LUGLIO
1
IL PROBLEMA DELL’OROLOGIO
C’era una volta un orologio di bell’aspetto che troneggiava su un elegante comò e faceva con entusiasmo il suo lavoro. Come ogni buon orologio aveva un cuore che ticchettava due battiti al secondo: “Tic-tac, tic-tac, tic-tac, …”
Così fin dal
giorno in cui era uscito dal laboratorio di uno dei migliori orologiai della
città.
La sua vita scorreva tranquilla finché nel suo cervello di luccicanti
ingranaggi, quasi fosse un granellino di micidiale polvere, si insinuò un
dubbio: “Due battiti al secondo significano centoventi ticchettii al minuto,
settemila e duecento battiti all’ora, centosettanta duemilaottocento al giorno,
un milione duecento novemila e seicento alla settimana, sessantadue milioni otto
centonovantanovemila e ottocento ticchettii all’anno, …”
I delicati ingranaggi dell’orologio emisero un cigolio lamentoso.
“Sessantadue milioni otto centonovantanovemila e ottocento ticchettii all’anno!
È impossibile. Non ce la farò mai!”
In breve, il dubbio si trasformò in panico e poi in profonda depressione. Così,
un giorno, l’orologio prese appuntamento dal miglior psico-orologiaio della
città.
“Qual è il suo problema?” chiese gentilmente il dottore.
“Oh, dottore,”
si lamentò, “mi è stato affidato un compito immane, nettamente al di sopra delle
mie forze. Devo emettere due battiti al secondo, cioè cento e venti ticchettii
al minuto, settemila e duecento battiti all’ora, centosettanta duemilaottocento
al giorno, un milione duecento novemila e seicento alla settimana, sessantadue
milioni otto centonovantanovemila e ottocento ticchettii all’anno! E per molti
anni! Non posso farcela!”
“Un momento!” interloquì lo psichiatra, “Quanti ticchettii devi fare alla
volta?”
“Un tic alla volta, poi un tac, poi un altro tic e così via!” rispose
l’orologio.
“Questa è la cura che ti consiglio: vai a casa, mettiti tranquillo e pensa ad un
tic alla volta, concentrati su ogni tic e goditelo. Uno alla volta: non ti
preoccupare del successivo!
Pensi di riuscirci?” domandò lo psichiatra.
“Un tic e un tac alla volta! Ma certo!” rispose l’orologio. Tornò a casa e non si preoccupò più.
2
IL PROFESSORE E GLI STUDENTI DI SOCIOLOGIA
Un docente
universitario inviò i suoi studenti di sociologia nei quartieri poveri di
Baltimora per raccogliere dati sulla situazione sociale di duecento ragazzi. Gli
studenti dovevano scrivere una valutazione sul futuro di ciascun ragazzo. In
ogni valutazione scrissero: “Non ha possibilità.”
Venticinque anni dopo, un altro docente di sociologia trovò per caso lo studio
precedente e incaricò i suoi allievi di compiere un’indagine di controllo per
vedere che cosa ne fosse stato di quei ragazzi. Con l’eccezione di venti di loro
che si erano trasferiti o erano morti, si apprese che 176 dei rimanenti 180
avevano ottenuto un successo superiore alla media in qualità di avvocati, medici
e uomini d’affari. Il professore rimase sbalordito e decise di approfondire
l’argomento. Per fortuna tutti gli uomini si trovavano nella zona e il
professore fu in grado di domandare a ciascuno: “Come spiega il suo successo?”
In ogni caso la risposta emozionata fu: “Merito dell’insegnante!”
L’insegnante era ancora viva, per cui il professore la rintracciò e domandò all’anziana, ma ancora arzilla signora, quale formula magica avesse usato per far uscire quei ragazzi dai bassifondi e dar loro un futuro di successo. Gli occhi dell’insegnante brillarono e le labbra si incresparono in un lieve sorriso: “Davvero è molto semplice.” disse, “Ho voluto bene a quei ragazzi!” JACK CANFIELD E MARK VICTOR HANSEN
3
IL PROFESSORE E IL BARCAIOLO (L’IMPORTANZA DEL SAPERE)
C’era una volta
un professore. Era uno dei professori più importanti del mondo e veniva spesso
invitato a tenere lezioni in tante università del mondo. Era anche candidato al
Premio Nobel.
Un giorno il professore giunse sulle rive di un lago e chiese ad un barcaiolo di
portarlo a fare un giro su quel bel lago con la sua barca. Il brav’uomo accettò.
Quando furono lontani dalla riva il professore cominciò ad interrogarlo: “Hai
studiato la storia?”
“No!” rispose il barcaiolo.
“Allora un quarto della tua vita è perduto!” lo ammonì il professore.
“Conosci l’astronomia?” chiese il professore
“No!” replicò
il barcaiolo.
“Allora due quarti della tua vita sono perduti!
Conosci la filosofia?” chiese nuovamente il professore.
“No!” rispose il barcaiolo.
“Allora tre quarti della tua vita sono perduti!” esclamò il professore.
All’improvviso prese ad infuriare una tremenda tempesta. La barchetta venne
sballottata come un guscio di noce in mezzo al lago. Gridando sopra il ruggito
del vento, il barcaiolo si rivolse al professore: “Professore, sa nuotare?”
“No!” rispose il professore.
“Allora tutta la sua vita è perduta!” concluse il barcaiolo.
4
IL PROFESSORE E LA BANCONOTA DA 20 EURO (IL VALORE DELLE COSE)
Durante una
lezione un professore mostrò un biglietto da 20 euro ai suoi studenti e chiese:
“Chi vuole questo biglietto?”
Tutte le mani si alzarono. Incominciò a sgualcire il biglietto e poi chiese di
nuovo: “Lo volete ancora?”
Le mani si
alzarono di nuovo.
Gettò per terra il biglietto sgualcito, lo pestò con i piedi e chiese
nuovamente: “Lo volete sempre?”
Tutte le mani si rialzano. Quindi disse: “Avete appena avuto una dimostrazione
pratica!
Importa poco ciò che faccio con questo biglietto, lo volete sempre, perché il
suo valore non è cambiato. Vale sempre 20 euro.
Molte volte
nella vostra vita, sarete sgualciti, rigettati dalle persone e dagli
avvenimenti.
Avrete l’impressione di non valere più niente, ma il vostro valore non sarà
cambiato agli occhi delle persone che vi amano davvero. Anche nei giorni in cui
sentiamo di valere meno di un centesimo il nostro vero valore è rimasto lo
stesso.”
5
IL PROFESSORE E LE DOMANDE SU DIO
Germania, primi
anni del XX secolo.
Durante una conferenza tenuta per gli studenti universitari, un professore ateo
dell’Università di Berlino lanciò una sfida ai suoi alunni con la seguente
domanda: “Dio ha creato tutto quello che esiste?”
Uno studente diligentemente rispose: “Sì! Certo!”
“Allora Dio ha creato proprio tutto?” replicò il professore
“Certo!” affermò lo studente
Il professore
rispose: “Se Dio ha creato tutto, allora Dio ha creato il male, poiché il male
esiste e, secondo il principio che afferma che noi siamo ciò che produciamo,
allora Dio è il Male!”
Gli studenti ammutolirono a questa asserzione. Il professore, piuttosto
compiaciuto con sé stesso, si vantò con gli studenti che aveva provato per
l’ennesima volta che la fede religiosa era un mito. Un altro studente alzò la
sua mano e disse: “Posso farle una domanda, professore?”
“Naturalmente!” replicò il professore.
Lo studente si alzò e disse “Professore, il freddo esiste?”
“Che razza di domanda è questa?
Naturalmente, esiste! Hai mai avuto freddo?”
Gli studenti sghignazzarono alla domanda dello studente. Il giovane replicò:
“Infatti signore, il freddo non esiste. Secondo le leggi della fisica, ciò che
noi consideriamo freddo è in realtà assenza di calore. Ogni corpo od oggetto può
essere studiato solo quando possiede o trasmette energia ed il calore è proprio
la manifestazione di un corpo quando ha o trasmette energia.
Lo zero assoluto (-273 °C) è la totale assenza di calore; tutta la materia
diventa inerte ed incapace di qualunque reazione a quella temperatura.
Il freddo, quindi, non esiste. Noi abbiamo creato questa parola per descrivere
come ci sentiamo… se non abbiamo calore!”
Lo studente continuò: “Professore, l’oscurità esiste?”
Il professore rispose: “Naturalmente!”
Lo studente
replicò: “Ancora una volta signore, è in errore, anche l’oscurità non esiste.
L’oscurità è in realtà assenza di luce. Noi possiamo studiare la luce, ma non
l’oscurità.
Infatti possiamo usare il prisma di Newton per scomporre la luce bianca in tanti
colori e studiare le varie lunghezze d’onda di ciascun colore. Ma non possiamo
misurare l’oscurità.
Un semplice raggio di luce può entrare in una stanza buia ed illuminarla.
Ma come possiamo sapere quanto buia è quella stanza? Noi misuriamo la quantità
di luce presente. Giusto? L’oscurità è un termine usato dall’uomo per descrivere
ciò che accade quando la luce non è presente!”
Finalmente il giovane chiese al professore: “Signore, il male esiste?”
A questo punto,
titubante, il professore rispose: “Naturalmente, come ti ho già spiegato.
Noi lo vediamo ogni giorno. È nella crudeltà che ogni giorno si manifesta tra
gli uomini.
Risiede nella moltitudine di crimini e di atti violenti che avvengono ovunque
nel mondo.
Queste manifestazioni non sono altro che male!”
A questo punto lo studente replicò: “Il male non esiste, signore, o almeno non
esiste in quanto tale. Il male è semplicemente l’assenza di Dio. È proprio come
l’oscurità o il freddo, è una parola che l’uomo ha creato per descrivere
l’assenza di Dio. Dio non ha creato il male.
Il male è il risultato di ciò che succede quando l’uomo non ha l’amore di Dio
presente nel proprio cuore. È come il freddo che si manifesta quando non c’è
calore o l’oscurità che arriva quando non c’è luce!”
Il giovane fu applaudito da tutti in piedi e il professore, scuotendo la testa,
rimase in silenzio.
Il rettore dell’Università si diresse verso il giovane studente e gli domandò:
“Qual è il tuo nome?”
“Mi chiamo Albert Einstein, signore!” rispose il ragazzo.
6
IL PROFESSORE ED IL BARATTOLO DELLA VITA
Un giorno,
durante una lezione, un professore di filosofia, senza dire parola, prese un
barattolo grande e vuoto ed iniziò a riempirlo con delle palle da golf. Subito
dopo chiese agli studenti se il barattolo fosse pieno. Gli studenti furono
d’accordo nel rispondere di sì.
Allora il professore prese una scatola di palline di vetro e la versò dentro il
barattolo grande.
Le palline di vetro riempirono gli spazi vuoti tra le palle da golf. Il
professore chiese di nuovo agli studenti se il barattolo fosse pieno e loro
risposero nuovamente di sì. Udita la risposta, il professore iniziò a versare
dentro il barattolo della sabbia contenuta in un’altra scatola.
Ovviamente la sabbia riempì tutti gli spazi vuoti e il professore chiese ancora
se il barattolo fosse pieno. Gli studenti risposero con un sì unanime. Il
professore, velocemente, aggiunse due tazze di caffè al contenuto del barattolo
ed effettivamente riempì tutti gli spazi vuoti tra la sabbia. Gli studenti
risero fragorosamente.
Quando la
risata finì il professore disse: “Voglio che vi rendiate conto che questo
barattolo rappresenta la vita: le palle da golf sono le cose importanti come la
famiglia, i figli, l’amore, la fede, la salute, gli amici, le cose che ci
appassionano. Sono cose che, anche se perdessimo tutto e ci restassero solo
quelle, le nostre vite sarebbero ancora piene. Le palline di vetro sono le altre
cose che ci importano come il lavoro, la casa, la macchina, i soldi, etc.
La sabbia è tutto il resto: le piccole cose. Se prima di tutto mettessimo nel
barattolo la sabbia, non ci sarebbe posto né per le palle da golf né per le
palline di vetro.
La stessa cosa succede con la vita. Se utilizziamo tutto il nostro tempo ed
energie nelle cose piccole, non avremo mai spazio per le cose realmente
importanti.
Fate attenzione alle cose che sono cruciali per la vostra felicità: giocate con
i vostri figli, prendetevi il tempo per andare dal medico, andate con vostro/a
marito/moglie (o con il/la vostro/a fidanzato/a) a cena, praticate il vostro
sport o hobby preferito. Ci sarà sempre tempo per pulire la casa, per riparare
la chiavetta dell’acqua. Occupatevi prima delle palline da golf, delle cose
realmente importanti. Stabilite le vostre priorità, il resto è solo sabbia.”
Uno degli studenti alzò la mano e chiese cosa rappresentasse il caffè.
Il professore sorrise e disse: “Sono contento che tu mi faccia questa domanda.
È solo per dimostrarvi che non importa quanto occupata possa sembrare la tua
vita, ci sarà sempre posto e tempo per bere un paio di tazzine di caffè con una
persona cara.”
7
IL PROFESSORE ED IL CONTADINO
Un professore
universitario stanco del proprio lavoro intellettuale decise di passare le
vacanze in una fattoria. In cambio dell’alloggio, si accordò con il contadino
per eseguire qualche lavoro manuale. Il primo giorno il contadino chiese al
professore di svuotare il letame in fondo alla stalla e di spargerlo sul campo
dietro la fattoria.
Alla sera quando il contadino ritornò dai campi trovò con grande meraviglia il
lavoro già fatto.
Il secondo giorno il contadino chiese al professore di raccogliere e contare
tutte le balle di fieno presenti nel terreno. Alla fine della giornata quando il
contadino tornò dai campi trovò il lavoro perfettamente eseguito.
Il terzo giorno
il contadino, un po’ vergognandosi del lavoro pesante proposto al professore nei
giorni precedenti, gli chiese di fare un’attività più modesta: dividere le mele
grosse dalle mele piccole e scartare le mele marce.
Quando il contadino alla sera ritornò dai campi, con grande meraviglia, vide che
nulla era stato fatto. Trovò il professore con in mano una mela che disse: “È
piccola o grossa?”
8
IL PROFESSORE ED IL PESO DI UN BICCHIERE D’ACQUA
Un professore
della Facoltà di Psicologia fece il suo ingresso in aula, come ogni martedì.
Il corso fu uno dei più gremiti e decine di studenti parlarono del più e del
meno prima dell’inizio della lezione. Il professore arrivò con il classico
quarto d’ora accademico di ritardo. Tutto sembrò nella norma, ad eccezione di un
piccolo particolare: il professore teneva in mano un bicchiere d’acqua. Nessuno
notò questo dettaglio finché il professore, sempre con il bicchiere d’acqua in
mano, iniziò a girovagare tra i banchi dell’aula. In silenzio.
Gli studenti si scambiarono sguardi divertiti, ma non particolarmente sorpresi.
Sembrarono dirsi: “Eccoci qua, oggi la lezione riguarderà sicuramente
l’ottimismo. Il professore ci chiederà se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo
vuoto. Alcuni diranno che è mezzo pieno.
Altri diranno che è mezzo vuoto. Tutto così scontato!”
Il professore
invece si fermò e domandò ai suoi studenti: “Secondo voi quanto pesa questo
bicchiere d’acqua?”
Gli studenti sembrarono un po’ spiazzati da questa domanda, ma in molti
risposero: il bicchiere ha certamente un peso compreso tra i duecento e trecento
grammi. Il professore aspettò che tutti gli studenti avessero risposto e poi
propose il suo punto di vista: “Il peso assoluto del bicchiere d’acqua è
irrilevante. Ciò che conta davvero è per quanto tempo lo tenete sollevato!”
Felice di aver catturato l’attenzione dei suoi studenti, il professore continuò:
“Sollevatelo per un minuto e non avrete problemi. Sollevatelo per un’ora e vi
ritroverete un braccio dolorante.
Sollevatelo per un’intera giornata e vi ritroverete un braccio paralizzato!”
Gli studenti
continuarono ad ascoltare attentamente il loro professore di psicologia: “In
ognuno di questi tre casi il peso del bicchiere non è cambiato. Eppure, più il
tempo passa, più il bicchiere sembra diventare pesante. Lo stress e le
preoccupazioni sono come questo bicchiere d’acqua. Piccole o grandi che siano,
ciò che conta è quanto tempo dedichiamo loro.
Se gli dedichiamo il tempo minimo indispensabile, la nostra mente non ne
risente.
Se iniziamo a pensarci più volte durante la giornata, la nostra mente inizia ad
essere stanca e nervosa. Se pensiamo continuamente alle nostre preoccupazioni,
la nostra mente si paralizza.”
Il professore capì di avere la completa attenzione dei suoi studenti e decise di
concludere il suo ragionamento: “Per ritrovare la serenità dovete imparare a
lasciare andare stress e preoccupazioni. Dovete imparare a dedicare loro il
minor tempo possibile, focalizzando la vostra attenzione su ciò che volete e non
su ciò che non volete.
Dovete imparare a mettere giù il bicchiere d’acqua!”
9
IL PROFESSORE, DIO E L’ARANCIA
Un noto
professore ateo terminò la sua dotta conferenza, in cui aveva attaccato Gesù in
tutti i modi, con il classico: “Qualche domanda?”
Un “ex noto ubriacone” che si era convertito da poco, si alzò, e cominciò,
lentamente, a sbucciare un’arancia…
“Allora?” domandò il professore.
Quello continuò
imperturbabile e cominciò a mangiare uno spicchio dopo l’altro!
Infine, chiese al professore: “Era dolce o asprigna?”
“Come faccio, a saperlo? Non l’ho, mica, assaggiata!” replicò il professore.
“Così, con Gesù…
Come fai a
parlarne in questo modo se non lo hai mai incontrato?
È il principio più importante dell’educazione: nessuno guida un altro, dove non
è mai stato…” concluse l’ex ubriacone.
10
IL PROFUMO DENTRO DI NOI
Gli indù
raccontano una strana leggenda.
La leggenda del capriolo delle montagne. Tanti anni fa, c’era un capriolo che
sentiva continuamente nelle narici un fragrante profumo di muschio. Saliva le
verdi pendici dei monti e sentiva quel profumo stupendo, penetrante, dolcissimo.
Sfrecciava nella foresta, e quel profumo era nell’aria, tutt’intorno a lui. Il
capriolo non riusciva a capire da dove provenisse quel profumo che tanto lo
turbava. Era come il richiamo di un flauto a cui non si può resistere.
Perciò il capriolo prese a correre di bosco in bosco alla ricerca della fonte di
quello straordinario e conturbante profumo. Quella ricerca divenne la sua
ossessione. Il povero animale non badava più né a mangiare, né a bere, né a
dormire, né a nient’altro. Esso non sapeva donde venisse il richiamo del
profumo, ma si sentiva costretto a inseguirlo attraverso burroni, foreste e
colline, finché affamato, esausto, stanco morto, andò avanti a casaccio, scivolò
da una roccia e cadde, ferendosi mortalmente. Le sue ferite erano dolorose e
profonde.
Il capriolo si
leccò il petto sanguinante e, in quel momento, scoprì la cosa più incredibile.
Il profumo, quel profumo che lo aveva sconvolto, era proprio lì, attaccato al
suo corpo, nella speciale “sacca” porta muschio che hanno tutti i caprioli della
sua specie.
Il povero animale respirò profondamente il profumo, ma era troppo tardi.
11
“LA FIDUCIA IN DIO ED IL BUONSENSO”
Un giovane andò a far visita al maestro e gli disse: “Ho tanta confidenza in Dio che ho lasciato la mia moto lì fuori, perché sono sicuro che Dio protegge gli interessi di coloro che lo amano!”
Il maestro gli
rispose: “Esci subito e chiudi la tua moto!
Dio non può prendersi cura, al posto tuo, di ciò che sei capace di fare e che
devi fare con il buonsenso!”
12
“IL QUADRO CON FIORI E FARFALLE”
Un giorno un giovane andò da un maestro di spiritualità e chiese: “Con quale preghiera posso rivolgermi al Signore, affinché possa aiutarmi a fare della mia vita un capolavoro?”
Il vecchio
saggio annuì accennando un lieve sorriso e comprese che la domanda era sincera.
L’aiutò con un piccolo regalo. Si trattava di un quadro, in cui si potevano
contemplare fiori ed alcune belle farfalle. Sotto, un’iscrizione: “Signore,
aiutami a non essere come le farfalle: agile di ali, però senza mai piantar
radici in nessun luogo!”
Quel pensiero fu per il giovane l’inizio di una profonda e radicale conversione…
13
IL QUADRO “LA COSA PIÙ BELLA DEL MONDO”
Un celebre pittore, che aveva realizzato vari lavori di grande bellezza, si convinse che ancora gli mancava di dipingere la sua opera prima. Si incamminò alla ricerca di un’ispirazione o di un modello, e un giorno, in una strada polverosa, incontrò un anziano sacerdote che gli chiese dove era diretto. “Non so!” rispose il pittore, “Voglio dipingere la cosa più bella del mondo.
Forse lei può indicarmi dove posso trovarla.”
“È molto
semplice.” disse il sacerdote. “In qualsiasi chiesa o nella fede puoi trovare
quello che cerchi. La fede è la più bella cosa del mondo.”
Il pittore proseguì il suo viaggio e incontrò una giovane sposa. Le domandò se
sapesse quale fosse la cosa più bella del mondo.
“L’amore.” rispose la donna, “L’amore fa diventare ricchi i poveri, cura le
ferite, fa diventare molto il poco. Senza amore, non c’è bellezza.”
Il pittore
continuò ancora la sua ricerca. Un soldato esausto incrociò la sua strada, e
quando il pittore gli pose la stessa domanda, rispose: “La Pace è la più bella
cosa del mondo.
La guerra è la cosa più brutta. Dove si trova la pace, è sicuro che si troverà
anche la bellezza.”
Fede, Amore e Pace.
Come potrei dipingerle?
Pensò
tristemente l’artista. Scuotendo la testa scoraggiato, riprese la direzione di
casa.
Entrando nella sua casa, vide la cosa più bella del mondo: Negli occhi dei figli
c’era la Fede, l’Amore brillava nel sorriso della sua sposa. E qui, nel suo
focolare, c’era la Pace di cui gli aveva parlato il soldato. Il pittore realizzò
così il quadro “La cosa più bella del Mondo.”
E, una volta terminato, lo chiamò “La mia casa.”
14
IL RABBINO E L’ “AMICO” CRITICO
C’era un tempo un rabbino che la gente venerava come l’inviato di Dio. Non passava giorno senza che una folla di persone si assiepasse davanti alla sua porta in cerca di un consiglio o della sua guarigione e della benedizione del sant’uomo. E ogni volta che il rabbino parlava, la gente pendeva dalle sue labbra, facendo propria ogni parola che diceva.
Fra i presenti
c’era però un personaggio piuttosto antipatico, che non perdeva mai l’occasione
per contraddire il maestro.
Osservava le debolezze del rabbino e ne sbeffeggiava i difetti, con sgomento dei
suoi discepoli, che cominciarono a vedere in lui l’incarnazione del diavolo.
Un giorno però il “diavolo” si ammalò e morì. Tutti tirarono un sospiro di
sollievo.
Di fuori
apparivano compresi come si conveniva, ma nel loro cuore erano contenti perché
quell’eretico irriverente non avrebbe mai più interrotto i discorsi ispirati del
maestro e criticato il suo comportamento.
La gente fu quindi sorpresa di vedere al funerale il maestro genuinamente
affranto dal dolore.
Quando più tardi un discepolo gli chiese se fosse addolorato per la sorte del
morto, egli rispose:
“No, no. Perché dovrei compiangere il nostro amico che è ora in cielo?
E per me che sono triste. Quell’uomo era l’unico amico che avevo. Eccomi qui circondato da gente che mi venera. Lui era il solo che mi metteva alla prova; temo che senza di lui smetterò di crescere!” E mentre diceva queste parole, il maestro scoppiò in lacrime.
ANTHONY DE MELLO.
15
IL RABBINO ED IL TURISTA
Un giorno un turista fece visita ad un famoso rabbino. Rimase stupito nel vedere che la casa del rabbino consisteva soltanto in una stanza piena di libri. Gli unici mobili erano un tavolo e una panca.
“Rabbi, dove
sono i tuoi mobili?” chiese il turista.
“E i tuoi dove sono?” replicò il rabbino.
“I miei?
Ma io sono qui
solo di passaggio!” replicò il turista.
“Anche io!” disse il rabbino.
16
IL RAGAZZINO E LA BARCA A VELA
C’era una volta
un ragazzino che aveva costruito una barca a vela. Ne aveva scavato con cura lo
scafo nel legno, l’aveva smerigliato con estrema attenzione dipingendolo infine
con ogni possibile delicatezza, poi aveva ritagliato la vela dalla più candida
delle stoffe. Una volta terminato, non vedeva l’ora di varare la sua barchetta e
così la portò subito al lago.
Trovò uno spiazzo d’erba vicino alla riva e, inginocchiatosi, depose con cautela
il piccolo vascello sul pelo dell’acqua. Soffiò un pochino nella vela e si mise
ad aspettare.
Ma la barca non si muoveva e così il ragazzo soffiò più forte, finché il vento
colmò la piccola vela e la barchetta prese il largo.
“Si muove! Si muove!” gridava, battendo le mani e saltando sulla riva del lago.
All’improvviso
il ragazzo si fermò. Si era reso conto di non aver assicurato la barchetta con
uno spago. Vide la sua creatura spingersi sempre più lontano finché non sparì
del tutto dalla sua vista. Il ragazzino era felice e triste nello stesso tempo:
orgoglioso che la sua barca veleggiasse bene, ma triste di averla perduta. Corse
a casa in lacrime. Qualche tempo dopo, girovagando per il paese, per caso passò
davanti da una bottega che vendeva giocattoli vecchi e nuovi. E in vetrina c’era
la sua barca.
Era in estasi.
Corse dentro e
disse entusiasta al negoziante: “Quella è la mia barca. La mia.”
L’uomo squadrò il ragazzino e rispose: “Ti sbagli. L’ho comprata. Adesso è in
vendita!”
“Ma è la mia barca!” gridò il piccolo, “L’ho fatta io. L’ho varata e poi l’ho
persa. È mia!”
“Ti sbagli!” ripeté il negoziante, “Se la vuoi te la devi comperare.”
“Quanto costa?” chiese il ragazzo.
Quando ebbe sentito il prezzo ebbe un tuffo al cuore. Nella sua piccola
cassaforte, a casa, c’era soltanto qualche spicciolo. A capo chino se ne uscì
dal negozio.
Ma il ragazzino era un tipo deciso. Tornato a casa, andò nella sua stanza e
contò i suoi averi fino all’ultima monetina per scoprire quanto denaro gli
mancava per potersi ricomprare la sua preziosa barca. Fece qualche lavoretto e
risparmiò: adesso aveva i soldi. Corse di nuovo al negozio, sperando che la
barca fosse ancora lì. Sorrise: eccola in mezzo alla vetrina al solito posto.
Entrò nel negozio, rovesciò le tasche e depose tutto il suo denaro vicino alla
cassa.
“Voglio comprare la mia barca!” esclamò.
Il negoziante prese la barca dalla vetrina e la mise nelle mani del ragazzino,
eccitatissimo.
Il piccolo strinse la barchetta al petto e corse a casa dicendosi pieno di
orgoglio:
“Tu sei la mia barca. La mia! Sei due volte mia!
Mia perché ti ho fatto, e mia perché ti ho riconquistato!”
17
IL RAGAZZO, LA CESTA E L’ACQUA
C’era una volta
un ragazzo che viveva con suo nonno in una fattoria. Ogni mattina il nonno, che
era cristiano, si alzava presto e dedicava del tempo a leggere le Scritture.
Il nipote cercava di imitarlo in qualche modo, ma un giorno chiese: “Nonno, io
cerco di leggere la Bibbia ma anche le poche volte che riesco a capirci
qualcosa, la dimentico quasi subito.
Allora a cosa serve? Tanto vale che non la legga più!”
Il nonno
terminò tranquillamente di mettere nella stufa il carbone che stava in una
cesta, poi disse al nipote: “Vai al fiume, e portami una cesta d’acqua!”
Il ragazzo andò, ma ovviamente quando tornò non era rimasta acqua nella cesta.
Il nonno ridacchiò e disse: “Beh, devi essere un po’ più rapido. Dai riprova,
muoviti, torna al fiume e prendi l’acqua!”
Anche questo
secondo tentativo, naturalmente, fallì. Il nipote, senza fiato, si lamentò
dicendo che era una cosa impossibile, e si mise a cercare un secchio. Ma il
nonno insistette: “Non ti ho chiesto un secchio d’acqua, ma una cesta d’acqua.
Torna al fiume!”
A quel punto il giovane sapeva che non ce l’avrebbe fatta, ma andò ugualmente
per dimostrare all’anziano nonno che era inutile. Per quanto fosse svelto
l’acqua filtrava dai buchi della cesta.
Così tornò al
fiume e portò la cesta vuota al nonno, dicendo: “Vedi? Non serve a niente!”
“Sei sicuro?” disse il nonno, “Guarda un po’ la cesta!”
Il ragazzo guardò con attenzione: la cesta, che prima era tutta nera di carbone,
adesso era perfettamente pulita!
18
IL RAMO E LO GNOMO
C’era una volta un giovane ramo di un grande albero. Era nato in primavera, tra il tepore dell’aria e il canto degli uccelli. In mezzo all’aria, alle lunghe giornate estive, al sole caldo, alle notti frizzanti, trascorse i suoi primi mesi di vita. Era felice: aveva foglie bellissime e, poi, erano sopraggiunti fiori colorati a adornarlo e, dopo ancora, grandi frutti succosi di cui tutti gli uccelli del cielo potevano nutrirsi. Ma un giorno cominciò a sentirsi stanco: era arrivato l’autunno… i frutti si staccarono, le foglie cominciarono a cambiare colore, divenivano sempre più pallide.
Addirittura, di
tanto in tanto, il vento se ne portava via qualcuna. Con l’inverno venne la
pioggia, e poi l’aria fredda, e il ramo si sentiva sempre peggio; non capiva
cosa stesse succedendo. In pochi giorni e in poche notti si trovò spoglio,
infreddolito, completamente solo.
Rimase così qualche tempo, fin quando non capì che non poteva far altro che
mettersi a cercare i suoi fiori, le sue foglie, i suoi frutti per poter di nuovo
stare insieme a loro.
“Devo darmi da fare!” disse risoluto tra sé e sé. Cominciò, allora, a chiedere
aiuto a tutti i suoi amici. Si rivolse dapprima al mattino:
“Sono solo e infreddolito, ho perso tutte le mie foglie, sai dove le posso
trovare?”
Il mattino
rispose: “Ci sono alberi che ne hanno tante, prova a chiedere a loro!”
Si rivolse a quegli alberi: “Sono solo e infreddolito, ho perso tutte le mie
foglie, sapete dirmi dove le posso trovare?”
Gli alberi risposero: “Noi le abbiamo sempre avute, prova a chiedere agli alberi
uguali a te!”
Si rivolse ai rami spogli come lui. “Abbiamo tanto freddo anche noi, non
sappiamo cosa dirti!” gli risposero.
Queste parole lo fecero sentire meno solo. Si disse che, se avesse ritrovato le
foglie, sarebbe subito corso dai suoi simili a rivelare il luogo in cui si
trovavano. Continuò la sua ricerca e chiese al vento. “Io le foglie le porto
solo via, è la pioggia che le fa crescere.” disse il vento a gran voce.
Si rivolse alla
pioggia. “Le farò crescere a suo tempo.” gli disse la pioggia tintinnando.
Si rivolse allora al tempo.
“Io so tante cose,” gli disse con voce profonda, “il tempo aggiusta tutto, non
ti preoccupare: occorrono tanti giorni e tante notti!”
Si rivolse alla notte, ma la notte tacque e lo invitò a riposare. Si sentiva
infatti molto stanco.
Quel ramo così spoglio e indebolito dal freddo e dal proprio silenzio fu capito
da uno gnomo, che comprese anche il suo dolore.
Allora il ramo parlò ancora e disse: “Mi è sembrato di chiudere gli occhi, e,
dopo averli riaperti, non ho più trovato le mie foglie, non sono stato più
capace di vederle!”
Lo gnomo pensò a lungo, poi capì: si tolse gli occhiali e li posò sul naso del
ramo, spiegandogli che erano occhiali magici che servivano per guardare dentro
di sé.
Il ramo, allora, aprì bene gli occhi e… meraviglia… vide che dentro di sé
qualcosa si muoveva, sentiva un rumore, vedeva qualcosa circolare, provò ad
ascoltare, guardò a fondo:
era linfa, linfa viva che si muoveva in lui. Incredulo, disse allo gnomo ciò che
vedeva.
Lo gnomo gli
spiegò che le foglie, i fiori e i frutti nascono grazie alla linfa oltre che al
caldo sole, all’aria di primavera e alla pioggia. “Se hai linfa dentro di te,
hai tutto!” gli disse, “non occorre chiedere più nulla a nessuno, ma insieme
all’acqua, alla luce, all’aria, agli altri rami, le foglie rinasceranno: le hai
già dentro!”
Il ramo, immediatamente, si sentì più forte, rinvigorì: aveva la linfa in sé,
non doveva più chiedere consigli, gli bastava lasciar vivere la linfa che
circolava in lui. La linfa da cui, un giorno, sarebbero rinate le amiche foglie.
La sofferenza
dell’albero è la nostra sofferenza, quando non comprendiamo il perché delle cose
che ci accadono. Una parola amica, un suggerimento, un consiglio, una frase
possono ridarci la carica per tornare a vivere ed affrontare la vita.
In fondo l’uomo è così ricco di energie, di capacità, di creatività, sa come
andare alla scoperta dei propri talenti per sfruttarli al meglio per sé e per
gli altri.
19
IL RANOCCHIO VINCITORE
Ci fu una volta
una gara… di ranocchi. L’obiettivo era arrivare in cima a una gran torre.
Richiamata dall’insolito spettacolo, si radunò molta gente per vedere e fare il
tifo.
Cominciò la gara, ma in realtà, la gente probabilmente non credeva possibile che
i ranocchi raggiungessero la cima, e tutto quello che si ascoltava erano frasi
del tipo:
“Ma che pena!
Non ce la faranno mai!”
E così alcuni ranocchi, che percepirono questi commenti, cominciarono a
desistere, sfiduciati, tranne uno, che continuava a cercare di raggiungere la
cima. Ma la gente continuava:
“Che pena! Non
ce la faranno mai!”
Senonché molti ranocchi si diedero per vinti tranne il solito ranocchio testardo
che continuava ad insistere. Alla fine, tutti desistettero tranne quel ranocchio
testardo, che, solo e con grande sforzo, raggiunse alla fine, la cima.
Quindi, com’è naturale che fosse, gli altri vollero sapere come avesse fatto e uno degli altri ranocchi più curiosi si avvicinò per chiedergli come avesse fatto a concludere quella difficile prova. Non ottenne risposta. E così si scoprì che quel ranocchio vincitore… era sordo!
20
IL RASOIO PIGRO
Nella bottega di un barbiere, c’era una volta un bel rasoio. Trovatosi da solo, un giorno, pensò di dare un’occhiata in giro, e tirò fuori la sua lama, che riposava nel manico come in una guaina. Come vide il sole specchiarsi nel suo corpo, rimase meravigliato: la lama d’acciaio mandava tali bagliori da farlo montare in boria. “E io dovrei tornare in quella squallida bottega,” pensò il rasoio, “a tagliare le barbe insaponate di quei rustici villani, ripetendo all’infinito le stesse monotone operazioni! Avvilire in questo modo il mio corpo così bello, sarebbe una pazzia. Meglio andarmi a nascondere in qualche posto ben segreto, e godermi in tranquillità il resto dei miei giorni!” Così dicendo si cercò un nascondiglio, e per molti mesi non si lasciò più trovare. Senonché, venne pur il giorno in cui, volendo prendere un po’ d’aria, il rasoio lasciò il suo rifugio e, uscito cautamente fuori dal manico, tornò a guardare il proprio corpo. Ahimè! Cos’era mai successo? La lama, divenuta scura come una sega arrugginita, non rispecchiava più lo splendore del sole. Amareggiato e pentito, pianse invano il suo stupido errore: “Oh, quanto sarebbe stato meglio tenere in esercizio la mia bella lama affilata! La mia superficie sarebbe rimasta luccicante, il mio taglio netto e sottile! Invece, eccomi qua, corroso e incrostato per sempre dalla ruggine!”
La stessa fine è riservata alle persone d’ingegno che invece di esercitare le loro qualità, preferiscono rimanere oziose. Proprio come il rasoio, anch’esse perdono la sottigliezza e la luce dello spirito, e rimangono corrose dalla ruggine dell’ignoranza. LEONARDO DA VINCI
21
IL RE E GLI INDOVINELLI
Un re polacco
adorava gli indovinelli. Per lui erano la massima forma di saggezza.
Un giorno, camminando con il primo ministro lungo il fiume, vide un povero
contadino che lavava i panni nell’acqua gelata.
Allora il re chiese al contadino: “Cos’è di più, cinque o sette?»”
E il contadino rispose: “Cos’è di più, trentadue o dodici?”
Il re sorrise e gli domandò ancora: “In casa tua hai avuto un incendio?”
Il contadino
rispose: “Sì. Ce ne sono stati cinque e ne aspetto altri due!”
Il re scosse la testa e continuò: “Se ti mando un pollo, lo saprai spennare?”
Il contadino gli rispose: “Mandalo e vedrai!”
Il re e il primo ministro si allontanarono e il re domandò al primo ministro se
avesse capito di cosa stessero parlando.
“Sire, non ho capito nulla. Come avrei potuto? Avete parlato per enigmi!”
esclamò il primo ministro.
Il re sembrò scontento: “Ma come? Tu sei il mio primo ministro. Dovresti essere
il più saggio del reame e un semplice contadino mi ha capito meglio di te?
Ti do tempo tre giorni per indovinare cosa ci siamo detti. Se non ci riuscirai,
sarò costretto a cacciarti!” Il primo ministro, disperato, convocò tutti i suoi
consiglieri, ma nessuno riusciva a risolvere quegli enigmi. Allora il primo
ministro fece chiamare il contadino.
“Racconta,” gli
ordinò, “cosa vi siete detti col re?”
Il contadino rispose: “Lo farò, ma è una faccenda delicata, per cui voglio mille
ducati!”
“È una vergogna! Un furto!” esclamò il primo ministro, “Mille ducati per tre
risposte?”
Il contadino fece per andarsene, ma il primo ministro lo trattenne.
“Va bene!” disse e gli consegnò il denaro, “Ed ora spiegami!”
Il contadino, con molta calma, cominciò: “Io stavo lavando i panni nel fiume
ghiacciato.
Vedendomi, il re mi ha chiesto se non mi bastassero i sette mesi caldi e dovevo
lavare anche d’inverno. Io gli ho risposto che i miei trentadue denti mangiano
più di quel che riesco a guadagnare in dodici mesi.
Poi il re mi ha chiesto degli incendi, cioè se in casa mia avevo avuto dei
matrimoni, perché per organizzare un matrimonio si spende ogni risparmio e si
resta senza niente, come dopo un incendio. E io gli ho risposto che avevo
sposato cinque figlie e me ne restavano altre due.
Infine, il re
mi ha chiesto: “Se ti mando un pollo, lo saprai spennare?”
ed io ho risposto: “Mandalo e vedrai!” Ecco: indovini adesso chi è il pollo?
Giudica tu se l’ho spennato per bene… E, soprattutto, non mancare di riferirlo
al re, che saprà apprezzare i dettagli!”
22
IL RE E I DUE FALCHI
Una volta un re
ricevette in regalo due piccoli falchi e li consegnò al maestro falconiere per
la loro formazione. Dopo pochi mesi, l’istruttore disse al re che uno dei falchi
era stato educato perfettamente, ma non sapeva cosa stesse accadendo all’altro.
Da quando era arrivato al palazzo non si era mosso dal ramo su cui stava al
punto che gli doveva portare il cibo.
Il re convocò guaritori e maghi ma nessuno riuscì a fare volare il piccolo
falco.
Quindi emise un editto tra i suoi sudditi e, la mattina seguente, vide sorpreso
il piccolo falco che volava nei suoi giardini. “Portatemi il responsabile di
questo miracolo!” disse il re.
Davanti al re comparve un contadino, e il re gli chiese: “Come sei riuscito a
far volare il falco?
Cosa sei, un mago?”
“Non è stato difficile mio signore!” spiegò l’uomo, “Ho semplicemente tagliato il ramo su cui stava. Solo allora l’uccello si reso conto che aveva le ali e ha spiccato il volo.”
23
IL RE ED IL FALCO
Un re, che
andava a caccia, arrivò assetato ai piedi di una rupe da cui filtrava, a gocce,
un po’ d’acqua. Scese da cavallo e staccò dalla sella una coppa d’oro gemmata.
Voleva bere.
Sul braccio che teneva la coppa stava appollaiato un bel falco: il preferito del
re.
Adagio adagio la coppa si riempì; ma quando il re l’avvicinò avidamente alle labbra, il falco scattò, come per lanciarsi in volo, e procurò al braccio che lo sosteneva una tale scossa che l’acqua si rovesciò… Il re dopo aver accarezzato il falco prediletto, ritornò a raccogliere l’acqua a goccia a goccia; ma quando avvicinò di nuovo la coppa alle labbra, il falco dette uno strido, batté le ali, e il re sobbalzando, rovesciò nuovamente il liquido che aveva raccolto con tanta pazienza. Fece un atto più di dispetto che di rammarico. Pure si contenne, e iniziò la raccolta dell’acqua per la terza volta. Ma quando, per la terza volta, avvicinò la coppa alle labbra, il gioco del falco si ripeté. L’acqua si versò.
Allora il re
proruppe in un gesto d’ira furioso. Afferrò il falco e lo scaraventò contro la
roccia.
Il volatile cadde morto con le ali aperte, come fosse ancora in volo.
Intanto la gocciolina, che filtrava lenta dalla rupe, aveva smesso di scorrere.
E il re, ora con la rabbia ora con il dispiacere nel cuore, aveva più sete che
mai. Mandò i servi a vedere se sopra la roccia si trovava la polla che dava
acqua alla sorgente. La trovarono, ma si fermarono inorriditi: era uno stagno in
cui galleggiavano i cadaveri putrefatti di parecchi animali.
Certamente quell’acqua, bevuta, avrebbe avvelenato il re.
Disse uno dei
servi al ritorno: “Sire, se tu avessi bevuto quell’acqua saresti morto!”
Il re guardò il falco che gli giaceva ai piedi e chinò la testa. Umilmente
chiese perdono al fedele amico che si era sacrificato per lui e inutilmente
rimpianse il suo impulsivo gesto d’ira.
24
IL RE ED IL PRINCIPE
Un giorno, un re, per punire suo figlio, lo mandò in esilio in un paese lontano. Il principe soffrì la fame e il freddo, perse la speranza di ottenere il perdono reale.
Passarono gli anni. Un giorno, il re inviò al figlio un ambasciatore con l’ordine di esaudire tutti i suoi desideri, tutte le sue aspirazioni. L’ambasciatore lo disse al principe, che lo guardò stupito e rispose soltanto: “Dammi un pezzo di pane e un cappotto caldo!”
Aveva completamente dimenticato che era un principe e che poteva ritornare nel palazzo di suo padre a vivere da re.
25
IL REGALO PER FABRIZIO
“Devo fare qualcos’altro?” chiese la segretaria. L’occupatissimo direttore sbirciò l’orologio e l’agenda: “Dovremmo già essere fuori da un po’. Non si combina più niente ormai!”
La segretaria
sorrise: “Veramente c’è ancora la lista dei regali di Natale di suo figlio.
Non dimentichi che fra tre giorni è Natale!”
“Meno male che almeno lei ci ha pensato!” esclamò il direttore.
L’indaffaratissimo direttore sospirò: “Temo che il mio povero bambino sia un po’
arrabbiato con me. E forse ha ragione. Ho così poco tempo da dedicare alla mia
famiglia. Quando arrivo a casa alla sera, il bambino è già a letto. Non ci
parliamo quasi mai. Ah! Ma almeno a Natale, voglio che abbia un bellissimo
regalo! Solo che non ho tempo… Facciamo così: me lo compri lei. Non badi a
spese. Legga la lettera e compri tutto quello che il bambino vuole.”
La segretaria aprì la lettera e sorridendo scosse il capo: “Eseguo sempre i suoi
ordini, ma questa volta mi è proprio impossibile!”
“Perché no? Possibile che ci sia qualcosa che non si può procurare oggi a un
bambino di otto anni? Che cosa avrà mai desiderato? Mi faccia vedere,
accidenti!” disse il direttore.
Senza parlare la segretaria tese al direttore la letterina del figlio.
L’uomo lesse: “Caro papà, come regalo di Natale vorrei che tu per il prossimo anno tenessi da parte tutti i giorni (o quasi) mezz’ora di tempo per me. Nient’altro. Tuo figlio Fabrizio.”
26
IL RIPOSINO
Un discepolo del maestro Soyen Shaku racconta che, quando erano bambini, il loro maestro era solito fare sempre un riposino dopo pranzo. Al risveglio i bambini gli chiedevano perché lo facesse e lui rispondeva: “Vado nel mondo dei sogni a trovare i vecchi saggi, come faceva Confucio!”
Si narra
infatti che Confucio sognasse gli antichi saggi prima di parlare ai suoi
discepoli.
Un giorno, racconta il discepolo, c’era un caldo terribile e alcuni dei bambini
si appisolarono.
Il maestro al
risveglio li sgridò ed uno di loro rispose così: “Siamo andati nel mondo dei
sogni a trovare gli antichi saggi proprio come faceva Confucio!”
Allora il maestro li interrogò: “E che cosa vi hanno detto quei saggi?”
Uno dei piccoli discepoli rispose: “Siamo andati nel mondo dei sogni, abbiamo incontrato i saggi e domandato se il nostro maestro andava là tutti i pomeriggi, ma loro ci hanno detto di non averlo mai visto!” STORIA ZEN
27
IL RITRATTO DEL RE
Un giorno il
Gran Re di Persia bandì un concorso fra tutti gli artisti del suo vasto impero.
Una somma enorme sarebbe andata in premio a chi fosse riuscito a fare il
ritratto più somigliante del Re. Giunse per primo Manday l’indù, con
meravigliosi colori di cui lui solo conosceva il segreto; quindi, Aznavour
l’armeno, portando una creta speciale; poi Wokiti l’egiziano, con scalpelli e
ceselli mai visti e bellissimi blocchi di marmo. Infine, per ultimo, si presentò
Stratos il greco, munito soltanto di un sacchetto di polvere. I dignitari di
corte si mostrarono indispettiti per l’esiguità del materiale portato da Stratos
il greco.
Gli altri artisti sogghignavano: “Che cosa può fare il greco con quel misero
sacchetto di polvere?”
Tutti i partecipanti al concorso furono rinchiusi per varie settimane nelle sale
del palazzo reale.
Una sala per
ogni artista. Nel giorno stabilito, il Re cominciò a esaminare le opere degli
artisti.
Ammirò i meravigliosi dipinti dell’indù, i modelli in creta colorata dell’armeno
e le statue dell’egiziano. Poi entrò nella sala riservata a Stratos il greco.
Sembrava che non avesse fatto niente: con la sua polvere minuta, si era limitato
a smerigliare, levigare e lucidare la parete di marmo della sala. Quando il Re
entrò poté contemplare la sua immagine perfettamente riflessa. Naturalmente,
Stratos vinse il concorso. Solo uno specchio poteva soddisfare pienamente il Re.
28
IL SAGGIO E LA VERITÀ
Una volta, un imperatore sognò di aver perso tutti i denti. Si svegliò spaventato e fece chiamare un saggio in grado di interpretare il suo sogno. “Signore, che disgrazia!” esclamò il saggio. “Ciascuno dei denti caduti rappresenta la perdita di un familiare caro a Vostra Maestà.”
“Ma che
insolente!” gridò l’imperatore. “Come si permette di dire tale fesseria?”
Chiamò le guardie ordinando loro di frustarlo.
Chiese in seguito che cercassero un altro saggio. L’altro saggio arrivò e disse:
“Signore, vi attende una grande felicità! Il sogno rivela che lei vivrà più a
lungo di tutti i suoi parenti.”
Il volto dell’imperatore si illuminò. Chiese che venissero consegnate cento monete d’oro a quel saggio. Quando costui lasciò il palazzo, un suddito domandò: “Com’è possibile? L’interpretazione data da lei fu la stessa del suo collega. Tuttavia, lui prese delle frustate mentre lei ebbe delle monete d’oro!” “Mio amico.” rispose il saggio “Tutto dipende da come si vedono le cose…
Questa è la
grande sfida dell’umanità. Da ciò deriva la felicità o l’infelicità, la pace o
la guerra.
La verità va sempre detta, non c’è alcun dubbio, ma il modo come la si dice…
È quello che fa la differenza. La verità deve essere comparata ad una pietra
preziosa. Se la rinfacciamo a qualcuno, può ferire, provocando rivolta. Ma se
l’avvolgiamo in una delicata confezione e la offriamo con tenerezza, sarà
sicuramente accettata con più felicità.”
29
IL SAGGIO EREMITA E LA FORMICA NEL SECCHIO D’ACQUA
C’era una volta
un saggio maestro eremita che accoglieva alla sua scuola tutti i giovani
generosi e pieni di ideali che volevano apprendere la vera saggezza. Per
conoscere la loro indole più intima aveva ideato un curioso espediente.
Davanti all’alloggio di ogni allievo il maestro aveva collocato un piccolo
secchio d’acqua piovana in cui aveva fatto cadere una formica. Un bel dì,
arrivarono tre allievi. Il primo guardò nel suo secchio, vide la formica e le
disse: “Cosa ci fai nel mio secchio d’acqua piovana? “La schiacciò e la rimosse.
Egoismo. Poi arrivò il secondo. Guardò nel secchio, vide la formica, e le parlò
così: “Sai, è molto caldo anche per le formiche. Tu non fai nessun danno, resta
pure nel secchio”. Tolleranza.
Arrivò il terzo
allievo, il quale e non pensò a comportarsi con tolleranza, né con egoismo.
Vide la formica nel secchio e, spontaneamente, le diede un po’ di zucchero.
Questo è Amore.
30
IL SAGGIO, I CONSIGLI E LA BARZELLETTA
Si narra che in
un regno antico vivesse un uomo conosciuto ovunque per la sua saggezza.
All’inizio egli dava consigli solo ai suoi familiari e agli amici più cari. La
sua fama, tuttavia, crebbe a tal punto che lo stesso sovrano iniziò a chiamarlo
spesso al suo cospetto per chiedergli consiglio. Ogni giorno giungevano molte
persone per ricevere i suoi preziosi consigli.
Tuttavia, il saggio notò che varie persone si recavano ogni settimana e gli
raccontavano sempre gli stessi problemi, quindi ricevevano sempre lo stesso
consiglio, ma non lo mettevano in pratica. Era un circolo vizioso. Un giorno il
saggio riunì tutte quelle persone che chiedevano spesso consiglio. Allora
raccontò loro una barzelletta molto divertente, tanto che quasi tutti
scoppiarono a ridere. Dopo aver aspettato un po’, raccontò di nuovo la stessa
barzelletta. Continuò a raccontarla per tre ore. Alla fine, erano tutti sfiniti.
Dunque, il saggio disse loro: “Perché non potete ridere tante volte della stessa barzelletta ma potete piangere migliaia di volte per lo stesso problema?” STORIA ZEN
31
IL SAGGIO MAESTRO ED IL PROFESSORE
Un saggio maestro giapponese, noto per la saggezza delle sue dottrine, ricevette la visita di un dotto professore di università, che era andato da lui per interrogarlo sul suo pensiero.
Il saggio
maestro, secondo l’usanza, prima di tutto servì il the: cominciò a versarlo,
colmando la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare tranquillamente, con
una espressione serena e sorridente. Il professore guardava il the traboccare,
ed era talmente stupito, da non riuscire a chiedere spiegazione di una
distrazione così contraria alla norme della buona educazione. Ad un certo punto
non riuscì più a contenersi ed esclamò spazientito: “È ricolma! Non ce ne sta
più!”
“Come questa tazza,” disse il saggio imperturbabile, “tu sei ricolmo della tua
cultura, delle tue sicurezze, delle tue congetture erudite e complesse. Ed
allora, come posso parlarti della mia dottrina, che è comprensibile solo alle
anime semplici e aperte, se prima non vuoti la tua tazza?” STORIA ZEN.