal suo paese. Aveva lavorato disperatamente, senza sosta, ma anche così era riuscito a mettere da parte ben poco denaro. Aveva deciso ugualmente di tornare a casa. Ma proprio mentre usciva dalla foresta, era scoppiato uno spaventoso temporale. La casa dell'uomo era ancora lontana chilometri e chilometri. Improvvisamente corse indietro per ripararsi nella foresta dalla grandine che scendeva a chicchi grossi come uova. L'uomo era sotto una quercia quando un fulmine squarciò la pianta. Rami gli caddero addosso. Fuggì via. Perdeva sangue da un braccio e da una gamba. Fuggiva sotto la grandine, coprendosi appena la testa con le mani. Via, via, lontano dalla foresta da cui era sbucato il fulmine. Dopo molto correre, stramazzò ai piedi di un gradone di roccia. La parete si propendeva minacciosa, verticale. Steso al suolo, fradicio di pioggia, battuto dalla grandine e dal freddo, perse ogni speranza. Il gelo che lo attanagliava lo persuase a lasciarsi morire. Si abbandonò quasi con sollievo alla morte. Lo prese il sonno: il conforto, pensò, dell'ultimo istante. Ma improvviso, cristallino, risuonò un belato. Il belato risvegliò l'uomo da quel sonno di morte. Era un grido nella notte. Pareva ora prossimo, ora lontano. Un agnellino preso dalla furia della bufera? L'uomo si scosse. Lui voleva morire, ma l'agnellino? Di nuovo l'agnellino belò. All'uomo morente mancavano le forze e la voglia di vivere. Però l'agnellino aveva bisogno di lui. L'uomo sentì quel belato come un'invocazione. E ritrovò la forza di vincere la stanchezza e la paura. Avrebbe salvato la bestiola e sarebbe tornato a morire: questo pensiero gli dette vigore. Si mise in ascolto. L'agnello riprese a belare. L'uomo fu diretto dal belato. Ogni tanto si fermava. La grandine gli feriva il volto, coprendo la vocina flebile. La riudì. Vicino. Dietro a dei cespugli. Girò in mezzo a degli sterpi. L'agnello non c'era. Però l'udì, come uscisse dal gradone di roccia. Tra la grandine vide un buco nella roccia. Il belato proveniva di là. Barcollò e si gettò dentro la grotta dove l'agnellino giaceva ferito in una pozza d'acqua. Lo sollevò. Lo portò più dentro al cunicolo, all'asciutto. Lo tenne stretto al petto per riscaldarlo e sentì che l'agnello scaldava lui, gli ridava vita. Stettero la notte avvinti dal caldo, in compagnia.
Il mattino, un sole morbido entrò nella grotta e svegliò l'uomo e l'agnello. L'uomo accarezzò l'agnello. Senti la piccola vita vibrare di fame. Anche lui aveva fame. E soprattutto una infinita voglia di vivere

 

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LA ROSA

Il poeta tedesco Rilke abitò per un certo periodo a Parigi. Per andare all'Università percorreva ogni giorno, in compagnia di una sua amica francese, una strada molto frequentata. Un angolo di questa strada era permanentemente occupato da una mendicante che chiedeva l'elemosina ai passanti. La donna sedeva sempre allo stesso posto, immobile come una statua, con la mano tesa e senza mai alzare gli occhi su chi le dava qualcosa.
Rilke non le dava mai nulla. La sua compagna le dava spesso una moneta. Un giorno, la giovane francese, meravigliata, gli domandò: «Ma perché non dai mai nulla a quella poveretta?».
Rilke, poiché era un poeta, rispose: «Dovremmo regalare qualcosa al suo cuore, non alle sue mani». Alcuni giorni dopo, Rilke arrivò con una splendida rosa appena sbocciata, la depose nella mano della mendicante e fece l'atto di andarsene. Allora accadde qualcosa di inatteso: la mendicante alzò gli occhi, guardò il poeta, si sollevò a stento da terra, prese la mano dell'uomo e la baciò. Poi se ne andò stringendo la rosa al petto. Non si vide per una settimana. Otto giorni dopo la mendicante era di nuovo seduta nel solito angolo della strada. Silenziosa e immobile come sempre.
«Ma di che cosa avrà vissuto in tutti questi giorni in cui non ha ricevuto nulla?» chiese la giovane francese.
Il poeta rispose: «Della rosa! ».

 

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IL FLAUTO DEL PASTORE

C'era una volta un vecchio pastore, che amava la notte e conosceva bene il percorso degli astri. Appoggiato al suo bastone, con lo sguardo rivolto verso le stelle, il pastore stava immobile sul campo. «EGLI verrà!» disse.
«Quando verrà?» chiese il suo nipotino.
«Presto!».
Gli altri pastori risero. «Presto!» lo schernirono. «Lo dici da tanti anni!».
Il vecchio non si curò del loro scherno. Soltanto il dubbio che vide sorgere negli occhi del nipote lo rattristò. Quando fosse morto, chi altri avrebbe riferito la predizione del profeta? Se LUI fosse venuto presto! Il suo cuore era pieno di attesa.
«Porterà una corona d'oro?». La domanda del nipote interruppe i suoi pensieri. «Sì!».
«E una spada d'argento?». «Sì!
«E un mantello purpureo?».
«Sì! Sì!».
Il nipotino era contento. Il ragazzo era seduto su un masso e suonava il suo flauto. Il vecchio stava ad ascoltare. Il ragazzo suonava sempre meglio, la sua musica era sempre più pura. Si esercitava al mattino e alla sera, giorno dopo giorno. Voleva essere pronto per quando fosse venuto il re. Nessuno sapeva suonare come lui.
«Suoneresti anche per un re senza corona, senza spada e senza mantello purpureo?» chiese il vecchio. «No!» disse il nipote. Un re senza corona, senza spada e senza mantello purpureo, come avrebbe potuto ricompensarlo per la sua musica?
Non certo con oro e argento!
Un re con corona, con spada e mantello purpureo l'avrebbe fatto ricco e gli altri sarebbero rimasti a bocca aperta, l'avrebbero invidiato.
Il vecchio pastore era triste. Ahimè, perché aveva promesso al nipote ciò a cui egli stesso non credeva? Come sarebbe venuto? Su nuvole dal cielo? Dall'eternità? Sarebbe stato un bambino? Povero o ricco? Di certo senza corona, senza spada e senza mantello purpureo, e tuttavia sarebbe stato più potente di tutti gli altri re. Come poteva farlo capire al suo nipotino?
Una notte in cielo comparvero i segni che il nonno così a lungo aveva cercato con gli occhi. Le stelle splendevano più chiare del solito. Sopra la città di Betlemme c'era una grande stella. E poi apparvero gli angeli e dissero: «Non abbiate paura! Oggi è nato il vostro Salvatore!».
Il ragazzo corse avanti, verso la luce. Sotto il mantello sentiva il flauto sul suo petto. Corse più in fretta che poteva. Arrivò per primo e guardò fisso il bambino, che stava in una greppia ed era avvolto in fasce. Un uomo e una donna lo contemplavano lieti. Gli altri pastori, che l'avevano raggiunto, si misero in ginocchio davanti al bambino. Il nonno lo adorava. Era dunque questo il re che gli aveva promesso? No, doveva esserci un errore.
Non avrebbe mai suonato qui. Si voltò deluso, pieno di dispetto. Si allontanò nella notte. Non vide né l'immensità del cielo, né gli angeli che fluttuavano sopra la stalla.
Ma poi sentì piangere il bambino. Non voleva sentirlo. Si tappò le orecchie e corse via. Ma quel pianto lo perseguitava, gli toccava il cuore e infine lo costrinse a tornare verso la greppia.
Eccolo là, per la seconda volta. Vide che Maria, Giuseppe e anche i pastori erano spaventati e cercavano di consolare il bambino piangente. Ma tutto era inutile. Che cosa poteva avere il bimbo? Non c'era altro da fare. Tirò fuori il suo flauto da sotto il mantello e si mise a suonare. Il bambino si quietò subito. Si spense anche l'ultimo, piccolo singhiozzo che aveva in gola. Guardò il ragazzo e gli sorrise. Allora egli si rallegrò, e sentì che quel sorriso lo arricchiva più di tutto l'oro e l'argento del mondo.

 

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TOPI DI CHIESA

Tanto tempo fa vivevano in un'antica chiesetta alcune famiglie di topi. Avevano costruito le loro casette dietro gli altari laterali e le avevano imbottite con carta finemente rosicchiata che proveniva da un libro di preghiere dimenticato in chiesa. I topi l'avevano trascinato dietro l'altare, ne avevano strappate le pagine e poi le avevano distribuite fra loro.
Ma per quanto i rifugi di carta fossero costruiti ad arte e per quanto il sole potesse splendere caldo, i topi all'interno della chiesa avevano sempre freddo. Le grosse, vecchie mura di pietra non facevano passare il calore e d'inverno la cosa diventava grave. Malgrado ciò, i topi restavano nella chiesa. Era la loro casa, li erano nati e cresciuti, e non potevano immaginarsi di vivere altrove. Amavano il profumo dell'incenso e delle candele, ascoltavano con piacere il suono dell'organo e quello delle campane che dava loro un senso di sicurezza.
Solo Mizzi, un topo giovane, se ne voleva andare. A settembre era stato portato per la prima volta dai compagni all'annuale raccolta delle noci. Si erano arrampicati sulla finestra della sacrestia ed erano andati nel giardino del parroco dove, per una settimana, avevano raccolto noci da portare poi in chiesa. A Mizzi era piaciuto molto stare in giardino. Il sole autunnale era mite e caldo e il topo non avrebbe voluto mai rientrare, ma i topi più anziani erano inflessibili. «Ti sembra facile!», avevano detto. «Ma fuori nessun topo può sopravvivere. Ci sono gatti e altre bestie pericolose che vengono di notte e ti divorano in un baleno! E d'inverno, all'aperto, fa molto più freddo che in chiesa. No, no, levatelo dalla testa, Mizzi».
Mizzi aveva capito che gli altri topi avevano probabilmente ragione, ma da quando era stato nel giardino non aveva più pace. Quasi ogni notte sognava fiabeschi luoghi ove c'erano cibi ben diversi dalle eterne noci, dove c'era luce e caldo e non c'erano nemici. Sognava quei luoghi con tanta chiarezza da esser certo che esistessero. Ma dove? Ecco il problema. E poi, come arrivarci? Provò a parlarne con Giovanni, un topo della sua età. Lo trovò sull'acquasantiera, che faceva penzolare le gambe. «Un bel freddo oggi, vero Mizzi?», lo salutò. «Andiamo alla luce perpetua e riscaldiamoci un po'», rispose Mizzi. «Ottima idea!». I due topini scesero a terra e andarono verso l'altar maggiore. Di pomeriggio la chiesa era come morta. I topi lo sapevano e si muovevano tranquillamente. Timidi raggi di sole cadevano dal vetri variopinti, disegnando ghirigori colorati sul pavimento. La luce perpetua era su un alto piedistallo e i topi vi si arrampicavano facilmente. Si appoggiavano al cilindro di vetro rosso scuro godendo il dolce calore che ne emanava. Dentro al cilindro di vetro c'era un grosso cero e quella era l'unica fonte di calore della chiesa. Tacquero per un po'. Poi Mizzi disse: «Giovanni, hai mai pensato di andartene via di qui?».
Giovanni rise: «Sì, certo, ci ho pensato. Ma sono tutte fantasticherie, Mizzi mio. Credimi, qui in chiesa è il posto più bello. Io non me ne andrei mai. Nessuno sa realmente com'è lì fuori!». Mizzi non rispose niente. Aveva già fatto i suoi progetti. Lui non temeva il pericolo. Voleva andarsene.
La domenica seguente, verso la fine della Messa, Mizzi si allontanò dagli altri topi e sgusciò tra i banchi in attesa del momento propizio. Questo giunse quando le persone si alzarono improvvisamente. La loro attenzione era rivolta al parroco e Mizzi s'infilò tra loro, vide la signora Offi, adocchiò la sua borsa semiaperta, fece una scalata e vi sparì dentro. Si ficcò nel fondo, scostando un rosario e nascondendosi sotto un fazzoletto fresco e profumato. Tutto si svolse bene. Alla fine della Messa la signora Offi mise il libro di preghiere nella borsa, la chiuse e andò a casa. Qui depose la borsa sulla panca della cucina, tolse il rosario e il libro e andò nella vicina camera da letto per cambiarsi d'abito. Mizzi vide che l'aria era sicura. Uscì dalla borsa e si guardò intorno. La prima cosa che notò era il meraviglioso calduccio della stanza che l'avviluppava come un mantello invisibile. Per la prima volta in vita sua, vide un termosifone. Si infilò dietro l'elegante «copri termo» in legno e ottone e lì si acquattò. Si addormentò quasi subito.
Mizzi passò un'intera settimana dietro il copritermosifone. Di notte, quando la famiglia dormiva, passeggiava per la cucina e rosicchiava pane, formaggio e tutto quello che trovava. In questo modo però i signori Offi si accorsero della sua presenza. I cibi erano indiscutibilmente rosicchiati da un topo e fu presa la decisione di mandare il gatto Bullo alla sua ricerca. Bullo si mise all'opera con grande zelo. In genere non gli era permesso di entrare in cucina e quindi l'occasione era straordinaria! Quando Mizzi vide il gatto cominciare la caccia pensò che la sua ora fosse suonata. Doveva scappare e subito. Balzò fuori dal suo tiepido rifugio e corse verso l'uscio che per puro caso era semiaperto. Ma Bullo era in gamba e acchiappò il topo proprio nel secondo in cui questi stava per raggiungere il cortile.
Invano Mizzi si divincolò: gli unghioni di Bullo erano inesorabili. Ma, mentre il gatto si preparava ad azzannare il topino, la signora Offi strillò: «Vai a sporcare fuori, gattaccio!». Bullo rimase un instante interdetto e il povero Mizzi poté raccogliere tutte le sue forze e scappare. Si infilò ansimante in un buchino della staccionata e cominciò a correre per la strada.
Per Mizzi cominciarono giorni terribili. Incontrò un gruppo di topastri che lo malmenarono, sfuggì a stento a una trappola dal denti d’acciaio, rischiò più volte di finire sotto le ruote delle automobili. Per non parlare dei gatti... Ma, alla fine, ebbe un vero colpo di fortuna: trovò un rifugio in un granaio. Non c'era una stufa per riscaldarsi, in compenso scoperse e gustò con entusiasmo i granelli di frumento. Ce n'era una montagna. Oh! Che pacchia! In pochi giorni Mizzi sì costruì un soffice letto di batuffoli di lana trovati tra le anticaglie del posto. Si faceva delle grandi dormite e, quando aveva fame, andava alla montagna del grano e si saziava, ma purtroppo non vedeva mai anima viva, né topo né gatto né cristiano.
Arrivò dicembre e un giorno incominciò a nevicare. Mizzi uscì dal suo rifugio e guardò fuori dalla finestra del granaio. Improvvisamente sentì una strana puntura nel cuore. Aveva visto il campanile della chiesa dietro il nevischio, lontano lontano, irraggiungibilmente lontano! «Che cosa faranno ora i miei amici, i topi della chiesa?», pensava Mizzi. «Si ricorderanno di me? Probabilmente crederanno che io sia morto!». E quanto più il topo pensava agli amici della chiesa, tanto più si sentiva solo. Scese dalla finestra e andò nel suo rifugio. Chiuse gli occhi, ma il sonno non voleva venire. «A che mi serve la mia vita piacevole, se sono solo?», si chiedeva Mizzi. «Ora ho tutto quello che sognavo. Magnifico cibo a disposizione, un luogo sicuro e un rifugio caldo. Dovrei essere felice e contento. Ma tutto questo non ha valore, se sto sempre solo. Che cosa darei perché Giovanni e gli altri potessero stare qui!». Rosicchiò alcuni granelli, ma non li trovò più molto buoni. «In realtà sono un prigioniero», pensò. «Un prigioniero in un paradiso! Il miglior cibo e il luogo più caldo sono nulla, assolutamente nulla, se non si hanno amici. Finalmente l'ho capito!». In quel momento le campane della chiesa cominciarono a suonare. Mizzi si arrampicò sulla finestra della soffitta, schiacciò il muso contro i vetri gelati e con nostalgia guardò fisso il campanile lontano.
Due giorni dopo il topino prese una decisione disperata. Doveva ritornare nella chiesa a qualsiasi costo.
Ebbe una sorpresa terribile: il buchino da cui era entrato nel granaio era completamente ostruito dal ghiaccio. Ecco perché nessun altro topo era entrato nel granaio dopo di lui. Non si scoraggiò. Cominciò a rosicchiare la porta. Ma il legno era più duro del previsto. Dopo alcune ore, gli sanguinavano le zampe ed era completamente intirizzito dal freddo.
Passarono giorni e giorni, ma non cedette mai. Finalmente, una sera, un gelido soffio d'aria lo investì entrando dal foro. Sanguinante e pieno di freddo, Mizzi sgusciò fuori. Lo accolse un forte vento e ovunque vide la neve che scintillava bluastra nella luce lunare. Corse e corse, senza pensare ai gatti e ai topastri. Ma il freddo era tanto e si sentiva venire meno. La pallida luce della luna lo aiutò e, un attimo prima di svenire, Mizzi riconobbe la casa dei signori Offi. Gatto o non gatto, doveva entrare o sarebbe morto. Mancava mezz'ora alla mezzanotte e, proprio in quel momento, la porta si aprì: erano i bambini che guardavano fuori se nevicasse. La famiglia Offi si stava preparando per andare alla Messa di Natale!
Con la forza della disperazione, Mizzi scivolò in casa. Il calore della cucina lo aiutò a riprendersi. Saltò sulla panca e poi sul tavolo dove aveva veduto qualche cosa di scuro che conosceva troppo bene. La borsa della signora Offi che odorava di chiesa! Mizzi sorrise e si infilò dentro. Appena in tempo! La borsa venne sollevata, la porta aperta e rinchiusa mentre il vento urlava e dei passi scricchiolavano sulla neve... E poco dopo udì un sordo mormorio di gente. Passi sul pavimento di pietra, poi uno strascicare di piedi sul legno.
La borsa venne aperta e fu preso il libro delle preghiera. Silenzio. Mizzi guardò fuori. Il suo cuore batteva e batteva. Che odori! Era giunto a casa! Cominciò la musica d'organo e la gente sì alzò dai banchi. Mizzi balzò sul pavimento, corse, inciampò, si riprese e seguitò a correre. Poi guizzò attraverso il corridoio centrale: ecco la prima fila dei banchi, ora a destra, ora c'era il tappeto rosso e lì c'era il piccolo altare laterale. Un salto! Ed era fatta.
I topi della chiesa sedevano tutti insieme sotto l'altare quando apparve Mizzi. «Miiiizzi!», gridarono tutti insieme.
L'organo suonava e tutto era bello...

 

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IL DIAMANTE PIÙ GROSSO DEL MONDO

C'era una volta un monaco che viveva poveramente e passava di villaggio in villaggio parlando di Dio e della sua bontà. Si accontentava di poco e spesso la sua cena consisteva in un pezzo di pane e un po' d'acqua bevuta alla fontana. Una sera, il monaco arrivò in prossimità di un villaggio e, per non disturbare nessuno a quell'ora, si sistemò un giaciglio sotto un albero. Stava recitando le preghiere della sera, quando gli si fece incontro, sudato e ansimante, un abitante del villaggio che gridava: «La pietra! La pietra! Dammi la pietra preziosa!». «Che pietra?», chiese il monaco. «La notte scorsa mi è apparso in sogno il Signore», disse l'abitante del villaggio, «e mi ha detto che se fossi venuto alla periferia del villaggio al crepuscolo avrei trovato un monaco che mi avrebbe dato una pietra preziosa che mi avrebbe reso ricco per sempre». Tranquillo e sereno, il monaco rovistò nel suo sacco e tirò fuori una grossa pietra scintillante. «Probabilmente il Signore intendeva questa», disse porgendo la pietra all'uomo. «L'ho trovata sul sentiero delle montagne qualche giorno fa. Tienila pure». L'uomo fissò meravigliato la pietra. Era un diamante. Certamente il diamante più grosso del mondo perché aveva quasi le dimensioni di una testa di uomo. Con gli occhi luccicanti l'abitante del villaggio afferrò il diamante e corse via. Posò la pietra su un tavolino vicino al letto e si coricò. Mille pensieri gli tormentavano la mente. Si rigirò e rigirò nel letto senza poter dormire. Il giorno dopo allo spuntar dell'alba, l'uomo tornò dal monaco, lo svegliò e gli disse: «Dammi la ricchezza che ti permette di dar via così facilmente questo diamante».

 

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LA SFERA MAGICA

Nel piccolo villaggio di Traduerivi, abbarbicato su un cocuzzolo, gli abitanti vivevano felici e soddisfatti. I bambini giocavano nei cortili ombreggiati o correvano per le strade. Gli adulti, invece, lavoravano cantando o chiacchierando allegramente tra di loro. Ogni anno la cicogna tornava al suo nido, sul tetto più alto. «Porta fortuna», dicevano al suo arrivo. In una casetta, non lontana dal villaggio, abitava con i genitori e la nonna il pastorello Manolo. Ogni mattina, all'alba, partiva con il suo gregge verso le colline soleggiate e aride, alla ricerca di un po' di pascolo per le sue capre. Nelle lunghe ore di attesa suonava dolcemente il suo flauto di canna. Tornava solo a sera, sempre allegro. Salutava gli amici nel villaggio, quindi rientrava a casa. Dopo aver cenato con pane, latte e formaggio di capra, la nonna gli raccontava le antiche leggende della loro terra. Ben presto Manolo si addormentava, sognando di volare libero come un uccello tra le stelle.
Un giorno, mentre pascolava come sempre le capre tra gli ulivi, Manolo notò una strana luce dietro un cespuglio. Scostati i rami, scorse una meravigliosa sfera di cristallo da cui si sprigionava, appunto, una luce bianco-azzurra. Con molta attenzione il pastorello l'afferrò e l'osservò a lungo. «Che cosa può mai essere?», si chiese stupefatto, mentre la rigirava tra le mani. «Esprimi un desiderio», sentì all'improvviso sussurrare una piccola voce. «Qualunque cosa tu desideri, io te la darò».
Manolo non credeva alle proprie orecchie. Si sedette sulla sponda di uno stagno, posò la sfera di cristallo sull'erba e cominciò a riflettere. Quante, quante cose avrebbe voluto! «Bisogna che scelga qualcosa di veramente straordinario», pensò. «Forse di saper volare, o di fare un lungo viaggio su un veliero attraverso i mari. .Aspetterò fino a domani, così avrò più tempo per riflettere», decise infine.
Quindi ripose la sfera di cristallo nella bisaccia, radunò il gregge e si avviò verso casa, ripromettendosi di non parlare con nessuno della favolosa scoperta. Il giorno dopo Manolo non era ancora riuscito a decidere quale desiderio esprimere. Nulla, assolutamente nulla gli sembrava così prezioso, importante e indispensabile da dover essere desiderato.
Le giornate continuarono così a trascorrere come sempre. Spesso si sedeva all'ombra di un albero, tirava fuori dalla bisaccia la sfera magica e ascoltava la piccola voce mormorargli: «Esprimi un desiderio, qualunque desiderio...». Manolo sorrideva, ma non sapeva che cosa rispondere. Ogni sera la nonna gli raccontava sempre leggende e storie fantastiche, e Manolo, sognando di visitare ad una ad una tutte le stelle del cielo, si addormentava felice quanto mai.
Gli abitanti del villaggio cominciarono a meravigliarsi. Da qualche tempo Manolo appariva felice ben più del solito. «Suona persino più dolcemente il flauto», borbottavano tra loro incuriositi, e decisero di spiarlo giorno e notte. Era estate, infatti, e il pastorello spesso dormiva sulle colline.
Così un bambino del villaggio seguì Manolo al pascolo, senza farsi notare. Verso sera, si nascose dietro un ulivo per poterlo osservare da vicino. Poco dopo, lo vide tirare fuori dalla bisaccia un oggetto luminoso e, tenendo- lo fra le mani, riflettere a lungo, con gli occhi chiusi. Il bambino attese che Manolo si addormentasse, quindi gli si avvicinò in punta di piedi, gli rubò la sfera di cristallo e corse al villaggio ansioso di mostrare a tutti che cosa avesse scoperto d'incredibile. Ben presto gli abitanti si raccolsero pieni di curiosità attorno alla misteriosa sfera. Uno di loro la prese in mano chiedendosi da dove potesse mai essere arrivata. Nello stesso momento udì la piccola voce che lo invitava a esprimere un desiderio. «Voglio un sacco pieno d'oro! » disse subito, senza esitazioni. Immediatamente, chi gli stava accanto gli strappò la sfera di mano e gridò: «Io, invece, voglio due casse stracolme di pietre preziose!».
In breve tutti si scatenarono. Chiesero castelli al posto delle vecchie case, stanze piene di diamanti, mobili d'oro massiccio e sacchi di perle. Tutti i desideri furono immediatamente esauditi. Le vecchie case si trasformarono in castelli con portoni d'oro, e ognuno ebbe i tesori che aveva chiesto.
Ma poiché nessuno aveva pensato di desiderare anche un bel parco, ogni giardino, ogni fiore e ogni albero erano spariti e tutto il villaggio era diventato di cupa pietra. Tuttavia, nessuno aveva tempo per badarvi. Tutti erano occupatissimi a contare le proprie ricchezze e a invidiare quelle degli altri. Chi aveva chiesto cumuli di monete d'oro invidiava le pietre preziose del vicino. Chi aveva un lussuoso castello invidiava i sacchi di perle di quelli della via accanto. Chi aveva scrigni di gioielli si lamentava: «Oh, avessi pure io un grande castello come quegli altri là!». Quando giunse in volo la cicogna, si spaventò. Del suo nido non vi era infatti più traccia. E nessuno tra gli abitanti del villaggio le gridò: «Bentornata tra noi!».
La gente divenne cattiva. Nessuno parlava più con gli altri. Poiché non vi erano più giardini, i bambini non sapevano più dove giocare. Si annoiavano e divennero tristi e litigiosi. Solo Manolo e la sua famiglia erano ancora felici. Gli altri, invidiosi, si chiedevano che cosa avesse mai desiderato Manolo per essere sempre così di buon umore e per continuare serenamente a suonare il flauto e a portare le capre a pascolare su colline tanto aspre. Manolo non entrava più nel villaggio. Lì nessuno voleva più essere amico degli altri. Tutti preferivano starsene chiusi nei loro castelli a contare le monete d'oro e le altre ricchezze. Ma fino al villaggio arrivava di lontano, ogni sera, il dolce suono del flauto del pastorello, e questo cominciò a toccare i cuori di alcuni tra gli abitanti. I primi a fare qualcosa furono i bambini. Decisero di andare da Manolo per restituirgli la sfera magica e confidargli come fosse diventata insopportabile la vita nel villaggio.
«Quando c'era il nostro vecchio villaggio, potevamo giocare tutto il giorno» spiegarono a Manolo i bambini. «Perché non è più così?».
«Abbiamo case nuove e non ci manca nulla: perché mai non riusciamo a essere felici?» si lamentarono con lui alcuni genitori che avevano seguito i bambini. «Inoltre, la cicogna se n'è andata via: ci pare un segno di malaugurio».
«Ma tu, che cosa hai chiesto alla sfera magica per essere tanto pieno di gioia?» chiesero tutti insieme a Manolo che era rimasto ad ascoltarli sorridendo.
«Oh, io non ho ancora espresso il mio desiderio» spiegò il pastorello. «Ma se davvero volete che ogni cosa torni come era prima, posso chiedere questo...».
«Oh, potesse essere così!» esclamarono tutti. Manolo prese la sfera e la rigirò tra le mani. Poi chiuse gli occhi e, con tutto il cuore, desiderò che il villaggio e la vita in esso tornassero come erano sempre stati. Bambini e genitori corsero subito verso il villaggio e lo trovarono in fermento. Castelli, oro e ricchezze erano spariti. Erano ricomparse le vecchie case e i verdi giardini. La gente commentava festosamente l'accaduto per le strade. Sul tetto più alto era tornata al suo nido la cicogna. Da quel giorno tutti ripresero a ridere e a recarsi allegri a lavorare nei campi. E ogni sera le melodie del flauto di Manolo li facevano sognare di volare liberi come uccelli tra le stelle.

 

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LETTERA DI UN ASTRONAUTA

Ciao, mia cara
Non vedo l’ora di poteri abbracciare !!! Da quanto tempo è che non ci vediamo: più o meno saranno 3000 anni luce. Non puoi immaginare quanto mi manchi e mi sembra ieri quando ci siamo lasciati.
Quanta fatica, e per quanto tempo abbiamo sognato di poter raggiungere un pianeta abitato come il nostro. Mi sembra ieri quando i primi pionieri del volo violarono la quiete del cielo sfidando le leggi della natura; sento l’eco delle loro grida di gioia che risuonano nel tempo. Noi, noi siamo la storia! Ma a dirti la verità non è proprio come me lo aspettavo… Ah, come sta la piccola? Dalle un bacio e dille che presto il papà tornerà a casa. Qui, il pianeta è insopportabile: c’è un atmosfera irrespirabile, umida e piena d’acqua, tanto che la senti infilarsi nella tua tuta spaziale. Le terre emerse occupano solo un terzo della superficie e per di più gli abitanti del pianeta con le loro costruzioni la stanno devastando, per non parlare dei rapporti che hanno tra loro: sembrano divisi in tribù, parlano in lingue diverse e si comportano differentemente: alcuni godono di stima e si vantano di possedere delle pietre luccicanti; hai presente quel metallo che noi usiamo per fare i tappi, ecco quello, mentre altri non vengono nemmeno considerati. Pensa che dopo tutto questo, ed è solo un piccolo assaggio, si credono la razza più intelligente dell’universo. Ma dove andremo a finire?
Non sono capaci di organizzarsi, non sono ancora al nostro livello tecnologico, non fanno altro che mangiarsi il cibo l’un l’altro e per di più sono anche orribili nell’aspetto. Quando siamo scesi ci hanno circondato con delle armi insignificanti, credendo di spaventarci, e ci osservavano come se fossimo dei marziani. Potevo vestirmi di verde, così almeno li avrei fatti felici!
Sono veramente disgustosi: hanno peli sul corpo per proteggersi dal clima del pianeta, a volte fa un caldo insopportabile mentre altre volte fa un freddo, forse mi sto ammalando… Comunque, dovresti vederli: sono piccoli e gracili perché la forza di gravità è inferiore di due volte rispetto alla nostra. Emettono degli strani suoni, un po’ stornanti e quasi mai dolci, mi sembra quasi di impazzire per quanto mi rimbombano nella testa. Non sono per niente socievoli e si credono padroni di tutto, pensa che volevano farmi una miriadi di analisi come se fossi un giocattolo; tutti erano diffidenti con me.
E noi che eravamo venuti in pace! Fortunatamente è una sciocchezza imparare la loro lingua: è semplicissima ed ha una struttura razionale primitiva; un po’ come sono loro fisicamente. Quasi quasi assomigliano ai nostri progenitori nella loro evoluzione più arretrata …
Ormai, ad esser sincero, mi sto abituando: sai com’è tutto il mondo è paese ed io non posso rinnegare la tolleranza e la solidarietà fraterna che mi hanno insegnato i miei genitori fin da quando ero piccolino! Tutto sommato basta abituarsi alle diversità.
Ah ! Mi stavo dimenticando di dirti che ho fatto una nuova amicizia: si chiama Giuseppe ed un essere umano della Terra!

 

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Un discepolo domandò un giorno a Sri Ramaknishna come fare per liberarsi dai pensieri di lussuria che lo assalivano da ogni parte. Ne ebbe questa risposta: - Un uomo aveva un cane che amava moltissimo, che accarezzava e abbracciava di continuo. Un saggio gli consigliò di non attaccarsi troppo a quell’animale, che era pur sempre un animale e che avrebbe anche potuto morderlo. L’uomo acconsentì, e da quel giorno non volle più occuparsi del cane, né tanto meno, accarezzarlo. Il cane, non potendosi rendere conto di quanto era accaduto, tornò più e più volte dall’uomo a mendicare un segno d’amicizia. Ma cessò di venire solo quando l’uomo, alla richiesta di una carezza, cominciò ad alzare minacciosamente il bastone. La stessa cosa per te, amico. Malgrado il tuo desiderio di disfartene, il cane che per lungo tempo hai nutrito di te, non si decide ad andarsene. Hai già usato il bastone? O fai solo finta di usarlo?

     
     
 

BREVIARIO