MAGGIO
1
IL CALORE DELLA LEGNA
C’era una volta
un medico che ebbe in eredità una fattoria ed un pezzo di terreno in cui vi era
un fitto bosco. Il medico era molto contento per la fattoria, ma un po’ meno per
il fitto bosco perché non poteva coltivarlo. Tuttavia, dopo essere andato in
pensione e dopo aver sistemato tutte le sue cose in città, andò ad abitare nella
fattoria. Durante l’estate andò tutto bene, quel luogo si presentava
incantevole, un angolo di paradiso. I problemi, però, giunsero durante
l’inverno. Quel luogo divenne impervio e pericoloso per i lupi, ma soprattutto
per il grande freddo. Un giorno, facendo un giro per le fattorie della zona, si
rese conto che la gente si era ammalata per il gran freddo. Essendo un medico,
cercò di curare tutti con delle medicine ma, a distanza di una settimana, le
cose sembravano peggiorare. Sicché, non sapendo più cosa fare, decise di
tagliare un po’ di legna dal suo fitto bosco e di distribuirla per le fattorie
perché potessero almeno riscaldarsi.
Il giorno successivo, nel suo consueto giro, il medico notò dei miglioramenti e
capì che quella gente, più delle medicine, aveva bisogno di calore. Fu così che
tornò nel bosco a tagliare altra legna per tutti. Grazie a quel bosco che
sembrava così inutile, ma che d’inverno era l’unico rimedio per sopravvivere,
tutta la gente del luogo guarì. Da quel giorno ognuno si preoccupò che il vicino
di casa avesse sempre un po’ di legna per riscaldarsi. BRUNO FERRERO.
2
IL CANE ALLO SPECCHIO
Vagabondando qua e là, un grosso cane finì in una stanza in cui le pareti erano dei grandi specchi. Così si vide improvvisamente circondato da cani. Si infuriò, cominciò a digrignare i denti e a ringhiare. Tutti i cani delle pareti, naturalmente, fecero altrettanto, scoprendo le loro minacciose zanne. Il cane cominciò a girare vorticosamente su sé stesso per difendersi contro gli attaccanti, poi abbaiando rabbiosamente si scagliò contro uno dei suoi presunti assalitori.
Finì a terra
tramortito e sanguinante per il tremendo urto contro lo specchio.
Avesse scodinzolato in modo amichevole una sola volta, tutti i cani degli
specchi l’avrebbero ricambiato. E sarebbe stato un incontro festoso.
BRUNO FERRERO
3
IL CAPPELLINO
“Se non me lo
lasci fare non potrò andare a scuola! Mi vergognerei troppo… È terribilmente
importante, mamma!”
Elena scoppiò a piangere. Era la sua arma più efficace.
“Uffa, fa’ come vuoi…” brontolò la madre, sbattendo il cucchiaino nel lavello,
“Sembrerai un mostro. Peggio per te!”
In altre 23 famiglie stava avvenendo una scenetta più o meno simile. Erano i
ragazzi della Seconda B della Scuola Media “Carlo Alberto di Savoia.”
Per quel giorno avevano preso una decisione importante.
Ma gli allievi
della Seconda B erano 25. In effetti, solo nella venticinquesima famiglia, le
cose stavano andando in un modo diverso. Elisabetta era un concentrato di
apprensione, la mamma e il papà cercavano di incoraggiarla. Era la quindicesima
volta che la ragazzina correva a guardarsi allo specchio.
“Mi prenderanno in giro, lo so. Pensa a Marisa che non mi sopporta o a Paolo che
mi chiama canna da pesca! Non aspetteranno altro!”
Grossi lacrimoni salati ricominciarono a scorrere sulle guance della ragazzina.
Cercò di sistemarsi il cappellino sportivo che le stava un po’ largo. Il papà la
guardò con la sua aria tranquilla: “Coraggio Elisabetta. Ti ricresceranno
presto. Stai reagendo molto bene alla cura e fra qualche mese starai benissimo!”
“Sì, ma guarda!” Elisabetta indicò con aria affranta la sua testa che si
rifletteva nello specchio, lucida e rosea. La cura contro il tumore che l’aveva
colpita due mesi prima le aveva fatto cadere tutti i capelli. La mamma la
abbracciò: “Forza Elisabetta! Si abitueranno presto, vedrai…”
Elisabetta tirò su con il naso, si infilò il cappellino, prese lo zainetto e si
avviò. Davanti alla porta della Seconda B, il cuore le martellava forte. Chiuse
gli occhi ed entrò. Quando riaprì gli occhi per cercare il suo banco, vide
qualcosa di strano. Tutti, ma proprio tutti, i suoi compagni avevano un
cappellino in testa! Si voltarono verso di lei e sorridendo si tolsero il
cappello esclamando: “Bentornata Elisabetta!”
Erano tutti rasati a zero, anche Marisa così fiera dei suoi riccioli, anche
Paolo, anche Elena e Giangi e Francesca…
Tutti! Ma proprio tutti! Si alzarono e abbracciarono Elisabetta che non sapeva
se piangere o ridere e mormorava soltanto: “Grazie…”
Dalla cattedra, sorrideva anche il professor Donati, che non si era rasato i
capelli, semplicemente perché era pelato di suo e aveva la testa come una palla
da biliardo.
BRUNO FERRERO
4
IL CARDELLINO E LO SPAVENTAPASSERI
Una volta un
cardellino fu ferito a un’ala da un cacciatore. Per qualche tempo riuscì a
sopravvivere con quello che trovava per terra. Poi, terribile e gelido, arrivò
l’inverno.
Un freddo mattino, cercando qualcosa da mettere nel becco, il cardellino si posò
su uno spaventapasseri. Era uno spaventapasseri molto distinto, grande amico di
gazze, cornacchie e volatili vari. Aveva il corpo di paglia infagottato in un
vecchio abito da cerimonia; la testa era una grossa zucca arancione; i denti
erano fatti con granelli di mais; per naso aveva una carota e due noci per
occhi.
“Che ti capita, cardellino?” chiese lo spaventapasseri, gentile come sempre.
“Va male!” sospirò il cardellino, “Il freddo mi sta uccidendo e non ho un
rifugio. Per non parlare del cibo. Penso che non rivedrò la primavera.”
“Non aver
paura. Rifugiati qui sotto la giacca. La mia paglia è asciutta e calda!” rispose
lo spaventapasseri. Così il cardellino trovò una casa nel cuore di paglia dello
spaventapasseri.
Restava il problema del cibo. Era sempre più difficile per il cardellino trovare
bacche o semi.
Un giorno in cui tutto rabbrividiva sotto il velo gelido della brina, lo
spaventapasseri disse dolcemente al cardellino: “Cardellino, mangia i miei
denti: sono ottimi granelli di mais.”
“Ma tu resterai senza bocca!” replicò il cardellino.
“Sembrerò molto
più saggio.” affermò lo spaventapasseri.
Lo spaventapasseri rimase senza bocca, ma era contento che il suo piccolo amico
vivesse. E gli sorrideva con gli occhi di noce. Dopo qualche giorno, fu la volta
del naso di carota. “Mangialo. È ricco di vitamine!” diceva lo spaventapasseri
al cardellino.
Toccò poi alle noci che servivano da occhi. “Mi basteranno i tuoi racconti!”
diceva lui. Infine, lo spaventapasseri offrì al cardellino anche la zucca che
gli faceva da testa.
Quando arrivò la primavera, lo spaventapasseri non c’era più. Ma il cardellino
era vivo e spiccò il volo nel cielo azzurro.
BRUNO FERRERO
5
IL CLOWN
Nello studio di
un celebre psichiatra si presentò un giorno un uomo apparentemente ben
equilibrato, serio ed elegante.
Dopo alcune frasi, però, il medico scoprì che quell’uomo era intimamente
abbattuto da un profondo senso di malinconia e da una tristezza continua e
assillante.
Il medico iniziò con grande coscienziosità il suo lavoro terapeutico e, al
termine del colloquio, disse al suo nuovo paziente: “Perché questa sera non va
al circo che è appena arrivato nella nostra città? Nello spettacolo si esibisce
un famosissimo clown che ha fatto ridere e divertire mezzo mondo: tutti parlano
di lui, perché è unico. Le farà bene, vedrà!”
Allora quell’uomo scoppiò in lacrime, dicendo: “Quel clown sono io!” BRUNO FERRERO.
6
IL CLUB DEL NOVANTANOVE
C’era una volta
un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un
grande sorriso sul volto. “Paggio,” gli chiese un giorno il re, “qual è il
segreto della tua allegria?”
“Non ho nessun segreto. Signore, non ho motivo di essere triste. Sono felice di
servirvi. Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata
dalla corte. Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto.”
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri: “Voglio il segreto della
felicità del paggio!”
“Non puoi capire il segreto della sua felicità. Ma se vuoi, puoi sottrargliela!”
esclamò il saggio.
“Come?” chiese il re.
“Facendo
entrare il tuo paggio nel giro del novantanove.” rispose il saggio.
“Che cosa significa?” domandò il sovrano.
“Fa’ quello che ti dico…” concluse il saggio
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva
novantanove monete d’oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva:
“Questo tesoro è tuo. Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato!”
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a
contarle:
dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta… novantanove!
Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta
mancante.
“Sono stato derubato!” gridò, “Sono stato derubato! Maledetti!”
Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili… Ma non trovò quello che cercava. Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d’oro.
Soltanto
novantanove.
“Novantanove monete. Sono tanti soldi,” pensò, “ma mi manca una moneta.
Novantanove non è un numero completo!” pensava, “Cento è un numero completo,
novantanove no! “La faccia del paggio non era più la stessa. Aveva la fonte
corrugata e i lineamenti irrigiditi. Stringeva gli occhi e la bocca gli si
contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti. Calcolò quanto tempo
avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto
lavorare sua moglie e i suoi figli. Dieci dodici anni, ma ce l’avrebbe fatta! Il
paggio era entrato nel giro del novantanove… Non passò molto tempo che il re lo
licenziò. Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.
Se ci
rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento
per cento del tesoro? E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla,
il numero cento non è più rotondo del novantanove.
È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per
renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e
rassegnati.
Un tranello per non farci mai smettere di spingere. BRUNO FERRERO
7
IL COLORE DELL’ORIZZONTE
Un bambino che abitava in pianura era affascinato dalla linea delle montagne che si stagliava lontano all’orizzonte. Azzurrine, leggere, compatte, gli apparivano come un luogo di paradiso.
Così diverso
dalla terra aspra e grigia dove viveva. Un giorno, ormai cresciuto, cedette al
richiamo dell’orizzonte e decise di raggiungere quel posto incantato.
Il viaggio durò a lungo, attraverso pianure e colline. Stremato, arrivò infine
sulla vetta delle montagne, ma dovette constatare con profonda delusione che le
montagne non erano più azzurrine ma grigie e caotiche, sassose, aride ed aspre.
Proprio come il paese che aveva lasciato. Ma all’orizzonte, davanti a lui, si
delineavano altre montagne, azzurre, violette, alonate di luce dorata. E
ripartì. Gli ci volle molto tempo per raggiungerle. Ma anche là, man mano che si
avvicinava, l’azzurro e il viola scomparivano per lasciare spazio al grigio
delle rocce e al giallo stopposo dell’erba bruciata.
Ma davanti l’orizzonte era azzurro e rosa. E lui si rimetteva in cammino. Era
sempre una delusione: al suo arrivo anche le nuove terre si rivelavano ruvide e
brulle.
Un giorno, ormai vecchio, vista vana la sua ricerca, decise di tornare indietro.
Ed ecco, tutti i paesi che aveva lasciato erano azzurrini, leggeri, immersi in
una incantevole luce dorata. BRUNO FERRERO.
8
IL CONTADINO E LO STRANO GIOVANE
Il padrone di
una grossa fattoria aveva bisogno di un aiutante che badasse alle stalle e al
fienile. Come voleva la tradizione, il giorno della festa del paese, cominciò a
cercare.
Scorse un ragazzo di 16-17 anni che si aggirava tra i baracconi. Era un tipo
alto e magro, che non sembrava molto forte.
“Come ti chiami giovanotto?” chiese.
“Alfredo, signore!” rispose il giovane
“Sto cercando qualcuno che voglia lavorare nella mia fattoria. Ti intendi di
lavori agricoli?” continuò.
“Sissignore. Io so dormire in una notte ventosa!” rispose il giovane.
“Che cosa?” chiese il contadino sorpreso.
“Io so dormire
in una notte ventosa!” replicò il giovane.
Il contadino scosse la testa e se ne andò. Nel tardo pomeriggio, incontrò
nuovamente Alfredo e gli rifece la proposta. La risposta di Alfredo fu la
medesima: “Io so dormire in una notte ventosa!”
Al contadino serviva un aiutante non un giovanotto che si vantava di dormire
nelle notti ventose. Provò ancora a cercare, ma non trovò nessuno disposto a
lavorare nella sua fattoria.
Così decise di
assumere Alfredo che gli ripeté: “Stia tranquillo, padrone, io so dormire in una
notte ventosa!”
“D’accordo. Vedremo quello che sai fare!”
Alfredo lavorò nella fattoria per diverse settimane. Il padrone era molto
occupato e non faceva molta attenzione a quello che faceva il giovane. Poi una
notte fu svegliato dal vento. Il vento ululava tra gli alberi, ruggiva giù per i
camini, scuoteva le finestre. Il contadino saltò giù dal letto. La bufera
avrebbe potuto spalancare le porte della stalla, spaventare cavalli e mucche,
sparpagliare il fieno e la paglia, combinare ogni sorta di guai.
Corse a bussare alla porta di Alfredo, ma non ebbe risposta. Bussò più forte.
“Alfredo,
alzati! Vieni a darmi una mano, prima che il vento distrugga tutto!”
Ma Alfredo continuò a dormire. Il contadino non aveva tempo da perdere. Si
precipitò giù per le scale, attraversò di corsa l’aia e raggiunse la cascina. Ed
ebbe una bella sorpresa.
Le porte delle stalle erano saldamente chiuse e le finestre erano bloccate.
Il fieno e la paglia erano coperti e legati in modo tale da non poter essere
soffiati via.
I cavalli erano al sicuro, e i maiali e le galline erano quieti. All’esterno il
vento soffiava con impeto. Dentro la cascina, gli animali erano calmi e tutto
era al sicuro.
D’improvviso il contadino scoppiò in una sonora risata. Aveva capito che cosa
intendesse dire Alfredo quando affermava di saper dormire in una notte ventosa.
Il giovane faceva bene il suo lavoro ogni giorno. Si assicurava che tutto fosse
a posto. Chiudeva accuratamente porte e finestre e si prendeva cura degli
animali. Si preparava alla bufera ogni giorno. Per questo non la temeva
più. BRUNO FERRERO
9
IL COSTO DELL’AMORE
Una sera, mentre la mamma preparava la cena, il figlio undicenne si presentò in cucina con un foglietto in mano. Con aria stranamente ufficiale il bambino porse il pezzo di carta alla mamma, che si asciugò le mani con il grembiule e lesse quanto vi era scritto:
Per aver strappato le erbacce dal vialetto: 1 EURO.
Per aver
ordinato la mia cameretta: 1,50 EURO.
Per essere andato a comprare il latte: 0,50 EURO.
Per aver badato alla sorellina (tre pomeriggi): 3 EURO.
Per aver preso due volte “ottimo” a scuola: 2 EURO.
Per aver portato fuori l’immondizia tutte le sere: 1 EURO. Totale: 9 EURO.
La mamma fissò il figlio negli occhi, teneramente. La sua mente si affollò di ricordi. Prese una biro e, sul retro del foglietto, scrisse:
Per averti
portato in grembo per 9 mesi: 0 EURO.
Per tutte le notti passate a vegliarti quando eri ammalato: 0 EURO.
Per tutte le volte che ti ho cullato quando eri triste: 0 EURO.
Per tutte le volte che ho asciugato le tue lacrime: 0 EURO.
Per tutto quello che ti ho insegnato, giorno dopo giorno: 0 EURO.
Per tutte le colazioni, i pranzi, le merende, le cene e i panini che ti ho
preparato: 0 EURO.
Per la vita che ti do ogni giorno: 0 EURO.
Quando ebbe
terminato, sorridendo la mamma diede il foglietto al figlio.
Quando il bambino ebbe finito di leggere ciò che la mamma aveva scritto, due
LACRIMONI fecero capolino nei suoi occhi. Girò il foglio e sul suo conto
scrisse: “PAGATO.”
Poi saltò al collo della madre e la sommerse di baci.
Quando nei rapporti personali e familiari si cominciano a fare i conti, è tutto
finito.
L’amore, o è gratuito o non è amore. BRUNO FERRERO
10
IL CROCIFISSO CON IL BRACCIO DESTRO STACCATO
In un’antica
cattedrale, appeso ad altezza vertiginosa, c’è un imponente crocifisso d’argento
che ha due particolarità. La prima è la corona di spine sul capo di Gesù: è
tutta d’oro massiccio tempestato di rubini e il suo valore è incalcolabile. La
seconda particolarità è il braccio destro di Gesù: è staccato e proteso nel
vuoto. Una storia ne spiega il motivo.
Molti anni fa, una notte, un ladro audace e acrobatico progettò un piano
perfetto per impadronirsi della splendida corona d’oro e rubini. Si calò da uno
dei finestroni del tetto legato ad una corda e oscillando arrivò al crocifisso.
Ma la corona di spine era fissata molto solidamente e il ladro aveva solo un
coltello per tentare di staccarla. Infilò la lama del coltello sotto la corona e
fece leva con tutte le sue forze. Provò e riprovò, sudando e sbuffando.
La lama del
coltello si spezzò e anche la corda, troppo sollecitata, si staccò dal
finestrone.
Il ladro si sarebbe sfracellato sul pavimento, ma il braccio del crocifisso si
mosse e lo afferrò al volo. Al mattino i sacrestani lo trovarono lassù, sano e
salvo, tenuto saldamente (e affettuosamente) da Gesù crocifisso.
BRUNO FERRERO.
11
IL CUCCHIAINO
Una vecchietta serena, sul letto d’ospedale, parlava con il parroco che era andato a visitarla: “Il Signore mi ha donato una vita bellissima. Sono pronta a partire!”
“Lo so.” mormorò il parroco.
“C’è una cosa
che desidero. Quando mi seppelliranno voglio avere un cucchiaino in mano!”
“Un cucchiaino?” chiese il buon parroco che si mostrò autenticamente sorpreso,
“Perché vuoi essere sepolta con un cucchiaino in mano?”
“Mi è sempre piaciuto partecipare ai pranzi e alla cene delle feste in
parrocchia.
Quando arrivavo al mio posto guardavo subito se c’era il cucchiaino vicino al
piatto. Sa che cosa voleva dire?
Che alla fine
sarebbero arrivati il dolce o il gelato!” disse la donna.
“Ed allora?” domandò il parroco.
“Questo per me significava che il meglio arrivava alla fine!”
E proprio questo che voglio dire al mio funerale.
Quando passeranno vicino alla mia bara si chiederanno:
“Perché quel cucchiaino?”
Voglio che lei risponda: “Il cucchiaino, che ha in mano, vuol far capire che sta arrivando il meglio!” BRUNO FERRERO
12
IL DETENUTO E LA FORMICA
Un uomo fu
condannato a vent’anni di carcere. Ovviamente non riusciva ad immaginare cosa
avrebbe potuto fare durante questo lungo periodo. Dopo alcuni mesi, scoprì che
alcune formiche risiedevano stabilmente sotto l’intonaco scheggiato della sua
cella. Una di quelle formiche sembrava particolarmente dotata ed il detenuto
decise di ammaestrarla.
Ci volle un sacco di pazienza, ma dopo cinque anni la formica ubbidiva agli
ordini, ballava su un capello ben teso e faceva il doppio salto mortale. Altri
cinque anni dopo, la meravigliosa (e longeva) formichina sapeva cantare tutte le
canzoni di Sanremo. Cinque anni dopo la formica parlava correttamente quattro
lingue. Stava per imparare la quinta quando l’uomo venne scarcerato. Si mise in
tasca la preziosa formica nella speranza che gli servisse a guadagnare un
mucchio di soldi esibendosi in televisione. Uscito di prigione, andò diritto in
un bar e, dopo aver bevuto, non resistette alla tentazione di sfoggiare la
bravura della sua formica.
La posò sul
bancone e chiamò il barista: “Guardi questa formica!”
Il barista, senza perdere un attimo di tempo schiacciò la formica dicendo:
“La prego di scusarci, signore!” BRUNO FERRERO
13
IL DONO AL RE. LA MATASSA DI LANA.
Si fece una
gran festa alla corte del re, per celebrare il suo ingresso nella città
capitale. Il re riceveva nel salone delle feste i doni e gli omaggi. Erano tutti
doni preziosi: armi cesellate, coppe d’argento, tessuti di broccati ricamati
d’oro.
Il corteo di donatori stava esaurendosi, quando apparve, zoppicando e
appoggiandosi pesantemente ad un bastone, una vecchia contadina con i pesanti
zoccoli di legno.
In silenzio trasse dalla gerla un pacchetto avvolto in un telo.
Uno scoppio di risate accompagnò il movimento della donna che depose ai piedi del trono una matassa di lana bianca, ricavata dalle due pecore che erano tutta la sua fortuna e filata nelle lunghe sere d’inverno. Senza una parola, il re s’inchinò dignitosamente, poi diede il segnale di incominciare la festa, mentre l’anziana contadina attraversava lentamente la sala, scorticata dalle occhiaie beffarde dei cortigiani. Riprese penosamente il suo lungo cammino, di notte, per tornare alla sua baita costruita nella foresta reale dove fino a quel momento la sua presenza era stata tollerata. Ma quando arrivò in vista della sua casa, si fermò invasa dal panico.
La baita era circondata dai soldati del re.
Stavano
piantando dei picchetti tutt’intorno e sui paletti stendevano il filo di lana
bianco.
“Mio Dio,” pensò la povera donna con il cuore piccolo piccolo “il re si è offeso
per il mio dono; le guardie mi toglieranno la casa, mi arresteranno, mi
metteranno in prigione!”
Quando la vide, il comandante delle guardie si inchinò cortesemente e disse:
“Signora, per ordine del nostro buon re, tutta la terra che può essere
circondata dal vostro filo di lana d’ora in poi vi appartiene!”
Il perimetro della sua nuova proprietà corrispondeva esattamente alla lunghezza
della sua matassa di lana. Aveva ricevuto con la stessa misura con cui aveva
donato… BRUNO FERRERO
14
IL FALCO NEL POLLAIO (L’ANIMA E IL CORPO)
Un falco era
stato catturato da un contadino e viveva legato per una zampa nell’aia di un
cascinale. Non si era rassegnato a vivere come un qualunque pollo. Aveva
cominciato a dare strattoni su strattoni alla corda che lo teneva avvinto ad un
robusto trave del pollaio.
Fissava il cielo azzurro e partiva con tutte le sue forze. Inesorabile, la corda
lo tirava a terra.
Provò e riprovò
per settimane, finché la pelle della zampa fu tutta lacerata e le belle ali
rovinate. Alla fine, si era abituato. Dopo qualche mese, trovava di suo
gradimento anche il mangime dei polli. Si accontentò di razzolare. Così non si
accorse che le piogge autunnali e la neve dell’inverno avevano fatto marcire la
corda che lo legava a terra.
Sarebbe bastato un ultimo modesto strattone e il falco sarebbe tornato in
libertà, padrone del cielo. Ma non lo diede più.
Il nostro corpo fatica anche solo a salire una rampa di scale. Ma la nostra
anima ha le ali.
E il cielo è nostro. BRUNO FERRERO
15
IL FALENINO E LA STELLA (OSARE)
Una piccola
falena d’animo delicato s’invaghì una volta di una stella. Ne parlò alla madre e
questa gli consigliò d’invaghirsi invece di un abat-jour.
“Le stelle non son fatte per svolazzarci dietro.” gli spiegò, “Le lampade, a
quelle sì puoi svolazzare dietro!”
“Almeno lì approdi a qualcosa.” disse il padre, “Andando dietro alle stelle non
approdi a niente!”
Ma il falenino
non diede ascolto né all’uno né all’altra. Ogni sera, al tramonto, quando la
stella spuntava s’avviava in volo verso di essa e ogni mattina, all’alba, se ne
tornava a casa stremato dall’immane e vana fatica.
Un giorno il padre lo chiamò e gli disse: “Non ti bruci un’ala da mesi, ragazzo
mio, e ho paura che non te la brucerai mai. Tutti i tuoi fratelli si sono
bruciacchiati ben bene volteggiando intorno ai lampioni di strada, e tutte le
tue sorelle si sono scottate a dovere intorno alle lampade di casa. Su avanti,
datti da fare, vai a prenderti una bella scottatura! Un falenotto forte e
robusto come te senza neppure un segno addosso!”
Il falenino lasciò la casa paterna ma non andò a volteggiare intorno ai lampioni di strada né intorno alle lampade di casa: continuò ostinatamente i suoi tentativi di raggiungere la stella, che era lontana migliaia di anni luce. Lui credeva invece che fosse impigliata tra i rami più alti di un olmo. Provare e riprovare, puntando alla stella, notte dopo notte, gli dava un certo piacere, tanto che visse fino a tardissima età. I genitori, i fratelli e le sorelle erano invece morti tutti bruciati ancora giovanissimi!
BRUNO FERRERO
16
IL FARO E LA NAVE DA GUERRA
Una nave da
guerra pattugliava un settore particolarmente pericoloso del Mediterraneo.
C’era tensione nell’aria. La visibilità era scarsa, con banchi di nebbia; così,
il capitano era rimasto sul ponte a sorvegliare le varie attività
dell’equipaggio. Poco dopo l’imbrunire, l’uomo di vetta sul ponte annunciò:
“Luce a tribordo!”.
“È ferma o si
allontana?” gridò il capitano.
“È ferma, capitano!” rispose la vetta.
Questo significava che la loro nave da guerra era in pericolosa rotta di
collisione con l’altra.
Il capitano ordinò al segnalatore: “Segnala a quella nave che siamo in rotta di
collisione e vi consigliamo di correggere la rotta di 20 gradi!”
Giunse di rimando questa segnalazione: “È consigliabile che siate voi a
correggere la rotta di 20 gradi!”
Il capitano
disse: “Trasmetti: Io sono un capitano. Correggete voi la rotta di 20 gradi!”
“Io sono un marinaio di seconda classe,” fu la risposta, “fareste meglio a
correggerla voi la rotta di 20 gradi!”
Adesso il capitano era furente. “Trasmetti,” abbaiò: “Sono una nave da guerra;
perciò, correggete la vostra rotta di 20 gradi!”
La risposta fu
semplice: “Io sono un faro”.
La nave da guerra cambiò rotta. BRUNO FERRERO
17
IL FILO DEL RAGNO E LO STROZZINO
Uno strozzino
morì. Per tutta la vita, egoista e spergiuro, aveva accumulato ricchezze
sfruttando i poveri e carpendo la buona fede del prossimo. La sua anima cadde
nel profondo baratro dell’inferno, che le avvampò tutt’intorno. Gridò allora:
“Giudice supremo delle anime, aiutami. Concedimi una sosta, fa sì che ritorni
sulla terra e ponga rimedio alla mia condanna!”
Il Giudice supremo lo udì e chinandosi dall’alto sul baratro dell’inferno
chiese: “Hai mai compiuto un’opera buona, in vita, cosicché ti possa aiutare
adesso?”
L’anima dello strozzino pensò a tutto quel che aveva fatto in vita, e più
pensava e meno riusciva a trovare una sola azione buona in tutta la sua lunga
esistenza.
Ma alla fine si
illuminò e disse: “Sì, Giudice supremo, certo! Una volta stavo per schiacciare
un ragno, ma poi ne ebbi pietà, lo presi e lo buttai fuori dalla finestra!”
“Bravo!” rispose il Giudice supremo, “Pregherò quel ragno di tessere un lungo
filo dalla terra all’inferno, e così ti ci potrai arrampicare!”
Detto fatto. Non appena il filo di ragno la toccò, l’anima dello strozzino
cominciò ad arrampicarsi, bracciata dopo bracciata, del tutto piena d’angoscia
perché temeva che l’esile filo si spezzasse. Giunse a metà strada, e il filo
continuava a reggere, quando vide che altre anime s’erano accorte del fatto e
cominciavano ad arrampicarsi anch’esse lungo lo stesso filo.
Allora gridò:
“Andate via, lasciate stare il mio filo. Regge solo me. Andatevene, questo filo
è mio!”
E proprio in quel momento il filo si spezzò, e l’anima dello strozzino ricadde
nell’inferno.
Infatti il filo della salvezza regge il peso di centomila anime buone, ma non
regge un solo grammo d’egoismo. BRUNO
FERRERO
18
IL FILO DI COTONE
C’era una volta
un filo di cotone che si sentiva inutile. “Sono troppo debole per fare una
corda.” si lamentava. “E sono troppo corto per fare una maglietta. Sono troppo
sgraziato per un Aquilone e non servo neppure per un ricamo da quattro soldi.
Sono scolorito e ho le doppie punte… Ah, se fossi un filo d’oro, ornerei una
stola, starei sulle spalle di un prelato! Non servo proprio a niente. Sono un
fallito! Nessuno ha bisogno di me. Non piaccio a nessuno, neanche a me stesso!”
Si raggomitolava sulla sua poltrona, ascoltava musica triste e se ne stava
sempre solo.
Lo udì un giorno un mucchietto di cera e gli disse: “Non ti abbattere in questo modo, piccolo filo di cotone. Ho un’idea: facciamo qualcosa noi due, insieme! Certo non possiamo diventare un cero da altare o da salotto: tu sei troppo corto e io sono una quantità troppo scarsa.
Possiamo
diventare un lumino, e donare un po’ di calore e un po’ di luce. È meglio
illuminare e scaldare un po’ piuttosto che stare nel buio a brontolare.”
Il filo di cotone accettò di buon grado. Unito alla cera, divenne un lumino,
brillò nell’oscurità ed emanò calore. E fu
felice. BRUNO FERRERO
19
IL FILO DI PAGLIA
I pastori che
erano stati alla stalla di Betlemme a onorare il Bambino Gesù tornavano a casa.
Erano arrivati tutti con le braccia cariche di doni, e ora se ne partivano a
mani vuote.
Eccetto uno. Un pastore giovane giovane aveva portato via qualcosa dalla stalla
santa di Betlemme. Una cosa che teneva stretta nel pugno. Gli altri lì per lì
non ci avevano fatto caso, finché uno di essi non disse: “Che cos’hai in mano?”
“Un filo di paglia!” rispose il giovane pastore, “Un filo di paglia della
mangiatoia in cui dormiva il Bambino!”
“Un filo di paglia!” sghignazzarono gli altri, “È solo spazzatura. Buttalo via!”
Il giovane pastore scosse il capo energicamente.
“No!” disse,
“Lo conservo. Per me è un segno, un segno del Bambino. Quando tengo questa
pagliuzza nelle mie mani, mi ricordo di lui e quindi anche di quello che hanno
detto di lui gli angeli!”
Il giorno dopo, gli altri pastori chiesero al giovane: “Che ne hai fatto della
tua pagliuzza?”
Il giovane la mostrò. “La porto sempre con me!”
“Ma buttala!” esclamarono gli altri pastori.
“No. Ha un grande valore. Su di essa giaceva il Figlio di Dio!” ribatté il
giovane.
“E con questo? Il Figlio di Dio vale. Non la paglia!” gli dissero.
“Avete torto.
Anche la paglia vale tanto. Su che altro poteva stare il Bambino, povero
com’era? Il Figlio di Dio ha avuto bisogno di un po’ di paglia.
Questo mi insegna che Dio ha bisogno dei piccoli, dei senza valore. Sì, Dio ha
bisogno di noi, i piccoli, che non contiamo molto, che sappiamo così poco!”
spiegò il giovane.
Con il passare dei giorni sembrò che il filo di paglia diventasse sempre più
importante per il giovane pastore. Durante le lunghe ore al pascolo lo prendeva
spesso in mano: in quei momenti ripensava alle parole degli angeli ed era felice
di sapere che Dio amava tanto gli uomini da farsi piccolo come loro.
Ma un giorno uno dei suoi compagni gli portò via il filo di paglia dalle mani,
gridando: “Tu e la tua maledetta paglia! Ci hai fatto venire il mal di testa con
queste stupidaggini!”
Stropicciò la pagliuzza e la gettò nella polvere. Il giovane pastore rimase
calmo. Raccolse da terra il filo di paglia, lo lisciò e lo accarezzò con la
mano, poi disse all’altro: “Vedi, è rimasto quello che era: un filo di paglia.
Tutta la tua rabbia non ha potuto cambiario. Certo, è facile fare a pezzi un
filo di paglia.
Pensa: perché Dio ci ha mandato un bambino, mentre ci serviva un Salvatore forte
e battagliero? Ma questo Bambino diventerà un uomo, e sarà resistente e
incancellabile.
Saprà sopportare tutte le rabbie degli uomini, rimanendo quello che è: il
Salvatore di Dio per noi!”
Il giovane sorrise, con gli occhi luminosi: “No. L’amore di Dio non si può fare
a pezzi e buttare via. Anche se sembra fragile e debole come un filo di
paglia!” BRUNO FERRERO
20
IL FIGLIO PIÙ INTELLIGENTE (L’UOMO E I TRE FIGLI)
Molto tempo fa c’era un uomo che aveva tre figli ai quali voleva molto bene. Non era nato ricco, ma con la sua saggezza e il duro lavoro era riuscito a risparmiare un bel po’ di soldi e a comprare un fertile podere. Quando divenne vecchio, cominciò a pensare a come dividere tra i suoi figli ciò che possedeva. Un giorno, quando ormai era molto vecchio e malato, decise di fare una prova per capire quale dei suoi figli fosse il più intelligente.
Chiamò allora i
tre figli al suo capezzale. Diede a ciascuno cinque soldi e chiese loro di
comprare qualcosa che riempisse la sua stanza, che era vuota e spoglia.
Ciascuno dei figli prese i soldi e uscì per esaudire il desiderio del padre. Il
figlio più grande pensò che fosse un lavoro facile. Andò al mercato e comprò un
fascio di paglia, ossia la prima cosa che gli capitò sotto gli occhi. Il secondo
figlio, invece, rifletté per qualche minuto.
Dopo aver girato tutto il mercato e aver cercato in tutti i negozi, comprò delle
bellissime piume. Il figlio più piccolo considerò per un lungo tempo il
problema.
“Cosa c’è che
costa solo cinque soldi e può riempire una stanza?” si chiedeva.
Solo dopo molte ore passate a pensare e ripensare, trovò, qualcosa che faceva al
suo caso, e il suo volto si illuminò. Andò in un piccolo negozio nascosto in una
stradina laterale e comprò, con i suoi cinque soldi, una candela e un
fiammifero. Tornando a casa era felice e si domandava cosa avessero comprato i
suoi fratelli.
Il giorno seguente, i tre figli si riunirono nella stanza del padre. Ognuno
portò il suo regalo, l’oggetto che doveva riempire una stanza. Per primo il
figlio grande sparse la sua paglia sul pavimento, ma purtroppo questa riempì
solo un piccolo angolo. Il secondo figlio mostrò le sue piume: erano molto
graziose, ma riempirono appena due angoli. Il padre era molto deluso degli
sforzi dei suoi due figli maggiori. Allora il figlio più piccolo si mise al
centro della stanza: tutti gli altri lo guardavano incuriositi chiedendosi:
“Cosa può aver comprato?”
Il ragazzo accese la candela con il fiammifero e la luce di quell’unica fiamma
si diffuse per la stanza e la riempì. Tutti sorrisero. Il vecchio padre fu
felice del regalo del figlio più piccolo.
Gli diede tutta la sua terra e i suoi soldi, perché aveva capito che quel
ragazzo era abbastanza intelligente da farne buon uso e si sarebbe preso
saggiamente cura dei suoi fratelli.
BRUNO FERRERO
21
IL FUNAMBOLO
C’era una volta
un celebre funambolo. Tutti riconoscevano la sua stupefacente abilità: nessuno
ricordava di averlo mai visto vacillare o cadere. Un giorno, il circo dove il
funambolo lavorava si trovò in serie difficoltà finanziarie. Il direttore
propose al funambolo di alzare il filo e di aumentare la distanza del percorso
per attirare più gente. I lavoratori del circo avevano posto tutta la loro
fiducia nel loro funambolo ed erano sicuri di ottenere un successo strepitoso.
Rivolgendosi ai suoi compagni di lavoro, il funambolo chiese loro: “Siete sicuri
che ci riuscirò?”
Tutti
risposero: “Abbiamo fiducia in te e siamo assolutamente certi che ci riuscirai!”
L’esibizione del funambolo fu un grande successo. Ogni giorno la gente faceva la
coda al botteghino del circo per assistere allo straordinario spettacolo di
abilità e di coraggio.
Dopo un anno di successo, il direttore volle procurare al circo una maggiore
risonanza e propose al funambolo una prestazione eccezionale per attirare ancora
più gente.
Propose di sistemare un cavo d’acciaio da una riva all’altra di una cascata
vertiginosa e di invitare tutta la gente della regione, i giornalisti e le
televisioni per quella esibizione senza precedenti. Tutti i membri del circo
rinnovarono la loro fiducia al funambolo.
Questi non
esitò e accettò la sfida. Già pronto per la pericolosissima traversata
sull’esile filo, chiese ancora una volta a tutti i compagni se erano sinceri
nell’affermare una fiducia illimitata in lui. “Sì!” gridarono tutti senza
eccezione.
Il funambolo partì e l’impresa riuscì perfettamente, con tutti gli spettatori in
delirio.
Improvvisamente il funambolo alzò una mano e chiese di parlare. “La vostra
fiducia in me è grandissima!” disse.
“Certo!” proclamò uno del circo a nome di tutti.
“Allora, vi
voglio proporre una prodezza ancora più straordinaria!”
“Magnifico! Dicci che cos’è. La nostra fiducia in te è sconfinata: qualunque
cosa proponi, accetteremo!”
“Propongo di camminare con una carriola su questo cavo d’acciaio e di fare il
viaggio di andata e ritorno.
Siccome la vostra fiducia nella mia abilità è senza limiti, chiedo a uno di voi
di salire sulla carriola per fare con me la traversata!”
Nessuno volle salire. BRUNO FERRERO
22
IL FUOCO
Sei persone,
colte dal caso nel buio di una gelida nottata, su un’isola deserta, si
ritrovarono ciascuna con un pezzo di legno in mano. Non c’era altra legna
nell’isola persa nelle brume del mare del Nord. Al centro un piccolo fuoco
moriva lentamente per mancanza di combustibile.
Il freddo si faceva sempre più insopportabile. La prima persona era una donna,
ma un guizzo della fiamma illuminò il volto di un immigrato dalla pelle scura.
La donna se ne accorse.
Strinse il
pugno intorno al suo pezzo di legno. Perché consumare il suo legno per scaldare
uno scansafatiche venuto a rubare pane e lavoro?
L’uomo che stava al suo fianco vide uno che non era del suo partito. Mai e poi
mai avrebbe sprecato il suo bel pezzo di legno per un avversario politico.
La terza persona era vestita malamente e si avvolse ancora di più nel giaccone
bisunto, nascondendo il suo pezzo di legno. Il suo vicino era certamente ricco.
Perché doveva usare il suo ramo per un ozioso riccone?
Il ricco sedeva pensando ai suoi beni, alle due ville, alle quattro automobili e
al sostanzioso conto in banca. Le batterie del suo telefonino erano scariche,
doveva conservare il suo pezzo di legno a tutti i costi e non consumarlo per
quei pigri e inetti. Il volto scuro dell’immigrato era una smorfia di vendetta
nella fievole luce del fuoco ormai spento.
Stringeva forte il pugno intorno al suo pezzo di legno. Sapeva bene che tutti
quei bianchi lo disprezzavano. Non avrebbe mai messo il suo pezzo di legno nelle
braci del fuoco. Era arrivato il momento della vendetta.
L’ultimo membro
di quel mesto gruppetto era un tipo gretto e diffidente. Non faceva nulla se non
per profitto. Dare soltanto a chi dà, era il suo motto preferito. Me lo devono
pagare caro questo pezzo di legno, pensava.
Li trovarono così, con i pezzi di legno stretti nei pugni, immobili nella morte
per assideramento.
Non erano morti per il freddo di fuori, erano morti per il freddo di dentro.
BRUNO FERRERO
23
IL GELATO, IL RAGAZZINO E LA CAMERIERA
Ai tempi in cui
un gelato con sciroppo e frutta costava molto meno, un ragazzino di dieci anni
entrò nel bar di un albergo e si sedette a un tavolo. Una cameriera mise un
bicchiere di acqua davanti a lui.
“Quanto costa un gelato con sciroppo e frutta?” chiese il ragazzino.
“50 centesimi.” replicò la cameriera.
Il ragazzino
tirò fuori la mano dalla tasca ed esaminò il numero di monete che aveva.
“Quanto costa una porzione di gelato normale?” s’informò.
Alcune persone stavano cercando un tavolo e la cameriera era un po’ impaziente.
“35 centesimi.” disse bruscamente.
Il ragazzino contò ancora le monete.
“Prendo il gelato normale.” disse. La cameriera portò il gelato, mise il conto sul tavolo e se ne andò. Il ragazzo finì il gelato, pagò al cassiere e se ne andò. Quando la cameriera ritornò, iniziò a pulire il tavolo e rimase di stucco per quello che vide. Accanto al piatto vuoto, messi ordinatamente, c’erano 15 centesimi, la sua mancia. BRUNO FERRERO
24
IL GELSO, IL BRUCO E LA FARFALLA
C’era una volta
un gelso centenario, pieno di rughe e di saggezza, che ospitava una colonia di
piccoli bruchi. Erano bruchi onesti, laboriosi, di poche pretese. Mangiavano,
dormivano e, salvo qualche capatina al bar del penultimo ramo a destra, non
facevano chiasso. La vita scorreva monotona, ma serena e tranquilla. Faceva
eccezione il periodo delle elezioni, durante il quale i bruchi si scaldavano un
po’ per le insanabili divergenze tra la destra, la sinistra e il centro.
I bruchi di destra sostenevano che si comincia a mangiare la foglia da destra, i
bruchi di sinistra sostenevano il contrario, quelli di centro cominciano a
mangiare dove capita.
Alle foglie naturalmente nessuno chiedeva mai un parere. Tutti trovavano
naturale che fossero fatte per essere rosicchiate. Il buon vecchio gelso nutriva
tutti e passava il tempo sonnecchiando, cullato dal rumore delle instancabili
mandibole dei suoi ospiti.
Bruco Giovanni era tra tutti il più curioso, quello che con maggiore frequenza
si fermava a parlare con il vecchio e saggio gelso. “Sei veramente fortunato,
vecchio mio!” diceva Giovanni al gelso, “Te ne stai tranquillo in ogni caso. Sai
che dopo l’estate verrà l’autunno, poi l’inverno, poi tutto ricomincerà. Per noi
la vita è così breve. Un lampo, un rapido schioccar di mandibole e tutto è
finito!”
Il gelso rideva e rideva, tossicchiando un po’: “Giovanni, Giovanni, ti ho
spiegato mille volte che non finirà così! Diventerai una creatura stupenda,
invidiata da tutti, ammirata…”
Giovanni agitava il testone e brontolava: “Non la smetti mai di prendermi in
giro. Lo so bene che noi bruchi siamo detestati da tutti. Facciamo ribrezzo.
Nessun poeta ci ha mai dedicato una poesia. Tutto quello che dobbiamo fare è
mangiare e ingrassare. E basta!”
“Ma Giovanni,” chiese una volta il gelso, “tu non sogni mai?”
Il bruco arrossì. “Qualche volta.” rispose timidamente.
“E che cosa sogni?” domandò il vecchio gelso.
“Gli angeli,” disse il bruco, “creature che volano, in un mondo stupendo.”
“E nel sogno sei uno di quelli?” continuò il saggio gelso.
“…Sì.” mormorò con un fil di voce il bruco Giovanni, arrossendo di nuovo.
Ancora una
volta, il gelso scoppiò a ridere. “Giovanni, voi bruchi siete le uniche creature
i cui sogni si avverano e non ci credete!” esclamò il vecchio albero.
Qualche volta, il bruco Giovanni ne parlava con gli amici.
“Chi ti mette queste idee in testa?” brontolava Pierbruco, “Il tempo vola, non
c’è niente dopo!
Niente di niente. Si vive una volta sola: mangia, bevi e divertiti più che
puoi!”
“Ma il gelso dice che ci trasformeremo in bellissimi esseri alati…” replicò
Giovanni.
“Stupidaggini. Inventano di tutto per farci stare buoni!” rispondeva l’amico.
Giovanni scrollava la testa e ricominciava a mangiare: “Presto tutto finirà…
scrunch… Non c’è niente dopo… scrunch… Certo, io mangio… scrunch … bevo e mi
diverto più che posso… scrunch … ma … scrunch … non sono felice… scrunch… I
sogni resteranno sempre sogni. Non diventeranno mai realtà. Sono solo
illusioni!” bofonchiava, lavorando di mandibole.
Ben presto i tiepidi raggi del sole autunnale cominciarono ad illuminare tanti
piccoli bozzoli bianchi tondeggianti sparsi qua e là sulle foglie del vecchio
gelso.
Un mattino, anche Giovanni, spostandosi con estrema lentezza, come in preda ad
un invincibile torpore, si rivolse al gelso: “Sono venuto a salutarti. È la
fine. Guarda sono l’ultimo. Ci sono solo tombe in giro. E ora devo costruirmi la
mia!”
“Finalmente! Potrò far ricrescere un po’ di foglie! Ho già incominciato a
godermi il silenzio! Mi avete praticamente spogliato! Arrivederci, Giovanni!”
sorrise il gelso.
“Ti sbagli gelso. Questo… sigh … è… è un addio, amico!” disse il bruco con il
cuore gonfio di tristezza, “Un vero addio. I sogni non si avverano mai,
resteranno sempre e solo sogni. Sigh!”
Lentamente, Giovanni cominciò a farsi un bozzolo.
“Oh!” ribatté il gelso, “Vedrai!”
E cominciò a cullare i bianchi bozzoli appesi ai suoi rami.
A primavera, una bellissima farfalla dalle ali rosse e gialle volava leggera
intorno al gelso:
“Ehi, gelso, cosa fai di bello? Non sei felice per questo sole di primavera?”
“Ciao Giovanni! Hai visto, che avevo ragione io?” sorrise il vecchio albero, “O ti sei già dimenticato di come eri poco tempo fa?”
Parlare di
risurrezione agli uomini è proprio come parlare di farfalle ai bruchi.
Molti uomini del nostro tempo pensano e vivono come i bruchi.
Mangiano, bevono e si divertono più che possono: dopotutto non si vive una volta
sola?
Nulla di male, sia ben chiaro. Ma la loro vita è tutta qui.
Per loro, la parola risurrezione non significa nulla. Eppure, non sono felici!
BRUNO FERRERO
25
IL GIARDINO E L’ALBERO DI BAMBÙ
In un magnifico
giardino cresceva un bambù dal nobile aspetto. Il Signore del giardino lo amava
più di tutti gli altri alberi. Anno dopo anno, il bambù cresceva e si faceva
robusto e bello. Perché il bambù sapeva bene che il Signore lo amava e ne era
felice.
Un giorno, il Signore si avvicinò al suo amato albero e gli disse: “Caro bambù,
ho bisogno di te!”
Il magnifico albero sentì che era venuto il momento per cui era stato creato e
disse, con grande gioia: “Signore, sono pronto. Fa’ di me l’uso che vuoi!”
La voce del
Signore era grave: “Per usarti devo abbatterti!”
Il bambù si spaventò: “Abbattermi, Signore? Io, il più bello degli alberi del
tuo giardino? No, per favore, no! Usami per la tua gioia, Signore, ma per
favore, non abbattermi.”
“Mio caro, bambù,” continuò il Signore, “se non posso abbatterti, non posso
usarti!”
Il giardino piombò in un profondo silenzio. Anche il vento smise di soffiare.
Lentamente il bambù chinò la sua magnifica chioma e sussurrò: “Signore, se non
puoi usarmi senza abbattermi, abbattimi!”
“Mio caro bambù,” disse ancora il Signore, “non solo devo abbatterti, ma anche
tagliarti i rami e le foglie!”
“Mio Signore, abbi pietà. Distruggi la mia bellezza, ma lasciami i rami e le
foglie!”
Il sole nascose il suo volto, una farfalla inorridita volò via. Tremando, il
bambù disse fiocamente: “Signore, tagliali!”
“Mio caro bambù, devo farti ancora di più. Devo spaccarti in due e strapparti il
cuore.
Se non posso fare questo, non posso usarti!” spiego il Signore.
Il bambù si chinò fino a terra e mormorò: “Signore, spacca e strappa!”
Così il Signore del giardino abbatté il bambù, tagliò i rami e le foglie, lo
spaccò in due e gli estirpò il cuore. Poi lo portò dove sgorgava una fonte di
acqua fresca, vicino ai suoi campi che soffrivano per la siccità. Delicatamente
collegò alla sorgente una estremità dell’amato bambù e diresse l’altra verso i
campi inariditi. La chiara, fresca, dolce acqua prese a scorrere nel corpo del
bambù e raggiunse i campi. Fu piantato il riso e il raccolto fu ottimo.
Così il bambù
divenne una grande benedizione, anche se era stato abbattuto e distrutto.
Quando era un albero stupendo, viveva solo per sé stesso e si specchiava nella
propria bellezza. Stroncato, ferito e sfigurato era diventato un canale, che il
Signore usava per rendere fecondo il suo regno.
Noi la chiamiamo “sofferenza”, Dio la chiama “Ho bisogno di te!” BRUNO
FERRERO
26
IL FIUME ED IL DESERTO
Un fiume,
durante la sua tranquilla corsa verso il mare, giunse a un deserto e si fermò.
Davanti ora aveva solo rocce disseminate di anfratti e caverne nascoste, dune di
sabbia che si perdevano nell’orizzonte. Il fiume fu attanagliato dalla paura.
“È la mia fine.
Non riuscirò ad attraversare questo deserto. La sabbia assorbirà la mia acqua ed
io sparirò. Non arriverò mai al mare. Ho fallito tutto!” si disperò.
Lentamente, le sue acque cominciarono a intorpidirsi. Il fiume stava diventando
una palude e stava morendo. Ma il vento aveva ascoltato i suoi lamenti e decise
di salvargli la vita.
“Lasciati scaldare dal sole, salirai in cielo sotto forma di vapore acqueo. Al
resto penserò io!” gli suggerì.
Il fiume ebbe
ancor più paura: “Io sono fatto per scorrere fra due rive di terra, liquido,
pacifico e maestoso. Non sono fatto per volare per aria!”
Il vento rispose: “Non aver paura. Quando salirai nel cielo sotto forma di
vapore acqueo, diventerai una nuvola. Io ti trasporterò di là del deserto e tu
potrai cadere di nuovo sulla terra sotto forma di pioggia, e ritornerai fiume e
arriverai al mare!”
Ma il fiume aveva troppa paura e, alla fine, fu divorato dal deserto.
BRUNO FERRERO
27
IL FRATELLINO
Una giovane
madre era in attesa del secondo figlio. Quando seppe che era una bambina,
insegnò al suo bambino primogenito, che si chiamava Michele, ad appoggiare la
testolina sulla sua pancia tonda, e cantare insieme a lei una “ninna nanna” alla
sorellina che doveva nascere.
La canzoncina, che faceva “Stella stellina, la notte si avvicina…”, piaceva
tantissimo al bambino, che la cantava più volte.
Il parto però fu prematuro e complicato. La neonata fu messa in una incubatrice
per cure intensive. I genitori trepidanti furono preparati al peggio: la loro
bambina aveva pochissime probabilità di sopravvivere. Il piccolo Michele li
supplicava: “Voglio vederla! Devo assolutamente vederla!”
Dopo una settimana, la neonata si aggravò ancor di più. La mamma allora decise
di portare Michele nel reparto di terapia intensiva della maternità.
Un’infermiera cercò di impedirlo, ma la donna era decisa ed accompagnò il
bambino vicino al lettino ingombro di fili e tubicini, dove la piccola lottava
per la vita. Vicino al lettino della sorellina, Michele istintivamente avvicinò
il suo volto a quello della neonata e cominciò a cantare sottovoce: “Stella
stellina, la notte si avvicina…”
La neonata
reagì immediatamente. Cominciò a respirare serenamente, senza affanno. Con le
lacrime agli occhi, la mamma disse: “Continua, Michele, continua!”
Il bambino continuò. La bambina cominciò a muovere le braccine. La mamma e il
papà piangevano e ridevano nello stesso tempo, mentre l’infermiera incredula
fissava la scena a bocca aperta.
Qualche giorno dopo, la piccola entrò in casa in braccio alla mamma, mentre
Michele manifestava rumorosamente la sua gioia! I medici della clinica,
imbarazzati, definirono l’avvenimento con parole difficili. Ma la mamma e il
papà sapevano che era stato semplicemente un miracolo dell’amore di un
fratellino per una sorellina tanto attesa.
BRUNO FERRERO
28
UNA LUCE ALLA FINESTRA
La strana epidemia si abbatté sulla città all'improvviso. Iniziava come un raffreddore: i colpiti cominciavano a starnutire, poi prendevano uno strano colore grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua virulenza e i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori, perfino ladri e tremendamente sospettosi gli uni degli altri. Il pensiero del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri. " Ciò che conta sono i soldi. Con i soldi si fa tutto", sostenevano. Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura.
I venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro agli ordini. In certi alloggi la porta d'ingresso arrivava ad avere diciotto serrature a prova di tutto, anche di bazooka. Nelle famiglie, i papà e le mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei bambini. I bambini chiedevano: «Quanto mi date per sparecchiare?». Non solo per asciugare i piatti o per fare i compiti; anche per andare nei giardinetti a giocare. Un sabato pomeriggio, nella via principale, scoppiò un tremendo tafferuglio per una moneta da cinque centesimi. Perfino il dottore fu contagiato e cominciò a vendere le medicine scadute, che prima buttava via con molta attenzione.
La vita in città divenne insopportabile. Il sindaco e i suoi consiglieri decisero di recarsi per un consulto dal famoso Barbadoro, che era un eremita, per chiedere una medicina o almeno un consiglio. L'eremita dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi lisciandosi la barba disse: "Conosco la malattia che ha colpito il vostro villaggio. È dovuta ad un virus che si chiama "sgrinfiacchiappa" ed è terribile, perché chi è colpito diventa sempre più insensibile, il suo cuore si indurisce fino a diventare di pietra. Si può sfuggire al contagio per un po' di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c'è un solo rimedio: l'acqua della Montagna-Che-Canta.
Si può sfuggire al contagio per un po' di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c'è un solo rimedio: l'acqua della Montagna-Che-Canta. Dovete trovare un giovane forte e coraggioso, completamente disinteressato. Deve affrontare questo impegno solo per amore della gente. Perché l'acqua della generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta. Logico, no? Perciò se troverete il giovane adatto in grado di affrontare le difficoltà dell'impresa (e non è cosa da poco) la medicina farà effetto solo se ci sarà qualcuno ad aspettarla». «Noi aspetteremo. Tutti!», giurarono il sindaco e i consiglieri. «Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice la nostra città». «...e vuota le casse comunali», aggiunse l'assessore alle finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva colpito dalla malattia del virus «sgrinfiacchiappa». Il giorno dopo su tutti i muri della città era affisso un bando: «Cercasi giovane coraggioso per impresa eroica». Si presentarono in duemila. Ma appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero guadagnato niente, si ritiravano. Tutti, meno uno. Era un giovane robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi concittadini e che rendeva infelici tante persone. Si chiamava Giosuè.
Il sindaco e i consiglieri gli spiegarono quello che doveva fare, anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la Montagna-Che-Canta. «La cercherò», disse tranquillamente Giosuè. «Noi ti aspetteremo», promise la gente. «Metteremo una luce sulla finestra tutte le notti, così saprai che ti aspettiamo». Giosuè mise un po' di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia, baciò la mamma e il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli sussurrò: «Anch'io ti aspetterò». Salutò tutti e partì. Per tre giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che tremolavano nella luce azzurrina dell'orizzonte. «Una volta là, mi basterà cercare la Montagna-Che-Canta. Non deve essere difficile», pensava. Ma si illudeva. 8 Dopo dieci giorni di marcia, le montagne continuavano ad apparire lontane, come profili di giganti dormienti, all'orizzonte. Ma Giosuè non si fermava. Pensava agli abitanti della città che certamente si ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi genitori e a Mariarosa e, ogni mattina, anche se i piedi gli dolevano ricominciava la marcia. Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi.
Nella città, le prime notti erano state un vero spettacolo. Sui davanzali di quasi tutte le finestre brillava una luce. Era il segno della speranza: aspettavano l'acqua della generosità portata da Giosuè. Ma con il passare del tempo, molte lampade si spensero. Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri, colpiti dalla malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare. La maggioranza dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa dicendo: «Non ce l'ha fatta. Non tornerà più». Ogni notte, c'era qualche luce in meno alle finestre. Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne. Le prime erano montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe e facili. Poi si fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di ostacoli. Giosuè stava con le orecchie tese per individuare la Montagna-Che-Canta. Qualche picco, grazie al vento, fischiava. Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e ai torrenti, rombava. Ma nessuna cantava. In una piccola baita, aggrappata al fianco di una montagna, incontrò un vecchio pastore e gli chiese qualche informazione. Il pastore gli regalò una scodella di latte fresco e poi gli disse: «La Montagna-Che-Canta? Certo che so dov'è. Non mi fa dormire quando porto le mie pecore a pascolare da quelle parti. Ma è un accidenti di montagna! Ripida e levigata come un obelisco e con il gigante Soffione». «Chi è?». «Un gigante burlone che si diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla montagna». «Pazienza, ma io devo salire lassù», disse Giosuè. Il vecchio pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò: «Buona fortuna!». La montagna cantava davvero, con un vocione allegro e un po' stonato. Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi. Le pareti della montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si ritrovò presto con le mani rovinate dalla roccia. Era quasi a metà della salita, quando un soffio di vento violento lo staccò dalla parete e lo fece rimbalzare in giù per parecchi metri. Mentre cadeva sentiva la risata del gigante Soffione, felice per lo scherzo che gli aveva giocato. Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò. Si riempì le tasche e la camicia di sassi e ricominciò a salire. Pesante com'era, ogni centimetro gli costava una fatica terribile, ma il gigante Soffione aveva un bel soffiare. Non riusciva neanche a farlo vacillare. Dopo un po' il gigante cominciò a tossire e infine smise di soffiare. Così Giosuè arrivò sulla vetta e vide la sorgente cristallina dell'acqua della generosità. Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata e il suo cuore era leggero e lieto: la gente della città sarebbe tornata felice come prima. Portava sulle spalle una botticella della preziosa acqua. Se non fosse bastata per tutti, ormai avrebbe saputo la strada.
Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla collina da cui si vedeva la città. Guardò giù ansimando perché aveva fatto di corsa gli ultimi metri. Quello che vide gli riempì gli occhi di lacrime e il cuore di amarezza. La città era completamente avvolta dal buio. Non c'erano luci sui davanzali delle finestre. Nessuno lo aveva aspettato. È stato tutto inutile... Se nessuno mi ha aspettato, l'acqua non farà effetto... Tutta la mia fatica è stata inutile». Si avviò mestamente. Aveva voglia di buttar via l'acqua che gli era costata tanto. Stava per farlo, quando qualcosa lo fermò. C'era una luce, laggiù! Un lumino, piccolo, tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri delle case. «Qualcuno mi ha aspettato!». Giosuè rise forte per la felicità e partì di corsa. Riconobbe la finestra e la casa. In fondo al cuore non ne aveva mai dubitato. Mariarosa e i suoi genitori lo avevano aspettato! BRUNO FERRERO
29
AL CROCICCHIO DEL VILLAGGIO
Tanto tempo fa,
c’era un uomo che da anni cercava il segreto della vita. Un giorno, un saggio
eremita gli indicò un pozzo che possedeva la risposta che l’uomo così
ardentemente cercava.
L’uomo corse al pozzo e pose la domanda: “C’è un segreto della vita?”
Dalla
profondità del pozzo echeggiò la risposta: “Vai al crocicchio del villaggio: là
troverai ciò che cerchi”
Pieno di speranza, l’uomo obbedì, ma al luogo indicato trovò soltanto tre
botteghe:
una bottega vendeva fili metallici, un’altra legno e la terza pezzi di metallo.
Nulla e nessuno in quei paraggi sembrava avere a che fare con la rivelazione del
segreto della vita.
Deluso, l’uomo ritornò al pozzo a chiedere una spiegazione. Ma il pozzo gli
rispose: “Capirai in futuro!”
L’uomo protestò, ma l’eco delle sue proteste fu l’unica risposta che ottenne.
Credendo di essere stato raggirato, l’uomo riprese le sue peregrinazioni. Col
passare del tempo, il ricordo di questa esperienza svanì, finché una notte,
mentre stava camminando alla luce della luna, il suono di un sitar (lo strumento
musicale dell’oriente) attrasse la sua attenzione.
Era una musica meravigliosa, suonata con grande maestria e ispirazione.
Affascinato, l’uomo si diresse verso il suonatore; vide le sue mani che
suonavano abilmente; vide il sitar; e gridò di gioia, perché aveva capito.
Il sitar era composto di fili metallici, di pezzi di metallo e di legno come
quelli che aveva visto nelle tre botteghe al crocicchio del villaggio e che
aveva giudicato senza particolare significato.
La vita è un
viaggio. Si arriva passo dopo passo. E se ogni passo è meraviglioso, se ogni
passo è magico, lo sarà anche la vita.
E non sarete mai di quelli che arrivano in punto di morte senza aver vissuto.
Non lasciatevi sfuggire nulla.
Non guardate al di sopra delle spalle degli altri.
Guardateli negli occhi.
Non parlate “ai” vostri figli.
Prendete i loro visi tra le mani e parlate “con” loro.
Non abbracciate un corpo, abbracciate una persona.
E fatelo ora.
Sensazioni,
impulsi, desideri, emozioni, idee, incontri, non buttate via niente.
Un giorno scoprirete quanto erano grandi e insostituibili.
Ogni giorno imparate qualcosa di nuovo su voi stessi e sugli altri.
Ogni giorno cercate di essere consapevoli delle cose bellissime che ci sono nel
nostro mondo.
E non lasciate che vi convincano del contrario.
Guardate i fiori.
Guardate gli uccellini.
Sentite la brezza.
Mangiate bene e apprezzatelo.
E condividete tutto con gli altri.
Uno dei complimenti più grandi è dire a qualcuno: “Guarda quel tramonto.”
BRUNO FERRERO
30
CREDERE AL NATALE
C'era una volta
un uomo che non credeva nel Natale. Era una persona fedele e generosa con la sua
famiglia e corretta nel rapporto con gli altri, però non credeva che Dio si
fosse fatto uomo come, secondo quanto afferma la Chiesa, è successo a Natale.
Era troppo sincero per far vedere una fede che non aveva , disse una volta alla
moglie che era credente : "Mi dispiace molto, però non riesco a capire che Dio
si sia fatto uomo; non ha senso per me."
Una notte di Natale, sua moglie e i figli andarono in chiesa per la messa di
mezzanotte. Lui non volle accompagnarli e disse : "Se venissi con voi mi
sentirei un ipocrita. Preferisco restare a casa. Vi starò ad aspettare."
Poco dopo la famiglia uscì mentre iniziò a nevicare. Si avvicinò alla finestra e
vide come il vento soffiava sempre più forte e pensò: "Se è Natale , meglio che
sia bianco "
Tornò alla sua poltrona vicino al fuoco e cominciò a leggere un giornale. Poco
dopo venne interrotto da un rumore seguito da un altro e subito da altri. Pensò
che qualcuno stesse tirando delle palle di neve sulla finestra della sala da
pranzo. Uscì per andare a vedere e vide alcuni passerotti feriti, buttati sulla
neve. La tormenta li aveva colti di sorpresa e, per la disperazione di trovare
un rifugio, avevano cercato inutilmente di attraversare i vetri della finestra e
disse : " Non posso permettere che queste povere creature muoiano di freddo...
però come posso aiutarle ? " Pensò che la stalla dove si trovava il cavallo dei
figli sarebbe stato un buon rifugio, velocemente si mise la giacca, gli stivali
di gomma e camminò sulla neve fino ad arrivare nella stalla, spalancò le porte e
accese la luce. Però i passerotti non entrarono , pensò : " Forse il cibo li
attirerà," Tornò a casa per prendere delle briciole di pane e le disseminò sulla
neve facendo un piccolo cammino fino alla stalla. Si angustiò nel vedere che gli
uccelli ignoravano le briciole e continuavano a muovere le ali disperatamente
sulla neve. Cercò di spingerle in stalla camminando intorno a loro e agitando le
braccia. Si dispersero nelle diverse parti meno che verso il caldo e illuminato
rifugio e pensò : " Mi vedono come un estraneo che fa paura , non mi viene in
mente nulla perché possano fidarsi di me... Se solo potessi trasformarmi in
uccello per pochi minuti, forse riuscirei a salvarli. In quel momento le campane
della chiesa cominciarono a suonare. L'uomo restò immobile, in silenzio,
ascoltando il suono gioioso che annunciava il Natale. Allora si inginocchiò
sulla neve e disse : " Ora si, capisco, ora vedo perché hai dovuto fare tutto
questo!" BRUNO FERRERO
31
Abbiate un sogno
Un padre
orientale, ormai al passo supremo della vita, così si rivolse ai suoi figli:
“Figli cari, abbiate un sogno! Abbiate un bel sogno, il sogno di tutta la vita.
La vita umana che ha un sogno è lieta. Una vita che segue un sogno si rinnova di
giorno in giorno. Figli miei cari, abbiate un sogno, passate la vita cercando di
realizzare quest’unico sogno, senza distogliervi lo sguardo, senza sostare,
avanzando sempre sulla stessa strada. Ma ricordate: se questo sogno sarà
piccolo, anche il frutto della vostra vita sarà piccolo; se questo sogno sarà
basso, anche la vostra vita sarà meschina. Ma se il vostro sogno sarà bello,
sarà grande, sarà originale, anche la vostra vita sarà bella, grande, originale.
Un sogno così non può avere di mira l’interesse egoistico; il vostro dev’essere
un sogno che mira a rendere liete non soltanto le persone tutte, ma l’intera
umanità, anche quelli che verranno dopo di voi. Se il vostro sogno sarà in grado
di far gioire tutta l’umanità, farà gioire anche il Signore!”
Qual è il tuo sogno?