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BUON NATALE
CON LA BANCARELLA DI STORIE E DI PENSIERI
Natale 2012
Carissimi,
Nel paese dove vivo almeno due o tre volte l’anno c’è il mercatino delle pulci. Perfino il gruppo caritativo parrocchiale vi partecipa con un suo banchetto, mettendo insieme tanti “cimeli” che la gente porta. Anche per me è sempre una gran tentazione perché, malato fin da piccolo di collezionismo di ogni genere, per me francobolli, cartoline, vecchie riviste, libri mi hanno sempre attratto e rischio di riempirmi di cose che sono solo in attesa di trasloco definitivo. Ma, al di là di questo il mercatino delle cose usate diventa per me un motivo di ricordo, di memoria, di recupero di valori ormai persi, di sorriso per certe vanità, di sacrifici di tante persone care.
Mi dite: “che cosa c’entra tutto questo con gli auguri di Natale?”. Solo nel mese di ottobre Benedetto XVI, ha ascoltato il Sinodo dei Vescovi di tutto il mondo sul come annunciare la fede oggi. Una delle cose più importanti sembra essere stata l’aver preso coscienza che molti battezzati non hanno più una propria identità cristiana. Che cosa fare? Una casa editrice cattolica si è messa a vendere a prezzi stracciati sia la Bibbia che il catechismo della Chiesa cattolica, le parrocchie anche in occasione dell’anno della fede e dei richiami al nostro battesimo si stanno dando da fare per offrire a vari livelli catechesi, incontri, riflessioni.
Come può inserirsi don Franco che vuole fare gli auguri ai suoi amici ed ai lettori di Schegge e Scintille? Grandi capacità di riflessioni e di catechesi non ne ho e poi ho sempre avuto paura che le cose difficili, a parte per quelli che le dicono, lascino un po’ il tempo che trovano, ecco perché mi è venuto in mente il mercatino delle cose usate, perché se oggi, la politica, l’economia, i problemi sociali, quelli del lavoro (sia per quell’ che ce l’hanno che per quelli a rischio o senza), le chiacchiere varie della T.V., cercano in tutti i modi di non lasciarci pensare in proprio, andare a ripescare qualcosa del passato, ma qualcosa di bello non potrebbe forse farci cominciare a pensare a cose veramente importanti per la nostra vita? Ecco allora, come sui banchetti del mercatino, una piccola antologia di testi (dalle fiabe alle riflessioni di grandi personaggi, da qualche battuta-sorriso a qualche preghiera) per pensare, per ritrovare noi stessi per renderci conto che Natale non è solo questioni di vacanze, consumi, panettoni, sci ed altro, è questione di un Dio che ti ama, che viene a cercarti non per metterti anche Lui delle tasse, ma per regalarti la dignità di Figlio di Dio, non un Dio che invade ma un Dio che bussa alla porta della tua e della mia stalla per chiederci il permesso di nascere e di crescere con noi.
Il mio augurio è: accogliamolo! Nessuna bacchetta magica per noi ma un amore, il più grande Amore regalato.
Vi vedo con gli occhi di Dio e vi benedico!
Don Franco
Ci credi davvero alla venuta del Salvatore?
Ci fu un tempo in cui l’Inverno era molto rigoroso e non ammetteva eccezioni: guai se un raggio di sole avesse osato penetrare nel suo regno! Sarebbe stato congelato all’istante! Questo era l’ordine che l’Inverno aveva dato alle guardie di ghiaccio che custodivano i confini del suo regno, che si estendeva dal 21 dicembre al 21 marzo, data alla quale alla Primavera era permesso varcarne i confini. E così, per la durata di tre mesi, tutto era freddo e desolato.
La maggior parte degli animali se ne stava rinchiusa nelle tane e gli alberi spogli restavano muti e infreddoliti ad attendere l’arrivo della Primavera.
Ma un giorno d’inverno, un piccolo raggio di sole, mosso a compassione dalla vista di un giovane mandorlo che tremava di freddo in un giardino, decise di sfidare le leggi dell’Inverno e di fare capolino sulla terra.
Era la mattina di un primo gennaio: le guardie dell’Inverno dormivano profondamente perché, la sera prima, avevano fatto bisboccia per festeggiare l’arrivo dell’Anno Nuovo, così il raggio di sole poté attraversare indisturbato i confini del regno e, posatosi sul prato, accarezzò leggermente i rami spogli del mandorlo. «È lei! È lei!», gridò il giovane albero e la sua voce festosa salì dalle radici e raggiunse le piccole gemme che dormivano tranquille sui rami. «È lei! È lei, svegliatevi!», disse il mandorlo e le gemme si schiusero e, sbadigliando, allargarono i loro petali bianchi che, in un attimo, rivestirono tutto l’albero, come se migliaia di farfalline bianche si fossero posate sui suoi rami. Il mandorlo vestito a festa aspettava di ricevere la carezza e il saluto della Primavera, ma non vide nessuno.
Attorno a lui tutto era bianco e spoglio: il melo, il roseto e l’ortensia che stavano accanto a lui innalzavano i loro rami spogli verso il cielo, come per implorare l’arrivo della Primavera.
«Eppure non mi sono sbagliato! – pensò il mandorlo – io ho sentito la sua carezza!». Ma il raggio di sole che lo aveva sfiorato non era più lì per dirgli che aveva ragione: era già stato scacciato oltre i confini dell’Inverno dalle guardie di ghiaccio che, nel frattempo, si erano svegliate.
E così il mandorlo in fiore rimase lì solo in mezzo alla neve e incominciò a sentirsi confuso e smarrito.
I piccoli fiori bianchi tremavano di freddo sui rami e qualcuno incominciò a piangere silenziosamente. In breve, tutto l’albero fu scosso dai singhiozzi. E i singhiozzi dei fiori di mandorlo svegliarono il melo lì accanto.
Vedendo il mandorlo in fiore il melo esclamò: «Ma si può sapere perché ti è saltato in mente di sbocciare adesso?». «Perché ho sentito la carezza della Primavera», disse il mandorlo tutto confuso, perché non era più tanto sicuro che fosse vero. «La carezza della Primavera il primo gennaio? Ma tu sei matto! Devi averla sognata, la Primavera, come capita a tutti gli alberi, del resto. Ma a nessuno è mai passato per la testa di credere ai sogni!». Il melo era proprio scandalizzato dal comportamento sconsiderato del giovane mandorlo e parlava con molta foga, tanto che svegliò la pianta di ortensie. «Si può sapere cosa c’è da gridare così?», chiese l’ortensia, ma vedendo il mandorlo fiorito comprese subito tutto e si unì ai rimproveri del melo: «Bisogna proprio essere impazziti per perdere la testa al primo raggio di sole! Prima di fare qualcosa, caro mio, è bene pensarci due volte! Io, per esempio, non mi fido neppure del primo sole di Primavera e aspetto gli ultimi raggi di sole primaverile per far sbocciare i miei fiori: è più sicuro!»
«Sprecone! Mani bucate!», le fece eco il roseto. «Hai gettato via tutto quello che avevi: cosa donerai, adesso, alla Primavera quando arriverà?». «Già, cosa le donerò?», si chiese il mandorlo e si sentì profondamente triste per avere sciupato il suo dono.
Intanto scese la notte, il momento preferito dall’Inverno per uscire a passeggiare nel giardino con tutto il suo seguito: gelo, brina e raffiche di vento. I fiori di mandorlo rabbrividivano e cercavano di attaccarsi ai rami con tutte le forze. Ma la loro resistenza non durò a lungo. La mattina, quando gli alberi del giardino si svegliarono, videro che tutti i rami dei mandorlo erano spogli. Questa volta nessuno ebbe il coraggio di dire niente. Solo l’ortensia osservò a bassa voce: «Poveretto! Si è già punito abbastanza da solo». «Già, in fondo ha avuto quello che si meritava», aggiunse il melo, anche lui a voce bassa. Il mandorlo non disse niente e rimase lì, spoglio e infelice, ormai rassegnato a mostrare alla Primavera la sua vergogna.
E venne il ventuno di marzo. Quell’anno, al mandorlo, gli alberi in fiore sembravano più belli che mai e questo non faceva altro che aumentare la sua confusione e la sua vergogna. Cercò di raccogliere i suoi rami spogli, sperando che le chiome fiorite degli alberi che lo circondavano potessero nasconderli. Fata Primavera, rivestita di un bellissimo abito bianco, entrò nel giardino con passi leggeri.
Quell’anno non si fermò a salutare il pesco che stava accanto al cancello che, per tradizione, aveva diritto a ricevere il primo bacio della Primavera, ma si diresse subito verso il giovane mandorlo. Gli altri alberi la guardavano compiaciuti e approvavano, abbassando le chiome al suo passaggio. «Va a dirgli quello che si merita!», sussurrò il melo al roseto. Anche il mandorlo ne era sicuro e avrebbe voluto potere nascondersi sotto terra. Ma Fata Primavera, giunta presso il mandorlo, per prima cosa, lo accarezzò. Poi si chinò raccolse i fiori che giacevano a terra congelati e li baciò delicatamente.
Al bacio della Primavera i fiori si ridestarono e si trasformarono in leggiadre farfalle che presero a danzare attorno alla Fata. Gli alberi del giardino ammutolirono: decisamente il comportamento della Primavera era inspiegabile. Anche il mandorlo, che pur era felice, non ci si raccapezzava più. Allora Fata Primavera si mise al centro del giardino e disse così: «Oggi ho onorato colui che, senza avermi veduta, ha creduto nel mio arrivo. Ha creduto quando solo un debole raggio di sole annunciava la mia venuta. Non ha avuto bisogno che il sole splendesse per donare tutto quello che aveva. Senza vedermi, senza sentirmi, ha offerto i suoi giovani fiori per me. E oggi io proclamo felice colui che ha donato tutto, rinunciando anche alla gioia di vedere che io avevo visto il suo dono. Perché non bisogna fare economie quando si tratta di slanci del cuore! Voi mi avete amata e onorata vedendomi di persona – disse rivolgendosi agli alberi in fiore – ma lui ha fatto molto di più: mi ha amata e onorata vedendo un riflesso della mia presenza. Mi ha amata non nella visione, ma nella speranza. E, da oggi in avanti, io concedo a ogni mandorlo di fiorire innanzi a tutti per essere il mio messaggero».
Ogni giorno dovresti chiedere la fede per osare l’impossibile. (Bruno Ferrero)
E Dio creò il cielo e la terra … e anche me. (Carlo Carretto)
"Si, sei bello, Gesù della città della gioia. Bello come il monco lebbroso che mi hai mandato oggi, con le sue mutilazioni, le sue piaghe e il suo sorriso.
In lui ho visto Te, quando hai sofferto per noi. Gesù di Anand Nagar, ho cercato di curare quel lebbroso come se fossi Tu.
Signore, Tu sei veramente presente qui, in fondo a questa bidonville miserabile, i sorrisi dei miei fratelli sono luci che non potranno mai spegnersi dentro di me “.
Dominique Lapierre "La città della gioia"
Fratello
prova a pensare al mondo come al paese dei tuoi fratelli e delle tue sorelle ...
Il nostro mondo cresce quando uno pensa, quando uno accetta il rischio di perdere la propria vita facendone un dono da portare ai fratelli più bisognosi.
A questi fratelli con l’Amore porterai pure la gioia!
Partiamo insieme verso il mondo, la vita, il significato, la gioia. … Io parto, ma tu non " restare ". Vieni!
Teresa in partenza per lo Zaire
Cambia il tuo cuore.
Solo chi perdona può parlare di pace. Pace è solidarietà col prossimo!
E' insonnia perché la gente stia bene.
E' condividere col fratello gioie e dolori, progetti e speranze.
E' portare gli uni i pesi degli altri con la tenerezza del dono.
E' attesa irresistibile di incontri festivi.
Educati alla pace.
Si, perché la pace e' anche un’arte che si impara.
Il tuo destino è quello di naufragare, già da ora, in un oceano di solidarietà con la gente. (Don Tonino Bello)
Tu chi sceglieresti?
Una donna stava innaffiando il giardino della sua casa quando vide tre vecchietti con i loro anni di esperienza che stavano di fronte al suo giardino. Ella non li conosceva e disse: "Non mi sembra di conoscervi, ma dovrete essere affamati, vi prego, entrate in casa così che possa offrirvi qualcosa". Essi domandarono: "Non c’è l’uomo di casa?". "No", rispose lei, "non è in casa". "In tal caso, non possiamo entrare" – dissero. All’imbrunire, quando il marito rincasò, ella gli raccontò tutto ciò che le era capitato e il marito le disse: "Allora, dì loro che sono rientrato e invitali pure ad entrare!".
La donna uscì per invitare i tre uomini a casa. "Non possiamo entrare tutti e tre insieme in una casa" – spiegarono i vecchietti. "Perché?", volle sapere lei. Uno degli uomini indicò uno dei suoi amici e spiegò: "Il suo nome è Ricchezza". Subito dopo indicò l’altro. "Il suo nome è Successo ed io mi chiamo Amore. Ora va dentro e decidi con tuo marito quale di noi tre desiderate invitare a casa vostra". La donna entrò in casa e raccontò a suo marito tutto ciò che i tre uomini le avevano detto. Lui si rallegrò e disse: "Che bello! Se è così, allora invitiamo Ricchezza, che venga, e riempia la nostra casa!" Sua moglie non era d’accordo: "Caro, perché non invitiamo Successo?" La figlia della coppia stava ascoltando dall’altra parte della casa ed entrò di corsa. "Non sarebbe meglio far entrare Amore? Così la nostra famiglia sarebbe piena di amore". "Prendiamo in considerazione il consiglio di nostra figlia – disse il marito alla moglie – Va fuori ed invita Amore perché sia nostro ospite". La moglie uscì e chiese loro: "Chi di voi è Amore? Che venga, per favore, e sia il nostro invitato". Amore si alzò dalla sua sedia e cominciò ad avanzare in direzione della casa. Anche gli altri due si alzarono e lo seguirono. Alquanto sorpresa, la signora chiese a Ricchezza e a Successo: "Io ho invitato solo Amore: perché venite anche voi?" I tre replicarono insieme: "Se avessi invitato Ricchezza o Successo gli altri due sarebbero rimasti fuori, ma giacché hai invitato Amore, laddove egli và, noi andiamo con lui perché dove c’è amore, c’è anche ricchezza e successo".
… può darsi che non sia sempre così. A volte infatti dove c’è Amore c’è lui e basta, ma una cosa è certa: dove c’è Amore ci sono anche GIOIA e PACE!
Per un pessimista
un mezzo bicchiere di vino e' un bicchiere mezzo vuoto,
per un ottimista, invece, e' mezzo pieno.
L'ottimista vede la rosa e non le spine;
il pessimista si fissa sulle spine, si dimentica della rosa.
Dio e' giovane, allegro, gioioso e ottimista non sopporta il pessimismo!
Credi a te stesso non lasciarti abbattere! Non cedere!
Perché il tuo sogno e' vero e ciò in cui credi e' giusto.
Quello che senti dentro e' qualcosa di autentico, di vero, di pulito.
Il tuo sogno e' nato con te, dono del tuo Creatore, ed e' la parte migliore di te stesso.
Credi fermamente in Lui, come Gesu', difendi il tuo sogno!
QUANTO VALE UN GESTO?
Un giorno, ero un ragazzino delle superiori, vidi un ragazzo della mia classe che stava tornando a casa da scuola. Il suo nome era Kyle e sembrava stesse portando tutti i suoi libri. Dissi tra me e me: "Perché mai uno dovrebbe portarsi a casa tutti i libri di venerdì? Deve essere un ragazzo strano". Io avevo il mio week end pianificato (feste e una partita di football con i miei amici), così ho scrollato le spalle e mi sono incamminato. Mentre stavo camminando vidi un gruppo di ragazzini che correvano incontro a Kyle. Gli corsero addosso facendo cadere tutti i suoi libri e lo spinsero facendolo cadere nel fango. I suoi occhiali volarono via, e li vidi cadere nell’erba un paio di metri più in là. Lui guardò in su e vidi una terribile tristezza nei suoi occhi. Mi rapì il cuore! Così mi incamminai verso di lui mentre lui stava cercando i suoi occhiali e vidi una lacrima nei suoi occhi. Raccolsi gli occhiali e glieli diedi dicendogli: "Quei ragazzi sono proprio dei selvaggi, dovrebbero imparare a vivere." Kyle mi guardò e disse: "Grazie!". C’era un grosso sorriso sul suo viso, era uno di quei sorrisi che mostrano vera gratitudine. Lo aiutai a raccogliere i libri e gli chiesi dove viveva. Scoprii che viveva vicino a me così gli chiesi come mai non lo avessi mai visto prima. Lui mi spiegò che prima andava in una scuola privata. Prima di allora non sarei mai andato in giro con un ragazzo che frequentava le scuole private. Parlammo per tutta la strada e io lo aiutai a portare alcuni libri. Mi sembrò un ragazzo molto carino ed educato, così gli chiesi se gli andava di giocare a football con i miei amici e lui disse di sì. Stemmo in giro tutto il week end e più lo conoscevo più Kyle mi piaceva, così come piaceva ai miei amici. Arrivò il lunedì mattina ed ecco Kyle con tutta la pila dei libri ancora. Lo fermai e gli dissi: "Ragazzo finirà che ti costruirai dei muscoli incredibili con questa pila di libri ogni giorno!" Egli rise e mi passò la metà dei libri. Nei successivi quattro anni io e Kyle diventammo amici per la pelle. Una volta adolescenti cominciammo a pensare al college. Kyle decise per Georgetown e io per Duke. Sapevo che saremmo sempre stati amici e che la distanza non sarebbe stata un problema per noi. Kyle sarebbe diventato un dottore mentre io mi sarei occupato di scuole di football. Lui è sempre stato il primo della nostra classe e io l’ho sempre preso in giro per essere un secchione. Kyle doveva preparare un discorso per il diploma. Io fui molto felice di non essere al suo posto sul podio a parlare. Il giorno dei diplomi, vidi Kyle, aveva un ottimo aspetto. Lui era uno di quei ragazzi che aveva veramente trovato se stesso durante le scuole superiori. Si era un po' riempito nell’aspetto e stava molto bene con gli occhiali. Aveva qualcosa in più e tutte le ragazze lo amavano. Ragazzi… qualche volta ero un po’ geloso!
Oggi era uno di quei giorni, potevo vedere che era un po’ nervoso per il discorso che doveva fare, così gli diedi una pacca sulla spalla e gli dissi: "Hei ragazzo, te la caverai alla grande!" Mi guardò con uno di quegli sguardi (quelli pieni di gratitudine) e sorrise mentre mi disse: "Grazie". Iniziò il suo discorso schiarendosi la voce: "Nel giorno del diploma si usa ringraziare coloro che ci hanno aiutato a farcela in questi anni duri. I genitori, gli insegnanti, gli allenatori ma più di tutti i tuoi amici. Sono qui per dire a tutti voi che essere amico di qualcuno è il più bel regalo che voi potete fare… Voglio raccontarvene una". Guardai il mio amico Kyle incredulo non appena cominciò a raccontare il giorno del nostro incontro. Lui aveva deciso di suicidarsi durante il week-end. Egli raccontò di come aveva pulito il suo armadietto a scuola, così che la madre non avesse dovuto farlo dopo, e di come si stava portando a casa tutti i suoi libri. Kyle mi guardò intensamente e fece un piccolo sorriso. "Ringraziando il cielo fui salvato. Il mio amico mi salvò dal fare quel terribile gesto". Udii un brusio tra la gente a queste rivelazioni. Il ragazzo più popolare, ci aveva appena raccontato il suo momento più debole. Vidi sua madre e suo padre che mi guardavano e mi sorridevano, lo stesso sorriso pieno di gratitudine. Non avevo mai realizzato la profondità di quel sorriso fino a quel momento. Non sottovalutate mai il potere delle vostre azioni. Con un piccolo gesto potete cambiare la vita di una persona, in meglio o in peggio. Dio fa incrociare le nostre vite perché ne possiamo beneficiare in qualche modo. Cercate il buono negli altri.
"Gli amici sono angeli che ci sollevano in piedi
quando le nostre ali hanno problemi nel ricordare come si vola".
Il santo monaco Teodosio diceva al santo vescovo Atanasio che si era rifugiato nel deserto presso i monaci e si lamentava di essere inutile: “Guarda i fiori del deserto: sono bellissimi e fioriscono per niente. Nessuno li vede, in pochi giorni seccano e muoiono. A che servono dunque? Eppure alcuni dicono che servono a dare gioia a Dio. Puoi dunque stare contento anche tu, perché forse nel tuo esilio anche tu puoi dare gioia a Dio”.
Il falenino e la stella
Una piccola falena d’animo delicato s’invaghì una volta di una stella. Ne parlò alla madre e questa gli consigliò d’invaghirsi invece di un abat-jour.
"Le stelle non son fatte per svolazzarci dentro", gli spiegò. "Le lampade, a quelle sì, puoi svolazzare dietro". "Almeno lì approdi a qualcosa", disse il padre. "Andando dietro alle stelle non approdi a niente". Ma il falenino non diede ascolto né all’uno, né all’altra. Ogni sera, al tramonto, quando la stella spuntava s’avviava in volo verso di essa e ogni mattina, all’alba, se ne tornava a casa stremato dall’immane e vana fatica. Un giorno il padre lo chiamò e gli disse: "Non ti bruci un’ala da mesi, ragazzo mio, e ho paura che non te la brucerai mai. Tutti i tuoi fratelli si sono bruciacchiati ben bene volteggiando intorno ai lampioni di strada, e tutte le tue sorelle si sono scottate a dovere intorno alle lampade di casa. Su avanti, datti da fare, vai a prenderti una bella scottatura! Un falenotto forte e robusto come te senza neppure un segno addosso!" Il falenino lasciò la casa paterna, ma non andò a volteggiare intorno ai lampioni di strada, nè intorno alle lampade di casa: continuò ostinatamente i suoi tentativi di raggiungere la stella, che era lontana migliaia di anni luce. Lui credeva, invece, che fosse impigliata tra i rami più alti di un olmo. Provare e riprovare, puntando alla stella, notte dopo notte, gli dava un certo piacere, tanto che visse fino a tardissima età. I genitori, i fratelli e le sorelle erano invece morti tutti bruciati ancora giovanissimi.
Se c’è una stella nel cielo della tua vita,
non perdere tempo a scottarti a qualche lampadina.
A tutti i cercatori del tuo volto mostrati, Signore;
a tutti i pellegrini dell’assoluto, vieni incontro, Signore;
con quanti si mettono in cammino e non sanno dove andare cammina, Signore;
affiancati e cammina con tutti i disperati sulle strade di Emmaus;
e non offenderti se essi non sanno che sei tu ad andare con loro, tu che li rendi inquieti e incendi i loro cuori;
non sanno che ti portano dentro: con loro fermati perché si fa sera e la notte è buia e lunga, Signore.
David Maria Turoldo
Il nome dell’angelo
Un bimbo che stava per nascere si rivolse al
Signore: «Mi dicono che domani mi farai scendere sulla terra. Come potrò
vivere così piccolo e indifeso?».
«Fra tanti angeli ne ho scelto uno per te. Lui ti proteggerà. – rispose Dio. E
continuò: Il tuo angelo canterà per te parole dolci e tenere, con infinita
pazienza e tenerezza ti insegnerà a parlare». Ma il bambino chiese con
apprensione: «Come potrò parlare ancora con te?».
«Il tuo angelo unirà le tue manine e ti
insegnerà a pregare». Rispose Dio con dolcezza infinita. «Ho sentito dire che
la terra è abitata da uomini cattivi… Chi mi difenderà?». Chiese il bimbo
preoccupato. Dio, guardandolo con tenerezza gli rispose: «Il tuo angelo ti
difenderà a costo della propria vita».
«Ma il mio cuore sarà sempre triste, Signore, perché non ti vedrò più!». Disse
il bimbo con molta tristezza…
«Il tuo angelo ti parlerà di me e ti indicherà il cammino per ritornare alla
mia presenza; sappi, però, che io sarò ogni istante accanto a te!».
In quel momento si diffusero delle voci e dei
rumori ed il bambino angosciato gridò a gran voce:
«Signore, sto scendendo verso la terra! Dimmi ancora una cosa: qual è il nome
del mio angelo?!?».
E Dio sorridendo rispose: «Il nome non importa, tu lo chiamerai…mamma!».
Un augurio a tutte le mamme… alla mia, alla tua… a tutte tutte tutte!!!!
Con grida e danze si incontrano i bambini sulla spiaggia di mondi sconfinati.
Giocano i bambini sulla riva dei mondi…
Il mare e gli abissi non li conoscono, giocano sorridendo.
Le onde che portano la morte cantano ai bambini nenie senza senso, come quando fa la madre quando culla la sua creatura.
Il mare gioca con i bambini, e i bambini giocano.
S'incontrano i bambini sulla riva di mondi sconfinati ...
C'é sempre un grande convegno di bambini sulla spiaggia di mondi sconfinati….
Rabindranath Tagore
Eliseo e Gedeone
Eliseo e Gedeone erano stati grandi amici fin da bambini.
Ognuno dei due considerava l’altro come un fratello e in cuor suo ognuno sapeva che non c’era nulla che non fosse disposto a fare per l’amico. Alla fine si presentò l’occasione di testimoniarsi la profondità della loro amicizia. Ecco cosa accadde. Un giorno Gedeone fu arrestato dalla polizia. Senza alcuna prova lo accusarono di essere una spia al servizio del nemico. Un giudice distratto lo condannò a morte. "Hai un ultimo desiderio?", gli chiese il re, prima di firmare l’ordine di esecuzione. "Si, lasciami andare a casa per il tempo necessario di dire addio a mia moglie e ai miei figli e per sistemare le faccende domestiche". "Vedo che mi ritieni stupido", disse il re, ridendo. "Se ti lascio andare tu non tornerai più!". "Ti lascerò un pegno, una garanzia sicura", disse Gedeone. "Che tipo di pegno potresti lasciarmi che mi renda certo del tuo ritorno?", chiese il re. In quel momento Eliseo, che era stato per tutto il tempo in silenzio a fianco dell’amico, fece un passo avanti. "Sarò io il suo pegno", disse. "Tienimi qui come tuo prigioniero, fino a quando Gedeone non ritorni. La nostra amicizia ti è ben nota. Puoi star certo che Gedeone ritornerà fino a che mi trattieni qui". Il re studiò in silenzio i due amici. "Molto bene", disse alla fine. "Ma se vuoi veramente prendere il posto del tuo amico, devi accettare la sentenza. Se Gedeone non farà ritorno, tu morirai al suo posto".
"Manterrà la sua parola", replicò Eliseo. "Non ho alcun dubbio". Gedeone fu lasciato libero di andare e Eliseo fu gettato in prigione. Dopo molti giorni, poiché Gedeone non si presentava, la curiosità del re ebbe il sopravvento e il tiranno si recò nelle prigioni per vedere se Eliseo fosse pentito di aver fatto un simile scambio. "Il tuo tempo è quasi scaduto", disse il re sogghignando. "Sarebbe inutile chiedere pietà. Sei stato uno stupido a fidarti della promessa del tuo amico. Hai creduto veramente che avrebbe sacrificato la sua vita per te?".
"Ha incontrato qualche impedimento", rispose deciso Eliseo. "I venti gli avranno impedito di navigare, o forse avrà avuto dei contrattempi lungo la strada; ma, nei limiti delle umane possibilità, sarà qui in tempo. Confido sulla sua parola tanto quanto sulla mia stessa esistenza". Il re fu colpito dalla fiducia del prigioniero. "Lo vedremo presto", disse, e lasciò Eliseo nella cella. Il giorno fatale arrivò. Eliseo fu prelevato dalla prigione e portato davanti al boia. Il re lo salutò con un sorriso compiaciuto. "Sembra che il tuo amico non sia tornato", gli disse ridendo. "Cosa pensi di lui adesso?". "E’ mio amico", rispose Eliseo. "Ho fiducia in lui". Mentre stava parlando, le porte si spalancarono e Gedeone entrò vacillando. Era pallido e ferito e stentava quasi a parlare per la stanchezza. Abbracciò l’amico."Grazie a Dio, sei salvo", ansimò. "Sembra quasi che tutto stesse cospirando contro di noi. La mia nave è naufragata nella tempesta, poi sono stato attaccato dai briganti lungo la strada. Ma non ho mai smesso di sperare, e alla fine ce l’ho fatta. Sono pronto a subire la mia condanna a morte". Il re ascoltò le sue parole con stupore e i suoi occhi e il suo cuore si aprirono. Era impossibile per lui resistere alla forza di simile fermezza. "La condanna è revocata", dichiarò. "Non avrei mai pensato esistesse un’amicizia così leale e fiduciosa. Mi avete dimostrato quanto fossi in errore, ed è giusto che siate ricompensati con la libertà. Ma in cambio vi chiedo un grande favore"."Di che favore si tratta?", chiesero i due amici. "Prendetemi come terzo amico" – rispose commosso il re!
Nessuno ha un amore più grande di questo; dare la vita per i propri amici…
La carità è l'unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. (beato Isacco Della Stella)
Solo amando si riescono a comprendere certe cose.
Quando si ama si capisce di più.
Le persone che hanno influenzato di più la nostra vita sono le persone che ci hanno amato di più.
Ciò significa che l'amore è la facoltà che scava più profondamente in noi e lascia le tracce. (Padre Andrea Gasparino)
L'amore non aspetta le grandi occasioni, sfrutta le piccole.
Non cercare gli uomini con la lanterna, ma col cuore, perché il loro cuore si apre soltanto con l'amore.
Amare e' sentire come propri i desideri, le nostalgie e le tristezze dell'altro.
L'amore e' l'unica forza capace di trasformare un nemico in un amico. (Martin Luther King)
Senza amore si muore.
Le persone si costruiscono con l’amore. Il tempo dell’amore può essere il tempo in cui si riscopre Dio. L’amore se impostato con serietà costringe a pensare e a rivedere molte cose della propria vita. Quando si fa posto a Dio, si capiscono e si possono capire tante cose che prima sembravano impossibili. (Giordano Muraro)
L’amore e' la sfida al mondo: e' la vittoria sul peccato e sulla morte. L’amore e’ il senso pieno della vita. Non c’e’ che una vecchiaia: quella che nasce dal rifiuto dell’amore. L’amore e' una parola fatta di luce, scritta da una mano di luce su una pagina di luce. (Kahlil Gibran)
IL SEGNO
C’era una volta, in un paese di cui forse un giorno vi parlerò più a lungo, una famiglia felice. Non era né ricca né povera, perciò i suoi componenti vivevano semplicemente, ma senza ricercatezza, e se un figliolo cresceva in fretta, ce n’era subito uno minore pronto a indossare la maglietta divenuta stretta, i calzoncini ormai troppo corti; e non se ne vergognavano, perché avevano imparato che la felicità non dipende da ciò che si indossa, ma dalla pace che si ha dentro. Ai loro quattro ragazzi i genitori avevano insegnato anche altre cose: ad essere sempre occupati, a studiare sul serio, a giocare insieme, e anche, molto presto, a pensare al loro futuro, a scegliere un lavoro che li avrebbe resi utili al prossimo, incominciando presto ad avere uno scopo nella vita. Così il più grande, che amava lo studio, si dedicò ad esso con tutte le energie per divenire medico in una città lontana, il secondo amava le lingue, e appena fu adolescente, partì per l’estero, e i genitori si rallegrarono quando seppero che aveva un ottimo lavoro, e così pure il terzo pochi anni dopo entrò in commercio e si fece una buona posizione sociale. I genitori si sentirono un po’ soli, ma infine erano convinti che ad ognuno, al mondo, è assegnato un incarico dal Signore e che non spettava a loro impedire le scelte dei figli. Anzi, si preparavano in cuor loro a separarsi anche dall’ultimo. Questi per fortuna era ancora un ragazzo e non dimostrava alcuna fretta di scegliersi un’occupazione. Finiti i compiti della scuola, spariva in giardino ad osservare gli uccelli, o sedeva sul terrazzo a leggere libri di avventure. I genitori lo osservavano sorridenti, ma anche, a volte, imbarazzati. «Vuoi diventare scrittore?» gli chiedevano, un po’ scherzosi e un po’ per scoprire un segno. «Lo farei, se sapessi scrivere il più bel libro del mondo», rispondeva sorridendo. Si era comprato un flauto e in giardino si esercitava a suonarlo. «Ti piacerebbe fare il musicista? Vuoi andare al conservatorio?» chiedevano i genitori. Giovanni sorrideva ancora: «Solo se sapessi suonare le melodie più belle del mondo… !» Il tempo passava , e i genitori cominciavano a preoccuparsi. Un giorno scoprirono che aveva una voce dolcissima. Cantava da solo, come un uccello, un melodia limpida e dolce. «Ecco la tua strada!» – dissero felici – «diverrai un cantore famoso». Ma anche questa volta Giovanni rispose negativamente. «Amo cantare, ma non per farne un lavoro. Il canto deve essere gioia». Un giorno finalmente papà e mamma decisero di parlargli seriamente: «I tuoi fratelli hanno già scelto da lungo tempo il loro posto nel mondo, e quando noi moriremo sapremo che stanno facendo qualcosa di buono dell’esistenza che abbiamo loro donato. Ma tu non sembri avere preferenze… Devi decidere la tua strada». Giovanni li guardò in silenzio, pensoso, e replicò: «Ma a me piace tutto. Solo che non trovo il segno». Riprese in mano il suo flauto e avviandosi aggiunse: «Il mio segno verrà a me un giorno. E se non verrà andrò io a cercarlo». Altro tempo passò e un giorno Giovanni si presentò ai genitori vestito da viaggio, con il suo zainetto scolastico sulle spalle, e il solito sorriso disarmante: «Poiché il segno tarda, parto per andargli incontro», li informò. Stupiti gli chiesero: «Ma dove andrai ad incontrarlo, se non sai che segno è?». «State certi: quando lo vedrò saprò riconoscerlo», assicurò il ragazzo. E i genitori, che pure lo avevano tante volte esortato a prendere una decisione, e che sopportavano serenamente la lontananza degli altri tre figli, questa volta piansero. Gli chiesero un indirizzo e gli offrirono degli aiuti. Il figlio, che era ormai un giovane, rifiutò: «Mi guadagnerò da vivere strada facendo, e mi servirà come esperienza – disse – ma finché non so dove vado, un indirizzo non ve lo posso dare». Così Giovanni parti alla ricerca di un segno. Il giovane passò dalla grande città alla campagna, dalla campagna alle verdi colline, aiutava in tutti i lavori che riusciva a fare, ma in nessun luogo decideva di fermarsi. E continuava nella sua ricerca. Un giorno si sentì troppo scoraggiato, ed era così stanco che si addormentò per via seduto al riparo di un albero. Si svegliò a un tratto e si stropicciò gli occhi pensando di sognare. Gli stava davanti un angelo alto e snello, era vestito di una tunica bianca e in mano teneva un bastone da viaggio e un giaccone di pelliccia, come quelli usati dai pastori nelle freddi notti di montagna. I due si fissarono in silenzio: «Sei un angelo?» chiese infine Giovanni. «Sì, sono un Angelo», rispose la figura luminosa. E accennò al meraviglioso paio di ali che aveva sulle spalle, candide e splendenti come la fresca neve delle montagne e solo in punta, azzurre come il cielo d’estate». «Ma gli angeli non hanno bisogno di ali», obiettò Giovanni, perché lo aveva imparato al catechismo. «Certo che non ne ho bisogno! – rispose l’angelo -. Ma esse sono un simbolo. Sono bianche perché il fango non le ha mai macchiate, né impolverate la terra, ed hanno la punta azzurra per ricordare che solo per il cielo sono state create». Giovanni era pieno di ammirazione. «Come sei bello, angelo! – disse. – In un certo modo vorrei assomigliarti. Ma sto cercando un segno sulla mia strada, perché vorrei troppe cose, e le vorrei tutte insieme. Vorrei suonare, cantare, danzare, essere felice più di tutti gli uomini … ». L’angelo lo guardò con tenerezza. «Tu sei innamorato, ragazzo! Sei innamorato della Bellezza. E’ alla Bellezza che vuoi dedicare la tua vita». Giovanni rimase un attimo pensoso ed esclamò: «Forse è come dici tu! Ma dove posso trovare la Bellezza? … » «Devi trasformare in Bellezza la tua vita – rispose l’angelo – e poi raggiungerai la Bellezza. Ora non perdere tempo». Mise il bastone in mano al giovane e gli appoggiò sulle spalle il giaccone. «Prendi il sentiero delle montagne. Delle montagne più alte e coperte dalle nevi perenni». «Ma il segno? – chiese Giovanni – Dove mi dovrò fermare?». «Non ti preoccupare – disse l’angelo -. Prendi il sentiero che va verso le montagne e cammina. Ti farò io trovare il segno». E sparì. Giovanni riprese il cammino, riconfortato. Il bastone gli servì nei passi più aspri, e sulle cime più alte si riparò il capo con il ruvido cappuccio di pelo. Cercava ospitalità per la notte nei casolari e nelle baite. Un giorno, verso sera, vide, seminascosto dalla neve, un monastero, vecchio, fatto di solida pietra. Si avvicinò per chiedere rifugio per quella notte. Ma mentre cercava una campana per suonare, lo colpì qualcosa che vide per terra. Giovanni raccolse quel qualcosa, lo guardò con riverenza, delicatamente lo depose nel suo zaino, poi tirò la campana della porta. Dopo un po’ un vecchio monaco aprì. «Cerchi accoglienza per questa notte?», chiese. «No – rispose con impeto Giovanni – la cerco per tutta la vita». Il vecchio monaco rise divertito. «Oh, come fate in fretta voi giovani! Non è poi così semplice!». «Ma io ho trovato il segno! – esclamò Giovanni, felice – il segno che ho tanto cercato!». Il monaco portinaio condusse il ragazzo dall’abate, al quale il ragazzo raccontò la propria storia. Ed era tanta la gioia, splendeva tanto il suo sguardo, che il Padre Abate restò colpito. «Proviamo!», disse infine. E chiamato il padre Maestro, gli consegnò il ragazzo perché, secondo la Regola, lo provasse nella vocazione. Eventuali, rari ospiti del vecchio monastero, capitati in foresteria per sfuggire al maltempo o per fare ritiro spirituale, notarono nel coro monastico, la testa bruna di un giovane monacello che aveva una splendida voce e uno sguardo luminoso. Ma non pensarono di dirlo a nessuno. E così fratel Felice (così avevano chiamato Giovanni) non diede di sé più alcuna notizia. Se scrisse ai genitori, la lettera non arrivò mai; e non avendo l’indirizzo, non poterono rintracciarlo. Nel silenzio visse, dunque, fratel Felice, sconosciuto, cantando le lodi della suprema Bellezza, Dio, finché Egli lo chiamò a Sé. Quando il fratello infermiere andò a vuotare la cella di fratel Felice, trovò solo pochi libri che portò al Padre Abate. Da uno di essi uscì una strana penna, lunghissima e bianca, con la punta azzurra come il cielo. E il Padre Abate, considerando che quello strano segnalibro doveva essere ben caro al monacello defunto, se lui, che in tutto era così povero, aveva voluto conservarlo, decise che venisse sepolto con lui. «In fondo – osservò pensoso – in qualche modo gli assomiglia: è candida, semplice, e termina nell’azzurro… come il cielo!». Un’anima infiammata d’amore
non può rimanere inattiva. (Santa Teresa di Lisieux)
Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria, per la tua fedeltà,
per la tua grazia.
Ho voluto iniziare a scrivere la mia testimonianza avendo davanti queste
parole del Salmo 113 perché desidero dare gloria a Dio senza aggiungere o
togliere nulla alle meraviglie che Egli ha compiuto nella mia vita. E visto
che non è facile riassumere in poche parole la storia della mia vocazione, o
per meglio dire, della mia vita, invoco l’aiuto dello Spirito Santo e lascio
libera la mia mano di scrivere ciò che la mente e il cuore mi suggeriscono
momento per momento, sapendo già che le mie parole limitate non renderanno mai
pienamente gloria all’infinità di Dio. Confido comunque nella Sua misericordia
e sono certa che Egli infonderà il Suo amore e la Sua grazia nel cuore di chi
legge o ascolta. Sono arrivata nel monastero di Modica dopo un lungo e provato
cammino. Mai avrei immaginato che un giorno sarei diventata monaca, anzi…
quando anni fa una persona mi domandò se avevo intenzione di farmi suora, fu
per me una grande offesa; perché consideravo le suore come donne che non erano
state capaci di realizzarsi nella vita e perciò per ripiego avevano scelto
tale strada, rimanendo frustrate e senza coraggio. Insomma non mi piacevano!
Le claustrali poi erano la vergogna di questa “specie” !
Perché vivevano lontano da tutti e da tutto, chiuse al buio a dormire, pregare e pensare solo a se stesse senza tirarsi su le maniche e andare lì dove c’era realmente bisogno! Pensavo: – A che serve solo la preghiera? Gesù non andava forse ad evangelizzare tra la gente e soprattutto tra i poveri? Quindi che senso ha la clausura? Nell’ardore “tuttofare” dei miei venti anni non concepivo questa chiusura e la giudicavo inutile. E nel mio frettoloso, superficiale giudizio mai mi ero soffermata a riflettere che lo stesso Gesù prima di affrontare qualsiasi cosa si ritirava in solitudine con il Padre per ricevere da Lui la forza di andare oltre la sua umanità. Né avevo mai considerato che come l’albero senza le radici (nascoste ed apparentemente inutili) non può vivere; così la Chiesa senza l’incessante preghiera dei monasteri non può esistere. Credevo nell’ideologia marxista e nel comunismo e per alcuni anni mi sono illusa di essere nella verità. Poi la storia mi ha dimostrato il contrario! Non capivo più chi ero, dove stavo andando e cosa realmente cercavo. Volevo la verità, il senso della mia vita! Fu proprio in questo tempo che Dio entrò piano piano, quasi in punta di piedi, nella mia vita. No. Non è esatto! Ricomincio l’ultimo pensiero dicendo che fu proprio in questo tempo che mi decisi di volgere lo sguardo a Dio ed aprirGli un piccolissimo spazio nel mio cuore. Inutile dire che Lui non aspettava altro! (…e da sempre!) E così senza nessuna violenza, rispettando sempre i miei tempi di comprensione e libera accoglienza, piano piano, … quasi in punta di piedi, cominciò a conquistarmi. Iniziai a leggere il Corano, a meditare Yoga, a conoscere i testimoni di Geova, gli Evangelisti protestanti, a frequentare i diversi gruppi ecclesiali presenti nella mia Parrocchia. Tutto volevo vedere, capire, conoscere. Non ho mai pensato però di abbandonare gli insegnamenti cattolici ricevuti sin da piccola in famiglia. Ricordo che in questa affannosa ricerca tutto mi sembrava buono e giusto. Ma… mi sentivo incapace di compiere ciò che mi veniva chiesto o proposto dalle varie “voci”. Il sentirmi dire: – Devi essere così, …Bisogna fare in questo modo, …ecc... mi dava un senso di oppressione perché non riuscivo ad essere diversa da come ero. Né tantomeno volevo omologarmi agli altri senza capire e accettare coscientemente quello che facevo. Continuai così a cercare il senso della mia vita lasciandomi guidare dalle situazioni concrete che la vita quotidiana mi presentava. Nel “buio della mia realtà” mi guidava solo il desiderio dell’Amore vero e libero. E senza accorgermene la mia rigida razionalità diminuiva per equilibrarsi adeguatamente con gli incontrollabili sentimenti del mio cuore. Trovai quindi la libertà e la certezza di essere sulla via giusta solo quando il Signore, con i suoi fantasiosi tragitti, mi condusse alle catechesi del Cammino Neocatecumenale dove finalmente e per la prima volta mi sentii dire che Dio mi amava così come ero, col mio passato e il mio presente. Che meraviglia non dovevo far nulla! …O meglio, dovevo fidarmi di Dio… e, quasi per sfida,… decisi di farlo perché volevo che la mia vita cambiasse. Ma cambiasse secondo la mia mentalità materialista. Ambivo infatti ad un buon lavoro, ad un felice matrimonio,ad una buona posizione sociale. Ma con infinita pazienza, tenerissima severità, costante fermezza, Dio ha “dirottato” queste mie grandi ambizioni e mi ha diretto verso ideali molto, molto più elevati. Con l’ascolto assiduo della Parola, la partecipazione all’Eucaristia e la condivisione esperienziale con i fratelli e le sorelle di comunità, capii che solo Dio è Via, Verità e Vita. Nel 1997, senza borsa né bisaccia, cioè senza sapere nulla di ciò che mi aspettava, partii in missione per Monaco di Baviera dove per un anno mi accolse una famiglia italiana itinerante del Cammino Neocatecumenale. Lo stesso quando partii per Taiwan. Neanche sapevo dove si trovasse geograficamente. Solo dopo scoprii che era un’isola cinese! Che meraviglia, che grazia! Dio aveva esaudito il mio sogno: andare in Oriente, in Cina! Ma a distanza di un anno, nonostante mi piacesse molto quello che facevo, non mi sentivo ancora completa, non ero arrivata al traguardo. Così d’accordo con i miei catechisti e il mio parroco, che nel frattempo seguivano il mio cammino di discernimento, decisi di fermarmi a casa e capire cosa volesse realmente il Signore. Non è stato facile rimettermi in gioco e riprendere la vita di prima; però volevo andare fino in fondo, volevo essere ciò che Dio aveva pensato per me fin dall’eternità. Era Lui l’Amore che da sempre cercavo e ora che l’avevo trovato non volevo più lasciarLo. Era esigente… ma UNICO! Confusa, ma decisa a non mollare andai per otto giorni in un monastero di Clarisse. Non che avessi qualche preferenza particolare per i francescani o per qualsiasi altro Ordine; anzi, per me erano tutti uguali. Andai solo per riflettere, per essere libera da ogni condizionamento e… sotto sotto… per la curiosità di vedere che mondo era la clausura. Beh! Dovetti ancora abbassare la testa e ricredermi. Ammettere che tutti i miei giudizi precedenti erano sbagliati. Sbagliatissimi! Dovetti riconoscere a me stessa che quelle donne non erano chiuse nel buio dell’indifferenza ma nella luce dell’amore che emanavano dal loro sguardo vivo, dal loro sorriso sereno e rassicurante. Erano donne libere, non frustrate o in fuga. Erano talmente libere da rinunciare alla propria libertà! Che meraviglia!… In quei giorni mi sentii il mondo nelle mani. Ecco cos’era la clausura! Donarsi a Dio per il mondo intero, aiutare tutti e chiunque contemplando Cristo morto e risorto, avendo la certezza che a Lui nulla è impossibile. È Lui il Signore, il Padre, lo Sposo, l’Amico, il Fratello! Tornai quindi a casa edificata da quella esperienza e col desiderio di ripeterla. Dopo un po’ di tempo un’amica mi chiese se ero disponibile ad accompagnarla per alcuni giorni dalle Benedettine del SS. Sacramento in Sicilia. Entusiasta accettai vedendo in questo invito una chiamata di Dio. Come al solito partimmo ignare di tutto, sapendo solo il nome del paese e quello del monastero. Il viaggio non fu affatto facile e… stanche anche di mormorare…finalmente arrivammo! Il sorriso della monaca della foresteria e tutte le sue premure materne cancellarono tutto e noi entrammo nella pace. Io però internamente rimasi ancor più frastornata perché nel varcare la soglia del monastero, come un’adolescente al primo amore, ebbi un tuffo al cuore. “Che succede?- ” pensai … ma finsi indifferenza. Ritornata a casa il mio pensiero continuamente andava al Monastero, ed in particolare al Tabernacolo. Credevo di non poter dimenticare quei giorni solo perché ero stata tranquilla, in silenzio e lontano dalla vita frenetica che conducevo fuori. Non certo perché la clausura fosse per me! Per togliermi il dubbio di una tale chiamata chiesi alla Priora se potevo ritornare in Monastero per un periodo più lungo. Lei accettò. Così tornai a Modica per convincermi che la clausura non fosse per me e che al massimo dopo un mese sarei scappata via. Sono passati quattro anni ed ancora, per grazia di Dio, sono qui! Convinta si… ma del contrario! Ora non cambierei la mia vita per nulla e sono grata al Signore per tutto quello che mi ha concesso. Sono felice e mi sento libera come non mai. Ho tutto, il Tutto. L’otto settembre 2007 con la Professione Temporanea di tre anni penso di aver coronato il mio desiderio di libertà. Pronunciando i voti di castità, povertà, obbedienza e stabilità sotto clausura non ho rinunciato a nulla; credo invece di aver guadagnato il mondo intero e di doverlo custodire e proteggere con tutte le mie forze perché appartiene al mio Sposo, al mio Dio. Con essa sono arrivata al traguardo della mia personale ricerca e all’inizio di una nuova vita. Nuova non perché ora indosso l’abito monastico ma perché inizio a servire Dio in una dimensione diversa. Per grazia di Dio il giorno del mio sposalizio, perché tale è la Professione, ho vissuto tutta la celebrazione in una grande pace e con la gioia di vedere che tutta l’assemblea glorificava il Signore per la bellezza e il dono della mia consacrazione e quella di sr. Josepha, mia sorella gemella nel cammino monastico. Ringrazio Dio di avermi anche concesso per tutta la durata della celebrazione e dei festeggiamenti un pieno autocontrollo. Infatti pur essendo presente e partecipe in corpo e anima, mi sentivo al di fuori di tutto il contesto. Vedevo la numerosissima assemblea, sentivo tutto l’amore fraterno che, in concreto, mi esprimeva l’amore di Dio, gioivo sinceramente con tutti i presenti; ma nel contempo mi sentivo sola con il Solo. Quando ho indossato il velo poi, è stato come se mi fossi “trasfigurata”. Ho avuto la sensazione di essere nella mia vera identità. Come se l’abito monastico mi appartenesse da sempre. Era nuovo ed antico allo stesso tempo! La sera quando in cella ero realmente sola con il Solo ho pensato che dall’otto settembre 2007 io non ero più io. Non solo perché portavo un nuovo nome (da Patrizia a sr. Metilde) ma soprattutto perché portavo un abito che era segno evidente della presenza di Dio. Un abito col quale il Creatore si lascia condurre dall’interezza positiva e negativa della sua creatura. Un abito che indossa me e che ogni giorno mi sposa a Dio con la straordinarietà della vita ordinaria. Che bellezza! Che mistero insondabile! Non aggiungo altro. Come è impossibile far sentire il profumo di una rosa attraverso le parole di una poesia; così è per me impossibile far sentire il palpito del mio cuore quando penso di aver cantato a Dio il mio “Suscipe” .È straordinario e misterioso quello che Dio compie in un’anima quando questa si abbandona a Lui anche per un solo attimo e si lascia condurre dal Suo infinito amore. Concludo dicendo che provo una gioia indescrivibile quando ogni mattina mi avvio in Coro per la preghiera. Penso che Dio, nella Sua Misericordia, mi sta chiamando ad accompagnare il mondo intero nella nascita di un nuovo giorno per seguirlo poi fino a notte fonda nel silenzio dell’Adorazione Eucaristica. Ringrazio per la pazienza prestatami e per tutte le persone (tante) che il Signore ha posto sul mio cammino e grazie alle quali ho conosciuto concretamente il Suo Amore. Lode, onore e gloria a Dio nei secoli dei secoli. Amen (Sr.M. Metilde della volontà di Dio)
LA FORZA DELL’UMILE AMORE
Fratelli, non temete il peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, perché questa immagine dell’Amore di Dio e' anche il culmine dell’Amore sopra la terra ...
Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio. Coltolo una volta, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente. E finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale … Amate particolarmente i bambini, perché anche essi sono senza peccato, come gli angeli, e vivono per la nostra tenerezza, per la purificazione dei nostri cuori, sono per noi come un’indicazione. Certi pensieri, specialmente alla vista del peccato umano, ti rendono perplesso, e tu ti domandi: " Devo ricorrere alla forza o all'umile Amore?". Decidi sempre: ricorrerò all’umile Amore. Se prenderai una volta per tutte questa decisione, potrai soggiogare il mondo intero. L’Amore umile e' una forza formidabile, la più grande di tutte, come non ce n'e' un'altra ... Fratelli, l’Amore e' un maestro, ma bisogna saperlo acquistare, perché si acquista difficilmente, si paga a caro prezzo, con un lavoro continuato per lungo tempo, non dovendosi amare solo un istante, accidentalmente, ma sino alla fine ... Amici miei, domandate a Dio la gioia. Siate allegri come i bimbi, come gli uccellini del cielo. E non vi turbi nell’opera vostra il peccato, non temete che esso sciupi l’opera vostra e le impedisca di compiersi, e non dite: "Forte e' il peccato, forte l’empietà, forte il cattivo ambiente, mentre noi siamo soli e deboli; l’ambiente cattivo ci guasterà e non lascerà che l’opera buona si compia". Figli miei, non lasciatevi così abbattere! Non c’e' che un mezzo di salvezza: renderti responsabile di ogni peccato umano ... In verità noi siamo come erranti sulla terra e, se non ci fosse dinanzi a noi la preziosa immagine di Cristo, ci smarriremmo e ci perderemmo del tutto, come il genere umano prima del diluvio ... Se in te questo sentimento si indebolisce o si annulla, muore anche ciò che in te era stato coltivato. Diverrai allora indifferente alla vita e magari la prenderai in odio. Così la penso. (Fedor Michajlovic Dostoevskij da “I fratelli Karamazov"
Il mondo è stanco di odio.
La nostra natura e' incline a vedere solo il male nell'avversario, ad attribuirgli sempre il male, magari anche quello che non c'e'. Il male che vediamo in lui dipende quasi sempre dal nostro modo affrettato e meschino di vedere l'uomo. Quanto più sarai puro di cuore, tanto più comprenderai Dio e tanto più Gli sarai vicino. Cristo è la più grande sorgente di forza spirituale che l'uomo abbia mai conosciuto. Egli e' l'esempio più nobile di uno che desidera dare tutto senza chiedere nulla. Cristo non appartiene solo al Cristianesimo, ma al mondo intero. Sono persuaso che se Cristo tornasse, benedirebbe la vita di molti che non hanno mai sentito il Suo nome, ma che con la loro vita sono stati esempio vivente delle virtù da Lui stesso praticate: virtù di amare il prossimo più di se stessi, di fare del bene a tutti e del male a nessuno. (Gandhi)
Il nuovo direttore
Un’azienda pensò che era giunto il momento di cambiare il proprio stile di gestione e assunse un nuovo Direttore Generale. Questo arrivò deciso a trasformare tutto, fin dalle fondamenta, e far diventare l’azienda più redditizia. Il primo giorno, accompagnato dai suoi due principali assistenti (assunti con lui), volle fare un’ispezione approfondita in tutta l’azienda. In magazzino tutti stavano lavorando alacremente, con la sola eccezione di un ragazzo che se ne stava appoggiato alla parete, mentre con le mani frugava nel portafoglio. Vista immediatamente una buona opportunità di dimostrare la sua filosofia di lavorare votata al massimo della produttività, il Direttore, con aria di superiorità, chiese al ragazzo: Quanto guadagni al mese? -700 euro, perché? Rispose il ragazzo, senza capire il motivo di questa domanda… Il Direttore tirò fuori dal proprio portafoglio 700 Euro e li diede al ragazzo, dicendo: questo è il tuo stipendio di un mese. Adesso sparisci e non tornare mai più! Il ragazzo guardò il denaro, lo contò e se ne andò ubbidendo all’ordine ricevuto. Il Direttore Generale a quel punto, gonfiando il petto, chiese allora a un gruppo di operai: qualcuno di voi sa che cosa ci faceva qui quel tizio? Sissignore – risposero attoniti gli operai – Era venuto a portare le pizze!!!!!!!
Morale: ci sono persone che aspirano solo a comandare, e si dimenticano che bisogna anche pensare…
Questo Gesù è un provocatore!
Io mi arrabbio, e Lui mi dice: Perdona!
Io ho paura,e Lui mi dice: Coraggio!
Io ho dubbi, e Lui mi dice: Fidati !
Io sono inquieto, e Lui mi dice: Sii tranquillo!
Io voglio star comodo, e Lui mi dice: Seguimi!
Io faccio progetti, e Lui mi dice: Mettili da parte!
Io accumulo, e Lui mi dice: Lascia tutto!
Io voglio sicurezza, e Lui mi dice: Dona la tua vita!
Io penso di essere buono: e Lui mi dice: Non basta!
Io voglio essere il primo, e Lui mi dice: Cerca di servire!
Io voglio comandare, e Lui mi dice: Ascolta!
Io voglio comprendere, e Lui mi dice: Abbi fede!
Io voglio tranquillità, e Lui mi dice: Disponibilità!
Io voglio rivincita, e Lui mi dice: Guadagna tuo fratello!
Io metto la mano nella spada. e Lui mi dice: Riconciliati!
Io penso alla vendetta, e Lui mi dice: Porgi anche l’altra guancia!
Io voglio essere grande, e Lui mi dice: Diventa come un bambino!
Io voglio nascondermi, e Lui mi dice: Mostrami la tua Luce!
Io voglio il primo posto, e Lui mi dice: Siediti all’ultimo!
Io voglio essere visto: e Lui mi dice: Prega nella tua stanza!
No! proprio non capisco questo Gesù!
Mi provoca, come molti dei suoi discepoli, anch’io avrei voglia di cercarmi un
maestro meno esigente.
Però anche a me succede come a Pietro: Io non conosco nessuno, che abbia
parole di vita eterna come Lui!
Se dovessi scegliere…
Se dovessi scegliere una reliquia della tua Passione, prenderei proprio quel catino colmo d’acqua sporca. Girerei il mondo con quel recipiente ad ogni piede cingermi l’asciugatoio e curvarmi giù in basso, non alzando mai la testa oltre il polpaccio per non distinguere i nemici dagli amici, e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo, del drogato, del carcerato, dell’omicida, di chi non mi saluta più, di quel compagno per cui non prego. In silenzio… finché tutti abbiano capito, nel mio, il Tuo amore. (Magdalene Delbrel)
La migliore maestra
Nel paese dove insegnava era considerata la maestra più severa della scuola. Come la maggior parte delle maestre dichiarava sempre di non avere preferenze, ma non era proprio così… in prima fila c’era un’alunna malvestita, poco pulita e piuttosto distratta. La maestra la riprendeva spesso, correggeva con la penna rossa tutti i suoi compiti e li marcava con uno zero. Un giorno, leggendo il curriculum di quell’alunna, trovò scritto dalla maestra del primo anno: “È un’ottima alunna, studia con impegno e dedizione: è un piacere averla vicino”. La maestra del secondo anno aveva scritto: “È un’eccellente studentessa e si comporta molto bene coi suoi compagni, ma ultimamente appare preoccupata perché sua madre ha una grave malattia”. Quella del terzo: “La madre dell’alunna è morta, è stato molto duro per lei. Lei cerca di fare molti sforzi, ma la situazione è pesante e difficile. Bisogna trovare il modo di aiutarla”. La maestra del quarto: “L’alunna rimane spesso indietro rispetto ai suoi compagni e non mostra interesse per lo studio. In classe spesso si addormenta”. Finalmente l’attuale maestra capì il problema della bambina e ci rimase male per non aver indagato prima sulle cause. Quando arrivò la fine dell’anno scolastico si sentì ancora peggio quando aprì i regali degli alunni. Quello della bambina orfana era avvolto in un vecchio sacchetto e la maestra provò un enorme imbarazzo quando dovette aprirlo di fronte a tutti. Trovò una vecchia bottiglietta di profumo, se ne mise due gocce e a quel punto gli alunni scoppiarono in una risata generale. Alla fine della giornata, prima di uscire, la bambina si rivolse alla maestra: “Signorina, oggi profuma coma profumava la mia mamma”. Da quel giorno la maestra decise di mettere in secondo piano la matematica, la storia e la geografia e si dedicò ad educare i suoi alunni, ponendo particolare attenzione a quelli che presentavano maggiori difficoltà. Quell’anno la bambina orfana fece passi da gigante e divenne una delle alunne migliori. Tre anni dopo la maestra ricevette una lettera della ex alunna in cui le diceva che era stata una grande maestra. Poi ne ricevette un’altra dopo cinque anni nella quale le raccontava che si era diplomata col massimo dei voti e che lei era stata una bravissima maestra. E così fu fino alla laurea, ripetendole sempre che era stata la miglior maestra della sua vita. Una delle ultime lettere era firmata “Dottoressa”; era l’invito al suo matrimonio. La ragazza desiderava che alla cerimonia, la sua adorata maestra occupasse il posto di sua madre.
Ognuno di noi può essere per gli
altri motivo di speranza e di gioia, basta saper vedere le necessità dei
fratelli, ma per fare questo occorre saper guardare “oltre” se stessi
e aprire il cuore per accogliere più che le mani per afferrare…
Godi delle piccole cose un giorno ti guarderai indietro e ti accorgerai che erano grandi. (Robert Brault)
C’era una volta, in un paese dell’Unione Europea, un piccolo monastero appollaiato sulla cima di una collina. Viveva là una comunità di dieci monaci, sotto la paterna benevolenza del priore, fra Gregorius. Non v’era casa organizzata meglio di quella; ogni frate occupava il suo posto, ognuno prestava il servizio che gli veniva richiesto. Mai nessuno arrivava in ritardo né in coro né ai pasti. Nessuno perdeva mai la corona del rosario o dimenticava la Bibbia in cappella. Tutti i visitatori che passavano di là – ve ne erano pochi perché il monastero si trovava in alto e la salita della collina scoraggiava i meno temerari – ripartivano dicendo: “Come è tenuto bene questo monastero! Che ordine! Che calma! Come sono seri questi frati, come sono coscienziosi!”. Certi padri che andavano là per riposare un po’ pensavano che il superiore doveva essere molto contento di vegliare su una famiglia così regolare. Fra Gregorius però non era tranquillo, anzi era assai tormentato. “Cosa devo fare, mio Dio, perché rinasca la carità tra i miei frati?” si chiedeva tutto il giorno. “Non c’è più gioia nel mio monastero perché non c’è più amore fra di noi. Anche oggi il frate portinaio – eppure bisogna riconoscere che è davvero troppo lento – ha lasciato fra Kevin sotto la pioggia. Kevin non ha detto niente, ma io ho letto una sfilza di rimproveri nei suoi occhi. E stasera, a tavola, la sgarbatezza del frate cuoco! Certo, fa il suo lavoro, ma con così poca attenzione per quelli che serve! E fra Rémi, così freddoloso, così delicato, snerva i fratelli per le attenzioni di cui bisogna sempre circondarlo. E quei due là che non vanno più d’accordo e si incrociano nel chiostro senza guardarsi!”. Fra Gregorius cominciava ad invecchiare. Era stanco e le sue preoccupazioni si aggiungevano a questa stanchezza. Si stropicciò gli occhi e si disse: “Basta. Non possiamo continuare a vivere così sotto lo sguardo di Colui che ci ha detto: ‘Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi’”. Ora, da quelle parti c’era un vecchio eremita che si diceva fosse molto saggio. Fra Gregorius ne sentì parlare e decise di recarsi alla grotta in cui viveva l’eremita. Quello, riconosciutolo, lo accolse a braccia aperte. Gli chiese notizie dei suoi frati. Allora, Gregorius gli raccontò le sue preoccupazioni, la sua tristezza al vedere che la sua comunità perdeva a poco a poco lo spirito di carità. Supplicò l’eremita di aiutarlo: “In cosa stiamo sbagliando?” Il saggio rifletté a lungo. Non diceva niente, ma da come muoveva le labbra fra Gregorius vide che pregava. Poi prese la parola: “Ti dirò qual è la vostra colpa. Si tratta di una colpa di ignoranza. Fra di voi c’è un santo e voi non lo sapete”. Fra Gregorius spalancò la bocca: “Un santo?…nella mia comunità?… un santo… come san Francesco o sant’Antonio? Sì, un santo”. Sbalordito da queste parole Gregorius si congedò dal vecchio eremita e ripartì per il suo monastero, tutto pensieroso. Alle 6, fece suonare la campana grossa, quella delle riunioni. Tutti i frati arrivarono e si sedettero intorno al loro Padre. Allora questi raccontò la sua visita al vecchio eremita e terminò il suo racconto con queste parole: “La nostra colpa, fratelli, è una colpa di ignoranza”. Ma parlava con tono molto dolce, pieno di benevolenza, erano davvero parole di un Padre: “Un santo vive nella nostra comunità e noi non lo sappiamo”. “C’è un santo fra di noi e non lo sapevamo”. I frati si guardavano meravigliati e si ripetevano l’un l’altro: “Un santo? Un santo? Sì, un santo, ed è uno di noi”. Ciascuno riprese la sua attività, molto preoccupato… "Un santo! Che roba!” diceva tra sé fra Ulrich. Accanto a lui stava fra Rémi, quello che era sempre un po’ malaticcio e che aveva sempre freddo. Lo sentì tossire e pensò subito: “E’ vero che ha sempre bisogno di un trattamento speciale e che dorme con due coperte in più perché è freddoloso. Ma forse sta male davvero e offre la sua sofferenza”. E il suo sguardo improvvisamente cambiò. Pensava: “Sarà lui il santo?”. E gli offrì il suo mantello. Fra Rémi che giudicava Ulrich abitualmente troppo burbero, pensò allora: “E’ vero che Ulrich non è proprio il più accomodante, ma è anche vero che è il più generoso. E se fosse lui il santo?”. E il suo sguardo si illuminò. A tavola il frate cuoco servì tutti con il suo solito fare maldestro. Il frate della foresteria, che stava per maledirlo interiormente perché aveva fatto cadere tre piselli che erano poi rimbalzati proprio sui suoi sandali, notò subito una cosa che non aveva mai notato prima. Il cuoco, conoscendo il suo debole per il formaggio, non esitava mai a dargli in gran quantità quello che preferiva e faceva lo stesso per tutti gli altri frati. Allora, ricredendosi, pensò: “E’ imbranato, sì, ma così altruista…e se fosse lui il santo?”. Fra Kevin – …che tutti chiamavano ”frate corridore” perché era lui che andava a fare la spesa – quella sera tornò con le braccia cariche di roba. Come al solito suonò con impazienza e come al solito dovette aspettare cinque lunghi minuti perché il frate portinaio venisse ad aprirgli con il suo passo lento. Ma per la prima volta, si rese conto che il frate portinaio gli veniva ad aprire con un gran sorriso che lui non guardava nemmeno più. “E’ lento – pensò – ma così buono…il santo è sicuramente lui”. Dalla finestra della sua cella fra Gregorius osservava questi cambiamenti e ne gioiva! D’improvviso, vide incrociarsi nel chiostro i due frati che non si guardavano più, ma la notizia della presenza di un santo aveva loro sciolto le lingue e sentì che si dicevano l’un l’altro: “Che notizia! Un santo nella nostra comunità! Chi l’avrebbe creduto?” A queste parole l’altro alzò gli occhi, i loro sguardi si incontrarono e ciascuno vide tanta dolcezza negli occhi dell’altro che nello stesso istante pensarono: “Non avevo più visto il suo sguardo e avevo dimenticato che era così bello… E’ lui il santo”. Così gli sguardi dei frati cambiarono direzione. I cuori si volsero gli uni verso gli altri in uno slancio di carità e nel piccolo monastero tornò la gioia. Fra Gregorius era proprio contento. Quella sera, si addormentò in pace ricordando le parole di san Paolo: “Siate santi come il Padre vostro che è nei cieli è santo” e sorridendo si addormentò.
Cfr. “Le frère saint”, Bollettino Federazioni Francesi, dicembre 2001
Molte volte le persone che ci sono vicine, sono esattamente come i nostri occhi vogliono vederle…
E' difficile fare le cose difficili: parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco. Bambini, imparate a fare le cose difficili: dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi. (Lettera ai bambini di Gianni Rodari)
Sia che tu abbia 20 anni, sia che ne abbia 80, se non ti alzi al mattino con una allegra impazienza di donarti al prossimo, ti manca qualcosa di insostituibile.
Impara a dare sorridendo. Un caso pratico: devi telefonare? Il tuo interlocutore ti vede solo attraverso la voce. Sorridi con la voce! Usa parole amabili! (E. Olivares)
Sufo
Sufo, il ricco mercante che vendeva la tela sulla piazza di Nazareth, quel mattino lasciò la sua bottega e si recò dal falegname Giuseppe. La casa di Giuseppe era un po’ fuori mano e così Sufo dovette sudare sotto il sole per raggiungerla. “Giuseppe! – chiamò il mercante affacciandosi alla bottega del falegname – Sono già venuto a ordinarvi l’arca del pane il giorno prima delle mie nozze; ora vengo a chiedervi la culla per il mio primogenito. Fatemi una culla degna di un re, di buon legno pregiato, che duri, riccamente istoriata e decorata. Sufo può spendere!” Il giorno seguente, Giuseppe si mise all’opera di buon mattino. Cercò un legno di cedro di bella vena verdiccia, forte, ma anche pastoso e docile ai ferri del falegname e ci lavorò tutto il giorno fino a tarda sera, perché aveva bisogno di quel guadagno. Era il mese dei tributi e bisognava dare a Cesare quel che era di Cesare. La mattina dopo, la culla era finita; Giuseppe l’aveva lavorata con grande amore. Per dondolarla sarebbe bastata la dolce melodia di una ninna nanna.
Giuseppe si recò alla bottega di Sufo con la culla. “Eccovi servito, messer Sufo. Maria mi ha dato i suoi consigli perché fossa fatta come piace alla mamme!” Sufo osservò la culla e cadde dalle nuvole. Non c’era nessun segno di ricchezza in quel pezzo di legno. Ai suoi occhi, la culla era un giaciglio povero e meschino. E fu così che Sufo cacciò Giuseppe dalla bottega. Tornando verso casa, carico della culla e di malinconici pensieri, Giuseppe si imbatté in Lisa, una cara amica di Maria, poverissima, rimasta vedova pochi giorni dopo aver partorito un figlio maschio. Il padre, ammalatosi gravemente aveva potuto tenerlo in braccio solo per pochi giorni. La donna raccontò di aver camminato tutto il giorno per cercare giunchi lungo il fiume. Voleva fare una culla per il suo piccolo, come si fanno i canestri; ma non aveva trovato che un piccolo fascio di rami marci. “Prendete questa già fatta – le sorrise dolcemente Giuseppe – Sufo il mercante non l’ha voluta. Il vostro bambino ci starà come il pane nella madia.” “Potessi pagarvela, sì che la prenderei!” rispose la povera vedova. E Giuseppe: “Prendetela Lisa, è vostra!”. E le lasciò la culla sulla porta di casa senza aspettare né benedizioni né ringraziamenti. Lisa sapeva bene che Giuseppe non era meno povero di lei. Tante volte aveva pesato con gli occhi il poco pane che Maria portava al forno per la cottura. Ma la culla era così bella che fece la gioia del piccolo e della madre. Lisa, venuta la sera, vi deponeva il bambino e cominciava a cantare una dolcissima melodia. Quel canto si diffondeva nella contrada silenziosa e giungeva in tutte le case di Nazareth. Il vento ne trasportava l’eco lontano lontano nell’oscurità della notte. La voce di Lisa era così limpida e serena che chi la udiva ci sentiva i colori della felicità. D’improvviso però il tono si faceva mesto e accorato, come se la mamma fosse stata trafitta per un attimo da una punta di malinconia. La sua voce tremava come un filo d’acqua nel vento, si oscurava per un momento come la luna al passaggio di una nuvola. Sul suo cuore scendeva il pensiero che la sua felicità era costata un dolore al falegname Giuseppe. Sufo si fece fare da un altro artigiano la culla per il figlio ormai nato: ricca, pesante e massiccia come un trono. La pagò un prezzo da dire sottovoce per non offendere la povertà. E vi mise a dormire il suo bimbo adorato. Ma questa culla regale si dondolava a fatica e, muovendosi, faceva un rumore così sgradevole da tenere sveglio il bambino. La nutrice a furia di dondolare finiva per addormentarsi, mentre il pargoletto continuava a piangere e a strillare, disturbato dalla nenia lamentosa di quel legno pesante. Un mattino Sufo, non potendo più sopportare la tortura del neonato e lo stridere di quella culla, andò da Lisa e le disse: “Datemi la culla del vostro bambino, vi pagherò quel che volete.” E lei: “Come potrei farne dono a voi senza offendere l’animo generoso che me l’ha regalata? Non ci penso affatto!” “Andrò da Giuseppe a ordinargliene un’altra”, pensò Sufo. Ma Giuseppe era alquanto indaffarato in quei giorni. Per intervento della provvidenza, aveva ricevuto alcune ordinazioni urgenti e lavorava di buona lena. “Mi spiace messer Sufo, ma ne avrò almeno per una stagione. Abbiate pazienza se vi dico che non posso soddisfarvi subito”. “E il mio bambino – sbottò Sufo – dove lo metto a dormire?” Giuseppe gli rispose: “Chiedete a Lisa di fargli un posto vicino al suo. La culla è grande”. Sufo tornò da Lisa: “Se non volete che questo – disse la donna – portatemi il bambino questa sera. Il mio canto basterò per tutti e due!” “A proposito – chiese Sufo – cos’è quella nota di dolore che turba a un certo punto la dolcezza della vostra canzone? Si sente che avete una spina nel cuore”. “Ogni notte, mentre canto, mi viene in mente che la mia gioia è costata un dolore al falegname Giuseppe. Il dolore che gli avete procurato voi!”. Sufo tornò da Giuseppe e gli disse: “Lasciate che vi paghi la culla, Giuseppe, se dovrò metterci a dormire il mio bambino”. “Io sono già stato ripagato in benedizioni da quella povera vedova – rispose Giuseppe – e quelle benedizioni sono diventate Provvidenza per me. Farei un cattivo affare se scambiassi queste benedizioni con un quattrino. Quella culla è leggera e trotta felicemente perché è la culla della carità. Non pagate me, ma prendetevi piuttosto cura di quella poveretta che non sa di che vivere.” Sufo decise di prendere in casa sua la vedova e il figlioletto e le chiese di essere nutrice del suo primogenito. Quella notte, i due bambini dormirono placidamente nella culla di Giuseppe, dondolata dal canto struggente e dolcissimo di Lisa. Anche Sufo, finalmente, trovò sonno nel pensiero che la carità d’un povero aveva riportato a lui, tanto ricco, la pace e la serenità.
… il bene non fa rumore… il rumore non fa bene! Ciao
“E’ necessario che ognuno di noi si interroghi sul suo comportamento nell’uso dei beni economici, tenendo presenti le necessità proprie e della famiglia nella vita di tutti i giorni e nello stesso tempo rendendosi conto delle necessità degli altri. Povertà vuol dire non riporre la speranza nei beni che, pur necessari alla vita, sono strumento per realizzare valori più alti e degni dell’uomo; non mirare al benessere come scopo supremo dell’esistenza.nLo spirito di povertà induce il cristiano a scelte di vita che lo avvicinano ai fratelli più poveri e lo rendono simile a loro, in una solidarietà che è testimonianza evangelica di fratellanza. Vicino ai più poveri il cristiano si sente impegnato a denunciare profeticamente le ingiustizie di una società che, mentre consente a minoranze privilegiate l’uso e l’abuso del potere e una grande massa di beni economici e culturali, impedisce a molti dei suoi membri di realizzare le condizioni indispensabili a un’esistenza degna dell’uomo”. (Michele Pellegrino, Camminare insieme)
Re Magi dimenticati
I ragazzi dell’oratorio di Santa Maria avevano preparato una recita sul mistero del Natale. Avevano scritto le battute degli angeli, dei pastori, di Maria e di Giuseppe. C’era persino una particina per il bue e l’asino. Avevano distribuito le parti. Tutti volevano fare Giuseppe e Maria. Nessuno voleva fare la parte dell’asino. Avevano così deciso di travestire da asino il cane di Lucia. Era abbastanza grosso e pacifico: con le orecchie posticce faceva un asinello passabile. Purché non si fosse messo ad abbaiare in piena scena!… Ma quando Suor Anna vide le prove dello spettacolo sbotto: “Avete dimenticato i Re Magi!”. Enzo, il regista, si mise le mani nei capelli. Mancava solo un giorno alla rappresentazione, dove trovare tre Re Magi così sui due piedi? Fu Don Giovanni, il vice parroco, a trovare la soluzione. “Cerchiamo tre persone della parrocchia – disse- Spieghiamo loro che devono fare i Re Magi moderni, vengano con i loro abiti di tutti i giorni e portino un dono a Gesù Bambino. Un dono a loro scelta. Tutto quello che devono fare è spiegare con franchezza il motivo che li ha spinti a scegliere proprio quel particolare dono”. La squadra dei ragazzi si mise in moto. Nel giro di due ore, erano stati trovati i tre Re Magi sostituti. La sera di Natale, il teatrino parrocchiale era affollato. I ragazzi ce la misero tutta e lo spettacolo filò via liscio e applaudito. Il cane-asino si addormentò e la barba di san Giuseppe non si staccò. Senza che nessuno lo potesse prevedere però, l’entrata in scena dei tre Re Magi divenne il momento più commovente della serata. Il primo Re era un uomo di cinquant’anni, padre di cinque figli, impiegato del municipio. Portava in mano una stampella, la posò accanto alla culla del Bambino Gesù e disse: “Tre anni fa ho avuto un brutto incidente d’auto. Uno scontro frontale. Fui ricoverato all’ospedale con parecchie fratture. I medici erano pessimisti sul mio recupero nessuno azzardava un pronostico. Da quel momento incominciai ad essere felice e riconoscente per ogni più piccolo progresso: poter muovere la testa o un dito, alzarmi seduto da solo e così via. Quei mesi in ospedale mi cambiarono. Sono diventato un umile scopritore di quanto sia bello ciò che possiedo. Sono riconoscente e felice per le cose piccole e quotidiane di cui prima non mi accorgevo. Porto questa stampella a Gesù Bambino in segno di riconoscenza”. Il secondo Re era una Regina, madre di due figli. Portava un catechismo. Lo posò accanto alla culla del Bambino e disse: “Finchè i miei bambini erano piccoli e avevano bisogno di me, mi sentivo realizzata. Poi i ragazzi sono cresciuti e ho incominciato a sentirmi inutile. Ma ho capito che era inutile commiserarmi. Chiesi al parroco di fare catechismo ai bambini. Così ritrovai un senso a tutta la mia vita. Mi sento come un apostolo, un profeta: aprire ai nostri bambini le frontiere dello spirito è un’attività che mi appassiona. Sento di nuovo di essere importante”. Il terzo Re era un giovane. Portava un foglio bianco. Lo pose accanto alla culla del Bambino e disse: “Mi chiedevo se era il caso di accettare questa parte. Non sapevo proprio cosa dire, né cosa portare. Le mie mani sono vuote. Il mio cuore è colmo di desideri di felicità e di significato per la mia vita. Dentro di me si ammucchiano inquietudini, domande, attese, errori, dubbi… non ho niente da presentare. Il mio futuro mi sembra così vago… Ti offro questo foglio bianco, Bambino Gesù. Io so che sei venuto per portarci speranze nuove. Vedi, io sono interiormente vuoto, ma il mio cuore è aperto e pronto ad accogliere le parole che vuoi scrivere sul foglio bianco della mia vita. Ora che ci sei tu, tutto cambierà!”
… e tu… cosa porteresti a Gesù Bambino?
2012 - PRO MANUSCRIPTO
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