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CON NOI PER SEMPRE

 

 

Carissimi,

Siamo abituati tra lettori di Schegge e amici a scambiarci gli auguri di buon Natale fondandoli sulla Parola di Dio.  Molti oggi non sanno neppure perché festeggiano il Natale e il Natale di chi. E’ diventata la festa del buonismo, del consumismo del (scusate il termine) rimbecillismo sentimentalistico. Noi festeggiamo un Dio che vuole stare in comunione con noi, un Dio che per amore si rivela fragile e debole, un Dio che ci svela il suo nome e il suo essere e festeggiamo la gioia di questa umanità che pur in mezzo a tutti i suoi guai si accorge non solo di non essere abbandonata da Dio, ma amata profondamente. Auguri dunque perché questa gioia e questa comunione possano essere intime, profonde, familiari, comunitarie. Riflettendo su questo desiderio di Comunione di Dio con noi, ho pensato di offrirvi come piccolo regalo natalizio una catechesi sulla Eucaristia, il modo base scelto da Gesù per rinnovare ogni giorno la sua Comunione con noi. Per molti di voi sono cose straconosciute e di questo ringraziamo Dio, per altri possono essere spunto per apprezzare sempre più questo dono meraviglioso ed essere in Comunione con Colui che viene. Portatemi a Lui nel vostro cuore ogni volta che lo ricevete come io vi porto a Lui ogni volta che celebro la Messa: la preghiera vicendevole è proprio il migliore augurio di un buon Natale che dura tutto l’anno.  Don Franco

 

 

PENSIERI CHE ARRIVANO DA LONTANO

In una parrocchia dove diedi il mio piccolo contributo per un po’ di tempo, un gruppo di laici convinti seguiva i corsi prematrimoniali. Normalmente incontravano i fidanzati per sei o sette settimane parlando con loro dei temi della famiglia, affidavano poi al prete gli ultimi due incontri perché parlasse loro di fede e di matrimonio cristiano. Il più delle volte succedeva che i ragazzi “subissero” il corso, per cui tra qualche “tagliata” e parecchie dormite arrivavano alla fine per avere questa “patente di matrimonio”. Questo mio sorridere davanti a certi corsi non mi esimeva però dal parteciparvi e dal cercare di mettercela tutta per trasmettere qualche valore. Una volta fui avvisato da chi aveva guidato il corso:”Questa volta ci sono coppie un po’ più sveglie di altre volte: sono riuscite a vivacizzare gli incontri” Quando toccò a me dissi: “Lasciamo perdere le solite cose e siamo sinceri vicendevolmente: perché siete venuti in Chiesa per sposarvi e non siete andate in comune?” Uno dalla battuta pronta disse: “Perché se no mia madre mi avrebbe tolto il saluto, e anche l’eredità”. La battuta servì perché subito dopo ne arrivò un’altra: “Ma vuol mettere come vengono le fotografie e la cerimonia in chiesa in confronto da quella in comune?”. Quasi a rimbeccare quei “miscredenti” subito vennero le risposte dei “Buonini”: “Noi siamo cristiani, dove vuole che andiamo a sposarci?”. Quasi a giustificarsi quello della battuta precedente: “Ma certo! Siamo tutti cristiani, tutti siamo stati battezzati!” “Chi sa se pero tutti viviamo da cristiani!” dissi. “E, Bé, reverendo quella è un’altra storia: posso mica porgere sempre l’altra guancia in questo mondo che non aspetta altro che riempirmi la faccia di schiaffi”. E ad incalzare un altra: “Piantiamola lì con la storia dei Beati i poveri: vai a dirglielo a un povero che è fortunato perché è spiantato”. “Il cristianesimo è giusto perché ci sia un richiamo morale, ma con tutto rispetto chi ci crede ancora a tutte le storie dei preti e a una chiesa ricca che predica povertà, che parla di amore poi vieta il profilattico”. Come se si fossero aperte le cataratte del fiume ecco venire fuori tutti i pregiudizi con fondamenti veri o falsi per giustificarsi con quella famosa frase: “Noi siamo credenti non praticanti”. “Va bene tutto, ma per favore non ditemi quest’ultima frase, dissi,  Come faccio ad essere credente se questa fede non mi porta almeno a tentare di manifestare quanto credo agli altri, è quasi come se tra fidanzati vi diceste: io ti amo ma tu fatti gli affari tuoi che io mi faccio i miei! E poi ragazzi, lasciatemelo dire: quanta ignoranza! Da quanto tempo non andate più a un incontro di catechismo, da quanto tempo non entrate più in una chiesa?” Da questa domanda venne fuori che sulle venti persone presenti, 3 erano entrate in Chiesa l’ultima volta il giorno della cresima, altri adducevano motivi di impegni vari, cinque o sei dicevano di andare  quando se la sentivano, altri entravano in chiesa solo per matrimoni e sepolture, solo una coppia, molto timidamente ammise che andava a messa quasi tutte le domeniche. In 5 che erano andati a scuola dai preti dicevano di aver fatto un tale rifornimento di messe in quegli anni che sarebbero loro servite per tutta la vita. Cercai di ragionarli con esempi loro accessibili tipo: “Se vi dicessero che la vostra rock star preferita vi offre in Piazza Castello alle dieci di lunedì un concerto gratuito e vi regala anche la sua ultima compilation, non fareste di tutto per andarci? E Gesù che vi offre se stesso, la parola di Dio che può dar senso alla nostra vita, la comunione piena nell’amore, non merita forse un po’ della nostra attenzione e partecipazione?” Alla fine feci loro una proposta: “Adesso avete tante cose a cui pensare, ma tra sei mesi vi mando un invito per trovarci a riflettere sul dono della domenica e dell’Eucaristia”. Nessuno si tirò indietro. L’invito fu mandato puntualmente e ben due coppie aderirono insieme ad altri “cristiani non troppo praticanti”e ad alcuni membri della comunità.  Ecco in schema quanto ci dicemmo in quegli incontri.

 

 

Vi vorrei parlare di un grandissimo dono: l’Eucaristia e il Giorno del Signore.

È un dono prezioso per tutti. Ma un dono spesso non capito. Mi vorrei rivolgere, anche se in punta di piedi, proprio a tutti.

 

A voi che dite “Io non credo”, “non mi interessa”.

Desidero dirvi subito: rispetto la vostra scelta. Ma permettetemi di parlarvi di una cosa molto bella che ho dentro di me. La Domenica contiene e offre a tutti valori preziosi: il riposo, la vita di famiglia, l’amicizia, la lettura, lo svago sano, il ritrovarsi insieme. La Domenica con la S. Messa offre la possibilità di incontrare il Signore, di ascoltarLo, di lasciarsi amare da Lui e di accogliere doni che fanno crescere i valori più belli della nostra vita terrena e ci aprono orizzonti di vita eterna. Sono doni belli per tutti. È per questo che ho desiderato rivolgermi anche a voi.

 

A voi che dite “Io sono cristiano, ma a Messa non ci vado”.

Ognuno di noi ha la sua storia personale: si nasce e si cresce dentro un contesto sociale e religioso. Non si va a Messa forse per abitudine familiare, forse per esperienze negative con la Chiesa o per mancanza di fiducia nel sacerdote. Su questo noi sacerdoti dovremmo riflettere. Mi permetto comunque di farvi un invito. Carissimi fratelli, provate a pensare al Battesimo che avete ricevuto e agli altri sacramenti. In questi incontri d’amore il Signore ci ha donato la sua VITA, la sua amicizia e ci ha inseriti nella Chiesa. Questo ricordo di gioia e di grande festa può risvegliare il desiderio di vivere la Domenica, con l’Eucaristia e gli altri momenti. È il giorno che il Signore ha riempito dei suoi doni perché la VITA di amore che ci ha dato e la vita di Chiesa possano crescere e svilupparsi.

 

A voi che partecipate alla Messa ogni tanto

È bello che viviate questi momenti. Noi sacerdoti vi accogliamo volentieri: nelle grandi feste, in occasione dei sacramenti o di funerali: sono appuntamenti con il Signore che toccano il cuore e ci fanno respirare un clima di fede; ci permettono di ascoltare la Parola del Signore e ci aiutano a pensare in profondità. Quando alla consacrazione del Pane e del Vino, Gesù si rende presente morto e risorto,  forse, nel profondo del nostro cuore, sentiamo un bisogno forte di dire “ Grazie, Signore.” E potrebbe nascere, dentro di noi la decisione di partecipare all’ Eucaristia ogni Domenica.

 

A voi che partecipate alla Messa ogni Domenica

Continuate a partecipare con sempre maggior fede, amore e coinvolgimento! È un dono grande che riempie la nostra vita cristiana. Siatene orgogliosi. Il Signore trovi sempre più accoglienza nella vostra vita e la renda sempre più libera, più bella, più ricca di valori e di gioia. Il vostro modo di partecipare al Giorno del Signore diventi una testimonianza preziosa per quanti incontrate sul sentiero della vostra vita. Siate missionari senza frontiere, nutriti del pane eucaristico nella Messa domenicale ben partecipata.

 

A voi GENITORI

State vivendo l’amore sponsale, la vita familiare, la responsabilità educativa, il lavoro e tanti avvenimenti e problemi che la vita vi fa incontrare. Mi permetto qualche suggerimento:

Vivete il giorno del Signore e partecipate all’Eucaristia. Accoglietene i doni. Il vostro amore e la vostra missione, a volte tanto difficili, verranno purificate, rafforzate ed elevate. Accompagnate in parrocchia e a Messa i vostri figli. Mio papà e mia mamma non mi dicevano: “ Vai a Messa” con le parole. Me lo dicevano coi fatti. Non ho mai visto i miei genitori tralasciare la Messa. Accompagnate con gradualità anche i figli piccoli. Certamente il loro modo di comprendere è diverso dal nostro e la carità verso i fratelli ci farà trovare il modo di non creare disturbo, ma  è importante che vivano l’esperienza del trovarsi in Chiesa e nell’Assemblea, che vedano e ascoltino e . . . partecipino “a modo loro”.

 

Alle COMUNITÀ che celebrano l’Eucaristia

Siate comunità ACCOGLIENTI:

 

COSA ANDIAMO A FARE A MESSA NEL GIORNO DEL SIGNORE

La mamma mi ha insegnato a dire “grazie” a chi mi dava anche solo una caramella.

Quando ci svegliamo, ogni mattino, camminiamo sulla terra, respiriamo l’aria, accogliamo la luce ed il calore del sole, mangiamo i cibi, ammiriamo il creato. Ben più di una caramella! Ebbene . . .

 

IL GIORNO CHE IL SIGNORE HA PREPARATO PER NOI

Il Giorno del Signore, con al centro l’Eucaristia, è come un FIUME di DONI e di GRAZIA che il Signore fa scendere nella storia per noi. È il giorno in cui il Signore è Risorto e ha donato lo Spirito. La Chiesa fin dall’inizio l’ha celebrato come il Giorno del Signore con al centro l’Eucaristia. Giorno che il Signore ha ricolmato di doni. Se accogliamo questi doni, vediamo le persone rinascere, la vita rifiorire, l’amore crescere, la pace, la speranza e la fede riempire il cuore delle persone, delle famiglie e delle comunità.

Elenco, brevemente, alcuni di questi doni:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIVERE IL GIORNO DEL SIGNORE PER VIVERE BENE LA SETTIMANA

 

 

 

 

 

 

CONOSCERE CIÒ CHE SI CELEBRA IMPARIAMO IL SIGNIFICATO DEI NOMI

 

1. CENA DEL SIGNORE

Questo termine sembra essere relativamente recente e qualcuno storce un po’ il naso ad usarlo per indicare la Messa anche perché è simile a “Santa Cena” usato dai protestanti. Questo è però il nome più antico usato addirittura da San Paolo (1Cor. 11,20): “Il vostro non è più un mangiare  la Cena del Signore” Dicendo “Cena del Signore” si precisa che non si tratta di una cena o convito qualsiasi ma di quella del Signore Gesù, non solo da Lui istituita prima di morire ma da Lui risorto affidata alla Chiesa. Dire Cena del Signore fa dunque pensare ad un sedersi insieme e con il Risorto per comunicare con Lui. Il nome di Cena del Signore include ancora due aspetti. Primo, che si deve partecipare, e precisamente nutrirsi tanto della Parola che del Corpo di Cristo: non ha senso partecipare ad un convito e poi astenersi dal prendere cibo e bevanda. Secondo, che ogni cena richiama l’idea di gruppo, di una comunità della Chiesa: evoca la presenza dei fratelli o dei familiari con i quali si dialoga, si approfondisce il legame fraterno e di amore.

 

2. FRAZIONE DEL PANE

Mentre “Cena del Signore” fu il primo nome cristiano col quale si indicò la Messa, il termine “frazione del Pane” fu il primo nome ebraico che ricorre negli Atti degli Apostoli

(At. 2,42): “Perseveravano nella frazione del Pane”, (At. 20,7.11): “La domenica, quando ci riuniamo per spezzare il Pane

E’ il gesto che Gesù fece nell’Ultima Cena, è il gesto attraverso cui viene riconosciuto il Risorto dai discepoli di Emmaus (Lc. 24,32 e 35). San Paolo, nella lettera ai Corinti (10,16—17) scrive: “Il pane che noi spezziamo non è forse comunione al Corpo di Cristo? Poiché uno solo è il pane, uno solo siamo (noi), i molti: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane”. Partendo dal fatto che un unico pane era spezzato e distribuito ai presenti e ricordando che, secondo la fede, quel pane è il Corpo di Cristo, Paolo afferma che mangiando di quell’unico pane noi diventiamo un corpo solo, formiamo il Corpo di Cristo. Unendoci a Cristo nel sacramento, mangiando il suo corpo e bevendo il suo sangue, siamo trasformati nel suo corpo. La Comunione Eucaristica produce quindi una strettissima unione tra noi in Cristo, o meglio, Cristo donandoci il suo corpo assimila e incorpora a sé tutti e ciascuno.

 

3. MESSA

E’ il nome più comune. Tutti capiscono che cosa si intende con questa parola, pochi invece sanno il suo significato. Messa (Missa) è una parola latina equivalente di “missio, dimissio” che significa: congedo, commiato, licenziamento. Era il nome che i latini davano allo scioglimento di una adunanza. Così il linguaggio liturgico cristiano usa questa espressione come congedo al termine della celebrazione eucaristica. “Ite, Missa est”: Andate, è la fine, il momento di separarsi. Poco per volta questo termine di congedo incominciò a indicare tutta la celebrazione. Vi si può intravedere l’esortazione a riprendere il lavoro quotidiano, a proseguire il nostro cammino e a restare uniti nella pace di Cristo. Quell’ “andate” si riallaccia al comando di Cristo: “Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo a tutte le creature” (Mc. 16,15). Il cristiano che ha partecipato al sacrificio del suo Signore, offerto per la salvezza del mondo... non può accontentarsi di tornarsene a casa, pago di aver compiuto il suo dovere e di essere in regola. Senza trasformarsi in missionario o predicatore, deve sforzarsi di irradiare intorno a sè la giustizia e la carità.

 

4. EUCARISTIA

Questo nome parte proprio dall’Ultima Cena dove Gesù “dopo aver reso grazie, (eucaristesas) spezzò il pane”. Eucarestia equivale dunque a “rendimento dì grazie”. Tutta la celebrazione della Messa è rendere grazie. Il cristiano che partecipa all’Eucarestia deve sentirsi animato, dall’inizio al termine, da un atteggiamento interiore di gratitudine verso Dio per la salvezza operata da Cristo.

 

 

PER PARLARE DI EUCARISTIA PARTIAMO DA GESU’

 

LA STORIA DI GESU’

Conosciamo tutti la storia di Gesù che visse circa duemila anni fa in Palestina, si presentò come inviato da Dio, profeta. Per diversi anni percorse la Palestina predicando una vita di conversione. Affermò anche che Dio era suo Padre, presentandosi così come uguale a Dio (Gv. 5,18). Confermò le proprie parole con molti segni di potenza divina, i miracoli, in particolare con le guarigioni e le risurrezioni dei morti. Gesù morì di morte violenta. Condannato dalle autorità religiose e politiche, fu inchiodato su una croce, sulla quale morì davanti a numerosi testimoni. Era il venerdì che precedeva la grande festa della Pasqua ebraica. Ma a partire dalla domenica seguente, molti suoi discepoli, in occasioni diverse, lo videro vivo. I discepoli, testimoni di questo hanno conservato fedelmente una promessa di Gesù: Egli sarebbe rimasto con loro, per sempre.

 

LE PROMESSE DI GESU’

i Vangeli, “memoria della fede in Gesù Cristo”, ci riportano alcune parole e azioni di Gesù circa la sua volontà di rima­nere con i suoi discepoli dopo la sua partenza dalla terra e circa la maniera di realizzare tale presenza. Raccogliamo alcune di queste promesse. Sono la base della Messa come mezzo con cui il Cristo fondatore rimane con quanti credono in Lui. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt. 18,20). “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me” (Lc. 10,16). “lo sono la luce del mondo, chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita” (Gv. 8,12). “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv. 14,23). “E’ bene per voi che me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato ve lo manderò” (Gv. 16,7). E soprattutto Gesù promette: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà di me” (Gv. 6,56-57). Questo fa dire a S. Paolo: “Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor. 11,26). E queste parole, Paolo le dice soprattutto in riferimento alla “Cena dei cristiani” che essi ripetevano su comando di Gesù che aveva detto: “Fate questo in memoria di me”.

 

LA PASQUA DEGLI EBREI

Gesù era un ebreo e pregava come i suoi fratelli di nazione. Così ogni anno si recava a Gerusalemme per la Pasqua. Era la festa più importante degli Ebrei: ricordava la stessa fondazione del popolo ebraico. Ricordava come ai tempi di Mosè, Dio s’era impegnato a far nascere il suo popolo, un popolo scelto, di testimoni: l’aveva liberato dalla schiavitù e dalla morte di Egitto, gli aveva fatto attraversare il Mar Rosso, aveva pazientemente plasmato la sua fede nel deserto, prima di dargli la terra promessa (Es. 12,29-42). La liberazione dall’Egitto e l’alleanza tra Dio e il suo popolo erano rivissute dagli Ebrei e celebrate ogni anno nel giorno di Pasqua, con un pasto-memoriale. E’ quanto fece Gesù, la vigilia della sua morte. Durante il pasto pasquale si mangiava l’agnello, mentre il capofamiglia pregava in nome di tutti per il popolo di Israele. Egli chiedeva a Dio di continuare a benedire e proteggere il suo popolo eletto, conservandolo nella santità e nell’unità. Verso la fine del pasto si portava un’ultima coppa, colma di vino allungato con acqua. Il capofamiglia su questo calice, chiamato calice di benedizione, lodava an­cora Dio Creatore e Liberatore supplicandolo di inviare il Messia.

 

LA CENA DI GESU’

Gesù, nell’ultima Cena, celebra proprio la pasqua ebraica ma la trasforma profondamente. Ciò che da Mosè in poi questo pasto esprimeva e faceva rivivere, Gesù afferma che trova compimento in Lui. L’alleanza nuova è per mezzo del suo sangue, il pane è il suo corpo. Gesù afferma: ormai la meraviglia di Dio di cui bisogna fare memoria sono io, è la mia morte che salva come aveva fatto l’agnello immolato in Egitto. Ormai c’è un popolo nuovo che nasce da questa nuova alleanza. Ormai non fate più questo pasto in memoria di Mosè, fatelo in memoria di me.

  

 

OGNI DOMENICA CELEBRIAMO

 

1. I FRATELLI SI RIUNISCONO

Il riunirsi dei cristiani per la Messa è già di per sé un gesto importante. Suppone infatti che ognuno lasci la propria casa, vinca il desiderio di starsene tranquillo e, soprattutto, che voglia incontrare i fratelli cristiani. Ciò dimostra che non si è cristiani da soli. San Paolo dice: “Una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, agisce mediante tutti, dimora in tutti”(Ef. 4,5). Per cui arrivare in ritardo, mettersi gli uni accanto agli altri senza neanche guardarsi come potrebbero fare degli estranei, isolarsi in un angolo o in fondo alla chiesa, sono tutti comportamenti anomali, in contrapposizione più o meno profonda con il senso del riunirsi. Questa infatti è la fede dei cristiani:

 

2. IL SEGNO DI CROCE

Ogni celebrazione eucaristica comincia e termina con un segno di croce sulla fronte, sul petto e sulle spalle accompagnato dalle parole “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. E’ un segno molto antico nel cristianesimo. Scriveva Tertulliano, morto nel 220: “Se ci mettiamo in cammino, se usciamo od entriamo, se ci vestiamo, se ci laviamo o andiamo a tavola, a letto, se ci poniamo a sedere, in queste e in tutte le nostre azioni ci segniamo in fronte con il segno di croce”. Perché? Con tutta probabilità questo segno aveva lo scopo di commemorare il proprio battesimo e di affermare che in ogni atto della vita si apparteneva a Cristo. Le parole che accompagnano questo gesto derivano addirittura dal Vangelo quando Gesù dice: “Battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt. 28,19).

Il “Nome” e un termine usato nella Bibbia per indicare Dio, il Dio unico, vivo, vero. Dicendo dunque: “Nel nome del Padre." intendiamo professare apertamente la nostra fede nel Dio cristiano, nel Dio di Gesù Cristo che è Padre, in Gesù che con la sua morte in croce ci ha salvati, nello Spirito Santo che ci fa Chiesa.

 

 

3. IL SIGNORE SIA CON VOI

Nella Messa, per ben quattro volte il sacerdote rivolge all’assemblea il saluto: “Il Signore sia con voi” e ottiene la risposta: “E con il tuo spirito”: all’inizio della celebrazione (altre volte si usa una formula di saluto presa dalle lettere di San Paolo), prima della proclamazione del Vangelo, prima di cominciare la grande preghiera eucaristica, al termine della celebrazione, prima di dare la benedizione finale. E’ un dialogare, un salutare, un augurare. L’Eucarestia è un dialogo tra Dio e il suo popolo, ma esiste anche un dialogo tra chi presiede e l’assemblea. Le parole di questo saluto sono bibliche, tanto per dire la citazione più famosa: l’Angelo saluta Maria dicendole: “ll Signore è con te”. Quindi, se da una parte il sacerdote afferma la presenza dì Dio mediante il suo Spirito in mezzo all’assemblea, questo dichiara che il sacerdote vive e celebra sotto l’azione dello stesso Spirito.

 

4. FRATELLI

La domenica andando alla messa il prete ci chiama “fratelli”. Probabilmente la cosa ci lascia del tutto indifferenti. Neppure ci accorgiamo del tono di eccessiva familiarità contenuto in questo appellativo e che in altri ambienti farebbe reagire vivacemente molti di noi. O anche in chiesa: immaginate di sentirvi chiamare “fratello” o “sorella” non dal prete, ma da quel distinto signore sulla cinquantina che sta di fianco a voi nel banco, o dalla signorina bionda che è appena arrivata alla vostra destra. “Prego, scusi?”. “Ho detto: buongiorno, fratello!”. “Ma come si permette? E chi è lei? Guardi che io non la conosco affatto: cosa sono queste confidenze? E poi, siamo in chiesa: per favore, non disturbi!”. Strane cose succedono nella chiesa di Dio! A forza di parlare e sentir parlare di carità e di amore, abbiamo finito con il bandire dalle nostre chiese i più elementari gesti di cortesia e di gentilezza: nessuno saluta, nessuno sorride, nessuno rivolge a un altro una parola gentile. A forza di sentirci chiamare fratelli e di sentir parlare degli altri come fratelli, in chiesa finiamo col comportarci gli unì verso gli altri come perfetti estranei. Il prete ci rivolge la parola più volte chiamandoci fratelli, e nessuno fa una piega. Ma basta che proviamo ad immaginare di chiamarci fratelli tra di noi e subito proviamo un senso di imbarazzo e di disagio da star male. Noi ci chiamiamo fratelli perché tutti preghiamo lo stesso Dio chiamandolo “Padre nostro”. A meno che anche questo sia soltanto un modo di dire che non impegna niente e nessuno. Ci chiamiamo fratelli perché tutti professiamo la stessa fede in Cristo risorto. E spero che la fede abbia per noi un’importanza almeno pari a quella dei partito o della squadra del nostro cuore. Perché allora abbiamo tanta difficoltà a riconoscerci gli unì gli altri come cristiani quando ci troviamo a messa, anche se non ci conosciamo per nome e cognome? Perché tanta reciproca soggezione? Perché tanta freddezza e “distanza” gli unì verso gli altri, come se non avessimo nulla in comune? Gesù Cristo conta così poco per noi da non essere in grado di metterci in comunione gli unì con gli altri? Allo stadio basta una bandiera.

 

RICHIESTA DI PERDONO

Ogni momento celebrativo parte dalla constatazione che tutto è dono della misericordia di Dio. Nella Messa ci accingiamo ad offrire il sacrificio di Cristo. Per fare questo abbiamo bisogno di purificarci dai nostri peccati per cui il primo atto è riconoscere le nostre colpe e sapere che Lui ci perdona. Sono due le preghiere liturgiche per l’atto penitenziale: il CONFESSO e il SIGNORE PIETA’. Nel confesso noi ammettiamo i nostri peccati davanti a Dio, a Maria Santissima, agli angeli e ai santi e chiediamo la loro intercessione affinché Dio ci perdoni, nel Signore pietà ci affidiamo a Cristo Salvatore affinché il suo sacrificio ci perdoni e ci rinnovi. Il sacerdote, dopo la richiesta di perdono ci augura che Dio ci perdoni e ci apra la strada alla vita eterna. Chiedendo perdono all’inizio della Messa siamo realmente perdonati dei nostri peccati? Se la richiesta è sincera siamo perdonati di tutti i nostri peccati veniali. Il catechismo della Chiesa cattolica dice: “Chi vuole ricevere Cristo nella Comunione deve essere in stato di grazia. Se uno è consapevole di aver peccato mortalmente, non deve accostarsi all’Eucarestia senza prima aver ricevuto l’assoluzione nel sacramento della Penitenza”. E’ anche interessante vedere come la preghiera del Confesso ci apre subito, all’inizio della Messa, all’universalità della Chiesa. Intanto insieme ci riconosciamo peccatori e invochiamo la Chiesa “trionfante” (Maria, gli angeli, i santi) in quanto tutti siamo salvati solo per misericordia e grazia. Nel Confesso ci sono 4 parole che raccolgono tutti gli ambiti dei nostri peccati. Noi chiediamo perdono dei PENSIERI, non soltanto i cattivi pensieri, i desideri non leciti, ma anche i dubbi, i giudizi, gli scoraggiamenti. Chiediamo perdono delle PAROLE, quelle dette: le ingiurie, le parole che offendono, che feriscono, che ledono la dignità degli altri, che mancano di carità.., e le parole non dette: quelle che incoraggiano, che danno fiducia, che testimoniano, che spronano al bene. Chiediamo perdono delle OPERE, cioè del nostro agire non coerente con il Vangelo, delle cose fatte male, egoisticamente e delle opere non fatte per pigrizia, per timore di doverle pagare troppo, di esporci troppo. Chiediamo perdono delle OMISSIONI, cioè dell’aver la vista troppo corta nell’amore, della preghiera non fatta, della testimonianza non data, del dolore altrui non lenito, della condivisione non fatta. Dio Onnipotente abbia veramente misericordia di noi come singoli e come cristiani e perdonando i nostri peccati in Cristo, ci conduca alla sua vita eterna.

 

GLORIA A DIO

Sovente e con varie sfumature, nella Messa ritorna l’atteggiamento di glorificare, rendere lode a Dio. Il testo classico è il “GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI”, un inno antichissimo detto o cantato da tutta l’assemblea in cui si dichiara che noi ‘‘rendiamo grazie per la tua gloria immensa” e che Gesù Cristo vive nella “gloria del Padre”. Altri momenti in cui siamo invitati a glorificare sono: All’inizio del Vangelo, l’acclamazione è indirizzata a Gesù: “Gloria a te, Signore”  l’invito del sacerdote “Pregate, fratelli” è seguito dalla risposta del popolo “Il Signore riceva.., a lode e gloria del suo nome”. Un’altra risposta dice: “Tuo è il regno, tua la gloria. Qual'é il significato di “gloria”?

Il primo significato immediato è quello di lode, esaltazione con parole e con gesti, della grandezza, fama e dignità di una persona: di fronte a Dio, alla sua potenza e bontà, sentiamo il bisogno di esprimere la nostra ammirazione, tributargli il nostro onore, elevargli la nostra lode entusiasta. Nella Bibbia, il termine ‘gloria’ aveva un significato ancora più pregnante: la “gloria di Dio” è Dio stesso. Nel Nuovo Testamento la gloria di Dio raggiunge la sua manifestazione massima in Gesù, nella sua incarnazione, nei suoi miracoli, nella passione sulla croce: questo è il momento culminante della sua “gloria” e “glorificazione”, cioè manifestazione dell’amore di Dio, della fedeltà al suo volere, della riconciliazione fra Dio e l’uomo. Proviamo allora a rivedere in questi due sensi il significato delle frasi della Messa. “Gloria a Dio e pace agli uomini” è la frase iniziale dell’inno, cantato dagli angeli a Natale, che significa: ora la potenza salvifica di Dio (gloria) si rivela in Gesù e sulla terra si stabilisce la pace. La salvezza si realizza per tutti gli uomini destinatari della benevolenza di Dio, amati da Dio. “Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa”: siamo grati a te, o Dio, perché sei così grande, immenso, benevolo, salvatore.

“Nella gloria di Dio Padre”. Gesù vive, nello Spirito con Dio. “Gloria a te, Signore”: la proclamazione del Vangelo, della lieta notizia, è il momento in cui Cristo si rivela, lo si riconosce presente nella parola del Vangelo. “Ogni onore e gloria... Tuo è il regno, tua è la gloria”: assieme al riconoscimento della grandezza di Dio, queste espressioni dicono anche la lode, la gratitudine, l’esaltazione di Dio in Cristo. Concludendo, rendere gloria a Dio non è un semplice gesto umano, spontaneo, un dire a parole la sua grandezza, ma significa percepire, vedere, accogliere la sua molteplice manifestazione e aderire a Lui, dove e come si rende a noi manifesto, soprattutto nella morte e risurrezione di Cristo, nella sua croce “gloriosa”. Questa è la sua e la nostra gloria.

  

 

LITURGIA DELLA PAROLA

Siamo arrivati alla prima grande parte della Messa, e qui sta al centro la Parola di Dio raccolta nelle letture bibliche accompagnate da canti e preghiere e seguita poi dall’omelia, dalla professione di fede e dalla preghiera universale o dei fedeli. Le letture bibliche nelle domeniche e feste sono tre, intercalate da canti: la prima ripresa dall’Antico Testamento (eccetto il tempo pasquale) è seguita dal Salmo responsoriale, la seconda, ripresa dagli scritti apostolici del Nuovo Testamento, è seguita dall’Alleluia, la terza proviene sempre dai Vangeli. La Liturgia della Parola è un dialogo nel quale Dio ci parla soprattutto attraverso i testi della Bibbia cui l’assemblea risponde con la lode e la preghiera e l’assenso di fede proclamato con le labbra e con l’impegno di vita.

 

ALCUNI SPUNTI DI RIFLESSIONE SULLA PAROLA DI DIO

Una volta ci insegnavano che la Messa era “valida” se si era presenti in chiesa dal momento in cui il sacerdote scopriva il calice fino a quando tornava a coprirlo dopo aver fatto la comunione. In certi paesi succedeva così, che gli uomini si riunivano sul sagrato della chiesa — più o meno all’ora in cui incominciava la Messa a discorrere di campi e vitelli, del sole e della pioggia, entrando poi in chiesa al momento buono per non “perdere messa”. Nel frattempo il sacerdote (in presbiterio) aveva recitato le preghiere ai piedi dell’altare, il gloria, l’oremus, l’epistola, il Vangelo..., mentre le donne (nella navata della chiesa) dicevano il rosario. Con la riforma liturgica tutto questo è cambiato, anche se non è cambiata — in parecchi cristiani sia di campagna che di città — la vecchia abitudine di arrivare a Messa puntualmente in ritardo. Tanto “la Messa è ancora buona”, anche se si arriva durante la predica. C’è anche chi pensa che non c’è nulla da perdere se si giunge in chiesa con 10 o 15 minuti di ritardo rispetto all’orario della Messa, perché tanto prima della predica non si capisce niente di ciò che leggono: del “Siracide”, del “Deuteronornio”, del “profeta Ezechiele” o dei “Tessalonicesi”. Per non parlare del “Salmo responsoriale, ritornello, diciamo insieme:…. dove poi non ci si ricorda mai esattamente che cosa si deve ripetere, e che senso ha. Eppure, alla fine di ogni pezzo che viene letto, si dice sempre: “Parola di Dio”. E’ soltanto un modo di dire, una di quelle frasi da chiesa che non bisogna prendere troppo sul serio? Oppure Dio non ha nulla d’interessante da dirci? Qualche volta, forse, ci viene da chiederci se Dio non poteva parlare più chiaro... O perché, invece di fare un discorso continuato e coerente, ci leggono sempre tre pezzi diversi che non c’entrano niente l’uno con l’altro e che spesso non hanno né capo né coda? O magari si potrebbe cogliere qualche pensiero interessante; ma se uno non legge il testo per conto suo sul messalino, non si riesce a capire niente: il microfono funziona male, l’altoparlante rimbomba, il lettore va troppo in fretta, mangia le parole, legge senza senso, come se fosse l’orario delle ferrovie... Bisogna riconoscere che, su questo punto, la riforma liturgica ci ha trovati impreparati. E non sono bastati tutti questi anni a cambiare molto le cose. Probabilmente perché non siamo cambiati abbastanza noi, e non è cambiato abbastanza il nostro spirito e il nostro atteggiamento interiore nell’andare a Messa (o nel preparare le celebrazioni). Intanto bisognerebbe mettersi in testa che la prima parte della Messa (in termini ufficiali si chiama “liturgia della Parola”) è importante come la seconda (“liturgia eucaristica”). Si va a Messa per fare tre cose:

1. riunirsi fra cristiani;

2. ascoltare la Parola di Dio;

3. celebrare l’Eucaristia.

Queste sono le tre cose essenziali che costituiscono “una Messa”. Le letture si fanno apposta per essere sentite e ascoltate da tutti, non solo per essere lette, comunque sia, da qualcuno. Sono sempre letture tratte dalla Bibbia, parola di Dio espressa in fatti e parole di uomini. E la parola diretta della Sacra Scrittura, malgrado tutto, è sempre più importante dell’omelia (la predica) e delle spiegazioni dì qualunque predicatore. Bisognerebbe dunque cominciare con il rispettare un po’ di più e in concreto questa parola, curandone la proclamazione liturgica con maggior attenzione. Ci vogliono dei lettori che sappiano svolgere bene questo ministero. Non basta “saper leggere”. Leggere ad alta voce, per gli altri, è tutto un’altra cosa. Non è il caso di riservare questa mansione ai professionisti del microfono, ma un minimo di requisiti personali e di preparazione tecnica ci vogliono. Per lo meno: leggere adagio, pronunciare chiaramente tutte le sillabe e le consonanti, rispettare il senso delle frasi e del testo. E poi bisogna che impariamo tutti quanti ad “ascoltare” ciò che viene letto, senza accontentarci di sentire distrattamente pensando ad altro. Ma la cosa più importante è ancora un’altra. Per capirci qualcosa, nelle letture della domenica, bisognerebbe già conoscere la Bibbia personalmente...

 

  

PAROLA DI DIO

Dopo aver ascoltato storie di uomini a volte anche scandalose, fatte di vendette o di racconti di mentalità molto lontane dalla nostra, ecco che sentiamo dire: “Parola di Dio”. Ma è poi proprio Parola di Dio o di Ezechiele, di Paolo, di Marco...?

La Bibbia è uno strano libro. Intanto non è un “libro” solo, ma piuttosto una raccolta di libri e scritti di genere diversissimo: c’è dentro storia e poesia, leggi e preghiere, cronaca e fantasia, lettere e canti. I vari “pezzi” che fanno la Bibbia sono stati scritti in gran parte prima di Gesù Cristo (l’Antico Testamento) e in parte dopo di lui (il Nuovo Testamento); il tutto nel giro di circa mille anni. Ma c’è un filo che lega tutti questi scritti, dal libro della Genesi a quello di Giobbe, dai libri dei Re a quelli dei profeti, dal Vangelo secondo Marco alle lettere di San Paolo, all’Apocalisse di San Giovanni. Tutti questi scritti parlano di Dio e dell’uomo. Di Dio; non di “un Dio” fra le tante divinità che gli uomini hanno immaginato, ma “di Dio”: l’unico, quello a cui non possiamo dare noi un nome, quello vivo e vero che sta dietro tutti i nomi che nelle varie religioni gli vengono attribuiti. E dell’uomo: non solo di questo o di quell’uomo, non solo di questo o di quel popolo, non solo degli uomini di questo o di quel tempo e luogo, ma “dell'uomo”, cioè di ogni essere umano che si trova comunque preso nell’avventura della vita sulla terra. Al centro di tutta la Bibbia sta Gesù Cristo, il “Verbo fatto carne”, il Figlio di Dio che si è fatto figlio dell’uomo, il punto di incontro fra l’infinita realtà di Dio e la concreta precaria esperienza della vita umana. Gesù, il Figlio di Maria, lontano discendente del re Davide, ebreo a pieno titolo, figlio del popolo d’Israele: quel piccolo antico popolo che Dio ha scelto per entrare in contatto diretto con l’umanità. Nella storia di questo popolo Dio è entrato come protagonista. E la Bibbia, nei suoi vari libri e capitoli, attraverso l’esperienza storica e religiosa vissuta dal popolo d’Israele, riflette via via tutti gli aspetti delle reazioni umane di fronte al mistero di Dio: fede e paura, amore e peccato, gioia e sconforto, speranza e dubbio. La storia dell’alleanza di Dio con il popolo d’Israele è la storia della fedeltà di Dio che vince l’infedeltà del suo popolo; ed è come lo specchio e il simbolo della storia di ogni uomo di fronte a Dio. Gesù Cristo, il crocifisso risorto, rappresenta l’ultima parola, l’impegno definitivo di Dio per l’uomo. il Nuovo Testamento conclude tutta la Bibbia, perché è predicazione e spiegazione di questa fede. La nostra fede. Ogni volta che andiamo a Messa le tre letture (dall’Antico Testamento, dalle lettere di San Paolo, dai Vangeli), mentre ci presentano qualche tema particolare su cui riflettere, contemporaneamente ci richiamano sempre l’insieme della storia della salvezza e la posizione centrale di Gesù in essa. Ma nessuna lettura della Messa dovrebbe suonare nuova agli orecchi di chi va a Messa... Troppo tempo siamo stati lontani dalla Parola di Dio. E’ ora che tutti impariamo a conoscere la Scrittura, perché la nostra non rimanga una “fede sepolta”.

 

 

CAPIRE LA BIBBIA

Alcuni racconti dei Vangeli sono così chiari che chiunque li capisce. Invece non è facile afferrare il senso di altre parti della Bibbia. La Bibbia è un libro antico, composto di molte parti scritte da autori diversi, indirizzate a destinatari diversi in stili e lingue diverse. Quando leggiamo un passo biblico è utile porsi queste tre domande:

1. Che dice in realtà il passo?

2. Che significava il passo per i primi lettori?

3. Che significa oggi il passo per noi?

 

 

ALLELUIA

L’alleluia è una parola di origine ebraica che significa lodate Jahvé, passata nella liturgia senza traduzione. E’ una acclamazione liturgica, un’espressione gioiosa, un grido di meraviglia dell’assemblea. Il cristiano che celebra il mistero di Gesù non può non essere meravigliato, contento, esultante. Ecco come spiegava l’Alleluia S. Agostino: “Cantiamo qui l’Alleluia, mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo cantare un giorno lassù, ormai sicuri. O felice quell’Alleluia cantato lassù... Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta ma cammina, canta e cammina.”

  

 

OMELlA

Dovrebbe essere la spiegazione e il tentativo di attualizzazione, nella fedeltà al Vangelo e all’insegnamento della Chiesa, della parola di Dio ascoltata. Eppure quante difficoltà sia da parte del predicatore che dell’uditorio! La predica. uffa, che barba! pensano ogni tanto i preti, che devono prepararla. Uffa, che barba! sospirano dall’altra parte certi fedeli, che devono sorbirsela ogni domenica andando alla Messa. Quando si dice di qualcuno che “ci fa la predica” non è mai una cosa molto simpatica. La parola richiama alla mente un miscuglio di rimproveri, di principi morali e religiosi più o meno convenzionali, di frasi fatte, di esortazioni e promesse condizionate, di esempi edificanti..., il tutto variamente dosato secondo le circostanze. In ogni caso un discorso che si subisce, che si ascolta pazientemente (per necessità  o per convenienza) finché sia finito. Punto e basta. Dire predica e dire parole al vento per qualcuno è la stessa cosa; anche se, naturalmente, non sta bene dirlo ad alta voce. A sentire certe prediche si direbbe che c’è un tacito accordo fra il predicatore e chi lo ascolta: è inteso che queste parole vanno bene qui, in chiesa, durante la Messa; fuori chiesa, la vita è tutta un’altra cosa e non c’entra niente con ciò che si dice nella predica (o viceversa: ciò che si dice nella predica della domenica non c’entra niente con la realtà della vita, lungo tutta la settimana). Per qualcuno è scontato che una predica consiste essenzialmente in un insieme più o meno ordinato di belle parole: l’importante è che sia un bel discorso, fatto bene, che “faccia piacere a sentirlo”, possibilmente non troppo lungo. Poi basta: una volta finita, la predica ha esaurito il suo significato e il suo scopo. Io sono persuaso che tanta gente che va a Messa la domenica è molto più interessata al discorso che si fa nella predica, di quanto non pensino certi sacerdoti, i quali ritengono di poter improvvisare la loro omelia, o di poterla “preparare” in un quarto d’ora. Vero è che molti si attenderebbero qualcosa di più e di meglio di quanto gli tocca sentire; per cui, a forza di delusioni, si finisce col rassegnarsi. Ma non è vero che, per principio, a chi va a Messa, non interessa la predica. Più volte ho notato il contrario: molti affermano che proprio questo è il momento della Messa che più li interessa, perché è l’unico  dicono  in cui non si è di fronte a un “rito” puro e semplice (parole e gesti predeterminati e sempre uguali), ma si è di fronte a una parola viva che puoi confrontare con la tua esperienza, con il tuo modo di pensare, con i fatti del mondo, con i tuoi problemi. L’omelia è l’unico momento in cui parecchi di coloro che vanno a Messa vedono la possibilità di un aggancio immediato con la loro vita. Non dico che sia giusto; ma per molti è così. Per la maggior parte dei cristiani adulti l’omelia domenicale è l’unico momento abituale di catechesi, di formazione, di riflessione sulla Parola di Dio. E questo rende ancora più impegnativo il compito e più grande la responsabilità di chi predica nell’assemblea liturgica. In parole molto semplici sia in chi predica che in chi ascolta l’atteggiamento fondamentale dovrebbe essere l’amore per ciò che Dio ci dice e l’amore e il rispetto dei fratelli. Un predicatore serio è conscio di essere un povero mezzo umano di cui Dio si serve per trasmettere la sua parola. Un buon predicatore non solo si prepara adeguatamente attraverso la meditazione e lo studio ma soprattutto si sente coinvolto dalla Parola, si chiede: “Che cosa dice a me questa Parola? Quale conversione chiede a me, prima di tutto?”. Poi un buon predicatore deve essere anche un buon pastore, deve saper leggere la situazione e le esigenze del suo gregge, deve cercare di incarnare la Parola nelle situazioni vitali del suo uditorio e allora occorre essere consapevoli della vita quotidiana, non sentirsi giudici incaricati soltanto di bastonare il gregge, usare un linguaggio che sia comprensibile a tutti, offrire già nel porgere l’omelia una testimonianza gioiosa della buona notizia di Gesù. Occorre anche non voler dire tutto e sapere che il compito del predicatore è seminare e non raccogliere, è fidarsi che quella parola è guidata, più che dalle proprie capacità, dallo Spirito Santo. Se queste dovrebbero essere alcune delle caratteristiche del buon predicatore, quale quelle di un buon ascoltatore?

  1. Sono qui per ascoltare non tanto il “don Tal dei Tali” ma la Parola di Dio che può convertirmi, illuminare la mia vita, darmi forza...

  2. Non posso fare a meno di dovermi confrontare anche con il predicatore, ed è verissimo che certi predicatori hanno facilità a toccarmi il cuore mentre altri o mi irritano o mi addormentano. In tutti i casi però mi annunciano qualcosa e Qualcuno ed è questo annuncio che deve particolarmente toccarmi.

  3. Non tutto quello che il predicatore dice è oro colato. Alla fine della predica non si dice: “Parola di Dio”, però devo confrontarmi con ciò che la Chiesa mi dice anche se attraverso le labbra di un povero predicatore.

  4. Se il predicatore non se la cava ad applicare alla vita sono io a chiedermi che cosa vuol dirmi il Signore con questa sua parola nel concreto delle mie situazioni.

Un’ultima osservazione con umiltà. Qualche volta non potremmo anche voler bene a quei poveri predicatori dando loro conforto, aiutandoli magari indirettamente, senza presunzione, ad innamorarsi di più della Parola di Dio, coinvolgendoli magari un po’ di più nella realtà quotidiana? Si ama il proprio prete anche facendolo sentire parte della nostra vita e chiedendogli non di diventare un gran predicatore, ma un buon testimone della propria vocazione.

 

Permettete una confidenza personale?

Non so se agli altri preti succede la stessa cosa o se sono limiti e modi di vedere personali. Ogni omelia a me costa tempo e sacrificio, in quanto anche se sono ormai parecchi gli anni in cui predico, cerco sempre di prepararmi anche attraverso letture e tempi di riflessione. Il parlare poi davanti alle persone, il cercare termini comprensibili, mette in una certa tensione. Quando durante una predica sei disturbato da gente che parla, che muove, che fa altro, almeno, per me, diventa difficile. Quando ci sono bambini che corrono, che piangono, con relativi genitori che nel tentativo di tenerli buoni fanno ancora più rumore, tenere il filo di un discorso, essere sereni è ancora più difficile. In questo caso, non sarebbe meglio, magari con sacrificio personale, ma per amore degli stessi bambini, per rispetto di chi vuole seguire e per carità del povero predicatore, provvedere diversamente?

 

 

IL CREDO

Dopo aver ascoltato, riconosciuto la Parola che ci salva, ecco la nostra risposta: la proclamazione della fede. “Credo in un solo Dio”, non equivale solo a: “Credo che Dio esista” ma “credo in Lui, cioè mi dono a Lui, mi abbandono, mi fido, aderisco a Lui”. E’ quindi un atto personale (io credo) di fede che ci accomuna alla fede di tutta la Chiesa. Questo simbolo, che pare appartenesse alla Chiesa di Gerusalemme, è diventato poi un testo comune a tutte le Chiese nel Concilio di Nicea (325). Anche se è una preghiera teologicamente difficile, recitare, proclamare, cantare il Credo, è come immergerci nell’oceano infinito di Dio nel quale ci sentiamo avvolti dalla sua mano e guidati con sicurezza verso la pienezza della vita.

 

 

PREGHIERA DEI FEDELI

La preghiera è posta al termine della liturgia della parola (dopo il Credo), comprende l’intervento iniziale e conclusi­vo del sacerdote, una serie di intenzioni particolari lette da un ministro oppure proposte da interventi liberi dei presenti, intercalate dall’invocazione dell’assemblea. Una preghiera contrassegnata da un clima di libertà o meglio di creatività, quindi attuale e viva, soprattutto da una partecipazione articolata e corale e da un atteggiamento di profonda comunione e solidarietà con le necessità della Chiesa e del mondo intero. Dopo l’ascolto della Parola di Dio che ha nutrito la nostra fede e prima di partecipare al sacrificio conviviale di Cristo, si sosta in preghiera: una preghiera non prefissata, ma ben preparata, non chiusa nell’orizzonte personale ma aperta a quello ecclesiale. Infatti tutta l’assemblea vi partecipa direttamente, in vari modi, e tutta la Chiesa, quella locale e quella universale, viene ricordata, insieme a quanti nel mondo svolgono funzioni di responsabilità o vivono in particolari situazioni di difficoltà di ogni genere. Proprio per il contenuto è chiamata “universale”: è un momento in cui si avverte l’urgenza di farsi interpreti presso il Signore delle necessità di tutti gli uomini, indicando particolari situazioni (guerra, calamità, ecc.) e categorie di persone (malati, anziani, emarginati, moribondi). Non è il momento di chiudersi nel proprio ambito ristretto ma di allargare cuore e mente all’umanità intera per la quale Cristo ha offerto la sua vita sulla Croce: non vi è spazio per particolarismi e individualismi. La preghiera è un modo di esercitare il nostro sacerdozio regale; siamo un popolo sacerdotale, dal sacerdote all’ultimo fedele, chiamato a farsi intercessore presso Dio a nome del mondo. Abbiamo il diritto e il dovere, perché scelti e introdotti nel mistero di Cristo, di pregare per tutta l’umanità: è la nostra specifica funzione, come si legge nella stessa Istruzione del Messale Romano n. 45: “Nella preghiera universale o preghiera dei fedeli, il popolo esercitando la sua funzione sacerdotale, prega per tutti gli uomini”. La preghiera dei fedeli o universale è quindi un momento di grande valore teologico perché ci aiuta a prendere coscienza della nostra dignità e responsabilità di popolo sacerdotale, che interpone la sua supplica presso il Signore, a favore di tutti gli uomini. Ed è un momento educativo, ben adatto per risvegliare la nostra sensibilità cattolica, universale, superando personalismi e interessi di gruppo.

 

 

OFFERTORIO

Non si può celebrare l’Eucaristia senza pane e senza vino, perché sono i due alimenti conviviali scelti da Gesù nell’ultima Cena e da Lui usati per significare il suo Corpo e il suo Sangue, cioè la sua persona, la sua vita. La Chiesa nella sua lunga tradizione non si è mai distaccata da questa stretta fedeltà al gesto di Cristo che “prese il pane... e prese il calice di vino” e al suo comando di “fare” altrettanto. Pane e vino sono due alimenti, propri delle popolazioni del bacino mediterraneo, che nascono dalla terra ma che sono poi lavorati dalla mano dell’uomo. Essi diventano nel pasto cibo e bevanda, anzi caratterizzano il pasto che consiste nel mangiare e nel bere, destinati a saziare la fame e la sete. Per comprendere l’importanza e la ricchezza di questi due elementi bisogna riferirsi alla tradizione biblica ed ebraica, entro la quale si colloca la scelta di Gesù. L’ultima Cena del Signore si svolge secondo la prassi dei pasti consumati dagli ebrei che si radunavano o come famiglie o come gruppi e confraternite, regolarmente, prendendo nelle circostanze più solenni pane e vino, pane ordinario (azzimo per la cena pasquale) e vino rosso, detto “sangue della vita”. Ma nessun ebreo avrebbe osato prendere cibo, e anche talora singoli cibi, senza una preghiera, una formula di “benedizione”. La “benedizione” rivolta a Dio con le parole “Benedetto sei... equivale a lode, riconoscenza, gratitudine perché Dio si è rivelato al suo popolo, ha “parlato” e ha stretto un’alleanza donando la legge e la terra. L’atteggiamento dell’Offertorio è quello di riconoscere la grandezza e la gratuità di Dio, la nostra pochezza e il poter ritornare a Lui qualcosa frutto del suo amore e del lavoro dell’uomo perché Lui possa ancora ridonarcelo nel dono più grande: Gesù Cristo.

 

 

OFFERTORIO E QUESTUA

La domenica andando alla Messa non bisogna scordarsi di prendere il portafogli o il borsellino o comunque dei soldi in tasca. Perché poi, a un certo punto, c’è la questua. Voglio dire, quella normale che si fa ogni domenica durante la Messa; quando, terminata la preghiera dei fedeli, c’è una specie di risveglio generale e tutti si mettono in movimento: il prete, i chierichetti, l’organista, quelli che portano le ostie e il calice, quelli che partono per la raccolta delle offerte... Un po’ di agitazione si propaga per tutta l’assemblea: signore che armeggiano con borsette e borsellini, bambini che chiedono la moneta da mettere nel cestino, distinti signori che faticosamente ricuperano il portafogli, impacciati da giacca, cappotto, banchi e vicini, i più prudenti avranno già provveduto in antecedenza a sistemare nella tasca più accessibile la moneta o il biglietto destinati allo scopo. Altri, invece, non si mostrano per nulla intenzionati a partecipare attivamente a questo momento della Messa. E forse più di uno, anche fra coloro che fanno regolarmente la loro offerta, si chiede che senso abbia questo gesto. E’ soltanto una vecchia abitudine che si osserva per forza d’inerzia o per l’interesse dei preti? (si sa che i preti in genere hanno il vizio di chiedere soldi). Non sarebbe meglio eliminare questa consuetudine, per non disturbare il raccoglimento e la preghiera? E poi non sta bene tutto questo rumore di soldi attorno all’altare! Non si potrebbe farne a meno? Ma perché si fa la questua in questo momento? E a che servono quei soldi? proviamo a dare una risposta. Anticamente tutti quelli che andavano a Messa (allora si diceva piuttosto: andare alla riunione, all’assemblea) e soprattutto coloro che partecipavano all’Eucaristia e facevano la comunione, portavano ognuno qualcosa  pane, vino e altri beni in natura  “per la chiesa”, cioè per tutta la comunità cristiana. Queste offerte servivano a tre cose. Anzitutto per l’Eucaristia: il pane e il vino necessari per la comunione di tutti si prendevano da ciò che i fedeli avevano portato. in secondo luogo le offerte raccolte venivano distribuite alle famiglie e alle persone più bisognose della comunità, o servivano per l’elemosina ai poveri, l’ospitalità ai pellegrini, ecc. Infine le offerte dei fedeli erano destinate al mantenimento dei sacerdoti i quali, per dedicarsi a tempo pieno all’attività apostolica e pastorale, dovevano lasciare ogni altro lavoro. Questo, almeno, era lo spirito originale della cosa, a parte abusi e deviazioni che  dove ci sono uomini  non mancano mai, e che divennero più facili con il passaggio graduale dalle offerte in natura a quelle in denaro. Lungo i secoli avvenne una specie di capovolgimento dello schema di destinazione delle offerte: scomparve la prima destinazione (ora le ostie e il vino per la Messa li preparano appositamente le suore) e divenne sempre più importante la terza, mentre la seconda fu persa di vista in gran parte. Sarebbe importante ritrovare nelle nostre parrocchie un po’ dello spirito antico; ritrovare l’unità fra l’aspetto liturgico (partecipare all’Eucaristia), l’aspetto ecclesiale (spirito di comunione e corresponsabilità che si traduce in contributo personale e concreto alle necessità della parrocchia) e l’aspetto caritativo della vita cristiana.

 

 

IN ALTO I NOSTRI CUORI

Un invito ben preciso ci fa entrare nella parte centrale della liturgia eucaristica: siamo chiamati ad elevare i nostri cuori a Dio, ad esprimere la gioia di un Dio che si dona, a rendere grazie a Lui.

 

Ad un convito si va col cuore contento perché è una festa.

Nelle nostre chiese si vedono troppe facce da funerale, non possiamo continuare a dire “in alto i nostri cuori” come se dicessimo “che tristezza la nostra vita”, non possiamo continuare a dire “Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio!” come se dicessimo “Signore, che disastro, non c’è altro che miserie”, non possiamo continuare a dire “Santo! Osanna! Benedetto colui che viene!” come dicessimo “Uffà, che pizza, purché finisca presto”. Ogni domenica, per chi va a Messa, è come Pasqua. Ogni Messa è un lodare, benedire, ringraziare Dio: perché Egli è buono e grande, perché è il Creatore dell’universo, perché ci ama come e più di un padre, perché ci ha dato Gesù Cristo, perché lo ha risuscitato da morte, perché ci ha riuniti nella sua Chiesa comunicandoci lo Spirito Santo, l’inesauribile energia di amore di cui vive Dio stesso; perché ha preparato per tutti noi un posto nel suo Regno, insieme con Cristo Risorto... Ad un convito si va vestiti a festa. Pensate al vestito! Al vestito interiore! Potete andarci anche in blue-jeans, ... in maniche di camicia o con i pantaloni a brandelli, è lo stesso per Gesù Cristo, ma è il cuore che gli interessa. Ci rendiamo conto che dobbiamo accostarci al Corpo del Signore? Non possiamo essere vestiti di egoismo, di orgoglio, di sensualità!

 

Ad un convito si va con il cuore aperto a tutti.

Se due invitati non si guardano, se c’è della ruggine tra di loro, o si perdonano e si trattano di nuovo da amici, o non partecipano al convito. Non posso accostarmi alla Messa con odio o rancore verso qualcuno, se no Cristo dall’altare mi dice: “Lascia lì il tuo dono che non voglio neppure vedere ora, e va prima a riconciliarti col tuo fratello”. Se c’è dell’odio non posso essere in festa.

 

 

SANTO, SANTO, SANTO...

E’ l’acclamazione corale di tutta l’assemblea alla santità di Dio, dopo aver ascoltato le parole del sacerdote, nel prefazio, la proclamazione dell’opera di salvezza compiuta da Gesù Cristo, il Figlio mandato dal Padre. Il testo di questa preghiera è biblico, si rifà sia ad Isaia (6,1—3) che all’Apocalisse (4,9), sia al Salmo 118,25—26 che a Mc. 11,9—10 e ci ricorda che solo Dio è santo, e di fronte a Lui l’uomo scopre la sua indegnità ma è chiamato da Dio a partecipare alla sua perfezione e tutti, sacerdote, popolo, universo, santi e angeli sono uniti nell’acclamare a Lui.

 

 

L’INVOCAZIONE DELLO SPIRITO SANTO (Epiclesi)

Dopo il canto di lode, prima del memoriale della Cena di Gesù, si chiede a Dio di intervenire, si invoca il suo nome, cioè la sua presenza e potenza divina, la sua forza santificatrice. E poiché la santificazione viene attribuita allo Spirito Santo, si chiede al Padre di inviare lo Spirito attraverso il cui intervento il Verbo si è incarnato nel grembo di Maria, perché santifichi e trasformi il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo, e poi perché santifichi e trasformi i comunicandi in un sol corpo e in un sol spirito: si chiede cioè che si realizzi prima il Corpo Eucaristico di Cristo e poi il suo corpo ecclesiale.

L’invocazione dello Spirito, rivolta al Padre per mezzo di Cristo, mostra l’atteggiamento orante della Chiesa che non dispone né di poteri, né di doni: tutto ciò che ha e distribuisce proviene da Dio e lo riceve come dono. E il dono va domandato. Lo Spirito è il massimo dei doni e il principio di ogni dono. Perciò la Chiesa, riunita in assemblea, domanda al Padre e si dispone ad accogliere. Sta con le mani alzate e con l’animo reverente. Lo stesso sacerdote si trova in questa prospettiva: non esercita un potere personale sul Corpo di Cristo che farebbe discendere sull’altare ma compie un esercizio di preghiera a cui è assicurata da Cristo l’efficacia per mezzo dello Spirito.

 

 

IL RACCONTO DELLA CENA

Il momento dell’Eucaristia che concentra la maggiore attenzione dell’intera assemblea è quello detto comunemente “consacrazione” oppure “racconto della Cena o dell’istituzione eucaristica”. Ambedue le espressioni ricorrono nel Messale del Vaticano II. “Consacrazione” e un termine usato dalla teologia per indicare che il pane e il vino, mediante l’invocazione dello Spirito e le parole dette dal Signore nell’ultima Cena e ora ripetute dal sacerdote, diventano il Corpo e il Sangue di Cristo, sono cioè “santificati, consacrati, trasformati ecc.” in pane santo di vita eterna e in bevanda di salvezza. La tradizione, soprattutto cattolica, degli ultimi secoli ha valorizzato al massimo questo momento celebrativo per manifestare la propria fede nella presenza “reale” e personale di Cristo contro errori e tendenze ereticali. E’ un momento di grande importanza ma è opportuno non isolarlo, separandolo dall’insieme della preghiera eucaristica e dalla stessa comunione che resta il punto culminante della nostra partecipazione al sacrificio di Cristo. Per questo conviene utilizzare anche la seconda espressione “racconto della Cena e dell’istituzione eucaristica”, considerandolo nella sua forma esterna, come rito e come parola, per ciò che dice e per ciò che compie. Di fatto è una narrazione, un racconto sintetico di quanto Gesù disse e fece nell’ultima Cena: “La vigilia della sua passione... prese il pane, rese grazie... lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: Prendete... Dopo la cena, allo stesso modo... prese il calice ecc.”. Il sacerdote racconta, dice a voce alta le parole e i gesti di Gesù, che poi lui stesso compirà (la frazione e la comunione). E ciò che sorprende, il racconto è indirizzato a Dio, al Padre, in forma di preghiera: è un momento della grande preghiera. Non si deve dimenticare questo carattere del racconto, non separare le singole parole e i gesti ma conservare l’orientamento della preghiera al Padre. Perché si racconta al Padre l’ultima Cena di Gesù? Per affermare che quella Cena del Signore è il fondamento del nostro rito eucaristico (o della nostra Cena) e quanto noi facciamo è un atto di obbedienza al suo comando “fate questo in memoria di me”. L’ultima Cena è l’origine, il momento istitutivo e fondante, il punto di partenza di ogni celebrazione eucaristica. Non è una semplice narrazione o affermazione storica ma è un atto santificante perché voluto e stabilito da Cristo. Non a caso il racconto termina ricordando il comando del Signore “fate questo in memoria di me” e poi la preghiera prosegue dichiarando al Padre che noi “celebriamo il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio”. La nostra Eucaristia è così saldata con l’azione di grazie di Gesù, la nostra cena eucaristica con la sua ultima Cena prima della passione. Quella cena è il modello normativo di ogni celebrazione eucaristica, come ovviamente gli atteggiamenti interiori di Cristo obbediente al Padre devono essere i nostri atteggiamenti. Ma occorre conoscere quale sia il significato di fede di quella cena. Il significato di fede dell’ultima Cena è dato in particolare dai gesti e dalle parole esplicite di Gesù sul pane e sul vino. Sul pane spezzato Gesù dice che esso è il suo corpo immolato sulla croce, sul vino versato nel calice afferma che esso è il suo sangue versato sulla croce: annuncia cioè la sua morte sulla croce, anzi dichiara che ora nei segni di pane e di vino sono resi presenti il suo corpo donato sulla croce “per tutti” e il suo sangue versato sulla croce per la remissione dei peccati. Annuncia e insieme anticipa, nei segni conviviali di pane e di vino la sua morte redentrice, la sua offerta d’amore, la sua esistenza donata fino all’ultimo a Dio per inaugurare la “nuova” alleanza, la nuova vita di comunione tra Dio e l’umanità. Quindi invita a mangiare e a bere, a prendere parte a quel pane e a quel vino — diventati la sua persona — perché si possa prendere parte al suo sacrificio della croce, uniformarsi così alla donazione di se stesso, alla sua vita donata, consumata per amore. Non si tratta di un semplice racconto della Cena: quanto è narrato viene compiuto oggi da noi in questo modo. “Fate questo”: i cristiani riuniti in assemblea ripetono i gesti e le parole di Gesù in sua memoria, ricordano facendo e fanno ricordando, cioè rendono attuale, in base al suo comando, quanto egli ha detto e fatto. Compiono il rito eucaristico come atto di obbedienza per poter fare quanto Cristo ha poi compiuto: dare la sua vita, corpo e sangue, come atto d’amore totale, in sacrificio cioè offerta a Dio gradita, a salvezza dell’umanità. Ecco in sintesi la straordinaria ricchezza di questo “racconto” narrato per dare fondamento e senso al rito eucaristico ma anche alla nostra stessa vita. Sarebbe davvero povera cosa ridurre il tutto alla semplice presenza reale di Cristo e porsi soltanto in adorazione: il comando “fate questo” ci spinge verso la morte e la risurrezione.

 

 

MISTERO DELLA FEDE

Al termine del racconto della Cena o consacrazione il sacerdote dice: “Mistero della fede” e l’assemblea acclama:

“Annunciamo la tua morte.. .“. La parola “mistero” fa pensare alla verità di fede secondo la quale nel rito della consacrazione il pane e il vino sono diventati il Corpo di Cristo: una presenza sacramentale e misteriosa che solo la fede è in grado di scorgervi e di aderirvi. Questa parola liturgicamente sta anche a significare che noi non celebriamo le idee o le persone ma l’intera opera di salvezza di Cristo, il suo passaggio dalla vita alla morte, la sua Pasqua. Il popolo risponde con l’atto di fede nell’Eucaristia. La frase di risposta è presa dalla prima lettera ai Corinti (11,25) dove si dice: Ogni volta che mangiate e bevete questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Ogni celebrazione della Cena del Signore è annuncio della sua morte e risurrezione e un’attesa e una preparazione della sua venuta finale. L’Eucaristia si colloca tra un passato e un futuro, o meglio riassume e rende presente l’atto redentore già operato e ne prepara il suo compimento definitivo. Tre sono i verbi (annunciare, proclamare, attendere) e tre gli aspetti o triplice il contenuto (morte, risurrezione, venuta) ma tutto si concentra nella persona di Cristo (che è morto, che è risorto, che verrà) di fronte al quale ci collochiamo noi in atteggiamento di fede e di comunione. “Annunciare e proclamare” sono due verbi che si equivalgono: significano dire o annunciare in forma pubblica e solenne un fatto accaduto in modo da renderlo quasi presente, svelarne la presenza. Ma l’Eucaristia non si limita a proporci il memoriale della prima manifestazione di Cristo ma ci spinge a guardare e desiderare la manifestazione finale gloriosa del Salvatore perciò “attendiamo la sua venuta” come compimento del progetto di Dio su di. noi.

 

 

LE PREGHIERE DOPO LA CONSACRAZIONE

La liturgia ci offre 4 canoni o preghiere eucaristiche. Proviamo a seguire la II^ preghiera per ritrovarvi gli elementi essenziali.

“Celebrando il memoriale del tuo Figlio ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza e ti rendiamo grazie per averci ammessi a compiere il servizio sacerdotale.

“Ti preghiamo umilmente: per la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci unisca in un sol corpo.”

E noi scopriamo che essere in comunione con Gesù non è un atto solo individuale, ma è entrare in comunione con il suo corpo che è la Chiesa. L’Eucaristia è il sacramento dell’unità.

 

“Ricordati Padre della tua Chiesa diffusa su tutta la terra, rendila perfetta nell’amore in unione con il nostro Papa, il nostro Vescovo e tutto l’ordine sacerdotale. Ricordati dei nostri fratelli che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti i defunti che si affidano alla tua clemenza, ammettili a godere la luce del tuo volto. Di noi tutti abbi misericordia, donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con gli apostoli e tutti i santi che in ogni tempo ti furono graditi e in Gesù Cristo, tuo Figlio, canteremo la tua gloria.”

 

E’ la grande preghiera che in Cristo ci fa sentire in comunione con tutti i cristiani del mondo, sotto la guida del Papa, dei vescovi, dei sacerdoti. L’orizzonte è vasto quanto il mondo nel quale è diffusa la Chiesa, anzi va oltre questo mondo, punta in alto, nell’assemblea celeste. Tra la Chiesa diffusa su tutta la terra, il popolo radunato presso l’altare, i nostri defunti e i santi tutti del cielo intercorre un intimo legame. Non ci si può isolare nella celebrazione eucaristica: anche se in numero ridotto, ci sentiamo in intima comunione con la Chiesa visibile e pellegrina e nello stesso tempo, aperti con l’assemblea celeste, anzi, protesi verso l’incontro glorioso ove chiediamo di essere ammessi per cantare a Dio, l’unico ed eterno cantico di lode. La preghiera (tutte le formule liturgiche) si conclude con il “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a Te, Dio Padre Onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen”. La salvezza, l’unità della Chiesa, la preghiera avvengono per mezzo di Cristo, in comunione con Lui. Lui è la vita nuova, il sì definitivo detto al Padre, la lode e la gloria di Dio a cui ci dà la gioia di partecipare.

 

 

AMEN

E’ la parola più breve ed è anche la risposta più frequente della partecipazione del popolo cristiano alla celebrazione liturgica. Proviene da una radice ebraica, la stessa della parola credere. Amen, applicato a Dio, vuoi dire “Dio è verità”. Gesù usa sovente questa parola quando dice: “In verità, in verità vi dico.. .“ L’Apocalisse 3,14 dice che Gesù è“l’Amen, il testimone veritiero”. E’ l’ultima parola della Bibbia (Ap. 22,20).

Tra i vari ‘Amen’ che si incontrano nella celebrazione eucaristica, dopo quelli che concludono le orazioni cosiddette presidenziali (colletta, sopra le offerte, dopo la comunione), due meritano particolare attenzione: il primo pronunziato da tutta l’assemblea, al termine della grande preghiera Eucaristica (dopo il “Per Cristo...”), il secondo pronunziato individualmente al momento della Comunione (“Il Corpo di Cristo”. “Amen”).

L’Amen al termine della preghiera eucaristica è ritenuto a ragione il più importante, un diritto del cristiano in forza della sua dignità sacerdotale. Dopo che il sacerdote ha pronunziato a voce alta la grande preghiera di azione di grazie, quale anche portavoce dell’assemblea, questa a prova, esprime il suo consenso e la sua ratifica, quasi pone la sua firma acclamando: Amen. Davvero, siamo d’accordo, è così, facciamo nostro quanto il sacerdote ha detto, rendendo grazie, ricordando, invocando, offrendo.

Il secondo ‘Amen’ è quello pronunciato da ciascuno al momento della comunione, in risposta all’affermazione del mistero: “Il Corpo di Cristo”. L’Amen, in questo caso, ha il significato di una professione personale di fede: credo veramente che è il Corpo di Cristo, ne sono certo, lo dichiaro di fronte ai fratelli. Ci invita S. Agostino: “Con il vostro ‘Amen’ siate quello che vedete e ricevete quello che siete”.

 

 

OSIAMO DIRE: PADRE NOSTRO 

Il Padre Nostro è la tipica preghiera della comunità cristiana, insegnata e consegnata come un testamento da Gesù. Là, dove la comunità dei figli di Dio, rigenerati dal Battesimo, si raccoglie intorno alla mensa del Signore è ovvio che invochiamo Dio con il titolo di Padre, nella forza dello Spirito Santo. Nella Messa, questa preghiera, si trova inserita come perla preziosa in una degna cornice. E’ collocata dopo la grande preghiera eucaristica e recitata come preparazione alla comunione; è introdotta da un invito del sacerdote ed è seguita da uno sviluppo dell’ultima domanda:

“Liberaci, o Signore, da tutti i mali…” con una acclamazione finale, anch’essa antichissima, “Tuo è il regno...”

Il Padre Nostro è una preghiera dal carattere comunitario-ecclesiale: non si dice: Padre mio, ma Padre nostro. Si prega insieme agli altri fratelli di fede, se presenti, o in comunione con loro, se assenti. Il carattere ecclesiale della preghiera si fonda sul battesimo mediante il quale siamo resi figli di Dio e fratelli in Cristo. Così Gesù ci associa a sé e ci autorizza a invocare Dio come egli stesso lo ha invocato. Noi “osiamo dire”, abbiamo questo coraggio perché Gesù ce lo ha comandato. Dio è Padre di tutti, ma solo i battezzati hanno il diritto e l’ardire di invocarlo come figli nel Figlio. Molto più esplicito è il rapporto del Padre Nostro con la comunione eucaristica per il momento in cui viene recitato e per le due domande: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” e “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo... La domanda del pane è stata interpretata da tutta la tradizione antica con la richiesta del Pane eucaristico, di Cristo pane di vita, senza con questo escludere il pane materiale. il Pane eucaristico è infatti indispensabile per la vita eterna (Gv. 6,51). Partecipando inoltre all’unico Pane siamo spinti a condividere con i bisognosi il pane quotidiano e a saziare ogni affamato (1Gv. 3,17). L’altra domanda per la remissione dei peccati, con l’affermazione che noi siamo pronti a perdonare, è considerata un vero atto penitenziale per una degna comunione, un mezzo, per ottenere il perdono dei peccati quotidiani. Si chiede e si concede il perdono. La riconciliazione con Dio e con i fedeli è la condizione assoluta per partecipare debitamente alla mensa eucaristica: lo scambio di pace ne sarà il suggello. Infine l’acclamazione ‘Tuo è il regno…”, dopo il “liberaci”, rimanda alla seconda domanda del Padre Nostro e ci apre all’avvento del regno glorioso del Signore. Dire, anzi cantare con riverenza e con fierezza, con gioia e con speranza il Padre nostro: ecco una coscienza da riscoprire e un impegno di chi partecipa alla Messa.

 

 

P A C E

Il saluto di pace apre e chiude la Messa, oltre a risuonare più volte durante la celebrazione, così come ha aperto, accompagnato e concluso la vita del Signore Gesù. Anche se il saluto iniziale “La pace sia con voi” e in genere riservato al Vescovo, vi è una formula di saluto che comincia con “La grazia e la pace di Dio.. .“. La prima frase del “Gloria”, che è il canto degli angeli per il Natale del Signore, comprende appunto “pace sulla terra agli uomini...”, mentre il saluto finale “La Messa è finita, andate in pace” ricorda le parole dette più volte da Gesù, come alla donna emorragica (Mc. 5,25), alla peccatrice perdonata (Lc. 7,50) ecc. Vi è soprattutto un momento rituale della Messa concentrato sulla pace. Dopo il Padre nostro, il sacerdote recita una preghiera indirizzata direttamente al “Signore Gesù Cristo” (unico caso della intera celebrazione eccetto le invocazioni): “hai detto agli apostoli: vi lascio la pace, vi do la mia pace, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa e donale unità e pace”. Quindi rivolge il saluto: “La pace del Signore sia sempre con voi”. Si ha poi l’invito: “Scambiatevi un segno di pace”. Segue infine il canto dell’Agnello di Dio, con la terza conclusione “dona a noi la pace”. Perciò in un momento centrale della Messa, dopo la preghiera eucaristica all’inizio dei riti di comunione, si fa insistente la richiesta della pace, quale dono proprio di Gesù risorto, si dichiara che essa viene ora accordata (il saluto ha valore dichiarativo e non semplicemente augurale), si è invitati a scambiare un segno espressivo di pace, cioè a comunicare al fratello quanto è stato concesso da Dio nella preghiera. Dono richiesto, ottenuto, distribuito: la pace discende da Cristo e unisce in lui tutti coloro che stanno per partecipare al convito fraterno del suo sacrificio mediante la comunione al suo corpo e al suo sangue. La parola “pace” è tra le più belle e gradite del nostro linguaggio corrente, con un significato ampio come concordia, tranquillità, amicizia, ecc. Ben più ricco appare il significato e l’uso biblico: lo “shalom” ebraico (che ricorre 220 volte sul testo ebraico della Bibbia) significa “benessere, salute, insieme d'ogni bene, pienezza di beni, equivalente di vita”. Essa è dono di Dio, segno della sua benevolenza, la sua benedizione e riconciliazione, ma viene proposto anche come impegno nei confronti del prossimo: coloro che hanno ricevuto la pace da Dio, devono “farla” con i fratelli, viverla effettivamente. Vivere in pace: è vivere riconciliati con Dio, per la sua grazia, e con i fratelli, per il nostro sforzo. Ma nel nostro caso si precisa che è la pace di Gesù. Proprio nell’ultima Cena egli disse: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Cv. 14,27). E dopo la risurrezione il saluto ripetuto con insistenza nelle apparizioni ai dodici è appunto “Pace a voi” Così nel Vangelo di Luca (24,26) e di Giovanni, sia la sera di Pasqua (20,19-21) sia otto giorni dopo (20,26). La pace è quindi il frutto della riconciliazione dell’uomo con Dio, ottenuta da Cristo con la sua morte e risurrezione. Egli ne è l’autore e il mediatore. Anzi egli è la stessa pace, la riconciliazione di tutti gli uomini con Dio e tra loro:

“Egli è, infatti, la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, vale a dire l’inimicizia” (Ef. 2,14). Perciò chiedendo al Signore Gesù la sua pace e accogliendola come suo particolare dono, frutto del suo sacrificio sulla croce, quale segno della comunione ritrovata con Dio e con tutti, non possiamo esimerci dal dovere di comunicarla ai fratelli secondo l’invito del sacerdote: “scambiatevi un segno di pace”. Anticamente si dava un vero e proprio bacio “santo”, come veniva chiamato, scambiato tra fratelli di fede  ciò portò alla separazione nella chiesa tra uomini e donne  mentre oggi è stato ripristinato il gesto di comunione fraterna mediante la stretta di mano. Non si tratta di un semplice gesto di amicizia o di saluto ma di un gesto di profonda comunione in Cristo, in quanto ci si fa eco dello stesso saluto del Risorto, ricco di gioia e di speranza: “La pace sia con te”. Prima di partecipare alla mensa eucaristica, è indispensabile dimostrare il senso della comunione fraterna: siamo la comunità dei figli di Dio riconciliati da Cristo che assieme si presentano al suo incontro in piena comunione e gioia fraterna. La pace ottenuta domanda di essere comunicata e vissuta fino da ora per poi espandersi nella vita quotidiana.

 

 

AGNELLO DI DIO

Più volte i libri del Nuovo Testamento identificano Gesù ad un agnello, ispirandosi all’Antico Testamento: al servo del Signore che mite come un agnello si lascia condurre al macello secondo Is. 53,7 — e con la sua sofferenza “toglie i peccati” del suo popolo (Mt. 26,63; At. 8,31; Cv. 129); all’agnello pasquale che, secondo Es. 12,7 — con il suo sangue riscatta il popolo dalla morte (Pt. 1,19; 1Cor. 5,7). L’Apocalisse riprende l’immagine e la sviluppa sottolineando l’esaltazione dell’agnello immolato, rivestito ora di potenza e di gloria. Riconoscere e invocare Cristo “Agnello di Dio” significa rievocare il suo sacrificio, la sua donazione al Padre per la salvezza dell’umanità, proprio nel momento in cui si sta per partecipare al convito eucaristico in cui egli si dona come cibo. Si partecipa alla sua morte e ai frutti di essa, alla sua offerta, alla sua esistenza vissuta con amore e per amore.

 

 

BEATI GLI INVITATI ALLA CENA DEL SIGNORE

Il sacerdote mostrandoci il Pane eucaristico, con una formula tanto cara ai vangeli e alla Bibbia, ci chiama beati perché invitati al banchetto che salva e che preannuncia l’invito al banchetto definitivo dell’eternità. Beati, felici, fortunati. Dio si fa parte a noi, Gesù non solo offre il suo sacrificio ma si fa pane per il nostro cammino. Chissà se gustiamo fino in fondo questo dono? I volti certamente possono essere anche maschera, ma quando distribuisco la comunione vorrei vedere più gioia. Siamo davvero beati come i beati e santi del cielo che vedono Dio, che sono immersi in Lui. Quanta pena quando questo dono meraviglioso viene vanificato, ricevuto con indifferenza, per abitudine. Noi non abbiamo nessun merito, possiamo solo dire: “Io non sono degno”. E’ gratuità completa, è dono assoluto. Più che il nostro desiderio è quello di Gesù di venire in casa nostra. E’ la sua incarnazione che continua in noi. Diventiamo tempio, tabernacolo della sua presenza. Come Maria siamo chiamati ad accogliere, portare e generare il Figlio di Dio.

 

 

UNA COMUNITA’ CHE SI PREPARA  A FAR RITORNO ALLE PROPRIE CASE 

Il banchetto eucaristico ha la sua conclusione con alcuni riti e preghiere che, se da un lato aiutano i fedeli a rendere grazie per il momento vissuto comunitariamente, dall’altro preparano il ritorno alle occupazioni ed attività di ciascuno. Prima di sciogliersi l’assemblea è, pertanto, invitata a sostare in preghiera. Solitamente, mentre il sacerdote o i suoi ministri purificano i vasi che sono venuti a contatto con il Corpo ed il Sangue del Signore (rispettivamente le “pissidi” ed i “calici”), i fedeli ritornano nei banchi e attendono in preghiera. A questo punto è opportuno che vi sia qualche breve tempo di raccoglimento e silenzio, tempo che non va prolungato eccessivamente, in quanto la S. Messa non è un’occasione di adorazione personale o privata, ma una celebrazione comunitaria con modalità e riti rivolti all’assemblea. Se si introduce una pausa di silenzio, essa favorisce la preghiera interiore di lode e dispone il cuore al ringraziamento che può essere espresso attraverso un canto gioioso, conosciuto dai fedeli. Ciò che nella preghiera silenziosa è un sentimento interiore, trova la sua espressione esterna e comunitaria nel canto di tutta l’assemblea. Il sacerdote invita, quindi, i fedeli a partecipare all’ultima orazione della Messa, un tempo chiamata “postcommunio” cioè “dopo la comunione”. Alla preghiera sacerdotale il popolo risponde con l’acclamazione AMEN, come per ratificare quanto il celebrante ha richiesto a nome dei fedeli. Ciò che caratterizza specificamente il contenuto dell’ultima orazione è la richiesta dei frutti della comunione eucaristica, sovente con un richiamo alle situazioni concrete dei fedeli. Si stabilisce, come già visto in precedenza, un forte legame tra Eucaristia e vita. L’Eucaristia diviene fonte di forza e di impegno per una risposta continua e coerente ai doni di Dio, il tutto profondamente inserito nella vita quotidiana dei cristiani. Come la celebrazione eucaristica ha avuto inizio con alcuni riti introduttivi che avevano lo scopo di costituire ed unire l’assemblea, soggetto della celebrazione, così essa termina con altri riti, orientati allo scioglimento dell’assemblea stessa.

Si possono dare brevi comunicazioni o avvisi riguardanti la vita della diocesi, della comunità o di gruppi particolari. Questi avvisi, al di là dello scopo informativo, promuovono e stimolano il senso della famiglia che deve animare la Chiesa. Eventuali attività particolari, destinate ai fedeli, possono trovare in questo momento un loro punto di partenza, anche perché la comunità ecclesiale ha il suo momento culminante di vita nella celebrazione eucaristica. Infine il sacerdote rivolge il suo saluto al popolo. Già all’inizio della Messa il celebrante aveva accolto l’assemblea, appena riunita, con una delle formule di saluto che il Messale presenta, ad esempio: “IL SIGNORE SIA CON VOI!” Esiste un legame tra saluto iniziale e finale: mentre il primo apre l’orizzonte sulla celebrazione che segue, il secondo pone il suggello a tutto il rito, affidando la vita della Chiesa riunita alla protezione del Signore, affinché essa possa continuare a palpitare in coloro che hanno partecipato alla Cena Eucaristica. Al saluto, segue la benedizione che può, in particolari celebrazioni e solennità, essere impartita in forma solenne con tre invocazioni a cui i fedeli acclamano ancora con l’AMEN!

Con la benedizione il sacerdote augura che le tre Persone Divine vogliano “DIR BENE”, compiacersi di coloro che hanno partecipato alla Messa e vogliano continuare ad arricchirli dei loro doni. Segue infine il congedo (l’antico “ite, missa est”) che scioglie l’assemblea ed invia ogni battezzato a glorificare il Signore e testimoniarlo con i pensieri, le parole, le opere di ogni giorno.

 

 

UNA COMUNITA’ CHE VIVE LA MESSA NELLA VITA QUOTIDIANA

“Il corpo di Cristo” “Amen”

Questa è stata la nostra risposta al sacerdote o al ministro dell’Eucaristia che ci ha porto l’ostia consacrata.

Così è, così sia: ci impegniamo personalmente e comunitariamente perché sia così!

Amen: con questa parola termina la Bibbia e termina anche il catechismo dei bambini. Dall’adesione a ciò che il Signore stesso ha detto viene in noi la ferma fiducia nella realizzazione del disegno divino che ci coinvolge. E’ un punto di arrivo, ma anche un punto di partenza. E’ un “sì” che viene pronunciato non solo con le labbra, ma anche con il cuore; è un “sì” che viene pronunciato ogni giorno in ogni luogo. E’ la preghiera semplicissima: “Amen. Vieni, Signore Gesù!” Nel rito di conclusione il celebrante ci impartisce la benedizione e ci congeda con l’esortazione: “La Messa è finita, andate in pace!” Noi rispondiamo: “Rendiamo grazie a Dio!” Che cosa significa per noi andare in pace? dove? come? perché? L’Eucaristia ci porta ad investire nella nostra missione cristiana quella tensione spirituale e morale che deve animare ogni impegno temporale del cristiano: l’attesa della seconda venuta di Cristo. Noi dobbiamo lavorare nel mondo per aprirlo al Regno di Dio, nell’Eucaristia noi attingiamo questa spinta e questa forza che ci manda sempre avanti verso una meta che resta dono da attendere nella speranza, è questa speranza che il mondo chiede oggi ai cristiani, chiamati anche in mezzo alle presenti difficoltà a conservare il senso consistente e sereno della vita.

 

La domenica nella Messa Dio

Questa “memoria” domenicale chiede di essere vissuta durante la settimana: dall’essere “in” Lui, al vivere “come” Lui! La celebrazione rimanda alla vita quotidiana. Testimoni di ciò che abbiamo celebrato la domenica, andiamo al mondo per essere PRESENZA di Dio sulla terra, SEGNO del suo amore, PROSEGUIMENTO della creazione, IMMAGINE del volto divino. E’ una responsabilità! Non ci pensiamo troppo raramente? La partecipazione alla Messa, come pure la preghiera e l’adorazione eucaristica, tanto più raggiungono il loro scopo quanto più contribuiscono a trasformarci interiormente a immagine di Cristo, così che noi stessi diventiamo tra gli uomini segno vivo della presenza dì Cristo. E’ uno degli aspetti più importanti e più impegnativi della missione della Chiesa, quale Corpo di Cristo, espressione visibile della sua presenza invisibile nel mondo. La partecipazione all’Eucarestia è come una ricarica di energia spirituale per la vita di fede in mezzo al mondo. La Messa finisce con il rinvio dei fedeli alle proprie case, al proprio lavoro, alle proprie responsabilità in mezzo agli uomini: la celebrazione si chiude aprendosi sulla vita. La Messa non è una successione di riti e di preghiere; non è solo un precetto, oppure soltanto un sacrificio che si offre a Dio. La Messa impegna per la vita, poiché alla tavola del Signore si viene per servire (Gv. 13, 1-2) e per condividere (1Cor. 11, 22). La Messa non è mai finita, perché se il sacrificio di Cristo è già in mezzo alla storia, il nostro sacrificio nel suo sacrificio non è ancora finito. Se la Liturgia della Parola annuncia ciò che la Liturgia Eucaristica realizza sacramentalmente, la vita cristiana compie esistenzialmente ciò che la Liturgia Eucaristica rinnova e alimenta. Lo scopo della celebrazione eucaristica è quello di creare uno stile nuovo di vita, conforme allo spirito dell’uomo eucaristico. Gesù risorto è ormai presente nel mondo, insieme con i suoi discepoli, dovunque e per sempre: “Ecco, io sono voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt.28, 20).

 

 

ALCUNE DOMANDE

“Ma allora non andare a Messa la domenica è ancora un peccato mortale?”

Nel nostro modo comune di parlare noi diciamo: “Peccato!” quando magari abbiamo perso un’occasione d’oro. E’ veramente: “Peccato!” avere a disposizione un dono così grande e così essenziale come l’Eucarestia e perderlo per motivi abbastanza marginali o secondari. Con un altro esempio, un fidanzato che ha l’occasione di stare una sera con la sua ragazza e le dice: “Stattene da sola perché questa sera c’è un film alla televisione” dimostra o di essere uno sciocco o di non amare abbastanza la sua ragazza. Quindi di nuovo, a proposito della Messa, non è tanto importante far riferimento alla legge per stabilire se sia peccato e peccato mortale o veniale, “saltare la messa” della domenica, è importante invece fare riferimento all’amore: Dio mi ama al punto di farsi pane e parola per sostenermi, darmi da mangiare, insegnarmi a spezzare il pane... e io?

 

“Ho sentito un prete che ad un funerale diceva che Dio ci giudicherà non tanto sul numero di messe che abbiamo “preso” o “saltato”, ma sull’amore concreto verso il prossimo: Allora basta voler bene e non c’è bisogno della messa”.

E’ vero! Dio ci giudicherà, come dice Gesù (Mt. 25) dal fatto di averlo riconosciuto nel povero, nell’assetato, nel carcerato... e in un altro passo, citando l’Antico Testamento dice: “Sacrificio voglio e non offerte”. Ma questo non vuole sminuire il valore della preghiera: Gesù andava alla preghiera del sabato nella sinagoga, si recava ai tempio, si ritirava con i suoi amici a pregare, diceva: “Vegliate e pregate per non entrare in tentazione” e nell’Ultima Cena dopo aver dato l’Eucaristia ha detto chiaramente: “Fate questo in memoria di me!”. Se Gesù avesse saputo che ne avevamo abbastanza delle nostre opere, perché ci avrebbe lasciato l’Eucaristia? E poi come faccio ad amare il prossimo se non imparo dalla sua Parola, se non sono in Comunione con Lui, se non mi confronto con i fratelli?

 

“Io preferisco pregare per conto mio, quando mi sento..” 

Se è importante che la nostra preghiera sia sincera e non solo formale è anche vero che se noi facciamo solo le cose “quando ci sentiamo” ci sono cose che non faremmo mai o molto raramente. E se la preghiera personale è importante, necessaria, è anche vero che noi siamo chiamati a pregare insieme. Non ci avete mai pensato? Quando Gesù insegna il Padre Nostro insegna a pregare insieme, al plurale. Se non ho momenti comuni con altri, chi mi garantisce che la mia preghiera individuale sia valida e non un semplice “parlarmi addosso” o un voler ridurre Dio alle mie esigenze? E come può la preghiera aprirmi agli altri quando io gli altri per principio li escludo già dalla mia preghiera?

 

“La radio, la televisione trasmettono la Messa: Non è sufficiente seguire quelle?” 

La Messa trasmessa per radio o per televisione può diventare, specialmente quando è curata come preghiera e non spettacolo, un buon momento di preghiera. Ma per capirci: se io sono bisognoso di cibo e mi metto davanti ad un televisore che fa scorrere davanti a me i piatti del menù di un pranzo di gala, avrò visto, magari con invidia e desiderio ciò che mangiano altri, ma di certo non mi son tolto la fame. L’Eucaristia è partecipazione viva, diretta, è esperienza di comunità, di condivisione. Certo, in caso di impossibilità fisica, di malattia, seguire con attenzione (non facendo altro) la Messa per radio o per televisione è buona cosa. Anche chi non può andare in chiesa perché assiste un malato e non ha l’opportunità di farsi sostituire, può con il malato stesso seguire la Messa per radio o televisione.

 

“Ho perso la Messa la domenica. Ci vado in settimana, intanto sempre Messa è”: 

Il fatto di ritenere importante il non perdere l’appuntamento con l’Eucaristia è già buon segno e denota la sensibilità verso questo grande dono, ma non giustifichiamoci troppo facilmente in questi casi. Oggi ci sono talmente tante possibilità, specialmente in città, di partecipare all’Eucaristia! E poi, un elemento importante è anche quello di “santificare la festa” e le Messe festive hanno una liturgia della Parola più curata, una partecipazione più corale.

 

“Vado a Messa alla domenica mattina, presto, in quel conventino, e poi anche il prete lì fa in fretta, in venti minuti, senza troppi canti e preghiere varie, ce la caviamo”. 

La mentalità del privatistico e quella del ‘contabile’ sono tra le più deleterie nel vivere la fede. Non si può andare a Messa con l’orologio in mano! Dio ti dà tutta la vita e tu, spilorcio, invece di gioire di stare con Lui, gli calcoli il tempo! Così pure escludere il rapporto con gli altri, con una comunità che bene o male prega, per ridurre tutto a qualche cosa di intimistico significa non aver capito niente della fede e del suo esplicarsi nella comunità degli uomini.

 

“Era così bella la Messa in latino e poi il canto gregoriano non ha nulla a che vedere con certi ritmi orrendi proposti oggi a base di schitarramenti”.

Nessuno mette in dubbio il valore artistico e la carica di religiosità del canto gregoriano o anche la sottolineatura mistica di una lingua con cui hanno pregato i nostri padri. Ma ragioniamo un momento: Gesù parlava in aramaico per farsi capire dai suoi contemporanei e la Chiesa ha pregato e parlato in greco per i greci e in latino quando questa era la lingua ufficiale. Quante persone, oggi sono in grado di capire e di parlare il latino? E non vi ricordate quali strafalcioni senza senso venivano detti? Ne ricordo uno di una donna anziana di grande fede che rispondeva alle litanie di un rosario per i morti dicendo “ora purea” invece di “Ora pro ea” (che tradotto significa: prega per la sua anima) e che interrogata da me se sapesse il significato di ciò che diceva mi confessava candidamente di non saperlo ma che “purea” era la parola che più le ricordava “qualcosa di commestibile.”

Quindi basta con le nostalgie! Invece proviamo a non dire parole e preghiere che non corrispondono ai nostri sentimenti. Sarebbe ben strano, in un mondo che cerca la comunicazione, rispondere ad un amico con una lingua che lui non conosce!

 

“Perché santificare la festa proprio la domenica?”

Il    Concilio Vaticano Il risponde così: “Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso giorno della risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni in quello che si chiama giustamente “giorno del Signore” o “domenica”. La domenica è dunque “il giorno della risurrezione”, è il giorno in cui noi contempliamo e riviviamo celebrandola, la nostra salvezza. La Messa è proprio celebrare tutto questo. Cristo risorto ci convoca per offrirci il suo perdono, la sua Parola, per pregare con noi e per noi, per offrire il suo sacrificio per noi al Padre, per farsi comunione con noi, per rinvigorirci e mandarci.

 

 

SCHEMA DELLA CELEBRAZIONE EUCARISTICA

 

RITI DI INTRODUZIONE

SEGNO DI CROCE

SALUTO DEL SACERDOTE

ATTO PENITENZIALE

INNO DI LODE  (GLORIA A DIO)

ORAZIONE O COLLETTA

 

LITURGIA DELLA PAROLA

1^ LETTURA

SALMO DI RISPOSTA

(2^ LETTURA)

ALLELUIA

VANGELO

OMELIA

PROFESSIONE DI FEDE

PREGHIERA DEI FEDELI

 

LITURGIA EUCARISTICA

PREPARAZIONE E PRESENTAZIONE DEI DONI (Offertorio)

PREGHIERA SULLE OFFERTE

PREFAZIO o PREGHIERA DI RINGRAZIAMENTO

PREGHIERA EUCARISTICA

PREGHIERA ALLO SPIRITO SULLE OFFERTE

RACCONTO DELL'ISTITUZIONE

MEMORIALE

PREGHIERA ALLO SPIRITO PER LA CHIESA

 

RITI DI COMUNIONE

PADRE NOSTRO

RITO DELLA PACE

FRAZIONE DEL PANE

COMUNIONE

 

RITI DI CONCLUSIONE

ORAZIONE DOPO LA COMUNIONE

BENEDIZIONE

CONGEDO

 

 

 

 

Il cuore di Dio ama le sue creature.

Il cuore di Dio dona Gesù alla famiglia di Nazareth.

Il cuore di Dio dona Gesù che in mille modi bussa alla porta di casa nostra:

ACCOGLILO e sarà Comunione di cuori.

 

 

Natale  2011  -  Pro manuscripto

     
     
 

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