Archivio

 
     
     

Con Gesù cresciamo nella fede

 

 

 

 

 

Carissimi tutti,

Alcuni anni fa, non potendo partecipare di persona alla predicazione degli “Esercizi Spirituali” alle suore di Betania di Fiamenga, avevo scritto per loro delle riflessioni di vita cristiana. Non a tutti è possibile seguire corsi di esercizi però tutti possiamo leggere e fare qualche riflessione per evitare che la nostra fede si addormenti e per trovare qualche spunto che dia uno “sprint” nuovo al nostro rispondere all’amore di Dio. In occasione di questa Pasqua, allora, invece della solita raccolta di pensieri e pensierini ho pensato di offrirvi un po’ riveduti quei pensieri che avevo rivolto alle care consorelle, augurandomi che possano essere anche per voi una ulteriore occasione per riappropriarci di alcuni valori cristiani e diventarne con il Risorto gioiosi testimoni. La risurrezione di Gesù porti serenità e pace nelle vostre famiglie.

                                                                                                    

                                                                                                                                          Don Franco

 

 

 

 

 

Mi piace poter iniziare la serie di queste nostre riflessioni con una preghiera che le suore di Betania, a Fiamenga hanno composto per il bel quadro della Madonna con Gesù che si trova nella loro casa:

 

  

Maria, Madre di Gesù e madre nostra,

che sempre cammini per le strade del mondo per portare a tutti il tuo Figlio Gesù,

fa’ che lo accogliamo sempre,

apri il nostro cuore all’ascolto della sua Parola,

aiutaci a crescere nella sua amicizia.

Trasmettici la semplicità e l’umiltà del tuo cuore.

Perché lo possiamo scoprire, accogliere e amare nei nostri fratelli.

Trasforma ogni nostra azione in un atto d’amore e di offerta al Padre.

Per la salvezza di tutti. Amen.

 

 

 

1^ Riflessione:  "L’UOMO E DIO"

 

“Uomo, piccolo uomo chi sei? Da una parte capace di infinito, dall’altro piccola cosa a confronto dell’universo. Immagine di Dio e piccola formica che qualunque evento può calpestare…” Il cucciolo dell’uomo appena concepito ha bisogno di un grembo in cui annidarsi per cominciare l’avventura del suo cammino. Appena nato ha bisogno di braccia affettuose che lo accolgano, lo calmino. Davanti al grande mondo ha bisogno di protezione. Poi l’uomo cresce e pensa di poter conquistare il mondo e l’universo ma se l’orgoglio non lo acceca spesso sente la sua fragilità e debolezza. Scopre dentro di sé dei desideri e delle capacità che superano la sua materialità, ma scopre anche la propria incapacità di rispondere da solo alle proprie esigenze. Se poi il mondo lo affascina, l’uomo onesto capisce che ci sono cose che superano la propria intelligenza e la propria capacità di comprendere, ma soprattutto scopre che quel suo bisogno di affetto non è mai sazio e che pur le più belle cose di questa terra non gli sono sufficienti. Ha bisogno di altro, ha bisogno dell’Altro. Partendo dalla nostra esperienza personale, per molti di noi forse non c’è stato il bisogno di una grande ricerca per giungere alla fede: La fede manifestata in una religiosità l’abbiamo ricevuta insieme alla nostra educazione, per molti il nome Dio è venuto spontaneo come il nome mamma. Per qualcuno quella fede è continuata fino ad oggi senza grandi crisi e turbamenti, per altri invece è stato ed è, magari tuttora, un cammino difficile pieno di problemi esistenziali. Alcuni si chiedono: “Ma Dio esisterà davvero o non sarà forse la proiezione dei nostri bisogni non risolti? E se esiste questo Dio com’è? Un Infinito, un “Suprem” come dicevano i nostri vecchi piemontesi, che ha dato il via ad una creazione che ora per conto suo continua il suo cammino, un qualcuno che casualmente si interessa di noi, un giudice terribile facitore di inferni e di pene degne del più sadico personaggio, un Qualcuno di cui facciamo vagamente parte e che permette un nostro migrare continuo fino a raggiungere una forma di perfezione?

Se partiamo dalle nostre capacità, dalla nostra intelligenza, dallo studio delle leggi naturali, dallo sguardo meravigliato davanti alla natura, noi possiamo arrivare ad ammettere l’esistenza di un Dio (ricordate ad esempio le cinque vie di Tommaso per scoprire Dio?), ma con le stesse capacità altri sono arrivati ad affermare che Dio non c’è ed è solo una invenzione di uomini che approfittando della credulità di altri hanno costruito una grande macchina di cui pochi godono il potere. Avranno dunque ragione coloro che dicono che il mistero lo si deve accogliere come tale e basta o coloro che dicono che l’unica cosa sicura è il dubbio, o coloro che lasciano il problema ad altri e vivono non ponendosi questi problemi, atei praticanti ma con qualche spazio mistico miracolistico nel cuore?

L’uomo, da solo rischia di non trovare Dio, o di trovare un dio costruito da se stesso. Ecco allora la risposta e la proposta che ci vengono dalle Religioni, ma anche queste con il loro carico di dogmi, di norme, di promesse, di riti, possono soddisfare alcune esigenze dell’uomo, ma in alcuni suscitano ancora dubbi: non saranno un tentativo di risposta ai nostri interrogativi, una proiezione dei nostri bisogni?. Ecco allora che alcune religioni parlano di “Rivelazione” e dicono di essere nate dallo volontà stessa del Dio che si è manifestato a qualcuno (un profeta, un testimone)  che diventa il tramite e la garanzia dell’annuncio. Se questo da una parte soddisfa certi desideri e aspirazioni, dall’altra apre nuovi interrogativi: io alla fine devo fidarmi di un uomo. Ma avrà davvero avuto le visioni che afferma o saranno frutto della sua fantasia o peggio della sua mistificazione?

Anche l’Antico Testamento è così. Esemplifico naturalmente semplificando al massimo: Abramo vien fatto uscire dalla sua terra da Dio che vuole dargli terra nuova e fede nuova. Ma Abramo non era un pastore nomade sempre in cerca di terra nuove e la rivelazione di questo Dio non si discosta molto dalle fedi già presenti in quel territorio tant’ è vero che Abramo per onorare Dio gli vuole offrire in sacrificio suo figlio, tipico gesto presente nelle religioni idolatriche del tempo. Mosè è davvero ispirato da Dio nella sua opera di liberazione del popolo di Israele o è il culmine di un movimento di liberazione che si serve della magia (anche i maghi egizi riescono a simulare le dieci piaghe) e di una conoscenza approfondita del deserto per organizzare una fuga (con furto), passare in luoghi insoliti e depistare gli inseguitori egiziani. E Mosè ha davvero ricevuto i dieci comandamenti, l’alleanza tra Dio e il suo popolo o ha codificato norme che la storia ci dice già preesistenti attorno alla figura di un Dio condottiero per meglio gestire il suo popolo nella conquista di nuove terre?

Vedete dunque che anche queste rivelazioni o vengono accettate con atti di fede o lasciano gli stessi dubbi precedenti. Se poi anche accettiamo che siano vere rivelazioni, specialmente leggendo l’Antico Testamento, se è Dio che si rivela con il linguaggio degli uomini del tempo come distinguere la vera rivelazione divina da quella che è l’umano che l’ha concretizzata?

Soltanto Dio può garantire se stesso. Ecco perché Dio, “nella pienezza dei tempi” mandò suo Figlio, il quale si fece carne come noi per rivelarci con l’autorità di Dio chi sia suo Padre e quale rapporto noi possiamo avere con Lui. Cioè soltanto se Gesù è Dio noi abbiamo la garanzia della fede. Ecco allora lo sforzo degli evangelisti (pensate a Marco il cui vangelo ruota intorno alla fatidica domanda: “E voi chi dite che io sia?”), lo sforzo degli apostoli (pensate a Pietro che allo storpio della porta Bella dice: “Non ho denaro da darti in elemosina, ma nel nome di Gesù: alzati e cammina!”, oppure gli inni cristologici delle lettere di San Paolo), lo sforzo della Chiesa contro le grandi eresie dalle correnti gnostiche, l’arianesimo fino agli odierni Testimoni di Geova o alle religioni New Age, o alle stupidaggini romanzesche dei vari Codici da Vinci. Solo Gesù vero uomo e vero Dio è la risposta completa di Dio all’uomo. E alla fede in Lui si arriva mediante un atto di fede però confortato da innumerevoli testimonianze, bibliche, evangeliche e soprattutto di testimoni (pensate alle migliaia di martiri della chiesa primitiva: per chi pensate abbiano accettato di morire orrendamente se non erano profondamente convinti che Gesù era il Figlio di Dio?)

Se Gesù è il Figlio di Dio, Dio non può averci raccontato delle bugie di se stesso e su di noi e allora proprio dalla vita e dalle parole di Gesù noi abbiamo la garanzia che tutto quello che Egli ci ha rivelato di Dio è vero, che quello che è stato scritto prima (Antico Testamento) trova in Lui il suo compimento che quello che Lui ha voluto come manifestazione concreta della fede, la Chiesa (quella che esprime davvero Lui, lo vedremo) porta e manifesta quella che è la vera fede in Lui. Noi cristiani dunque non crediamo qualcosa, crediamo Qualcuno. E le altre religioni, le altre forme di fede?

Tutte, se sono oneste e sincere, hanno una parte di verità, certamente Dio non è offeso da chi magari per condizioni di nascita o anche per scelta crede in Lui per strade diverse. Quindi massimo rispetto per tutte quelle forme che non sono mistificazioni o inganni, ma noi affermiamo che credere in Gesù vero uomo e vero Dio è una garanzia in più dell’amore di Dio per noi: noi da soli non potevamo giungere a Lui, Lui allora si è chinato ed è venuto a svelarci se stesso.

Proviamo adesso a concretizzare qualcosa di questa riflessione.

Una prima domanda che possiamo porci è questa: E’ giusto fermarsi alla fede dell’infanzia?

Certamente quello che abbiamo ricevuto è un dono prezioso, è probabilmente la sostanza della fede stessa. Ad un bambino appena nato il latte della mamma è sufficiente, contiene tutto quello che è necessario perché il bambino cresca, si formi, ma poi bisogna passare allo svezzamento, il bambino comincia ad aver bisogno di qualcosa di più solido, certo il latte serve ancora sia da adulti che da vecchi ma c’è bisogno anche di qualcos’altro. L’umiltà e la semplicità sono importantissime nella vita cristiana, bisogna allora fare attenzione a non lasciare scadere la nostra fede nelle fanciullaggini o peggio stupidaggini. Ad esempio se è giusto ed importante il culto degli angeli custodi, non facciamoli diventare personaggi da favola; è giusto che ci rivolgiamo a loro perché preghino per noi, ci proteggano ci aiutino anche nelle piccole cose ma non rendiamoli come quella signora che sulla macchina aveva almeno quattro cornetti “portafortuna e mi diceva “Io quando non riesco a trovare posteggio dico un “angelo di Dio” e lui me lo fa trovare”. L’esempio può sembrare banale ma attenti che certe forme di magismo di “fede premio per i buoni, condanna per i cattivi” non sono frutto di semplicità ma di superficialità e rischiano non solo di non dare buona testimonianza ma di creare difficoltà a chi è alla ricerca della fede. Piuttosto, se abbiamo ricevuto tanto fin dalla nostra infanzia nel cammino della fede, ne siamo riconoscenti? Preghiamo qualche volta per il sacerdote che ci ha battezzato, per i catechisti che ci hanno insegnato, per quelle persone che ci hanno testimoniato la fede con l’esempio della loro vita?

Un'altra domanda: Avere dei dubbi vuol dire aver perso la fede? Vuol dire essere in peccato?

E il termine stesso “fede” che ci dà la risposta. Fede non vuol dire certezza matematica, ma adesione fiduciosa cioè appoggio il mio credere su qualcun Altro. Dunque l’interrogativo può esserci, anzi qualche volta è necessario perché il nostro credere sia motivato e non solo una forma di fideismo. Dio ama l’uomo nella sua totalità e si rivela a noi nella nostra pienezza, quindi nella fede gioca tutto l’uomo: sentimenti, intelligenza, capacità fisiche e psichiche, amore ragionamento, abbandono. Non spaventiamoci dei dubbi, cerchiamo di chiarirli magari anche con l’umiltà di chiedere aiuto. Non fermiamoci su di essi però solo con la pretesa di risolverli in un modo e nell’altro con le nostre capacità intellettive altrimenti il nostro orgoglio ci impedirà di vedere. Ecco quando il dubbio diventa peccato: quando ho la pretesa di risolverlo solo con le mie capacità intellettive, con le mie forze. Conosco una persona tormentata da molti dubbi, che si mette continuamente in ricerca ma che non si lascia vincere dalle paure e nel frattempo continua la propria vita cristiana con umiltà consapevole dei propri limiti e che proprio per questo è diventata luce e testimonianza per altri e conosco un’altra signora che avendo frequentato un corso di Teologia, pensa di conoscere tutto della fede e della religione ma che proprio per questo pensando di difendere la verità semina attorno a sé dubbi che in altre persone magari non preparate creando allontanamento prima dalle istituzioni e poi da Gesù stesso. Ma Dio, dove lo incontro?

Antony de Mello con una parabola raccontava che un giorno il gran maestro a cui tutti si rivolgevano per avere chiarimenti di fede chiese ai suoi discepoli: “Dov’è Dio?” questi si guardarono l’un l’altro stupiti: “Come? Lui io maestro che aveva sempre parlato di Dio faceva questa domanda a loro?” e cominciarono tutti perplessi a dargli delle risposte: “Nella natura”, “Nel fratello”, Nel cuore dell’uomo”… Il Maestro taceva. Alle fine disse solo questo: “Dio lo trovi dove lo si lascia entrare”. Un arcobaleno dopo un temporale può essere un semplice effetto fisico o puoi vederci l’opera di Dio, un ammalato può essere qualcuno che disturba la tua tranquillità, oppure uno che soffre, o Gesù che soffre; una disgrazia può essere una serie di sfortune o un segnale da cercare di leggere. Le difficoltà della vita comunitaria possono essere un peso, un affronto ai miei diritti, un momento in cui mettere amore. Dio lo trovi se ce lo fai entrare nella natura, nel fratello, nei sacramenti, nella parola di Dio, nel cuore dell’uomo. Lui non forza mai nessuno, ma se lo cerchi lo puoi trovare e non c’ è gioia più grande sia per Lui che per te quella di poterti incontrare. E poi ricordiamoci: Dio non c’è bisogno di andarlo a cercare lontano in monasteri sperduti, in eremi in mezzo al deserto: il luogo in cui Dio sta bene è il cuore dell’uomo. Il viaggio più lungo da fare è di entrare in se stessi e nel cuore del fratello per poterlo incontrare. E Gesù. Dove lo incontro?

Gesù è Dio quindi vale tutto quello che dicevamo prima, ma in particolare lo incontro come Verbo, cioè come parola di Dio rivolta a noi. Se è vero, ringraziando Dio, che conosciamo quasi a memoria i vangeli non abbiamo la presunzione di non leggerli e meditarli più. Vanno bene le meditazioni “D.O.C” del tal Vescovo e del tal predicatore ma torniamo sempre al vangelo: Due fidanzati non si stancano mai di stare insieme e quando sono lontani leggono e rileggono le lettere che si mandano e ad ogni lettura trovano sempre qualcosa di nuovo o qualcosa di cui meravigliarsi e gioire. Gesù è Dio quindi non lo conosceremo mai abbastanza. Poi ci sono dei luoghi in cui Lui stesso ha detto di trovarsi bene. Nel fratello: “Anche se avrete dato un solo bicchier d’acqua uno di questi piccoli perché è mio voi l’avete dato a me”, nel povero, nel malato, in chi opera la pace: “Avevo fame, avevo sete, ero in carcere…” Nella Chiesa che insegna: “chi ascolta voi, ascolta me”, “ciò che sarà sciolto sulla terra sarà sciolto anche nei cieli”. Nella preghiera: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Nei Sacramenti dove Gesù perdona, incarica, manda e soprattutto nella Eucaristia: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.. per voi”.

 

 

 

2^ Riflessione:  "CHI E’ GESU’ DI NAZARETH"

 

Riprendiamo brevemente quanto detto nella prima riflessione per poter fare dei passi ulteriori. La nostra fede è garantita da Gesù. Se Gesù è il Figlio di Dio siamo certi che quanto ci ha testimoniato e detto è verità. Ecco allora la nostra domanda: Chi è Gesù di Nazareth?

Molti di noi pensano già si sapere tutto di Lui: “Abbiamo letto i vangeli, li sentiamo ogni domenica…”. Si può dire che di Gesù si conosce tutto? Se Gesù è Dio, possiamo dire di poter conoscere tutto di Dio? Proviamo a ripercorrere insieme alcuni aspetti di Gesù chiedendoci ancora una volta chi Egli sia per noi.

Da quello che ci hanno raccontato i vangeli e i testimoni che lo conobbero, la prima cosa che noi comprendiamo è che Lui è un uomo come noi. Nasce, cresce, gioisce e soffre come tutti gli uomini di questa terra. Aveva degli amici, ha amato, ha pianto davanti alle ingiustizie e alla morte, è stato solidale con i poveri, è morto tra le sofferenze. Quindi una prima definizione ce lo fa vedere uomo come noi. Ma Gesù esita a definire se stesso, non si affida a formule. Le evita perché le formule non possono contenere una persona e rischierebbero di raccogliere adesioni superficiali attorno a Lui. Gesù, anzi, prende le distanze da chi lo proclama troppo facilmente messia,invita al silenzio coloro che vorrebbero fare di Lui un simbolo o addirittura fugge quando la folla che ha mangiato i pani da Lui moltiplicati viene con l’intenzione di farlo re. Però ci sono caratteristiche del suo comportamento e del suo parlare che ci fanno pensare che Gesù sia più di un semplice uomo. Anzitutto  Gesù parla con l’autorità di Dio.

A prima vista Gesù doveva rassomigliare ai maestri della legge del suo tempo: egli aveva raccolto attorno a sé un gruppo di discepoli che ammaestrò nel compimento della volontà di Dio, ma Gesù si distingue dagli altri maestri per il suo modo di rapportarsi con la Legge, mentre infatti essi si fermano a discutere ed interpretare la Legge, Lui fa valere la sua Parola nei confronti della Legge, pensate a tutte le volte, ad esempio, che dice: “Avete inteso che fu detto… Ma io vi dico”. Chi lo ascoltava coglieva queste cose infatti “Erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc. 1,22).

Altre segno distintivo: Gesù agisce con la potenza di Dio.

Proviamo a rammentare nei vangeli alcuni fatti che verificano questa affermazione:

Gesù cerca pubblicani e peccatori e siede a mensa con loro. Facendo così Gesù rivendica il potere di perdonare i peccati e pretende di avere una perfetta consonanza di intenti con Dio, cioè Gesù perdona come solo Dio può perdonare. Gesù dice: “Ti sono rimessi i tuoi peccati!” Questo solo Dio può dirlo. Tant’è vero che la reazione dei presenti non tarda a farsi sentire: “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?” (Mc.2,7). A questa accusa di bestemmia Gesù risponderà con le parabole che parlano della gioia di Dio per il ritrovamento della pecorella perduta, per il ritorno a casa del prodigo, per la riscoperta della monete preziosa (Lc. 15), o ancora nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc. 18,9-14) o in quella del padrone della vigna (Mt. 20,1-15). In tutti questo casi Gesù giustifica la sua condotta rifacendosi direttamente al comportamento di Dio.

Gesù compie dei miracoli.

I miracoli significano che la volontà di Dio che vuol salvare integralmente l’uomo è entrata nella storia umana proprio mediante l’azione di Gesù. Lo afferma Gesù stesso quando dice: “Se io scaccio i demoni con la potenza di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio”

Ancora:

Davanti ai miracoli e a queste affermazioni le persone sollevano la domanda sulla sua persona: “Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farlo?”. (Mc.11,28) Gesù agisce anche di sabato quando è necessario per il bene degli uomini. Questo suscitava scandalo perché il sabato era giorno di riposo perché anche Dio in esso si era riposato. Gesù giustifica il suo agire affermando che “Il Figlio dell’ uomo è signore anche del sabato”. Con questa affermazione Gesù si mette su un piano di parità con Dio. Gesù chiede agli uomini di decidersi per Dio e si mette come mediatore affinché questo possa avvenire. Per giungere a Dio gli uomini devono riconoscere e accettare Gesù e il suo messaggio: “Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi” (Mc. 8,38) Gesù esige un amore totale ed esclusivo, superiore a quello che ognuno porta per le persone care: “Chi ama il Padre i la madre più di me non è degno di me” (Mt. 10,37) Giunge perfino ad esigere, se necessario, il dono della stessa vita: “Chi avrà perduto la vita per causa mia la troverà” (Mt 10,39). Accogliere Gesù è pertanto decisivo e determinante in rapporto alla salvezza finale (Lc. 12,8) Tutte queste richieste pongono il problema della sua persona. In effetti Gesù avanza delle pretese che solo Dio può accampare nei confronti degli uomini. Significativo è anche il fatto che quel Gesù che invita a non giudicare mai il prossimo (Mt. 7,1-5) riservi poi a sé il potere di giudicare tutti gli uomini, un potere che, evidentemente, spetta solo a Dio. L’agire di Gesù e le risposte che Egli dà ai suoi interlocutori lasciano intendere che Egli è superiore a tutti i personaggi, a tutte le istituzioni e a tutte le realtà religiose di Israele. Gesù fa capire la sua superiorità anche con il massimo legislatore, Mosè. (Mt. 5,21-48); non si lascia neppure inquadrare perfettamente nello schema del profeta, afferma di essere superiore ai sapienti di Israele: “Ecco, ora qui c’è più di Salomone” (Mt. 12,42) a Davide, ad Abramo e a Giacobbe, è superiore anche al tempio e agli angeli. Donde viene a Gesù la coscienza di questo? I Vangeli ce ne danno la risposta: dalla relazione unica che Gesù ha con Dio suo Padre. Con il Padre che lo ha inviato, Gesù ha un rapporto così intimo e profondo che lo colloca su un piano di parità con Lui. Gesù si rivolge a Dio con l’invocazione: “Abbà”. Già il rivolgersi a Dio con il titolo di Padre era abbastanza infrequente nel giudaismo, ma rivolgesi a Lui con il confidenziale “Abba” era una novità assoluta. Gesù, poi, pur avendo insegnato ai suoi discepoli a rivolgersi a Dio con il titolo di Padre (Lc.11,2), distingue tuttavia la sua filiazione divina da quella degli altri uomini. Gesù non dice mai, eccetto che nella preghiera insegnata ai discepoli: “Padre nostro”. Rivolgendosi ai discepoli Gesù parla del “Padre vostro”(Mt.6,8). La formulazione più netta della distinzione la troviamo nelle parole di Gesù alla Maddalena, dopo la risurrezione: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro”. Una parabola di Gesù è particolarmente eloquente al riguardo, la parabola dei cattivi vignaioli (Mc 12,1-12). Dopo l’invio più volte dei servi (cioè i profeti), il padrone della vigna (cioè Dio) invia il figlio prediletto, unico perché erede (cioè Gesù) Dunque paragonati a Gesù i profeti sono dei servi, Lui solo è il Figlio. Anche un celebre detto di Gesù è molto illuminante per comprendere la sua relazione unica e irripetibile con il Padre, è quello che dice: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt. 11,27). Esaminando le parole e i gesti di Gesù siamo arrivati ad intravedere l’identità di Gesù. Ci siamo resi conto che proprio questi testi ci portano ad affermare la divinità di Gesù che, se accettiamo, è comprovata ancor di più sia al Battesimo che alla Trasfigurazione quando è la voce di Dio stesso a indicare Gesù come il Figlio prediletto e ad invitare noi ad ascoltarlo. C’è però una prova, che richiede sempre un atto di fede perché è mistero che supera tutte le altre e conferma la divinità di Gesù ed è la sua risurrezione. Fin dai primi momenti la Chiesa primitiva considerò la risurrezione di Gesù come la conferma divina della sua missione. San Paolo già intorno agli anni 50 dopo Cristo affermava: “Se Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione e vana anche la vostra fede” (1Cor. 15,14). La risurrezione di Cristo sta infatti al centro della predicazione primitiva: “Questo Gesù, dice Pietro a nome di tutti i discepoli, Dio lo ha risuscitato e noi ne siamo testimoni”. Scrive il Cardinal Martini: “Non è mai esistito un cristianesimo primitivo che abbia affermato come primo messaggio: “amiamoci gli uni gli altri”. “siamo fratelli”, “Dio è Padre di tutti” e così via. Dal messaggio: “Gesù è veramente risorto” derivano tutti gli altri”. La risurrezione di Gesù è affermata dagli scritti del Nuovo Testamento come fatto storico seppur misterioso. Essi con onestà non ce lo raccontano in diretta nessuno lo ha visto in questo modo, però ci raccontano le apparizioni del risorto che ha un identità reale, toccabile (non è un fantasma), porta evidenti le ferite della sua passione, ma che ha anche doti che superano il semplice materiale, ad esempio può entrare nel cenacolo a porte chiuse, può apparire contemporaneamente in luoghi diversi. Paolo a più riprese parla della risurrezione di Gesù ecco ad esempio l’inno della lettera ai Filippesi: “Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio: ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil. 2,6-8). Il significato più evidente che gli apostoli percepiscono nella risurrezione è la risposta divina all’ingiustizia umana che aveva condannato Gesù. “Voi lo avete inchiodato sulla croce per mano empi e l’avete ucciso, dichiara Pietro il giorno di Pentecoste, ma Dio lo ha risuscitato sciogliendolo dalle angosce della morte” (Atti 2,23) La risurrezione è così rivelazione che Dio sta con Gesù, con tutti quelli che sono deboli e fanno della propria vita un dono d’amore agli altri. Con la risurrezione Gesù è “costituito Figlio di Dio con potenza” (Rom 1,3-4). Altri testi dicono che Cristo risorto “sta alla destra del Padre” (Rom 8,34). Queste espressioni indicano che con la risurrezione Gesù è entrato in una nuova situazione. Egli trasfigurato dallo Spirito, e associato alla potenza e alla gloria di Dio. La risurrezione di Gesù riguarda prima di tutto Lui, ma riguarda anche noi e tutta la vicenda umana. Ciò che è avvenuto in Cristo risorto è per noi un segno anticipatore. Nel risorto intravediamo la meta del nostro cammino: siamo chiamati alla vita che dura per sempre, la morte e la sofferenza umana cessano di essere un assurdo. Possiamo rinnovare la nostra speranza infatti se da una parte attendiamo da Cristo il compimento e la pienezza di quanto anticipato nella sua risurrezione, sempre in essa troviamo la forza per un impegno attivo, per trasformare il mondo secondo quanto Gesù stesso ci ha insegnato. Credere poi nella risurrezione di Cristo implica non solo l’accettazione di un fatto passato (Cristo risorto) ma anche di un avvenimento futuro (noi risorgeremo). Se dunque scopriamo che Gesù non solo è uomo come noi ma è Figlio di Dio, confermato dal Padre nella sua missione, tutto quello che Egli ci ha rivelato viene direttamente da Dio. Cerchiamo adesso di concretizzare per noi alcune cose derivanti da queste riflessioni. Nel bene e nel male noi siamo persone “abituate” a Gesù. Per cui leggendo il vangelo, parlando di Gesù, scattano determinate immagini, modi di vedere, di dire, di pensare. Faccio una domanda provocatoria: secondo voi Gesù era alto, biondo, con gli occhi azzurri o medio di statura, bruno e scuro di pelle? Ciascuno risponde secondo le immagini che artificialmente ci siamo creati di Lui. Se per caso avete visto il film Gesù di Nazareth di Zeffirelli e il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, al di là del valore artistico, siete certamente portati a immaginarvi Gesù più come quello di Zeffirelli, perché nei secoli gran parte dell’arte lo ha presentato più o meno così, ma noi dell’aspetto fisico di Gesù sappiamo proprio poco. Un altro esempio per vedere come le culture e le abitudini condizionano: è ben difficile che in ambito protestante scopriate un Gesù gioioso, sorridente, lo vedrete quasi sempre molto serio e severo, tutto questo per dire che dobbiamo fare attenzione a non cadere nei luoghi comuni. E’ vero che Gesù può avere mille aspetti diversi, il Cristiano vero però cerca sempre il vero volto del Signore e quando lo ha trovato lo cerca ancora perché sa che Gesù, essendo Dio, non e ‘inscatolabile’ in nessuno dei nostri piccoli schemi così Gesù non si può definire ‘rivoluzionario’ anche se la sua parola e il suo messaggio sono una vera e propria bomba per la nostra umanità, non si può definire ‘Gesù socialista’ anche se l’interesse per l’uomo è al centro del suo essere è perfino difficile qualificarlo come fondatore di una religione, perché ben più che una religione c’è in Lui. Un’altra osservazione: Attenti a non ridurre Gesù ad un semplice personaggio della storia. Gesù è venuto per coinvolgere la mia vita, per donarmi la sua salvezza. Un semplice personaggio della storia può condizionare gli eventi, Gesù è Colui che dà senso ad ogni evento, ad ogni storia, alla mia storia. Penso di parlare a delle persone che con gioia hanno giocato la propria vita per il Signore ed è proprio a questo che Gesù vuole portarci: con Lui la vita cambia, niente ci vien tolto, tutto ci è dato, tutto trova un senso, perfino la morte e il dolore profumano di speranza. Un ultima riflessione: Pensate che Marta, Maria, Lazzaro credessero alla divinità di Gesù? Per capirlo proviamo ad esaminare il brano della risurrezione di Lazzaro. Quando Lazzaro si ammala gravemente, le sorelle mandano a dire a Gesù: “Signore, ecco, il tuo amico è malato”. Quindi credono al fatto che Gesù come ha guarito altri malati possa fare altrettanto con Lazzaro. Quando poi Gesù arriva e Lazzaro è già morto e sepolto ecco che Marta rinnova la sua fede in Lui, guaritore: “Signore se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto” e questa è la stessa cosa che dice anche Maria. Ma subito dopo Marta aggiunge “Ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, Egli te la darà” E qui c’è un secondo passo: Gesù non è solo più un guaritore ma uno che agisce per conto di Dio, che Dio ascolta. Ma c’è un terzo passo a cui gradualmente la conduce Gesù dicendogli che Lui è la risurrezione e la vita ed è l’affermazione di fede: “Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. Pur avendo poi ancora dei dubbi dettati dalla concretezza, “Signore già manda cattivo odore perché è di quattro giorni”, Marta, Maria, già prima della risurrezione di Gesù credono alla sua divinità che sperimenteranno proprio concretamente con la risurrezione di Lazzaro. Possiamo concludere: quando c’è amicizia, ascolto di Gesù, accoglienza di Lui, preghiera, fiducia non c’è neppure bisogno del segno della sua risurrezione per credere che Lui è il Figlio di Dio ma è proprio la fede in Lui Figlio di Dio che dalla risurrezione viene ancor più e definitivamente confermata.

 

 

 

3^ Riflessione:  "IL DIO DI GESU’"

 

Pochi giorni fa una signora mi diceva: “Vede, Don Franco, io credo che Gesù sia il Figlio di Dio, ma se anche non lo fosse crederei lo stesso nel suo messaggio perché è l’amore e la pace quello che contano”. Cercavo di risponderle in questo modo: “E’ vero che gran parte del messaggio di Gesù è basato su valori universali cioè comuni al cuore di ogni uomo ( e questo per me dimostra che davvero siamo fatti a “immagine e somiglianza di Dio ) ma a modo loro, secondo i momenti storici vissuti, anche personaggi come Socrate o grandi pensatori indiani hanno portato questo messaggio, ma essendo pur sempre uomini, quindi persone limitate, nel loro messaggio hanno portato anche il proprio limite. Chi mi assicura che quello che mi dicono, che le indicazioni che mi danno siano proprio vere? E poi, un uomo ‘finito’ può parlarmi a ragione dell’ ‘Infinito’? Può un uomo pur grande che vedo morire parlarmi di eternità? Quello che fa diverso Gesù da un grande pensatore, da un profeta è il suo rapporto particolare con Dio”. Prima ancora di guardare al messaggio di Gesù bisogna guardare a chi è il Dio di Gesù. Partiamo dall’ idea di Dio degli uomini. L’uomo dell’antichità sperimentando la propria solitudine nel creato, comprendendo quanto precaria fosse la sua avventura umana, provando però sentimenti di amore che profumano di infinito e di eternità, vivendo nel mistero ma scoprendo che con alcuni misteri ci poteva convivere e che certe forze della natura, almeno in parte poteva dominare, ha proiettato su Dio tutto se stesso. Ed ecco allora che nascono gli dei: quelli che si rifanno alla terra e alla generazione, quelli che sono signori del cielo e delle stelle, quelli che rispecchiano le attività umane… Negli dei degli antichi c’è sempre qualcosa di umano e qualcosa di trascendente cioè di divino: l’umano come proiezione della propria storia e punto di contatto con il Divino che sono le aspirazioni, i desideri, il mistero a cui l’uomo non può rispondere da solo. Un passo ulteriore è quando l’uomo comincia a distinguere tra gli dei buoni e quelli cattivi ascrivendo ai secondi tutte le malefatte umane portate al massimo e facendoli diventare causa di ogni male e proiettando nei primi ogni aspirazione di bene. Dalla lotta degli uni con gli altri gli uomini ne portano le conseguenze. Il dio dell’ uomo della Bibbia è molto diverso dagli idoli dei popoli suoi contemporanei. L’uomo della Bibbia è concreto, parte dalla propria esperienza e la prima grande esperienza è quella di aver provato che cosa voglia dire “non essere popolo” cioè l’esperienza della schiavitù in Egitto. Qui l’Ebreo che aveva grandi Padri come Abramo Isacco, Giacobbe, Giuseppe, che aveva sperimentato la libertà dei nomadi nel deserto, che aveva sperimentato il desiderio di una terra propria, si trova ad essere diviso, schiavo, costretto dagli egiziani a lavori umilianti. Di Dio avevano già un’idea, ma era molto vaga e rispecchiava le tradizioni e gli usi dei popoli con cui era venuto in contatto, Dio era sì il Dio di Abramo e delle promesse che aveva fatto a lui, ma la religione e la religiosità non differiva molto da quella babilonese, caldea, egiziana. La grande esperienza che questo gruppetto di schiavi ebrei fa è che Dio per primo prende l’iniziativa e si fa storia del suo popolo. E’ lui che sceglie e manda Mosè, è Lui che compie prodigi, è Lui che riesce a muovere il cuore riottoso di Faraone per lasciare partire gli Ebrei, è Lui che si interpone come Nube e come fuoco tra gli ebrei e gli egiziani, è Lui che apre il mar Rosso e fa passare all’asciutto gli ebrei mente sommerge l’esercito di Faraone, è Lui che essendo il liberatore diventa anche il creatore e signore di ogni cosa. E’ ancora Lui che dà la Legge a Mosè e che rende così questo popolo unico tra gli altri popoli, un popolo il cui Dio è il Signore che lo accompagna vivendo con lui prima nomade in una tenda, poi abitando con la sua gloria nel Tempio. Il Dio di Israele rivelandosi però gradualmente, secondo le capacità di intendere del suo popolo è soprattutto un Dio che comanda, che cerca il bene del popolo ma che né è anche il padrone assoluto e da una lettura molto umana dei fatti nasce poco per volta questa mentalità: se io osservo i suoi comandamenti ( che lungo la storia si accresceranno in modo esorbitante) le cose mi vanno bene, se non li osservo Dio è costretto a punirmi e quindi le cose vanno male. Capitemi, queste osservazioni sono un tentativo di semplificazione che certamente per una retta comprensione andrebbe approfondito ma è un modo per comprendere molto genericamente chi fosse il Dio degli Ebrei prima di Gesù.

Gesù non si oppone alla rivelazione graduale di Dio, infatti dice che “non è venuto a mutare neanche una virgola della Legge”. Si inserisce invece nel cammino di rivelazione di Dio e lo porta a compimento. E Lui che si rivela il ‘verbo della frase’. Nel nostro modo di parlare è il verbo quello che da senso alla frase. Se uno dice “io pane” non so esattamente se abbia fame, se abbia veduto del pane, se pensi di essere come il pane, se mi dice “io mangio il  pane” è il verbo mangiare che mi fa capire il suo rapporto con il pane. Gesù è il “Verbo” che mi rivela il Padre (Pensate a come lo aveva capito bene San Giovanni quando nell’introduzione al suo Vangelo ci parla del Verbo di Dio che si è fatto carne e che oltre a rivelarci il Padre dà anche la possibilità a coloro che lo accolgono di diventare Figli di Dio non generati né da carne né da sangue ma da Dio stesso” Il Dio di Gesù è prima di tutto Padre. Ecco alcuni modi con cui Gesù ci parla del Padre Il Padre ha cura degli uomini: “Tutti i vostri capelli sono contati” (Mt. 10,30) Egli conosce le necessità degli uomini: “Il Padre vostro sa che avete bisogno di tutto questo”(Mt.6,32) Egli scruta e conosce i nostri cuori: “Il Padre tuo che vede nel segreto te ne darà ricompensa” (Mt. 6,4) Il Padre è perfetto: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt. 5,48). Gesù lo chiama spesso Padre misericordioso che “fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45) e lo descrive con i tratti indimenticabili del padre di famiglia in quella che noi chiamiamo parabola del figliol prodigo. Scopriamo in essa che è in Padre che lascia liberi, che è paziente e sa attendere, che quando scorge da lontano il figlio pentito gli corre incontro, lo rialza, lo abbraccia, gli rende la dignità di figlio. E’ un Padre che ha pazienza anche con il maggiore riottoso ed esce per convincerlo della bellezza del perdono in famiglia. Dopo questa presentazione Gesù può dire con verità: “Se dunque voi, cattivi come siete, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il vostro padre celeste” (Mt.7,11) Gesù può dire queste cose perché Lui stesso ha un rapporto tutto particolare con il Padre. Mentre a noi insegna a chiamare Dio: “Padre nostro” Lui distingue la sua posizione affermando un rapporto particolare con Dio. Egli è il “Padre mio”: E’ il Padre che lo ha inviato: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato”(Gv. 7, 16). Nella sua preghiera ha un rapporto confidenziale particolare con Lui: “Sapevo bene che mi esaudisci sempre” dice prima della risurrezione di Lazzaro (Mt. 11,42). Lui e il Padre sono una cosa sola: “Io non posso fare nulla da me stesso ma faccio il volere di colui che mi ha mandato” (Gv. 5,30) “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”. (Gv 4,34) Gesù con tutto se stesso rivela il Padre: “Nessuno ha mai veduto Dio, l’ Unigenito figlio che è nel seno del Padre, egli stesso ce lo ha fatto conoscere” (Gv. 1, 18), infatti  Gesù è talmente unito al Padre che questo amore trabocca nei vangeli: “Nessuno conosce il Padre eccetto il Figlio e colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo (Mt. 11,27). “Il Padre ama il Figlio (Gv. 5,20) e “Il Figlio ama il Padre”(Gv.14,31), “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv. 10,30). Per cercare di sintetizzare la rivelazione di Gesù su Dio potremmo dire: Il Dio di Gesù non è solitudine. Pur essendo un Dio solo è famiglia. Infatti Gesù rivela anche lo Spirito Santo di Dio che è l’amore creativo che unisce il Figlio al Padre e che “rinnova la faccia della terra. A me piace molto pensare ad un Dio famiglia dove nell’unità si colgono le caratteristiche diverse, un Dio non solo chiuso nella sua perfezione, ma un Dio unico che ama e proprio perché è amore lo riversa nella sua creazione, un Dio Padre che si preoccupa dei suoi figli, che ha a cuore il bene delle sue creature, che intesse con loro un dialogo nella storia, che parla il loro linguaggio, che diventa uomo e offre la sua vita, che ci perdona e rinnova continuamente nel suo Spirito. Il Dio di Gesù è Signore dell’universo. E’ il creatore di tutto, sostiene la sua creazione, è un Dio che ha tutti i diritti sulle sue creature, ma è anche un Padre buono e tenero che si prende cura delle sue pecorelle, anche e soprattutto di quelle che scappano da casa, non è un Dio che gode del male dell’uomo o che si diverte a punire, ma un Dio che indica la strada ma che poi accompagna con pazienza e misericordia, il suo più grande desiderio dimostrato da tutta la storia della salvezza è che l’uomo sia felice e raggiunga la salvezza definitiva. Il Dio di Gesù è un Dio che rispetta l’uomo al punto da lasciarlo libero e da accettare da lui anche il rifiuto. Dio non risolve al tocco tutti i problemi dell’uomo. Gesù anche se guarisce qualche malato non toglie le malattie dal mondo, anche se fa risorgere qualcuno, quelle persone moriranno nuovamente, il Dio di Gesù non è la macchinetta a gettone  nel quale mettendo qualche preghiera genera facili miracoli, i miracoli che sono nella possibilità di Dio, quando ci sono hanno dei significati ben precisi che sono indirizzati specificamente a determinate persone. Dio non ci illude sul male, sa che c’è, che è una conseguenza del peccato. Il male, la sofferenza non piacciono a Dio tant’è che Lui li combatte con noi, se ne fa carico con noi, ci aiuta soprattutto con Gesù e con la forza dello Spirito a trovarne un significato e a trasformarli in amore. E’ un Dio che ci ama al punto di volerci far partecipare al suo banchetto qui sulla terra e poi nell’eternità, ma non ci obbliga, quasi ci prega a voler accettare i suoi doni e il suo invito. Dopo questa riflessione molto limitata (chi è capace a dire tutto di Dio?) proviamo anche a porci alcuni interrogativi e a tirare qualche conseguenza. Partiamo proprio da una domanda molto semplice a cui rispondere in verità: come mi immagino Dio? Dopo aver dato una risposta a questa domanda chiediamoci ancora: Da dove viene questa mia idea di Dio? E , Chi me lo ha raccontato in questo modo?

Credo che scopriremo che una gran parte dell’immagine di Dio che abbiamo ci è venuta dal tipo di educazione ricevuta. Dio ha rischiato molto facendosi conoscere come Padre perché qui sulla terra abbiamo l’esempio di padri meravigliosi, ma purtroppo anche di padri-padroni, di egoisti perfetti, di padri ubriaconi, di qualche padre che addirittura violenta i figli. Arriviamo anche ad una domanda difficile, ma non per scandalizzare, anzi per capire meglio: La Chiesa, la predicazione, i rappresentanti di Gesù qui sulla terra mi hanno sempre rappresentato o testimoniato con realtà chi sia il Dio di Gesù?

E anche qui se da una parte scopriamo dei sacerdoti che pur con i limiti del loro tempo, delle loro teologie, sono stati dei veri ‘padri’ per noi a immagine del Padre di Gesù, scopriamo anche che un certo tipo di educazione cristiana era più legata all’osservanza di norme religiose che non tanto alla scoperta di Dio che Dio era spesso più il Giudice a cui appellarsi per i nostri peccati (anche questi tutti ben codificati) o il Padrone di cui aver paura perché inventore di inferni pieni di supplizi. Spesso più che di Dio ci hanno parlato di morale e spesso anche questa morale era molto lontana nello spirito da Dio. Ma non ci spaventiamo di questo, anche la Chiesa è fatta di uomini che vivono nella storia e che portano con se stessi tutte le grandezze e i limiti propri dell’umanità, prendiamo però atto che forse anche per noi si tratta di riscoprire l’immagine di Dio e anche qui, senza la pretesa di dire tutto faccio qualche esempio. E’ vero che Dio è Signore, re dell’universo ma la regalità di Gesù si manifesta pienamente solo al momento della croce, dove la sua corona regale è un serto di spine, dove il trono è un duro e scorticante pezzo di legno, dove non ci sono manti per nascondere la nudità umana ma dove un ladro trova il Paradiso e dove Gesù dal suo cuore ferito effonde la misericordia e il perdono arrivando perfino a dire al Padre: “perdonali perché non sanno quello che fanno”.

Dio è il Dio potente che quando parla crea ma e anche il Dio che prima di farsi pane per il nostro cammino si inginocchia e lava i piedi sporchi dei suoi discepoli e vicino al tavolo dell’ Eucaristia ci sta anche bene la bacinella dell’acqua sporca e il grembiule del servizio. Dio può tutto ma non mi aiuta, perché? Perché pur potendo tutto non tocca la tua libertà che per lui è sacra, ma si fa carico con te della lotta contro il male. Non è il Dio che vince il male a colpi di bacchetta magica, ma è il Dio che ti da il senso della lotta contro il male. E’ vero che senza la potenza di Dio nessuno di noi sussisterebbe, ma è anche vero che Dio ci ha affidato l’universo come il padrone della vigna che ha affidato il suo ai vignaioli e che si aspetta solamente la riconoscenza vissuta nel portare frutto. Dio certamente è giudice, anzi è l’unico vero giudice perché conosce i cuori, le intenzioni, i condizionamenti, le motivazioni del nostro agire, ma non è il giudice delle leggi scritte in norme, e il Padre misericordioso che anche alla fine dei tempi non potrà far altro che ratificare le nostre scelte.

 

 

 

4^ Riflessione:  "AMATI DA SEMPRE"

 

Abbiamo ancora una volta contemplato con gioia la rivelazione di Gesù e siamo stati toccati dal suo rapporto con il Padre e dalla riscoperta, a nostra volta, di avere un Padre misericordioso che ci ama ma, sempre guardando a Gesù, scopriamo che non soltanto ce lo ha indicato perché lo conoscessimo ma anche perché noi possiamo accoglierlo nella nostra vita e stabilire un dialogo con Lui. Cioè per Gesù la conoscenza di Dio non è soltanto qualcosa di intellettuale, in risposta alle nostre domande, ma è la scoperta del senso della vita, è il rapporto vitale che instaurato dall’eternità (Io conosco il tuo nome da sempre) si realizza nel tempo (Io sono con voi per sempre) e dà senso completo e profondo al nostro vivere indicandoci il cammino verso di Lui per tutta l’eternità (Dove sono io voglio che siate anche voi). Di fronte al mistero della vita gli uomini di tutti i tempi hanno cercato delle risposte. Sia coloro che hanno visto le meraviglie della vita, sia coloro che ne hanno sottolineato la debolezza e fragilità, tutti si sono chiesti: perché? Da dove viene? Che senso ha? Perché il dolore, perché la morte? E’ tutto sogno o realtà? Vale la pena prenderla sul serio o non ha molta importanza in quanto siamo tutti in balia di un fato che ci supera? Moltissimi sono i tentativi di risposta: risposte filosofiche e risposte vitali, alcune che pretendono di saper rispondere a tutto, altre che affermano di brancolare nel buio. Anche qui, come abbiamo già detto, credo che il buon senso e il realismo ci facciano dire che il mistero è talmente grande che l’uomo con tutta la sua scienza e le sue conoscenze, da solo non riuscirà mai a dare delle risposte esaustive e totali al senso della vita. Il mistero è più grande di noi è come l’acqua dell’oceano o come l’aria: non riuscirai mai a comprenderla tutta, l’importante è viverci dentro. Ed è proprio questa la prima risposta che abbiamo dal Figlio di Dio venuto a rivelarci il Padre e a farci comprendere il senso della vita: noi esistiamo e siamo nel mistero di Dio. Gesù non viene a dare delle risposte definite a domande della ragione, pur avendo tutto il rispetto della ragione, pur non opponendosi alla ragione (niente di quello che lui ha detto e fatto è contrario alla ragione), Gesù ci indica la strada dell’esperienza. Quando due futuri apostoli indirizzati da Giovanni Battista vanno dietro a Gesù e gli chiedono: “Maestro dove abiti?” che vuol dire: “Chi sei? Che cosa fai? Chi è il Padre? Come mai quella voce durante il battesimo? Perché Giovanni ti ha indicato come il Messia? Come possiamo venirti dietro?…” Gesù non risponde con definizioni, con filosofie, con ragionamenti, ma in un modo unico: “Venite e vedrete!” cioè è solo facendo esperienza di vita con Gesù che ci si avvicina alla Vita, è solo ascoltando la sua Parola che si può comprendere la Parola, è solo quando la luce può rischiararti che diventi luminoso, è solo vivendo con Lui che si scopre il senso della vita. E con Gesù per prima cosa scopri che la vita è un dono. Noi uomini spesso siamo portati a pensare di essere proprietari della vita. Quale assurdo! Nessuno di noi ha chiesto di venire al mondo. Io sono nato per un atto di amore tra mio padre e mia madre, ma tra milioni di vite che potevano nascere sono nato proprio io! Nessuno di noi era sicuro di poter vivere. Se guardo agli anni passati della mia vita: quante volte avrei potuto morire! Nessuno di noi può aggiungere o togliere neanche un attimo alla propria vita. Quanto è assurdo allora dire: “La vita è mia e me la gestisco io”. Gesù e la Bibbia ci dicono che la vita è un dono di Dio che si serve della natura per donarcela e della sua Provvidenza per sostenerla. Se io oggi sono vivo è perché l’amore di Dio continua a donarmi il tempo. Ma questo dono non è a caso. Il caso è qualcosa che abbiamo inventato noi e che certamente non può essere all’origine della vita. Mi ricordo di aver letto nella mia giovinezza un libro di uno scienziato che parlando della possibilità che la vita fosse nata per “caso” diceva: Prendete un romanzo come i “promessi sposi” e se avete tanto tempo da perdere, tagliatene tutte le parole, poi mescolatele e tiratele in aria fino a che cadendo ricompongano da sole il romanzo intero. Io non sono vivo per caso, sono vivo perché Dio mi ha amato, mi ha scelto. Io non sono frutto del caso, sono una persona unica ed importante davanti a Dio. Lui, l’eterno ha pensato a me dall’eternità, sono nel suo cuore da sempre e per sempre. Ma allora, potrebbe dire qualche fine ragionatore: se non siamo padroni di nulla, se ci ha voluti Dio noi siamo dei burattini nelle sue mani. Dio ci ha amato e ci ama come persone, ma ciascuno di noi ha un suo carattere, dovuto ai cromosomi, alla storia dei nostri avi, alle condizioni ambientali e così via. Dio non ci ha fatti con lo stampino e soprattutto Dio ci ha fatto un dono meraviglioso e terribile allo stesso tempo, quello della libertà che ci permette di accogliere o meno il dono che ci è stato fatto. Dono meraviglioso perché mi pone come persona davanti a Dio, a me stesso, al mio prossimo, ma dono terribile perché io posso dire a Dio grazie del dono oppure posso addirittura togliermelo, perché io posso realizzare me stesso o con amore o con egoismo, perché io posso considerare il mio prossimo come un fratello o come un nemico. Oggi poi, ma forse in forme diverse è successo sempre nella storia degli uomini, capita che molti non capiscano neppure che cosa voglia dire libertà. Libertà, per molti, è fare quello che voglio ed ecco allora che proprio chi afferma di essere più libero diventa schiavo ad esempio del denaro, del sesso, del potere, che proprio perché io voglio fare ciò che voglio cominciano a comandare nella mia vita e non mi lasciano più libero ma ne divento schiavo. In Dio usare bene della propria libertà è accogliere con amore i suoi doni è cercare  e fare il mio vero bene e il vero bene dei fratelli. E quand’ è che io so quale sia il mio vero bene e il vero bene degli altri? Solo se affido la mia libertà a Colui che è la Verità. A Colui che ha davvero a cuore il mio vero bene e la mia felicità. Sì, perché Dio non è contrario alla nostra felicità ma vuole la nostra realizzazione piena nella gioia. Per troppo tempo una visione moralistica della vita che ha sempre sottolineato i nostri doveri verso Dio (molti dei quali erano norme volute dagli uomini) che ha visto le prove e le sofferenze volute da Dio per metterci alla prova (quasi che Lui che ci conosce fino in fondo avesse bisogno di prove per stabilire se lo amiamo o meno), ha messo Dio in concorrenza con l’uomo. Provate a pensare se una certa mentalità religiosa non sembra quasi dirci: “Dio ha fatto il creato meraviglioso ma poi ti chiede di rinunciarci! Dio ha messo nel cuore il desiderio della gioia e della serenità, ma per fargli piacere devi rinunciarci. Dio ti fa vedere le cose belle ma poi te le toglie di mano e questo per onorarlo!”. Quanto è sbagliata questa mentalità! E’ vero che non tutto quello che è bello ci appartiene (saremmo degli egoisti a volerci appropriare di tutte le meraviglie del creato) è vero che la sofferenza fa parte della realtà della nostra vita, ma non è Dio che si diverta a mandarcela anzi, pensando a Gesù abbiamo già detto che è proprio Lui che caricandosi la nostra sofferenza ci aiuta a combatterla per vincerla definitivamente, è vero che bisogna mettere dei limiti ai desideri, ma questo non tanto “per fare un piacere a Dio” quanto per realizzare noi stessi e i nostri rapporti con l’equilibrio di una libertà usata per la ricerca del proprio e dell’altrui bene. E allora quando noi realizziamo questo, anche Dio è contento. Dio non viene a prenderci nulla ma viene a donarci tutto!

Gesù è il dono più bello per dare senso al nostro vivere.

Dio non è come quei mobilieri di oggi che per far finta di ribassare il prezzo consegnano invece che mobili finiti delle scatole di montaggio con dentro quattro foglietti, il più delle volte incomprensibili e poi ognuno deve aggiustarsi e se alla fine mancano quattro viti di un calibro particolare il tuo mobile già di solito molto precario rischia proprio di non essere finito e di non stare in piedi. Dio per farci capire che cosa sia il dono della nostra vita e il senso che di essa possiamo trovare, non ci ha dato un libretto di istruzione, “e poi arrangiati”, ma “dopo aver parlato in molti modi ai nostri padri ha mandato suo Figlio Gesù”. E guardando a Lui ecco allora alcune cose meravigliose che  ci fanno comprendere la bellezza del dono della vita. Noi siamo figli nel figlio. Lo dicevamo già nella scorsa meditazione. Io non sono solo Franco e neanche don Franco, io sono fratello di Gesù e in Lui Figlio di Dio Padre, generato alla fede e alla vita dallo Spirito Santo. Sono un poveraccio, pieno di miserie, precario nella vita, ma Figlio di Dio, di un Padre misericordioso. Noi siamo amati nella maniera più grande perché amati da Dio. Altro che piccoli uomini persi nello spazio frutto di un caso, siamo sì piccoli uomini ma non soli. Posso essere anche l’ultimo barbone della terra abbandonato e schifato da tutti, ma “nulla può separarmi dall’amore di Dio”. Per noi Dio ha intessuto tutta la storia della salvezza di cui mi sento parte viva. “Per noi e per la nostra salvezza” ha mandato suo Figlio. Su di noi ha riversato abbondantemente il suo Spirito. Egli ci cerca e ci attende, ci è vicino nella lotta contro il male e non si allontana da noi anche quando noi ci allontaniamo da Lui, è pronto a cogliere i minimi segni di conversione per abbracciarci e ridarci dignità. Davanti a Lui valiamo il sangue di Gesù. E’ infatti Gesù che ci ha amati fino alla fine, che non solo ha detto che “non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici”, ma che con coerenza ha accettato anche il nostro rifiuto e si è lasciato inchiodare sulla croce per dirci concretamente quanto ci amava. Anche nei momenti più difficili della vita dovremmo ricordarci che non siamo mai soli: “Anche se una mamma si dimenticasse del suo bambino io non mi dimenticherò di te, dice il Signore”. Quanto è assurdo, seppur comprensibile da un punto di vista umano, quando ci sentiamo abbandonati e magari recriminiamo con Dio perché “ci fa passare” attraverso vie difficili (quasi che le avesse scelte Lui per noi) o perché non risolve le nostre difficoltà con qualche bel miracolo (ma siamo poi proprio sicuri che quel miracolo che chiediamo per noi o per un altro sia davvero il nostro e l’altrui vero bene?).

Amati in questo modo totale allora scopriamo che tutto ciò che è amore ci unisce a Dio ed è il senso profondo della vita.

Se l’essenza di Dio è l’amore trinitario che ci è comunicato, tutto quello che è amore vero è comunione con Dio. Pensate che meraviglia: ogni nostro gesto di amore è comunione e manifestazione di Dio. Nulla va perso nella nostra vita, ogni attimo è significativo. E anche senza scervellarci troppo! Chi vive in Dio non può che vivere nell’amore e manifesta l’amore nella gioia. Ecco perché non può esserci un cristiano triste! Un cristiano ferito sì, un cristiano sofferente, pure, un cristiano che fa fatica anche, ma un cristiano triste no!

Se poi pensiamo, e Gesù ce lo ha testimoniato, che l’amore di Dio supera anche il peccato e ci dona il suo perdono, possiamo non essere riconoscenti, chiuderci ancora in noi stessi, non scoppiare in canti di gioia? Se leggete negli atti degli apostoli che erano “contenti di essere perseguitati nel nome di Gesù”, se leggete nella vita dei martiri che arrivavano a ringraziare i propri aguzzini si può giungere a due conclusioni: o erano dei matti esaltati o erano talmente pieni dell’amore di Dio che riuscivano a leggere anche il momento della prova e della testimonianza come un atto di amore sia di Dio nei loro con confronti che loro nei confronti di Dio e dei fratelli. E questo ci fa capire che allora la nostra vita non è chiamata finire nell’arco dei pochi anni di questa terra ma è chiamata all’eternità. Se noi siamo uniti a Dio, all’Eterno, non possiamo finire nel tempo. Noi lo desideriamo, noi siamo fatti per la vita e non per la morte, ma la più grande testimonianza di questa chiamata all’eternità ci è ancora data da Gesù, il figlio di Dio e nostro fratello. Per Lui la croce e la morte sono la Pasqua, cioè il passaggio alla vita, per Lui l’ascensione al cielo è la conferma che Dio lo accettato pienamente anche nella sua missione terrena. E se Lui nostro fratello è andato là per prepararci un posto noi siamo certi di poter arrivare attraverso la nostra Pasqua là dove Egli è. Se avete ancora un po’ di pazienza proviamo a concretizzare alcune delle cose meravigliose che oggi abbiamo ricordato insieme. Se la vita è un dono di Dio, come rispetto questo dono in me e nei fratelli?

Come è facile giocare con la vita come se ne fossimo noi i soli padroni! L’esempio più grande e più evidente è quello dell’aborto. Pensate solo che i conflitti armati e i genocidi occorsi nel Novecento hanno causato circa 200 milioni di morti cruente eppure solo nel novecento a contare statisticamente si può parlare tranquillamente di un miliardo di aborti. Vi leggo solo alcune righe di Giovanni Paolo II: “Se l’uomo può decidere da solo, senza Dio, ciò che è buono e ciò che è cattivo, egli può anche disporre che un gruppo di uomini possa essere annientato. Decisioni di questo genere furono prese ad esempio nel Terzo Reich da persone che, avendo raggiunto il potere per vie democratiche, se ne servirono per porre in atto i perversi programmi della ideologia nazionalsocialista… le forme di sterminio nominate poc’anzi sono cessate. Permane tuttavia lo sterminio legale degli esseri umani concepiti ma non ancora nati. E questa volta si tratta di uno sterminio deciso addirittura da Parlamenti eletti democraticamente, nei quali ci si appella al progresso civile delle società…” Ma crimini contro la vita sono anche il non rispetto della natura, le varie forme di violenza e di prevaricazione a volte non solo presenti nella società, nel mondo del lavoro, ma addirittura all’interno di comunità e di famiglie. Abbiamo sentito parlare a proposito di pedofilia del fatto che spesso “L’orco è ancora presente nelle nostre case” ma quante libertà violate, quanto autoritarismo che non tiene conto del cammino dell’altro. E qualche volta succede anche nelle comunità cristiane dove certi personaggi autoritari e a volte non ben equilibrati e certamente poco cristiani si avvalgono del proprio ruolo per imporre addirittura a nome di Dio certe obbedienze che invece son del tutto umane. Sacrificio e rinunzia motivati possono essere davvero un gran bene e un modo di crescita cristiana, ma imposti e gratuiti possono diventare il più grande controsenso alla libertà e alla gioia del Vangelo. Il rispetto della vita riguarda la mia vita materiale e spirituale. Ecco allora il dovere di curare il proprio corpo. Anche qui credo che l’equilibrio sia importante. C’è chi va sempre dal dottore per un minimo bubù, c’è chi muore di medicine e c’è chi non ci va mai. C’è chi muore perché mangia troppo e chi rischia di diventare anoressico per i troppo digiuni. E se è vero che la vita del corpo non è la cosa principale per il cristiano e anche vero che il nostro corpo è dono di Dio e mezzo per comunicare con lui e con il prossimo, perché allora certi cristiani nel nome di una falsa spiritualità non curano anche il proprio corpo? Senza farne degli idoli però il Signore ama il bello ed è anche giusto che nel mio rapportarmi con gli altri non dia fastidio con la mia trasandatezza. Bellezza e semplicità si sposano molto bene insieme, e poi ricordiamoci che siamo tempio dello Spirito Santo: se curiamo tanto l’arredamento di un altare o di un tabernacolo perché trascurare il nostro corpo e il nostro spirito?

E come comportarci davanti alle nudità, alla pornografia. Innanzitutto non diventando dei piagnoni che vedono tutto marcio ma che poi magari una occhiata ce la mollano tanto per vedere fino a che punto ci si è spinti oggi. Serenità prima di tutto davanti alla altrui corporeità, ma anche rispetto, e se tu non sai rispettare te stesso, non ti giudico perché il giudizio non spetta a me ma proprio per rispettare te e me ne ne allontano. Abbiamo parlato del corpo ma accenniamo anche allo spirito, alla persona nel suo insieme. Ognuno è dono di Dio, chiamato da Dio, destinato all’eternità. Io devo rispettarti come ti rispetta Dio, io devo volere il tuo vero bene, come Dio lo vuole da te. Delicatezza dunque, rinvio di ogni giudizio, attenzione alle necessità vere dell’altro, testimonianza soprattutto silenziosa delle cose che riempiono di senso e di gioia la nostra vita, preghiera per l’altro perché non siamo come Caino che dice: “Sono forse responsabile di mio fratello” Nell’amore di Dio siamo responsabili di tutti i nostri fratelli. Non a tutti possiamo giungere, spesso ci troviamo davanti all’impossibilità di fare anche qualche piccola cosa per l’altro, portiamo almeno l’ansia per il fratello davanti a Dio. Mi stupisco sempre quando qualcuno mi dice di non sapere che cosa dire o che cosa fare durante la preghiera. Ma se hai saputo ascoltare Dio che è amore perché nell’amore non gli parli di tutti i fratelli del mondo, non gli dice l’ansia, il desiderio di bene per loro. Man mano che ti apri ad essi e ai loro problemi aumenti la tua comunione con Dio che ha le stesse preoccupazioni per loro. Un'altra serie di attualizzazioni possiamo farla a proposito della libertà. Accenno solamente: Nella mia vita sottolineo di più i diritti o i doveri? E un cristiano dovrebbe sottolineare uno dei due o invece solo l’amore? La libertà senza amore diventa imposizione all’altro o libertinaggio. La libertà con l’amore trova da sola i propri confini e li vive non come un peso ma come una gioia per sé e per gli altri. Dio vuole la mia felicità o le mie rinunce?

Si parla sovente di ‘chiamata’ o di ‘vocazione’ e le chiamate possono essere molto diverse dalla consacrazione della propria vita in una scelta matrimoniale o in una scelta religiosa, del proprio impegno di servizio… Ma queste scelte sono viste come un peso o come una gioia. Quanto è triste e contrario ad ogni testimonianza vedere ad esempio un religioso sempre rabbuiato, critico nei confronti di tutti, incapace di vedere in positivo, acido nel modo di comportarsi, sussiegoso per il proprio ruolo, incapace di gesti affettivi. Ma dov’è Colui che ti ha fatto fare la scelta di stare con lui?

E certi matrimoni dove pur essendosi scelti perché innamorati sono diventati dei “mortori” dove si vedono solo più le cose che danno fastidio, dove i minimi particolari diventano montagne insormontabili, dove si sta insieme solo più per dovere o meglio perché ci sono troppe difficoltà a fare delle scelte differenti?

 

 

 

5^ Riflessione  "LA PAROLA DI DIO"

 

Nelle precedenti riflessioni ci siamo aiutati a riscoprire l’essenza del gioioso annuncio del Vangelo di Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo e abbiamo scoperto la bellezza di avere un Dio che ci è Padre che dà senso profondo al nostro vivere e agire, vogliamo ora riscoprire e rivalorizzare i mezzi che ci permettono di attuare questo rapporto unico con Dio perché Lui nel suo amore non solo ci dona se stesso ma anche mezzi e segni per riattualizzare il suo amore per noi. Il primo segno su cui ci fermeremo è la Parola di Dio. Noi nel bene e nel male viviamo in un mondo che è fondato sulle parole. La parola è il mezzo principale di comunicazione. Ci sono parole per ogni azione dell’uomo, per indicare le cose, per vendere e per comprare, per persuadere e per nascondere, per far conoscere se stessi o per dare una falsa visione di sé… Una parola può essere una buona parola che aiuta, che è sincera, carica di amicizia vera, ma le parole possono anche servire per ingannare, per blandire, per distorcere il vero, per ferire e ci sono anche parole cattive che feriscono gli altri e che uccidono. L’uomo nel suo cammino per comunicare ha bisogno di parole ma si accorge anche della loro fragilità e debolezza e scopre allora di aver bisogno di una parola vera, amica che superi la falsità e l’ipocrisia delle parole degli uomini, ha bisogno di una parola che lo guidi. Ed ecco il nostro Dio, il Dio di Gesù, il Dio della Bibbia che con una parola ha creato i mondi dal nulla, per comunicare con la sua creatura sceglie ancora il linguaggio delle parole e dei segni. Mi ha sempre gioiosamente colpito nel racconto della creazione e del giardino di Eden quel particolare di Dio, che al calar del sole scendeva nel suo giardino per chiacchierare con la sua creatura. Il nostro Dio, lo abbiamo già detto non è un grande ente astratto che manifesta la sua grandezza nel creare ma che poi abbandona la sua creatura nelle mani del fato, è un Dio che cerca il dialogo, la comunicazione e, ancor di più, che ama dialogare con noi. Ma la prima esigenza del comunicare tra due persone è quella che si usi un linguaggio fatto di parole comprensibili per entrambi. Immaginate di essere in un paese di cui non conoscete assolutamente la lingua. Vi si avvicina una persona che non conosce assolutamente la vostra lingua e si mette a fare con voi un lungo discorso. Voi non capite se in quel momento vi viene data una buona notizia o una cattiva, se il personaggio con le sue parole vi sta rassicurando  o vi sta minacciando. Anche il tono di ogni lingua è diverso per cui non si riesce neppure a comprendere le intenzioni. L’uomo, da solo può capire Dio? Certamente essendo sua creatura qualche intuizione la può avere, può cogliere qualche atteggiamento, ma si trova come un bambino piccolo che per istinto di fida della madre, impara poco per volta a riconoscerne l’odore della pelle, il calore del corpo e poi vagamente comincia a conoscerne il suono della voce, e quando acquista il dono della vista comincia a riconoscerne i contorni fino a delinearne la figura del volto. Ma le parole con cui i grandi comunicano ancora non le capisce, ci vorrà un bel po’ di tempo prima di comprenderle. L’uomo, dunque, piccola creatura, da solo non può comprendere in pieno il linguaggio di Dio che è grande ed eterno. Ed è allora Dio che sceglie di limitare la sua parola a quello che è il linguaggio umano. Questa è la chiave di base per comprendere la Bibbia: Dio per parlarmi, per comunicare, Lui l’infinito usa il mio povero linguaggio molto limitato per trasmettermi se stesso. Per approfondire proviamo ancora un momento a studiare alcune cose del nostro linguaggio: ci sono parole che indicano con chiarezza una cosa, ad esempio il pane ma non ne indicano la forma (rosetta, banana, biova, libretto); il pane poi può essere di farina, di segala, di riso o ancora all’olio oppure integrale. Ci sono poi parole che assumono significati completamente diversi, faccio l’esempio più grande ed evidente: la parola Amore a seconda di come la si dice o di come la si intenda ha significati molto diversi può indicare sentimento o trasporto dell’animo verso una persona o una cosa, può essere inteso come il contrario dell’odio, oppure può indicare il rapporto sessuale tra due esseri, può essere l’aspirazione dell’uomo al Bene, a Dio o addirittura indicare l’essenza stessa di Dio, può in campo morale intendersi come carità o volontà di far del bene a tutti o a qualcuno, può indicare attaccamento a qualcosa, per esempio l’amore del denaro, può indicare predilezione, ad esempio l’amore per la lettura. Dunque una parola è ricchissima di significati ma anche non sempre facile da comprendere: dipende molto da chi la dice, da chi l’ascolta, dal contesto del discorso, dall’ambiente in cui viene detta e così via. Dio dunque per comunicare accetta i limiti della parola e della storia umana e parla a noi nella storia attraverso segni e parole che sono poi raccolti da persone concrete che con tutti i lori limiti le interpretano e poi le mettono per scritto. Questo ci porta ad una prima conclusione: la Bibbia non è una parola detta da Dio all’orecchio dello scrittore che tale e quale l’ha scritta. Naturalmente non è questo né il tempo né il luogo per spiegare l’origine degli scritti che compongono la Bibbia, cerco però, con molti limiti e con un linguaggio spero facile di darne un esempio. L’ebreo che vive prigioniero in Egitto porta con se tante tradizioni religiose, quelle del mondo nomade in cui sono vissuti i suoi padri, quindi miti babilonesi, accadici, sumeri, è a contatto con la grande religiosità egiziana e poi nella sua tradizione propria porta il rapporto particolare che Dio ha instaurato con Abramo promettendogli e assegnandogli una terra, con Isacco, con Giacobbe, con Giuseppe l’Egiziano. Ma questo gruppo di ebrei fa anche l’esperienza di essere schiavo. Gli Egiziani sono grandi, potenti, hanno un esercito di prima categoria, il gruppo ebreo è piccolo, non molto ricco, ridotto in schiavitù, insomma si rendono conto che da soli non potranno mai ottenere la libertà; finché arriva Mosè che dice di essere mandato dal Dio dei loro padri che vuole liberare questo popolo e riassegnargli la terra promessa. Le prime difficoltà che Mosè trova non sono tanto con gli Egiziani, ma proprio con gli Ebrei che hanno paura di queste idee: “E se il Faraone che è potente peggiora ancora la nostra situazione?” e infatti dopo i primi segni compiuti da Mosè, quelle che noi chiamiamo le piaghe d’Egitto c’è una recrudescenza contro gli Ebrei che si lamentano con Mosè e con Aronne fino a quando si arriva alla notte di Pasqua quando l’angelo della morte risparmiando gli Ebrei uccide i primogeniti degli Egiziani e il Faraone non potendone più concede non solo la partenza del gruppo degli Ebrei ma lo arricchisce addirittura con ori egiziani. Questo gruppo di persone percepisce chiaramente di essere stato liberato non per causa propria, ma “perché il Dio dei nostri padri è con noi” cosa che comproveranno in modo ancor più pieno nel passaggio del Mar Rosso (è Dio che ha travolto cavallo e cavaliere) e poi nel lungo peregrinare del deserto dove non solo si sancirà un patto con Dio al Sinai e questo popolo avrà una Legge voluta da Dio per regolare il rapporto con Lui, ma dove Dio darà la manna, le quaglie, l’acqua, la forza per far giungere questo popolo alla terra promessa. La bibbia scritta nasce da questa esperienza: dalla coscienza di essere stati liberati da Dio e di essere diventati suo popolo, il popolo dell’Alleanza. Naturalmente l’uomo di allora legge questi fatti nella loro vera essenza ma con i criteri e le modalità che sono proprie di quella cultura e di quella storia. Ecco allora che Dio spesso si comporta come un padrone, ecco che per far capire le cose ad un popolo di dura cervice punisce. Cioè a Dio nel bene e nel male si attribuiscono le caratteristiche tipiche della storia di quel momento. Ecco allora che ad esempio noi leggendo con la mentalità di oggi certe pagine della Bibbia troviamo estremamente difficile capire che Dio possa punire la colpa dei padri nei figli. Ma questo fa parte di quelli che con una parola difficile vengono chiamati gli antropomorfismi, cioè le attribuzioni a Dio di quelle che sono le caratteristiche umane. Ma andiamo ancora avanti: attorno ai primi scritti riguardanti la Legge e la liberazione di Israele dall’Egitto nascono anche altre riflessioni. Ad esempio si fa questa riflessione: se Dio è il liberatore potente che ha potere sulla natura significa anche che questo Dio è il Creatore di tutto ed ecco allora che si arriva ai racconti della creazione che vengono espressi attraverso racconti parabole che in sé non sono neppure originali ma adattati da miti di religioni precedente e caratterizzati però da quella che è la fede di Israele. Esiste poi il grande interrogativo del problema dell’esistenza del male. La fede del buon ebreo non può neppur pensare che il male sia stato causato da Dio: Egli è buono! Ecco allora che il male deve essere causato da qualcosa o qualcuno che si oppone a Dio e dall’uomo che ha voluto in qualche modo farsi uguale a Dio pretendendo di poter lui stesso definire quello che è il male e il bene ( ed ecco allora il racconto del peccato originale, del serpente, del frutto, che trasmette questa teologia attraverso immagini anche qui prese da precedenti tradizioni e adattate). Dio dunque, per comunicare con la sua creatura accetta questo linguaggio molto limitato dovuto all’uomo che vive concretamente nella storia. Tanto per capire meglio un altro esempio. Nei primi tempi della Bibbia l’ebreo non aveva un’idea chiara di vita dopo la morte e di eternità. Si pensava che tutto fosse ridotto al breve tempo della vita e che anche dio premiasse con i beni di questa terra colui che gli era fedele e maledicesse l’empio punendolo già qui. Per il dopo morte al massimo si pensava ad un luogo non ben specificato di ombre e di fantasmi. Dio, proprio perché accetta il linguaggio della storia accetta anche che la sua rivelazione avvenga graduale a seconda di quella che può essere la comprensione degli uomini. Infatti, sempre sintetizzando molto, quando gli uomini cominciano a rendersi conto che nella vita terrena non sempre succede che il giusto abbia la sua ricompensa e che il cattivo sia castigato (vedi ad esempio il libro di Giobbe e soprattutto i libri sapienziali) ecco che la riflessione e la rivelazione vanno avanti. Si comprende che l’amore di Dio non dura solo per il tempo della vita e che premio e punizioni non sono automatici sulla terra, ma si comprende anche che il bene deve per forza avere un seguito e un compimento in Dio stesso. Quando arriverà a compimento la rivelazione biblica? Solo quando Dio stesso si incarnerà e attraverso Gesù dirà la sua Parola definitiva. Con Gesù che anche Lui da Dio accetta la limitatezza della corporieità e della incarnazione,  che accetta i limiti di una lingua e le tradizioni di un popolo, si arriva però alla pienezza della rivelazione. La Bibbia quindi da un punto di vista letterario si chiude con gli ultimi scritti del Nuovo Testamento anche se la rivelazione di Dio continua anche oggi attraverso la storia di coloro che cercano ogni giorno di essere testimoni di Gesù e che nella Chiesa trovano la garanzia ufficiale della loro testimonianza. Spero di aver detto in poche parole, anche queste molto limitate, quello che è il senso della Parola scritta che ci è data per la nostra fede. Ecco allora ad esempio perché al termine delle letture bibliche liturgiche diciamo: “Parola di Dio”, non tanto perché quella singola parola sia stata scritta personalmente da Dio o Dio l’abbia dettata allo scrittore, ma perché, pur con tutti i limiti dell’ umanità quella parola fa parte della rivelazione graduale che Dio ha fatto di se stesso e del nostro rapporto con Lui. Proviamo adesso ad attualizzare un po’ questa riflessione tenendo conto che per avvicinarsi un po’ alla Bibbia occorrerebbe non solo un corso di esercizi spirituali sull’argomento, ma forse anni e anni di studio e di preghiera. Ho detto studio e preghiera perché sono le due gambe per camminare nel mondo della Bibbia, studio perché la Bibbia non è facile, perché bisogna cogliere in essa solo quello che è umano e distinguerlo anche se non dividerlo dalla Rivelazione vera e propria e preghiera come atteggiamento per accostarci ad un mistero di incontro con un Dio buono che ci parla e che chiede a noi di rispondergli con atteggiamenti di vita. Ci vuole grande umiltà per leggere la Bibbia. Essa non è né un romanzo, né un libro di poesie, né uno scritto di spiritualità… è un libro unico, il Libro, formato da tanti libri, tante esperienze diverse, tanto amore e tanta sofferenza. L’umiltà deve partire dalla consapevolezza di essere davanti a Dio che ci parla e questo nostro Dio è potente è il Dio che quando dice “Sia la luce”, la luce fu, è il creatore, il liberatore, il salvatore. Ma questo dio è anche Colui che in Gesù si è messo a nostro servizio, è Colui che ci accompagna nel cammino del quotidiano. E questo Dio oggi parla alla sua comunità e in essa a me in particolare. Umiltà che nasce dalla certezza che non sono io l’interprete principale ma è Lui e certamente con la sua parola opererà, se davvero saprò accoglierlo, cose grandi in me Nella Bibbia è scritto che: “La parola di Dio non torna a Lui se non dopo aver operato nel cuore dell’uomo”. Se volete per usare l’esempio di una radio, per entrare in comunicazione con la parola di Dio bisogna prima di tutto ricordarsi di accendere la radio (se non si fa questo ci sei solo tu e tu al massimo puoi parlare con te stesso), poi bisogna sintonizzarla, trovare la stazione giusta cioè dobbiamo chiedere a Dio stesso che ci sintonizzi su quello che ci sta dicendo, bisogna che il volume non sia né troppo alto (la fede e la parola non sono mai gridate anzi, amano la pace) ne troppo basso (perché si rischia di non sentire o di sentire altre cose o di essere disturbati da altre stazioni). Occorre poi avere buone orecchie che non solo sappiano ascoltare ma comprendere e trasmettere al cuore. Dopo aver ascoltato occorre un po’ di studio per arrivare al centro del messaggio, per purificare il messaggio dalle incrostazioni umane dello scrittore, per imparare a conoscere i termini che non ci sono propri, le immagini che vengono usate, per conoscere lo stile di chi scrive. Tutto questo senza esagerare, senza vivisezionare come sul tavolo dell’anatomia, ma sapendo amare la parola e per questo conoscerla meglio. In questo lavoro ci possono essere valide alcune semplici domande:

Detto questo, sempre per attualizzare ci chiediamo ancora quali siano i maggiori modi di leggere la Bibbia oggi.

Innanzitutto c’è la lettura liturgica della Bibbia. E’ il modo più comunitario di spezzare il pane della parola. Pensate che ogni domenica e ogni giorno in ogni parte della terra i cristiani sono chiamati a confrontarsi e a pregare con la stessa parola di Dio. Questo ci dà prima di tutto il senso di Chiesa come popolo molto eterogeneo ma legato da una sola fede, una sola parola, un solo pane. Le letture bibliche feriali e festive sono poi state scelte in modo da farci leggere tutta la Bibbia. Nel feriale i brani evangelici tornato uguali ogni anno mentre la prima lettura è suddivisa in due cicli annuali; il ciclo festivo è invece diviso in tre anni, in ognuno di questi si segue un vangelo sinottico (Matteo, Marco, Luca) a cui in diversi periodi dell’anno si aggiunge Giovanni. Anche qui, alcuni suggerimenti molto semplici. E’ sempre bene arrivare in chiesa avendo letto, meditato e pregato le letture della Messa e per questo è cosa buona avere un messalino che magari abbia un piccolo commento per orientare le letture. Questo ci metterà già in sintonia sul tono della celebrazione, eviterà che una cattiva lettura o una pessima diffusione acustica ci impediscano addirittura di ascoltare le letture (se qualcuno legge la parola di Dio ricordatevi che la state leggendo perché altri la ascoltino e non per voi stessi!) ci renderà maggiormente disponibili anche a quello che sarà il commento del sacerdote o al momento meditativo silenzioso che ci verrà offerto dopo le letture. Un altro nodo di leggere la Bibbia è la “Lectio biblica” che può essere l’impegno di leggere corsivamente tutta la Bibbia suddividendola in libri o capitoli o brani che si leggono ogni giorno e sui quali ci si sofferma magari con l’aiuto di qualche commentario (ce ne sono moltissimi e per tutte le capacità, partendo dai Padri della Chiesa fino a tante offerte presenti anche su Internet) oppure su temi: si scelgono preventivamente alcuni brani su temi specifici e ci si ferma giorno per giorno su uno di essi. Un altro metodo è quello della revisione di vita con la Bibbia. In questo caso si parte normalmente da un fatto di vita personale o da un fatto pubblico, si ricerca nella Bibbia il brano o i brani che ad esso possono fare riferimento e con il metodo dei tre passaggi: 1) Vedere ed analizzare il fatto e quello che la scrittura dice. 2) dare un giudizio su quanto e successo e su quello che il Signore vuole da noi in quella situazione 3) Agire, cioè ricercare la strada suggerita dal Signore per trovare una soluzione al fatto o una risposta adeguata a quanto abbiamo notato. C’è anche ci apre la Bibbia a caso e medita il brano trovato. Personalmente non lo ritengo il metodo più corretto e formativo con il rischio di lasciare troppo spazio a personalismi che qualche volta cadono nel banale e nel fanatico, ma è pur sempre vero che ogni metodo di lettura biblica, se fatto con umiltà coscienza e amore non può che portare qualche frutto perché ricordiamolo la Parola di Dio è come una spada tagliente,(a due tagli) che lascia sempre il segno dove si posa.

 

 

 

6^ Riflessione:  "L’EUCARISTIA"

 

Ogni volta che noi pensiamo al mistero dell’Incarnazione di Gesù, gioiosamente scopriamo il desiderio di Dio di fare comunione con noi. Dio che attraverso la sua Parola rivelata gradualmente agli uomini aveva parlato in molti modi e in tanti tempi diversi, in Gesù colma l’abisso tra uomo e Dio e non solo in Gesù vi è il perfetto equilibrio tra l’umanità e la divinità ma questo permette anche a noi in Gesù, con Gesù e per mezzo di Gesù di entrare in comunione con la divinità, di scoprirci a nostra volta figli nel Figlio capaci di portare Dio nel nostro quotidiano e addirittura capaci di Dio nella nostra povera umanità. Gesù per permettere anche a noi distanti nel tempo dalla sua incarnazione di avere con realtà la sua presenza, la capacità di comunicare con il divino e l’essere partecipi al mistero della sua salvezza ci ha lasciato sia le sue parole sia dei segni che misteriosamente e per Grazia ci comunicano i suoi doni e ci permettono di attualizzare nella nostra storia la comunione con Lui. Questi segni dono soprattutto i Sacramenti, segni efficaci della Grazia voluti da Cristo per santificarci, e tra essi, come vedremo quello maggiormente significativo di questa comune unione con il Divino che è l’Eucaristia.

Già nello scorso incontro accennavamo al fatto che l’uomo per comunicare ha bisogno di segni. Lo sapete ad esempio che l’uso di salutare sventolando la mano o meglio ancora stringendo la mano è nato dal bisogno di far vedere all’altro che in quella mano non c’era alcuna arma offensiva? Il bacio indica un affetto, una comunicazione più profonda, certe parole e certi atteggiamenti poi ci dicono subito con chiarezza se ci troviamo davanti ad un amico, a un nemico, a un prepotente o a qualcuno che desidera il nostro bene. E’ vero però che anche i segni, proprio perché umani possono essere ambigui. Ad esempio un sorriso non sempre indica familiarità, disponibilità, amicizia… qualche volta può essere maschera per non far capire quello che pensiamo dell’altro, ci possono essere sorrisi che nascondono il pensiero della propria superiorità sull’altro, sorrisi di scherno e così via. Gesù quando sceglie dei segni per comunicarci i suoi doni va all’essenziale: acqua olio, pane. Nelle nostre culture che cosa c’è di più essenziale del pane?

Chi tra i nostri vecchi ha ancora vissuto il rigore della fame al tempo di guerra, sa che cosa voglia dire avere qualche pagnotta di pane. Certe donne dell’Africa o dell’Asia guardano con meraviglia a noi che buttiamo tanto pane nell’immondizie solo perché è del giorno prima. Ci sono nel nostro linguaggio diversi modi di dire per indicare questo come: guadagnarsi il pane, buono come il pane, assicurarsi il pane per la vecchiaia. Il pane, poi è il segno per eccellenza per indicare il nutrimento. E’ il cibo che ci dà energia, che ci permette di muovere di lavorare di pensare, di agire in una parola. A sua volta poi, il pane in se stesso è un segno ricco di simboli, ad esempio è formato da tanti chicchi che vengono macerati, lavorati; normalmente lo si mangia insieme e quindi diventa segno di pranzo, di comunione familiare; è frutto di fatica, deve essere spezzato per essere condiviso. Nel mondo della Bibbia poi il pane aveva avuto tanti significati nella storia della salvezza pensate solo a cosa voleva dire il pane non lievitato che ricordava la notte della pasqua ebraica di liberazione quando non c’era stato tempo neppure di far lievitare il pane data l’imminenza della partenza e della salvezza operata da Dio. I pani erano nelle prime offerte a Dio, al tempio; la manna del deserto era il misterioso pane di Dio per il nutrimento del popolo e per il suo viaggio verso la terra promessa.

Se noi pensiamo che Gesù sia la risposta essenziale di Dio ai bisogni dell’uomo, allora comprendiamo facilmente la scelta di Gesù per questo elemento. Gesù è il Pane dell’uomo, Gesù si fa pane per nutrirci, Gesù è il chicco di frumento schiacciato che diventa il pane del nostro cammino. Non abbiamo certamente tempo per sviscerare in un incontro il tema dell’ Eucaristia, mi limito allora riflettere con voi solo su alcuni temi e su alcune parole di Gesù.

L’Eucaristia è il pane per il cammino.

Dio conosce a fondo le tante difficoltà che incontriamo nel cammino di ogni giorno. Un uomo che voglia costruire con onestà la propria vita sul valore di Dio incontra prove di ogni genere. La vita stessa poi con la sofferenza fisica, le malattie, la morte dei propri cari e la morte di se stessi mettono a prova, l’uomo. Siamo come quegli Ebrei che attraversano il deserto in vista della terra promessa. Sì, abbiamo fatto esperienza di Dio, delle sue meraviglie, ma nel deserto il sole picchia forte, si fanno brutti incontri di animali e di nemici, spesso sembra di girovagare a vuoto, ci sono momenti in cui verrebbe la voglia di fermarsi o addirittura di tornare indietro; addirittura una pentola di minestra con le cipolle può diventare miraggio nel deserto e ricordo inquietante dell’Egitto, terra di prigionia, ma di fame saziata; e poi questa terra promessa che non si vede mai, questi nemici così forti, la morte di nostri compagni che non sono arrivati a vedere la promessa esaudita, la fame, la mancanza d’acqua… E’ vero: da soli non ce la facciamo! E Dio lo sa!

Ed ecco che Gesù, per non lasciarci soli nella lotta contro il mondo, nel cammino verso la speranza eterna, nello stentare a trovare il significato pieno al nostro vivere, si fa’ per noi parola e pane per il nostro sostentamento. Mangiare il Pane di Dio significa prendere la sua Forza, ascoltare la Parola e poi cercare di viverla diventa luce per il nostro buio, fare “il pieno di Dio” è dare senso ed energia al cammino di una giornata.

L’Eucaristia è la comunione profonda con il sacrificio di Gesù.

Gesù, come conseguenza delle sue scelte di fedeltà e di amore a Dio e agli uomini ha accettato di donarci tutto se stesso, cioè ha accettato il tradimento, il rinnegamento, il giudizio di un potere religioso e terreno, ha accettato di morire sulla croce tra i tormenti e i dileggi delle persone a cui lui offriva salvezza: è il grano macinato, il chicco che muore, l’agnello che fu sgozzato nella notte di Pasqua affinché il suo sangue salvasse dall’angelo della morte e il suo corpo servisse da cibo per iniziare il cammino frettoloso della liberazione. E’ anche il risorto dove si compie la fedeltà di Dio che non abbandona il giusto nelle spire della malvagità e della morte ma che gli dona la vita affinché la stessa vita possa giungere a noi, è il pane nuovo, sfornato dal sepolcro, fragrante di vita. Ogni volta che noi celebriamo e riceviamo l’Eucarestia noi ci uniamo alla passione, morte e risurrezione di Gesù. Il nostro non è una semplice celebrare dei riti, dire delle formule, compiere un atto di religione, è fare memoria viva, partecipata della passione, morte e risurrezione di Gesù. Non siamo spettatori di una commemorazione, è il nostro vivo ricordo del fatto centrale della nostra fede che ci rende partecipi come se fossimo con Maria ai piedi della croce o come se partecipassimo con Pietro e Giovanni alle corse verso quel sepolcro vuoto per constatare con gioia che Gesù “non è lì”, tra il regno dei morti ma è vivo per sempre!

E mentre noi facciamo memoria e questa memoria rende presente e vivo il Cristo in mezzo a noi secondo la sua promessa e per grazia dello Spirito, noi partecipiamo con Lui alla offerta più gradita che possa essere fatta al Padre: Gesù loda Dio suo Padre avendo realizzato fino in fondo il suo progetto di amore per noi uomini; Dio gioisce con Gesù perché attraverso l’obbedienza del figlio la grazia della sua misericordia può raggiungere tutti i suoi figli; lo Spirito dal sangue versato di Gesù fa germinare la Chiesa nuova, l’umanità nuova. L’eucaristia è dunque anche il Sacrificio offerto. Non tanto per placare un Dio scontroso e bisognoso di sangue per darci il perdono, quanto perché Dio nell’amore di Cristo può donarci ogni cosa con Lui. E poi l’ Eucaristia è il banchetto gioioso a cui siamo invitati e che anticipa il banchetto dell’eternità. Noi siamo invitati, come nella parabola, a partecipare alle nozze del Figlio di Dio con l’umanità. Dio vuol far festa a sua Figlio e con Lui anche alla sua sposa che siamo tutti noi, per questo che cosa c’è di meglio che un banchetto dove tutti possono far festa, mangiare, bere, divertirsi, essere in fondo l’unica famiglia dei figli di Dio?

Ogni nostra Eucaristia è festa. Si può non essere contenti del fatto che siamo  perdonati da Dio? Si può non meravigliarci davanti all’amore sconfinato di Gesù?  Si può non sentire la presenza di tanti fratelli che con noi vogliono fare festa?

A un banchetto di nozze, alle nostre nozze, si può andare con tristezza o con il vestito da funerale?

Provate a pensare solo alle cose principali della Messa e ditemi se non dovremmo essere gioiosi, debordanti di gioia ogni volta che vi partecipiamo. Io non ho alcun merito e Dio mi perdona dei miei peccati. Io ho bisogno di luce e di guida e Dio non mi dà qualcosa ma mi regala la sua parola. Io porto piccole cose per la festa e Dio, gratuitamente mi dà da mangiare se stesso, mi mette in comunione  con il suo amore, mi coccola come un bimbo, mi fa partecipe del mistero della croce, rinnova nella risurrezione di Cristo la sua promessa di eternità, mi aiuta a scoprire gli altri non come concorrenti ma come fratelli amati come me. Ogni Eucaristia è l’atto gioioso e profondo dello sposo che si dona a ciascuno di noi che ci abbraccia e ci dona se stesso che vuol far scaturire in noi i doni della sua salvezza. L’Eucaristia è un abisso di amore così profondo che ogni Eucaristia è sempre nuova per chi cerca di assimilarne il significato. Si capisce perché mistici e mistiche andavano in estasi dopo la Comunione Eucaristica, non solo per un romantico senso affettivo, ma perché si lasciavano subissare dai doni e da questo momento di comunione in cui una povera creatura è al culmine del senso della propria umanità: essere una cosa sola con il suo Dio. E queste non sono solo chiacchiere di predicatori o misticume di sacrestia: la teologia Eucaristica parte dalle parole di Gesù. Proviamo ad accennarne alcune frasi di Gesù:

“Io sono il pane disceso dal cielo” Dio ha visto la nostra miseria, Gesù si è commosso davanti alle folle che sono “come un gregge senza pastore”. Qual è la risposta di Dio? E’ quella di donarci non solo una pacca di benevolenza sulla schiena, non solo farci un augurio e poi lavarsene le mani, non solo dirci una parola di conforto che è già tanto, ma Dio si fa pane: Desideri la giustizia? mangia Colui che è giusto, Ami la bellezza, la verità? Unisciti al Vero! Senti il peso delle tue debolezze e dei tuoi peccati? Comunica con la Misericordia! Dio non ti sta dando una semplice manna per “tirare avanti” Dio ti dà se stesso per tutte le tue fami e seti: “Chi ha sete venga”. Provate a pensare a quante persone nel Vangelo cercavano di “toccare” Gesù per essere guarite, sanate… ebbene noi non solo possiamo toccare Gesù, quello che sanava i malati e risuscitava i morti, ma possiamo diventare una sola cosa con Lui!

“Prendete e mangiate…bevetene tutti perché questo è il sangue dell’alleanza” . Per il credente è un qualcosa di cui non si può far a meno. L’Eucaristia non è un optional è un pane senza del quale non si vive, è il culmine del cammino cristiano e al tempo stesso la fonte da cui scaturisce e si rinnova ogni nostro rapporto con Dio, con la vita con il senso nostro e del prossimo.

“Chi mangia questo pane vivrà in eterno” Questa è una promessa di Dio e Dio è il fedele, le promesse le mantiene. Questo pane che ci mette in comunione con l’eterno non ha solo la capacità di farci camminare per mano a Dio nel tempi di questa nostra vita ma ci conferma e garantisce la vita eterna. Ricevendo Gesù io entro in comunione con l’eternità, supero la paura della morte come ostacolo definitivo della vita, accedo al mistero dell’Eterno e ne faccio parte. Altro che andare all’altare, allungare una mano, dire una preghiera e andarmene!

Allora senza la pretesa di dire tutto ma lasciando molti spazi alla riflessione personale provo a concretizzare qualcosa sull’Eucaristia e sulle nostre celebrazioni Eucaristiche. Credo che nelle nostre inchieste sui cristiani dovremmo concludere che una gran parte di essi sono “anoressici” cioè persone che soffrono in maniera grave di inappetenza cronica. E di questa malattia si può non solo consumare se stessi, ma anche morire. Molti credenti infatti non sentono “Fame”, si accontentano di risposte preconfezionate del nostro mondo, si affidano a dei riti senza parteciparvi, pensano di poter incontrare Dio ovunque e quindi a loro non importa che Dio abbia apparecchiato un banchetto con “cibi succulenti e grasse vivande”, sono come gli invitati della parabola che hanno mille cose da fare e che cercano scuse per non accettare un invito: provate a pensare a quale deve essere la delusione di Dio che ha approntato tutto non per prendermi qualcosa ma per donarmi se stesso, per far festa con me, vedere l’indifferenza, l’abulia, l’accontentarsi di piccole formule, il non farsi trovare perché impegnati altrove, ma pensate anche alla stupidità di quell’uomo che muore di fame o elemosina briciole ad un mondo avaro mentre a pochi passi ha da mangiare in abbondanza insieme ad affetto e fraternità gratuite, ma non si schioda dal suo giaciglio puzzolente!

Mi sono chiesto sovente il perché di questo atteggiamento. Nella parabola degli invitati al banchetto Gesù sembra indicare che coloro che non rispondono all’invito “non ne erano degni” cioè non volevano il re, quindi un peccato di ateismo, ma oggi insieme a questo vedo anche tutta una serie di peccati di qualunquismo, di indifferenza ai valori, di materialismo, di stupidità. Ma mentre qualcuno muore di fame eucaristica, ci sono anche persone che “fanno indigestione di Eucaristia” e mi spiego. Per una cattiva educazione religiosa ed anche per certe forme di mistica stupida, romantica, integralista, ipocrita ci sono persone farebbero la Comunione anche cinquanta volte al giorno per dimostrare la propria bontà, per coccolarsi un Gesù tutto personale, per sentirsi buoni e salvati da formule. L’Eucaristia è una cosa seria! Certo Gesù si fa pane per tutti dal sapiente all’ignorante, certo, Gesù vede quello che c’è nel profondo del cuore dell’uomo. Gesù sapeva benissimo i rischi del suo donarsi come pane, ma l’ Eucaristia non è la medaglia, il premio per i buoni, fare la comunione è un impegno e non solo un fantastico misticheggiare, la messa è un sacramento non una pia devozione da mettere insieme al Rosario, alla via crucis o alla novena al santo tal dei tali. Ricordiamoci che come si può morire di fame si può altrettanto morire di indigestione!

Altra domanda importantissima: Quand’è che posso fare la Comunione e quando non posso. L’antico catechismo che distingueva tra peccato mortale e veniale ci diceva che l’Eucaristia perdona i peccati veniali, ma che è indegno accostarsi ad Essa se si è in peccato mortale. Detto in altre parole, se non sono in comunione con Gesù, con il suo pensiero, con la sua parola, con i suoi fratelli, se non riconosco in quel Pane la capacità di aiutarmi ad affrontare e superare questi motivi di divisione allora è logico non fare la Comunione: sarebbe una presa in giro di un dono meraviglioso. Quando San Paolo poi dice che prima di ricevere l’Eucaristia è bene esaminarsi non intendeva solo un esame alla morale (sono in peccato o no?) ma al fatto che ricevere l’Eucaristia comporta un impegno di comune unione con Dio e con i fratelli. Ma allora non siamo tutti peccatori chi in un modo chi in un altro, non siamo tutti imperfetti, incapaci da soli di arrivare alla perfezione. Allora la Comunione Eucaristica dovrebbero farla solo i puri, i santi?

Gesù si è fatto pane di vita per l’uomo in cammino. Nell’Antico Testamento c’è un bellissimo esempio che anche la liturgia ha usato per indicare il senso della Comunione Eucaristica. Elia, quel personaggio forte, che ha ucciso oltre 400 sacerdoti di Baal, che ha gridato forte, che secondo la tradizione sarà assunto in cielo su un carro di fuoco, di cui la tradizione ebraica prevedeva il ritorno prima della venuta del Messia e che molti ai tempi di Gesù identificarono con Giovanni Battista, ha avuto anche lui i suoi bravi momenti di crisi. A un certo punto della sua storia la regina Gezabele lo cerca per ucciderlo e allora sia per fuggire sia per ritornare alle origini della sua missione, per confrontarsi con se stesso e con Dio, decide di intraprendere un lungo pellegrinaggio nel deserto verso il monte Oreb. Presto però il caldo, il sole che picchia forte sulla testa nel deserto, e forse ancor più i pensieri di tetraggine e forse la paura di essere abbandonato da Dio lo fanno desistere e lui, il forte si dichiara sconfitto, si accoccola nel suo mantello e non desidera che morire. Gli appare un angelo che gli presenta del pane e dell’acqua e gli dice: “Mangia e poi riposa”. E quando Elia si risveglia di nuovo l’angelo gli da pane ed acqua e gli dice “Mangia e poi cammina”. ‘E con la forza di quel cibo Elia giunse al monte santo di Dio l’Oreb’. L’angelo che, lo sappiamo nella Bibbia indica la presenza di Dio, non fa l’esame di coscienza a Elia, non considera la sua disperazione come un peccato ma vuole solo dare forza, aiutare. Pensando a questo ci chiediamo: chi è che è degno di ricevere l’Eucarestia? Ma anche: “Chi ha più bisogno di Eucaristia? Essa è il premio per chi è bravo o il pane per camminare del peccatore che però con quel pane vuole fare un cammino verso Dio?

Esistono altri modi di comunione con Gesù?

Certamente e non solo la comunione spirituale, l’adorazione al Santissimo, la vista all’Eucarestia, le varie preghiere di riparazione. Ci sono modi comunione con il Signore altrettanto sicuri e validi proprio perché ce li ha dati Gesù stesso. Ne indico solo alcuni: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”. Quindi la comunità cristiana è ‘sacramento’, segno efficace della presenza di Gesù, ma anche il nostro ritrovarci se è nel suo nome, ad esempio una famiglia che si trovi nel nome di Gesù in fraternità, in confronto, in preghiera, ha la garanzia della presenza di Gesù. “Viene il momento, ed è ora, in cui adorerete Dio in Spirito e verità”. Dio non lo incontri solo nel tempio ma Dio essendo in ogni luogo lo puoi incontrare ovunque ed ogni sua creatura può suggerirti una strada per incontrarlo. “Anche se uno avrà dato solo un bicchier d’acqua ad uno di questi piccoli perché è mio lo avrà dato a me”: ecco un altro bellissimo modo di ‘Comunione’, riconoscere nel fratello un figlio di Dio e servire in Lui Gesù: “Avevo, fame, sete, ero malato, in carcere… e mi hai curato, amato, servito”. E’ bellissimo il pensiero di Madre Teresa di Calcutta che invitava i suoi ad adorare Gesù nell’Eucarestia, a ricevere il corpo di Gesù per adorare nel servizio il corpo di Gesù nei sofferenti. E’ anche bello che l’evangelista Giovanni al posto di raccontarci l’istituzione dell’Eucaristia vi abbia narrato la lavanda dei piedi. Fare comunione con Gesù è lasciarci lavare i piedi da Lui e imparare da Lui a lavarceli a vicenda. Qualcuno chiede: Ma dopo aver ricevuto Gesù che cosa devo fare? Che cosa devo dire? Prima di dire e di fare bisogna essere. Bisogna riconoscere che quel pane è un pane diverso dagli altri. Bisogna essere in comunione con Gesù e il suo mistero e poi, non preoccuparti troppo di cosa dire e di cosa fare. Un innamorato non studia prima il discorso da fare alla sua bella, parla col cuore, normalmente non le legge un discorso, le parla, la ascolta, a volte si tace insieme, si contempla insieme, si desidera insieme, si ‘sente’ insieme, si parla delle cose che ci stanno più a cuore, si fanno progetti ci si confronta, soprattutto si gioisce insieme. E' il clima della gioia dovrebbe essere il clima abituale delle nostre Eucaristie. Ricordate tutti di quell’ateo che diceva: “Ogni domenica mi apposto all’uscita della messa per guardare in faccia i cristiani che escono da in Chiesa e finora mi sono rassicurato del mio ateismo perché non ho mai visto il volto di qualcuno che avesse davvero incontrato uno che è risorto dai morti e che fa risorgere quelli che credono in Lui” Se vai ad incontrare il tuo Dio ci puoi andare con tristezza? Ricordo un episodio che si ripeteva ogni domenica in casa nostra. Non eravamo ricchi, in certi momenti c’era appena il sufficiente ma alla domenica mio padre teneva sempre in tasca qualcosa da dare ai poveri e qualche soldo per andare a comperare anche solo due paste: era domenica, la gioia della Eucaristia doveva anche manifestarsi nel dolcetto e nella carità che facesse gioire qualcun altro.

 

 

 

7^ Riflessione:  "PREGARE E’ NATURALE"

 

Abbiamo sinteticamente parlato del dono prezioso dell’ Eucaristia ed abbiamo scoperto con il Concilio Ecumenico che essa è il culmine e la fonte delle vita cristiana, perché è il miglior modo di entrare in rapporto con Dio. Essa è la preghiera per eccellenza, ma direi anche l’esempio di ogni altra preghiera.

Ci fermiamo dunque a riflettere anche un po’ a lungo sulla preghiera.

 

PREGARE E’ NATURALE

Non c’è niente di strano nel bisogno di pregare. Non è difficile presentare ai bambini l’idea della preghiera e sono pochissimi gli adulti che possono dire di non aver mai pregato. Anche quelli che vanno raramente in chiesa pregano, anche quelli che non sono sicuri dell’esistenza di Dio, pregano. Senza contare che in certi momenti tutti pregano, pensate, ad esempio, a quando una imbarcazione è in pericolo. Una madre piange la figlia scomparsa, ed ecco che arriva un poliziotto che la informa che la figlia è stata ritrovata: “Oh, grazie a Dio!”, esclama la madre. Il sollievo si manifesta nella gratitudine, ma nella gratitudine per chi? Istintivamente per Dio. Il reporter televisivo viene a intervistare un uomo sfrattato. “Che cosa farà ora?”. “Non lo so, Dio ci aiuti”. Una figlia prende il telefono e chiama una sua amica. Suo padre ha avuto un infarto e la cosa sembra abbastanza grave: “Come sta adesso?” “Grazie a Dio, si riprenderà”. Quando non possiamo assolutamente sapere che cosa ci riserverà il futuro, introduciamo nell’incognita qualcuno che lo sa: Dio. E poi, quando arriva quel terribile momento di disperazione in cui la brutta notizia ci giunge come una mazzata in testa, la reazione quasi automatica esplode in tre sole parole: “Oh Dio, no!”. Come ci hanno illustrato questi piccoli esempi, la preghiera è un fatto naturale, del tutto normale. Ma ciò non significa che pregare sia facile e che non presenti problemi. Per la maggior parte di noi, la preghiera è la soluzione di emergenza. Quando le cose vanno bene è facile dimenticarsi di pregare. Altre volte, quando vogliamo pregare, scopriamo che sappiamo solo le parole più elementari, che abbiamo solo una vaga idea di che cosa sia in realtà la preghiera. Altre volte ammettiamo che la preghiera potrebbe trasformare profondamente la nostra vita dandoci un senso di calma e di serenità che non siamo mai capaci di trovare quando vogliamo gestire le cose a modo nostro. Possiamo anche vedere l’influenza che la preghiera ha su certe persone che la praticano, oppure assaporare l’atmosfera di pace che cogliamo in qualche antico luogo di preghiera, come una cattedrale o un monastero. Ma, in altri momenti, tendiamo semplicemente a dire che “non abbiamo tempo” di pregare. La preghiera è vista come una cosa irrilevante nella pressione della vita quotidiana. Perciò impegnarsi seriamente a pregare, pensare alla preghiera e mettersi a pregare sono cose molto rare. Quasi tutti pregano qualche volta, ma sono pochissimi che fanno della preghiera una parte importante della loro vita quotidiana. Il risultato è che, quando si tratta della preghiera, siamo fuori allenamento, arrugginiti e maldestri. Siamo come un pianista che non si esercita mai o come un ciclista che inforca di nuovo la bicicletta dopo tanti anni di riposo. Come qualsiasi altra attività, la preghiera è difficile se stiamo troppo tempo senza praticarla. La preghiera ha bisogno di esercizio. Se vogliamo che la nostra amicizia con Dio si rafforzi sempre più, dobbiamo interessarci di Lui, stargli insieme, lasciare che ci trasformi. E trasformarci anche un po’ da soli. Stando insieme a Dio gli somiglieremo di più. Forse non sarà una trasformazione immediata e drammatica, ma lunga e graduale. Il cambiamento più bello sarà che Dio ci darà la pace del cuore. Egli ci darà anche tante prove del suo amore e ci aiuterà ad amare coloro che ci stanno intorno. Gli altri si accorgeranno che cresce in noi una nuova forza interiore, che siamo più sicuri della direzione da imprimere alla nostra vita e che abbiamo le risorse non solo per affrontare le prove di ogni giorno, ma anche le crisi più decisive.

 

PER PREGARE BISOGNA RICONOSCERE CHE DIO “ESISTE”

“Chi si avvicina a Dio deve credere che Egli esiste e ricompensa coloro che lo cercano”. Così scrive la lettera agli Ebrei (11,6), e in un certo senso è una verità ovvia. Il primo passo nella preghiera deve essere la certezza che Dio esiste, che può ascoltarci ed intervenire su ciò che gli diciamo. Altrimenti la preghiera si risolve semplicemente nel parlare al soffitto. Molti inciampano appunto su questo primo passo. Siamo disposti a credere in un Dio che ha creato l’universo, ma riteniamo molto più difficile credere che un tale Dio possa interessarsi di insignificanti esseri umani su un piccolo pianeta in un angolo del nostro sistema solare. Perché Dio dovrebbe ascoltare le nostre preghiere? E perché dovrebbe fare qualcosa per esaudirle? Certamente Egli è troppo impegnato nelle grandi questioni universali per potersi occupare della gamba rotta di Roberta o dell’esame di Mario. Dio esiste da qualche parte, ma è difficile perché o come possa interessarsi delle nostre preoccupazioni quotidiane. Perciò, qualsiasi considerazione seria riguardo alla preghiera deve partire da una considerazione seria riguardo a Dio. La Bibbia in realtà ci presenta il quadro di un Creatore di immenso potere e autorità. Di Lui dice che abita in un luogo di “luce inaccessibile”. Dice inoltre che “nessuno ha mai visto Dio”. Dice che Dio incute timore, che è santo e totalmente diverso da noi. Ma questa è solo la metà del quadro. La Bibbia parla anche di Dio come nostro “Padre”, che ama e apprezza ogni persona che ha fatto nascere ogni cosa, che  ha creato l’uomo e la donna “a sua immagine e somiglianza” perché fossero come Lui: infinitamente preziosi e apprezzati. Il Dio che ha tuonato: “Sia fatta la luce” è lo stesso Dio che ha posto il primo uomo e la prima donna nel giardino dell’Eden: una rappresentazione concreta del suo amorevole interessamento al loro benessere e alla loro felicità. “Se guardo il cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che Tu hai fissate: che cosa è l’uomo per­ché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. La risposta del salmista è alquanto sorprendente: “Lo hai coronato di gloria e di onore” (Salmo 8). Dio ci ha creati e si prende cura dì noi. Infatti il Dio che ci ha creati si è preso cura di noi al punto di mandare suo Figlio a morire per i nostri peccati e riportarci a Lui. Gesù, il Figlio di Dio è la prova vivente che Dio ha cura di noi e si occupa di noi come individui. Gesù ha speso la vita nel fare dei beni ai singoli indivi­dui, venendo incontro alle loro esigenze particolari. Alle volte si trattava di cose veramente importanti: vita e morte. Altre volte invece si trattava di cose ordinarie: cibo da mangiare, vino per la festa. Gesù ha detto che quelli che avevano visto Lui avevano “visto il Padre”, in altre parole: Dio è come me. E se Dio è come Gesù, allora le no­stre ansie e preoccupazioni di tutti i giorni sono esattamente le cose in cui Dio è disposto a farsi coinvolgere. Dunque attenzione alle false idee di Dio, perché se no anche la nostra preghiera sarebbe falsata. Dio non è un vecchio lassù in cielo. Spesso anche gli artisti non potendo rappresentare l’idea di “Eterno” lo hanno rappresentato come un vecchio, così pure pensiamo che Dio sia “lassù” in cielo per indicare che Dio è infinitamente superiore a noi, in ogni caso se Dio “vede” ogni cosa ci sembra logico che lo faccia guardando dall’alto. Ma queste sono immagini molto relative e assolutamente parziali. Anche per un certo tipo di educazione ricevuta, specialmente chi ha già un certo numero di anni è spesso portato a pensare a Dio come ad un poliziotto che sta sempre alle calcagna dell’uomo per coglierlo in peccato. Se abbiamo questa idea di Dio gli facciamo un gran torto e lo confondiamo con la nostra coscienza e spesso anche con una coscienza formata secondo i canoni di una certa epoca che sa vedere solo il peccato ovunque e che vive di paure. Attenti anche a confondere Dio con il papà e la mamma. Per molti di noi o ricordi dell’amore e della cura del papà e della mamma sono una delle cose più belle. Tuttavia non esistono genitori perfetti. Ad esempio ci sono mamme che abituano i figli a dipendere troppo da loro e ci sono papà troppo occupati nei loro affari per dedicare del tempo ai figli, ci sono dei padri-padroni qualche volta anche violenti. Facciamo dunque attenzione a non confondere Dio con la figura dei padri e madri terreni: Dio è Padre ed anche Madre, come ci hanno ricordato sia Papa Lucani che Papa Giovanni Paolo II ma non nella maniera fragile della nostra umanità. Dio non è neanche un mago benevolo che può appianarci le difficoltà della vita e preservarci dalle sventure, sempre che troviamo il modo giusto di evocarlo e smuoverlo. Non è un talismano, un portafortuna e neanche la fata buona delle favole che dopo molte peripezie del protagonista alla fine con un colpo di bacchetta magica aggiusta tutto.

 

IL SIGNIFICATO DELLA PREGHIERA

Una volta convinti della meravigliosa verità dell’esistenza di un Dio che ci ama, possiamo cominciare a capire prima di tutto quello che la preghiera non è, e poi quello che è. Per prima cosa la preghiera non è una recita di parole. Qualcuno dice: “Non riesco a trovare il modo di esprimermi”, come se Dio stesse a guardare se recitiamo perfettamente la formula prescritta. La Bibbia ci dice che Dio penetra i nostri pensieri, per cui non ha alcuna difficoltà a capire ciò che le nostre parole cercano di esprimere. Dio va ben aldilà delle parole, Egli è in grado di “sentire” un desiderio espresso da un sospiro, da un gemito di dolore e di comprenderne esattamente il significato. In secondo luogo, la preghiera non è un lavoro o un dovere. Dio non cronometra le nostre orazioni per controllare se oggi abbiamo riservato alla preghiera tutto il tempo prescritto. La preghiera non va intesa come un peso, ma come gioia. E certamente non può essere valutata in base alla sua lunghezza. Gesù, un giorno osservò, a proposito dei farisei del suo tempo che si ritenevano giusti e che “credevano di venire ascoltati a forza di parole”, che questa e ipocrisia. Non è la lunghezza delle parole che conta, bensì la loro sincerità. Tuttavia, un po’ di tempo per la preghiera dobbiamo trovarlo, perché la preghiera interessa un aspetto della nostra realtà che in generale tendiamo a trascurare. Nella frenesia della vita giornaliera diventa difficile inserire Dio o trovare il tempo di interessarlo a ciò che stiamo facendo. Ecco perché molti scoprono la preghiera in certe situazioni di crisi, come in occasione di un lutto o del fallimento di una relazione. In tali circostanze siamo costretti a pensare più a fondo a ciò che ci sta accadendo. Analogamente, molti trovano più facile pregare quando sono in vacanza, specialmente se si tratta di una di quelle vacanze tranquille e riposanti che possiamo trascorrere in un posto piacevole. Il tempo e lo spazio che ci troviamo a disposizione ci danno la possibilità di riflettere su quelle cose che normalmente prendiamo per scontate. Così possiamo distinguere ciò che è veramente importante da ciò che non lo è. Spesso sperimentiamo un gran senso di gratitudine: per gli amici e per la famiglia, per la casa e per il lavoro e per la bellezza del creato. Tale senso di gratitudine può essere per noi l’inizio di una vera vita di preghiera. La preghiera, quindi, può scaturire dalle normali circostanze della vita: dalla gratitudine, dall’ansia o dal nostro interessamento per qualcun altro. Per crescere, le basta poco spazio, preferibilmente un po’ di tempo riservato espressamente a questo scopo. Ma soprattutto ha bisogno della convinzione che il Dio che esiste e ci ama è interessato e coinvolto in tutti i dettagli e circostanze della nostra vita. Non è necessario che inventiamo un ordine del giorno di argomenti spiccatamente “religiosi” da trattare con Dio, perché Egli ha cura di noi dove siamo e come siamo. Riflettiamo insieme su queste parole di Michael Ramsey: “Se hai un amico intimo cerchi di stargli insieme più che puoi. Non calcoli il tempi che passi con lui, ma puoi scambiare notizie, chiedere un favore, esprimere dispiaceri, ringraziare, scambiare opinioni, qualche volta parlando e ascoltando, qualche altra con il silenzio. Stare con Dio con sentimenti di meraviglia è adorazione. Stare con Dio con sentimenti di riconoscenza è ringraziamento. Stare con Dio presentandogli le necessità degli altri è intercessione. Il vero segreto sta nel cercare la presenza di Dio: “Signore, cercherò il tuo volto”. Ci sono poi tanti modi di pregare quanti sono coloro che pregano: una cosa è certa: non c’è un unico modo di pregare che vada bene per tutti. Come nelle nostre relazioni con gli amici, così anche in quelle con Dio è di regola la  varietà. Forse che gli innamorati o gli amici del cuore si incontrano solo e sempre nello stesso luogo, e alla stessa ora ogni giorno e parlano sempre delle stesse cose? E’ la varietà che dà gusto alla preghiera. Qualche volta possiamo improvvisare le nostre preghiere, se le cose che vogliamo dire a Dio ci vengono spontanee sulle labbra. Qualche volta abbiamo bisogno di distillare le preghiere scegliendo con cura e magari perfino scrivendo le parole che vogliamo dire. Qualche volta possiamo servirci di preghiere composte da altri oppure trasformare in preghiera lo studio e la riflessione sulla Bibbia, o possiamo servirci dei salmi o degli insegnamenti di Gesù o di Paolo per ispirare e nutrire le nostre relazioni con Dio. La preghiera liturgica delle ore può poi farci sentire in comunione con la preghiera di tutta la chiesa. Possiamo usare le preghiere dei libri di devozione, oppure cercare momenti di silenzio e di “deserto” e possiamo anche pregare cantando. Quanto alla posizione da adottare nella preghiera dipende da noi. Possiamo sederci, inginocchiarci, camminare, correre o danzare. Qualunque cosa facciamo, dobbiamo avere il solo scopo di esprimere l’amore e le aspirazioni del nostro cuore per Dio ed essere aperti ai suoi piani di amore per la nostra vita.

 

 

 

8^ Riflessione:  "PADRE NOSTRO"

 

Abbiamo cominciato a dire qualcosa sulla preghiera e soprattutto ci siamo ricordati che per pregare dobbiamo avere davanti Dio così come Egli è. Ma chi è che ci ha fatto vedere il vero volto di Dio? E chi davvero può insegnarci a pregare? Dobbiamo scoprire Gesù. Egli quando era qui sulla terra ha tanto pregato, ha insegnato a pregare con l’esempio della sua vita. Proviamo dunque a guardare a Lui. Se ho contato bene i Vangeli ricordano diciassette occasioni in cui Gesù ha pregato. Ne ricordo con voi alcune. Gesù ama iniziare la sua giornata pregando: “Il giorno dopo Gesù si alzò molto presto quando era ancora notte fonda, e uscì fuori. Se ne andò in un luogo isolato e la si mise a pregare” (Mc. 1,35-36) Gli apostoli sono talmente stupiti dal vedere che in fondo tutta la vita di Gesù è una preghiera che alla fine vogliono imparare da Lui come si prega: “Un giorno Gesù andò in un luogo a pregare, quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: Insegnaci a pregare.” (Lc. 11,1) E fu in questa occasione che Gesù ci lasciò la preghiera del Padre Nostro e quasi a commento di essa ci disse che Dio ama stare con noi, non fa come un vicino di casa che è già addormentato e si arrabbia quando lo svegliano in piena notte per chiedergli un favore. E ci ha fatto capire che Dio non è assente, non ci prende in giro dicendoci di chiedergli tutto ciò che vogliamo e poi non ci dà nulla. E nemmeno ci fa cercare cose che non troveremo né ci fa bussare ad una porta che non si aprirà. Dio è invece come un Padre che dà cose buone ai suoi figli e il dono migliore che ci possa fare è il suo Spirito Santo. Basta che glielo chiediamo. Gesù prega in modo particolare prima delle scelte importanti della sua vita: prima del battesimo al Giordano, prima della scelta dei dodici apostoli, nella notte in cui fu arrestato. In queste occasioni vediamo un uomo che prega realmente. Questo può sorprenderci perche essendo Gesù Figlio di Dio in sé non aveva bisogno di pregare, ma come uomo Gesù prega per allinearsi totalmente alla volontà di Dio. Ma come pregava Gesù?

Gesù preferiva la solitudine: quando voleva pregare metteva una certa distanza tra sé e le sue occupazioni di ogni giorno. In un mondo dove i pii farisei amavano pregare facendosi vedere sulle piazze, Gesù si nascondeva. Non per questo è un introverso o un eremita; egli voleva procurarsi il luogo adatta, senza distrazioni per incontrarsi con suo Padre. Lì chiedeva il discernimento di cui aveva bisogno, si ricaricava per poter poi tornare con rinnovata forza al suo agire quotidiano. Gesù era un uomo vero e quindi sperimentava tutte le nostre emozioni. Era felice quando vedeva che l’opera di Dio otteneva successo. Altre volte, invece, si sentiva deluso, esasperato, esausto. Non mancarono neppure occasioni in cui diede sfogo alla sua collera. Altre volte pianse come alla tomba di Lazzaro o davanti alla durezza del cuore della città santa. Ma, invece di limitarsi a sospirare e piangere, Gesù incanalava i suoi sentimenti nella preghiera. Invece di lasciarsi deprimere dalla delusione e rabbia, presentava questi suoi sentimenti al Padre. E’ una lezione anche per noi. Anche noi dobbiamo sfogarci con Dio, dirgli come stiamo, come ci sentiamo e anche esprimergli i nostri dubbi e interrogativi. Anche noi possiamo, esprimere le nostre paure e angosce come ha fatto Gesù specialmente nell’ orto degli ulivi: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Però non sia fatta la mia volontà, ma la tua”. In quel momento di grande tensione pregava più intensamente. Il suo sudore cadeva a terra come gocce di sangue”. Oppure come ha gridato in croce:

“Gesù gridò a gran voce: Padre nelle tue mani affido la mia vita. Dopo queste parole morì”. Quando Gesù pregava, Gesù era pronto a lasciarsi guidare dal Padre celeste. Leggiamo in San Marco, ad esempio che Gesù dopo una lunga ed intensa preghiera, modificò la propria linea di condotta: fino ad allora aveva fatto della città di Cafarnao, il centro del suo apostolato, lasciando che la gente andasse da lui. Ora invece decise di andare lui stesso a predicare e a guarire nelle città e nei villaggi. Ed è nella preghiera che Gesù comprese a fondo la sua missione di andare a cercare e salvare chi era perduto, infatti è nella preghiera che vince le tentazioni del diavolo. Gesù non si servì mai della preghiera per chiedere a Dio Padre di fare come voleva Lui ma sempre chiedeva aiuto per conformare la propria vita alla volontà del Padre in fatti poteva dire: “Io vi assicuro che il Figlio non può far nulla da sé, ma solo ciò che vede fare dal Padre. Quello che fa il Padre, anche il Figlio lo fa ugualmente” (Gv. 5,19)

Gesù ha consigliato la preghiera per far fronte alle lotte della vita. Sapeva che certi problemi sono pesanti. “Pregate per non entrare in tentazione” (Lc. 22,40) oppure:

“State svegli e pregate per resistere nel momento della prova: perché la volontà è pronta ma la debolezza è grande” (Mt, 26,41)

Ci inviata a pregare per saper cogliere il momento decisivo: “Fate attenzione, rimanete svegli perché non sapete quando sarà il momento decisivo” Ci ha detto di avere fiducia: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto, perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova, a chi bussa sarà aperta la porta” Ci ha promesso la sua assistenza: “E tutto quello che domanderete nel mio nome io lo farò perché la gloria del Padre sia manifestata nel Figlio. Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io lo farò” (Gv.14,13-14). “Quando quel giorno verrà non mi farete più nessuna domanda. Io vi assicuro che il Padre vi darà tutto quello che gli domanderete nel mio nome. Fino ad ora non avete chiesto nulla nel mio nome: Chiedete e riceverete così la vostra gioia sarà perfetta”. (Gv. 16,23-24) Gesù ci ha anche detto quanto possa essere ipocrita un certo tipo di preghiera: “E quando pregate non fate come gli ipocriti che quando si mettono a pregare nella sinagoga o negli angoli delle piazze per farsi vedere dalla gente: Vi assicuro che questa è l’unica loro ricompensa. Tu, invece, quando preghi, entra in camera tua, chiudi la porta e Dio che è presente anche in quel luogo nascosto ti darà la sua ricompensa. Quando pregate non usate tante parole come fanno i pagani : essi pensano che a furia di parole Dio finirà per ascoltarli. Voi non fate come loro, perché Dio, vostro Padre, sa di che cosa avete bisogno prima ancora che glielo domandiate”. (Mt. 6,5-8) I discepoli, certamente colpiti dal fatto che Gesù pregava e dal come la preghiera aveva informato tutta la sua vita, chiesero a Gesù di insegnare loro a pregare come Lui. Gesù rispose con una preghiera modello, bella, equilibrata, breve: il Padre Nostro. Questa preghiera che cosa ci insegna sul modo di pregare?

Prima di tutto la preghiera comincia da Dio. Gesù ci ricorda con chi stiamo parlando: con Dio onnipotente, che è anche nostro padre. Non stiamo telefonando al direttore di un supermercato per essere serviti a domicilio. Ci mettiamo invece con umiltà e semplicità davanti al Creatore, riconoscendo in Lui l’Onnipotenza divina ma anche sapendo che con Gesù, in Gesù e per Gesù possiamo chiamarlo Padre. Apparteniamo dunque alla sua grande famiglia. La nostra preghiera non è una preghiera solitaria: siamo uniti ai figli di Dio, quelli che sono già morti, quelli che sono i viventi del mondo, quelli che verranno dopo di noi, perciò quando diciamo questa preghiera non solo lodiamo Dio per la possibilità di chiamarlo Padre ma entriamo in comunione con tutti i cristiani e con tutti gli uomini, al di là di ogni barriera di colore e di classe, di politica e di economia.

Diciamo di sì a Dio. Con le prime parole della preghiera chiediamo a Dio che si compia tutto ciò che Egli intende fare nella nostra vita e nel nostro mondo perché sappiamo bene che quella che è la sua volontà è il vero bene nostro e dell’umanità (un Padre vero e buono come Dio non può che volere il bene dei propri figli) Chiediamo che tutti gli uomini, ovunque si trovino, possano comprendere chi è Dio e accoglierlo con fede.

Chiediamo che venga il Regno di Dio. Dove regna Dio, là c’è il regno di Dio. Il suo è un regno di cuori che non si trova su nessuna carta geografica; per entrare in esso non c’è bisogno di passaporto e visto ed è estremamente bello pensare che Dio è già re di tanti milioni di vite umane ed è già riconosciuto come Signore in un immenso numero di situazioni, Gli effetti del suo dominio li vediamo quando l’odio si trasforma in amore e l’asprezza in perdono, quando la malattia è vinta dalla salute e la guerra dalla pace. Ma non ci dimentichiamo che Dio è Padre, non un dittatore, Perciò il suo regno può trionfare solo quando le singole persone lo invitano ad entrare nella loro vita e sono disposte a cambiarla come Lui vuole. L’invocazione “Venga il tuo regno ha quindi conseguenze pratiche per ciascuno di noi. Se vogliamo davvero che venga il Regno di Dio, dobbiamo a qualunque costo aprire a Dio tutta la nostra vita. Se poi cerchiamo di introdurre Dio nel mondo constateremo che Dio nel suo rispettarci ed amarci ha bisogno di noi, del nostro servizio. E questo servizio si esplica nei modi più diversi: dal prestare il proprio servizio ad un malato al partecipare a una colletta per chi sta soffrendo, dal predicare il suo regno all’ offrire la nostra preghiera per tutti gli uomini, Potrebbe anche darsi che l’unico contributo che possiamo dare al servizio del regno sia vivere con umiltà e con fede il proprio lavoro e il proprio rapporto con gli altri per tutta la vita. Presentiamo a Dio i nostri bisogni. Nella seconda parte del Padre nostro chiediamo a Dio di soddisfare i nostri bisogni umani essenziali. Gli chiediamo quanto è necessario per vivere e lo supplichiamo di perdonarci e proteggerci. “Dacci ogni giorno il pane”. Sono parole che richiamano alla mente i giorni in cui Dio mandava agli Ebrei la manna nel deserto. Ogni giorno ciascuno ne aveva la quantità sufficiente, e noi chiediamo appunto di poter rivivere la stessa esperienza, sperimentando così ogni giorno la Provvidenza di Dio. Nel discorso della montagna Gesù disse: “Non preoccupatevi troppo dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo?Come ci vestiremo?” Sono gli altri, quelli che non conoscono Dio, a cercare sempre tutte queste cose. Il Padre vostro che è in cielo sa che avete bisogno di tutte queste cose. Voi invece cercate il Regno di Dio e fate la sua volontà: tutto il resto ve lo darà in più” (Mt. 6,31-33) In un’epoca in cui tanta gente è ossessionata dalla smania dei soldi, Gesù ci fa una promessa stupenda. Dobbiamo però anche notare che Dio ci darà tutto ciò di cui abbiamo bisogno, non tutto ciò che vogliamo. Perdonaci i nostri peccati perché anche noi perdoniamo a chi ci ha offeso”. Gesù ci ricorda che nella nostra vita non abbiamo bisogno solo di una casa in cui abitare, di cibo da mangiare e di vestiti da indossare. Il nostro vero benessere è legato intimamente alle nostre relazioni personali: con noi stessi, col nostro prossimo, con Dio. Una delle cose essenziali di cui abbiamo bisogno è il perdono. Offendiamo il prossimo con il nostro egoismo, con la nostra rabbia, con i nostri pregiudizi, Offendiamo Dio facendo a modo nostro, violando la sua legge d’amore, vanificando il suo amore per noi e per la nostra umanità. Perciò gli chiediamo perdono. Se siamo sinceri ne sentiamo veramente il bisogno. Noi sappiamo che Dio è grande nella misericordia, nel perdono e nell’amore, per questo Gesù è venuto e si è fatto carico di ogni nostro peccato. Ha inchiodato il peccato con se stesso sulla croce, lo ha fatto discendere nella tomba, ma lo ha vinto con la risurrezione. Noi dunque in Gesù abbiamo l’assicurazione del perdono di Dio. E’ questo il “lieto messaggio” cristiano: la nuova vita con Dio ci è data come dono gratuito per mezzo della morte e risurrezione di Gesù. Quando però chiediamo a Dio di perdonarci, dobbiamo prima vedere se c’è qualcuno che ha bisogno del nostro perdono. Che sentimenti abbiamo verso il nostro peggiore nemico, quello che ci ha fatto veramente del male, quello che ha fatto del male alle persone che ci sono care? Il perdono certamente non è facile. Certamente dobbiamo fare attenzione a non far coincidere il perdono con l’ipocrisia e con la connivenza con il male. Anche i sentimenti di amore verso il nemico non possono prescindere da atteggiamenti istintivi di ripulsa e avversione ma dobbiamo ricordarci che solo perdonando agli altri possiamo davvero fare l’esperienza del perdono di Dio. Quando diciamo queste parole del Padre nostro, dovremmo qualche volta fermarci a meditare ciò che dice Gesù nel discorso della montagna: “Perciò se stai portando la tua offerta all’altare di Dio e ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì l’offerta davanti all’altare e vai a far pace con il tuo fratello; poi torna e presenta la tua offerta”. (Mt. 5,23-24). Non si tratta solo di un’idea interessante, ma di una condizione essenziale per essere anche noi perdonati. Fa’ che non cadiamo nella tentazione. Comunemente è tradotto: “Non ci indurre in tentazione” e ci sembra strano che Dio voglia tentarci. In realtà, come leggiamo nella lettera di Giacomo le tentazioni non provengono da Dio ma da noi stessi: “In realtà ognuno è tentato dal proprio desiderio cattivo che prima lo attira e poi lo prende in trappola. Questo desiderio fa nascere il peccato, e il peccato quando ha preso campo porta la morte”.(Gc. 1,14-15) Se da un lato Dio non spinge nessuno al male, dall’altro, proprio per il dono della libertà, permette a volte  che siamo tentati. Come siamo pronti a sopportare ogni specie di disagi e rinunce magari anche solo per conservare la linea, così Dio permette che anche noi siamo tentati per rafforzare la nostra fede e accrescere la nostra fiducia in Lui. Riguardo alle tentazioni Gesù aggiunge nella sua e nostra preghiera una supplica molto umana, quando chiede a Dio di non provarci e di non purificarci al di là delle nostre forze. E’ confortante ripetere le parole di Gesù. Dicendo il Padre nostro riconosciamo che la tentazione è parte integrale della nostra vita di ogni giorno. Ci accompagnerà sempre e quindi dobbiamo imparare a servircene bene. Giacomo scrive: “Fratelli miei quando dovete sopportare prove di ogni genere, rallegratevi. Sapete infatti che se la vostra fede supera queste prove, voi diventerete forti”. (Gc. 1,2-3) Se riusciremo ad usare la forza delle tentazioni per avvicinarci di più al Signore anzichè per allontanarci da Lui, ne trarremo vantaggio per l’anima nostra. Se il Padre nostro è il culmine e il modello della nostra preghiera, guardiamo ancora a Gesù per vedere come concretizzava questa preghiera. Gesù non aveva paura di chiedere ma chiedeva cose buone soprattutto per gli altri. Sul fatto del chiedere e chiedere con insistenza raccontò perfino due parabole per spiegare il suo pensiero. La prima che abbiamo già accennato è quella dell’uomo che va a chiedere un pane di notte, l’altra è quella della vedova che cerca di ottenere una sentenza giusta da un giudice ingiusto e corrotto. La povera donna non può far pressione su di lui né con minacce né con bustarelle ma alla fine lo costringe a farle giustizia pur di togliersela di mezzo. Gesù non ha raccontato queste parabole per dire che Dio non vuole ascoltare le nostre suppliche. Tutt’altro! Se un vicino sonnacchioso e un giudice corrotto alla fine si arrendono, con quanta maggior sollecitudine risponderà alle nostre suppliche un Dio che veglia su di noi, che è generoso e che ci ama! Naturalmente anche noi dobbiamo chiedere cose buone come chiedeva Gesù. Per chi pregava Gesù? Gesù pregava soprattutto per gli altri. Nell’ultima cena ha pregato per i suoi discepoli perché Dio li proteggesse dal Maligno e li mantenesse uniti nell’amore: “Padre santo, conserva uniti a te quelli che mi hai affidati, perché siano una cosa sola come noi… Non ti prego di toglierli dal mondo, ma di proteggerli dal Maligno”. (Gv. 17, 11. 15) Nella stessa preghiera Gesù si è ricordato anche di noi: “Io non prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per altri, per quelli che crederanno in me dopo aver ascoltato la loro parola. Fa’ che siano tutti una cosa sola: come tu Padre sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi. Così il mondo crederà che tu mi hai mandato” Vediamo dunque che, pregando per gli altri, Gesù chiedeva soprattutto a Dio di proteggerli dal male e di mantenerli nel suo amore. Luca accenna in quella stessa sera anche un’altra preghiera per i suoi discepoli: “Simone, Simone, ascolta! Satana ha preteso di passarvi al vaglio come si fa con il grano per pulirlo. Ma io ho pregato per te, perché tu sappia conservare la tua fede”. (Lc. 22,31-32) Gesù ha pregato per i bambini. Nel Vangelo vediamo che Gesù interrompe la conversazione con gli adulti per accogliere e benedire alcuni bambini: “Alcune persone portavano i loro bambini a Gesù e volevano farglieli toccare, ma i discepoli li sgridavano. Quando Gesù se ne accorse, si arrabbiò e disse ai discepoli: “Lasciate che i bambini vengano a me; non impediteglielo, perché Dio da il suo Regno a quelli che sono come loro”. (Lc. 10,13-14) Marco aggiunge che Gesù prese in braccio quei bambini e volle benedirli. Gesù pregava per i malati. Invocava Dio su di loro, li toccava, li guariva. E questo ci incoraggia ad avvicinarci a Lui. Gesù non si meraviglierà né resterà inorridito del nostro male fisico  o interiore. Non ci manderà via. Si occuperà di noi come se non esistesse altro al mondo e ci guarirà. E se non giungerà la guarigione fisica comincerà certamente a guarirci l’anima. Dunque se vogliamo imparare a pregare bisogna che facciamo come Maria di Betania: stare ai piedi di Gesù, mettere il nostro sguardo nel suo, sentire il palpito del suo cuore, imparare da Lui ad amare il Padre, chiedere con Lui le cose buone che il Padre vuole donarci perché vuole il nostro bene

 

 

 

9^ Riflessione:  "PERCHE' CHIEDERE"

 

Anche in questa riflessione ci fermiamo ancora sul tema della preghiera. Se guardando a Gesù abbiamo scoperto la bellezza e l’essenza della preghiera ci restano però ancora molti interrogativi. Proviamo a riflettere su qualcuno di essi. Perché chiedere aiuto a Dio?

La maggior parte della gente concepisce la preghiera come un “chiedere qualcosa a Dio”. Ciò è comprensibile, perché questa è la più semplice e naturale forma di preghiera. Se crediamo che esiste un Dio che può aiutarci non c’è niente di più naturale del chiedergli di farlo. Questo tipo di preghiera è molto simile a quella del bambino nel confronto dei genitori. “Tu puoi farlo, io non posso; perciò ti prego, fallo tu per me”. Gesù ci ha detto di chiedere al Padre celeste cose buone. “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto” (Mt. 7,7). Formulata così, sembra persino troppo facile! Certo che se non bussiamo alla porta, nessuno la aprirà; se non chiediamo, non riceveremo. Va da sé che non ha senso chiedere a qualcuno di fare qualcosa per noi se sappiamo già che non sarà in grado di farla; perciò, il fatto stesso di chiedere è segno che siamo convinti che Dio è in grado di soddisfare la nostra richiesta. Forse è proprio per questo che Dio vuole che chiediamo e subordina il suo dare al nostro chiedere. Il chiedere aiuto a Dio, anche come ultima risorsa in un momento di emergenza, è un implicito atto di fede. Naturalmente le preghiere che si limitano a chiedere suscitano perplessità in molta gente. Possiamo facilmente capire che se chiediamo a Dio di perdonare i nostri peccati, Egli può farlo: quello è, per così dire, di sua... “competenza”. Ma quando si tratta di pregare per la guarigione di qualcuno o di chiedere consiglio per una decisione che dobbiamo prendere, allora possiamo avere qualche esitazione. Crediamo sinceramente che Dio sia disposto a intervenire nel normale svolgimento degli eventi in risposta alle nostre preghiere? Non è questo un concepire Dio come una specie di “mago” pronto ad interferire nel normale corso degli eventi quando qualcuno invoca la sua potenza?

Se chiediamo a Dio di fare qualcosa per noi, è ovvio che già abbiamo constatato che non possiamo farlo da noi stessi o con i nostri soli mezzi. Non possiamo pregare Dio di consolare il nostro vicino di casa se non siamo disposti a fargli visita. Non possiamo aspettarci che Dio guarisca con un miracolo una piccola ferita per la quale basta un cerotto. Non che queste cose siano troppo piccole o banali per disturbare Dio, è invece che le possiamo facilmente risolvere da soli. E’ giusto e opportuno pregare anche per le cose piccole, o per cose che altri considerano poco importanti, ma devono essere cose per le quali noi abbiamo oggettivamente bisogno dell’aiuto di Dio. Nell’esempio del vicino di casa accennato sopra, sarebbe perfettamente legittimo pregare Dio di aiutarci a vincere la timidezza che ci impedisce di andare a trovare il nostro sconsolato vicino.

Supponendo che abbiamo veramente bisogno dell’aiuto di Dio, si pone un’altra domanda: ciò che chiedo è un qualcosa che Dio vuole che io abbia? Non possiamo pregare contro la volontà di Dio. Non possiamo pregare per avere il marito o la moglie di un altro o perché un concorrente a un certo posto di lavoro venga colpito di infarto al momento giusto. Questi sono esempi lampanti: Dio non lo farebbe, ne siamo certamente convinti. Ma alcune delle cose che chiediamo possono rientrare nella stessa categoria, anche se non in maniera così ovvia. Possono essere cose essenzialmente egoistiche. Può trattarsi di un nostro guadagno personale a scapito di qualcun altro, oppure della nostra felicità al costo della infelicità altrui. A noi possono sembrare richieste pienamente legittime, ma Dio che sa tutto, compreso il futuro, può sapere che non sono giuste per noi o comunque non opportune per noi in quel momento. Naturalmente non possiamo sempre sapere quale sia la volontà di Dio. Ma il fatto che non siamo sicuri su ciò che Dio vuole non deve scoraggiarci dal chiedere. Possiamo lasciare a Dio il compito di selezionare le nostre richieste e con­sentirgli di gestire a modo suo quelle che non sono appropriate per noi o per gli altri. Egli vuole semplicemente che noi chiediamo. Perciò non esitate a pregare nel momento del bisogno. Se siete un pensiero o siete preoccupati per qualcosa o per qualcuno, confidatelo semplicemente a Dio. Non avete bisogno di parole o di formule speciali per fare ciò. Basta semplicemente dirlo. Ma a volte Dio non risponde alle nostre preghiere. Quante persone hanno smesso di pregare perché Dio non esaudiva le loro preghiere!

Le abbiamo sentite tutti obiezioni come queste: “Ho pregato disperatamente perché la nonna guarisse, invece è morta e in mezzo a molte sofferenze”. “Ogni domenica milioni di cristiani pregano per la pace nel mondo, e invece le guerre continuano”. “Ho chiesto il dono della salute, e questa non può essere che una cosa buona, ma è come parlare al muro, mi sento tradito da un amico...”. E certamente sono pochi coloro che, pregando regolarmente o solo in certe circostanze particolari, non abbiano pensato una volta o l’altra che stavano sprecando il loro tempo, perché sembrava che Dio non se ne accorgesse neppure. Perciò è impossibile non affrontare il problema della cosiddetta preghiera “non esaudita” o anche semplicemente disattesa o respinta con un secco “no!”.

Dio che conosce ogni cosa — passato, presente e futuro — sa anche ciò che è giusto per noi e per coloro per i quali preghiamo. E, alle volte ciò che è giusto per noi o per gli altri non è esattamente l’oggetto della nostra richiesta.

La Bibbia evidenzia questo problema. Nella lettera di San Giacomo è scritto: “In realtà, voi non ottenete ciò che desiderate, perché non sapete chiederlo a Dio. E se anche chiedete, voi non ricevete niente perché le vostre intenzio­ni sono cattive: volete sprecare tutto nei vostri piaceri” (Gc. 4,2—3). In altre parole: a volte non riceviamo semplicemente perché non abbiamo chiesto, ma a volte, anche dopo aver pregato, non riceviamo nulla perché le motivazioni della nostra preghiera erano sbagliate.., probabilmente egoistiche. Ora, questo, in alcuni casi può sembrare ovvio: un ragazzo che prega per avere la mountain bike o un politico che prega per vincere le elezioni possono essere spinti da inte­ressi egoistici, ma è anche vero che una preghiera apparentemente disinteressata può nascondere motivazioni diverse. Il pregare per ottenere che un parente anziano viva a lungo perché se morisse io ne sentirei la mancanza, può essere dettato da motivi egoistici. Dio che conosce ogni cosa può sapere che il bene ultimo dell’anziano parente vale più del mio senso di privazione. Ma che cosa dire delle guerre e delle carestie?

Certamente non c’è nulla di egoistico nel pregare perché cessino. Lo stesso vale per la protezione dai disastri naturali e dagli incidenti: non sono oggetti di preghiera le­gittimi e disinteressati?

Non vi è dubbio che lo sono. Ma esistono altre spiegazioni per la preghiera non esaudita, oltre all’egoismo. Una delle spiegazioni è il peccato. Dio ci ha creato come esseri moralmente responsabili, che devono rendere conto delle proprie azioni. Non siamo robot morali che possono essere programmati per fare quello che Dio vuole. Parte del vanto e del rischio di appartenere al genere umano è la tre­menda libertà di dire “no” a Dio. Ci ha fatti così ed Egli non ci toglierà mai, con un atto della sua potenza, il di­ritto che ci ha dato di decidere per conto nostro, anche se tale decisione è nettamente contraria alla sua volontà. Perciò abbiamo la libertà di peccare! E questa libertà l’ab­biamo esercitata fino in fondo. Le guerre e anche molte carestie, sono creazioni dell’uomo, il risultato di questa facoltà di disubbidire a Dio. Le nostre preghiere possono essere gradite a Dio per poter portare grazie e benedizioni nella vita dell’uomo, ma non possono rendere penitente una persona che non si vuol pentire. La preghiera non è magia o un incantesimo che possiamo gettare sulla gente perché fac­ciano ciò che vogliamo, anche se ciò che vogliamo è chiaramente la volontà di Dio. Perciò alcune preghiere non vengono esaudite perché l’esaudirle comporterebbe l’abolizione della responsabilità morale di qualcuno. Le nostre preghiere non possono neppure cambiare il modo di essere del mondo. In altri termini, salvo che in circostanze del tutto eccezionali, le nostre preghiere non possono convincere Dio ad alterare o sospendere le normali leggi fisiche che governano l’universo. Se sto mettendo una tegola sul tetto e inavvertitamente poso un piede fuori del bordo, la legge di gravità stabilisce che io debba fare un volo rapido, rischioso e forse anche fatale, fino al suolo parecchi metri più sotto. Nel corso normale degli eventi non posso pretendere che Dio mandi un angelo o due a sorreggermi, indipendentemente dal numero di persone che hanno pregato per la mia salvezza. Noi viviamo in un universo ordinato il cui Creatore sembra riluttante ad interferire nello svol­gimento naturale degli eventi. Questo non vuol dire che Egli non possa farlo, ma le prove che ci vengono dalla Bibbia, dall’esperienza e dal buon senso ci dicono che normalmente non lo fa. Il caso e gli incidenti fanno parte dell’andamen­to naturale del mondo. Il che equivale a dire che fanno par­te del modo in cui Dio ha creato il mondo. Perciò noi viviamo in un mondo di circostanze fortuite, in cui molte cose semplicemente “accadono”. Questo vuol dire che la preghiera non ha nessuna efficacia nell’aiutare la gente che vive in un mondo siffatto? Tutt’altro! La Bibbia ci insegna che Dio opera nel mondo in modo da trarre qualche bene da tutti gli avve­nimenti della vita per coloro che hanno fiducia in Lui. “In ogni cosa — dice San Paolo nella Lettera ai Romani 8,28 - Dio opera il bene per coloro che lo amano”. Le nostre pre­ghiere non possono alterare l’ordine del mondo, ma possono darci la forza di vivere in questo mondo con l’aiuto di Dio che sta al nostro fianco. Perciò possiamo e dobbiamo chiedere a Dio di aiutare, benedire e guarire la gente e le circostanze. Non dobbiamo restringere l’ambito della nostra preghiera né porre alcun limite a ciò che crediamo che Dio possa fare. Ma dobbiamo anche imparare ad accettare il fatto che, siccome Egli conosce ogni cosa e gli sta a cuore il nostro bene ultimo, la “risposta” alle nostre preghiere può alle volte non essere quella che ci aspettiamo. Chiedere è solo una piccola parte della preghiera: rivolgersi a Dio solo per chiedere qualcosa è come usare il telefono solo per le chiamate di emergenza. Non è che in tal caso il telefono non funzioni, ma quella è solo una piccola parte di ciò che puoi fare con il telefono: parlare con gli amici, chiedere le previsioni del tempo, ordinare un pranzo al ristorante... E’ un peccato porre dei limiti a un servizio che offre tante possibilità. Lo stesso vale per la preghiera. La preghiera è essenzialmente un parlare con Dio o parlare a Dio. Essa va concepita più come una conversazione che come un discorso. Attraverso la preghiera possiamo giungere a conoscere Dio ed Egli può stabilire un rapporto con noi. Anche gli amici e gli amanti hanno bisogno di parlare per rinsaldare la loro amicizia. Parlare con qualcuno che amiamo e che ci ama è una delle cose più gratificanti che conosciamo. Questo è esattamente ciò che la preghiera deve essere: una conversazione gratificante con Qualcuno che amiamo e che ci ama.

Potrà sembrarvi difficile intavolare una vera conversazione con qualcuno che non dice mai una parola! Molti vedono la preghiera appunto sotto questo aspetto. Ma in realtà, secondo la Bibbia, Dio “parla” con noi in continuazione ed è appunto questo “parlare” che rappresenta l’altro capo della conversazione che chiamiamo preghiera. La Bibbia dice che Dio ci “parla” attraverso il creato. “I cieli narrano la gloria di Dio”. Quando osserviamo il tramonto sopra l’orizzonte di una città, o in un campo di grano, o i bambini che giocano, o le foglie di un albero che si agitano al vento contro lo sfondo del cielo, l’occhio della fede può vedere e l’orecchio della fede può udire il Creatore che “parla”. Dio ci “parla” anche attraverso la coscienza. Secondo la Bibbia la nostra coscienza ci “accusa” o ci “assolve”: come una specie di voce morale interna che commenta le nostre azioni e quelle della società.

Tutti hanno una coscienza, ma questa può diventare callosa se non viene mai usata, e può diventare distorta se le vengono costantemente fornite nozioni sbagliate. Tuttavia quando funziona in modo corretto può essere la voce di Dio che ci ammonisce e che ci guida. Trovare il tempo di ascoltare la coscienza e di sintonizzarla sulla lunghezza d’onda di Dio è una parte molto importante della preghiera. Dio ci “parla” attraverso la Bibbia. Infatti la Bibbia è chiamata “Parola di Dio”. Molti pensano che sia importante cominciare il momento della preghiera proprio leggendo anche un piccolo brano della Bibbia, proprio perché sia Dio ad iniziare la conversazione. La Bibbia è certamente un elemen­to importante della preghiera e il leggere la Bibbia ci garantisce che la nostra conversazione con Dio non si riduce ad un semplice soliloquio. Perciò non è affatto vero che Dio non dice mai una parola. E’ vero invece che noi non siamo abbastanza attenti nell’ascoltare. Ma se non siamo troppo frettolosi nelle nostre preghiere e se lasciamo spazio a momenti di silenzio e a pause per sentire ed ascoltare la Bibbia, allora scopriremo il carattere di domanda e risposta della preghiera. Quiete, riflessione, Bibbia, coscienza: sono gli elementi che garantiscono che la nostra preghiera non sia un traffico a senso unico. Un Bellissimo modo di pregare è dire “grazie” L’essere ringraziati da qualcuno è un qualcosa di molto semplice ma nello stesso tempo di molto gratificante. Non parlo del “grazie” di pragmatica del negoziante o del fattorino, ma del vero, caldo, sincero “grazie” dell’autentica gratitudine. Non è difficile capire se qualcuno apprezza sinceramente quello che gli avete detto. Non dipende sempre dalle parole che usa, ma da tutto l’atteggiamento: parole, sguardo, sorriso, un abbraccio. Disponiamo di tutta una gamma di modi di dire per esprimere il nostro grazie, e non è difficile capire quando una persona è sincera. Perciò quando dico che parte della preghiera consiste nel ringraziare Dio, vi rendete conto che non parlo della semplice ripetizione di parole di ringraziamento. In generale, la maggior parte di noi tende a ritenere scontati i doni che Dio ci fa, limitandoci ad un “grazie” pro forma quando ci viene in mente, o perfino senza neanche prenderci la briga di dire grazie. In realtà siamo talmente preoccupati di ot­tenere ciò che vogliamo che Dio faccia per noi la prossima volta da dimenticarci completamente ciò che Egli ha fatto per noi la volta scorsa. L’autentica gratitudine è un coinvolgimento di tutti i no­stri sentimenti. Non è solo parole: scaturisce da un cuore grato. Riconosce ciò che Dio ha fatto e sta facendo. Non prende Dio per scontato. Solleva il nostro cuore e ci riempie di una strana gioia: il genere di gioia che proviamo quando qualcuno che amiamo ha fatto per noi qualcosa di veramente stupendo. E’ molto di più di quello che implica la parola “ringraziamento”. In realtà è una “adorazione” Forse qualche volta quando siete stati in chiesa, o quando avete cantato una lode, o quando vi siete uniti ad altri in preghiera, avete sentito anche voi questa strana gioia: un senso di profonda gratitudine a Dio. Ma se non vi siete mai trovati in questo stato, probabilmente vi sarà capitato molte volte nella vostra vita di sentire il cuore battere forte per qualche atto di amore e di generosità. Vi siete commossi... avete provato tenerezza. Il nostro ringraziamento a Dio può portarci a questo tipo di esperienza: una gratitudine verso di Lui che rischiara la nostra vita e che è un meraviglioso antidoto contro l’autocommiserazione! Come dice il Salmo 103: “Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici!”. Questo può suggerirci un’idea di come rendere la nostra preghiera maggiormente riconoscente. E’ troppo facile e superficiale limitarsi a ringraziare Dio in termini generici. Il ringraziamento prende sostanza quando lo rendiamo specifico. Perciò può essere una buona idea sedersi di tanto in tanto a elencare le cose per le quali vogliamo ringraziare Dio e poi specificarle, in un atto di gratitudine, quando possiamo dedicare un momento alla preghiera. “Tanti suoi benefici”: elencateli uno per uno. Può darsi che voi non rimaniate sorpresi, ma io penso che servirà almeno a ricordarvi quanto Dio sia buono con voi, giorno dopo giorno. C’è anche un’altra parola importante da dire nella nostra preghiera ed è “mi rincresce”. Non v’è dubbio che la maggior parte di noi sente di non avere un diritto reale di indirizzarsi a Dio con la preghiera. Pensiamo che il genere di vita che conduciamo ci squalifica. Certamente noi non meritiamo niente da Lui. Questa sensazione di inadeguatezza è un salutare riconosci­mento della bontà, della purezza, della santità di Dio e noi... beh, siamo tutt’altro. Se ci rendiamo conto che noi abitualmente facciamo cose che sono contro la sua volontà o che sono una sfida ai suoi comandamenti, possiamo giustamen­te sentirci riluttanti a pregare; o, se preghiamo, ci sentiamo molto imbarazzati. Dio naturalmente è a conoscenza dei nostri peccati. Ed è vero che il peccato non confessato e non rinnegato è un grave ostacolo all’efficacia della preghiera. Dice il salmista: “Ti ho confessato la mia colpa, non ti ho nascosto il mio peccato e tu mi hai perdonato” (Salmo 32,5). Perciò il “peccato” (che è semplicemente orgoglio, un ritenersi migliori di Dio) può ostacolare la nostra preghiera in un modo disastroso. il rimedio è l’umile riconoscimento della nostra colpa, come dice il Salmo attribuito a Davide: “Sono colpevole e lo riconosco: il mio peccato è sempre davanti a me” (Salmo 50,5). Essere pentiti è diverso che desiderare che le cose fossero andate in altra maniera, che non avessimo commesso il fatto. Questo è “rimorso”, non pentimento, utile, ma non sufficien­te. Dio vuole che cambiamo mentalità in fatto di comportamento e che cominciamo a vivere a modo suo: questo è in so­stanza il significato della parola “pentimento”. Invece di cercare scuse e sostenere che quello che abbiamo fatto dopo tutto non è poi tanto grave, Dio vuole che giudichiamo la cosa dal suo punto di vista. Egli si aspetta che noi ammet­tiamo che ciò che abbiamo fatto è grave: che abbiamo trasgredito i suoi comandamenti, trascurato la sua volontà e posto i nostri interessi al di sopra di Lui. In altre pa­role abbiamo agito come se conoscessimo meglio di Lui ciò che è accettabile, giusto e buono. Perciò quando ci mettiamo a pregare, specialmente (ma non solo) alla fine della giornata, è importante che riesaminiamo il nostro comportamento durante il giorno e che ci sforziamo seriamente di essere onesti con Lui. Non è il momento di cercare scuse o attenuanti, ma di ammettere che abbiamo sbagliato e che la nostra sola speranza è il perdono di Dio. “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, Egli, che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa”. Questa è la sua solenne promessa nella Bibbia (10 Giovanni 1,8—9). Vi verrà da pensare che non potete avvicinarvi a Dio confessando sempre gli stessi ripetuti peccati. Non perderà la pazienza? E questo non significa che il nostro pentimento non era sincero? La risposta della Bibbia è chiara: Non ci sono limiti al perdono di Dio, purché lo chiediamo sinceramente e vogliamo sinceramente condurre la vita che piace a Lui. Egli sa quanto alle volte possiamo essere deboli, ma conosce anche il nostro cuore, ciò che vogliamo realmente, nel nostro intimo. E se quello che realmente vogliamo è fare la sua volontà, la sua pazienza nei confronti delle nostre debolezze è letteralmente infinita. Non solo. Chiunque si avvicina a Dio confessando le proprie colpe ed è pentito, mostra già di avere l’atteggiamento giu­sto: non c’è pericolo che una tale persona pensi di non avere bisogno di Dio o che la sua volontà non abbia importanza per lui. Chi ha questo atteggiamento si affida completamente alla misericordia di Dio e consegna la propria vita nelle sue mani. Questo è esattamente il modo giusto di pregare, al punto che non ha senso l’idea che solo quelli che non pecca­no mai possono aspettarsi che Dio ascolti le loro preghiere. Ad ogni conto, stando a ciò che dice la Bibbia, quello sarebbe un gruppo di persone veramente eccezionale. Certamente è da tanti anni e in tanti modi che preghiamo, e certamente Dio ci ha sempre ascoltati ma supponiamo che vogliate cominciare a pregare in modo serio e costante, o che siate decisi a riesaminare a fondo il modo in cui state pregando attualmente. Che cosa potete fare in proposito?

Prima di tutto la preghiera ha bisogno di un proprio spazio. Con questo non voglio dire che sia facile inserire la preghiera in una vita che sia già troppo piena!

Naturalmente possiamo pregare in una situazione di emergenza dovunque ci troviamo e in qualsiasi circostanza: non e necessario disporre di una calma assoluta o di un luogo “sacro” per esporre le nostre necessità e le nostre ansie al Padre celeste. Ma una normale vita di preghiera — il tipo di preghiera che trasforma tutto il nostro modo di vedere le cose — in realtà richiede un suo tempo e un suo spazio. E il primo passo da compiere, se vogliamo prendere la preghiera sul serio, e quello di crearci il tempo e lo spazio necessario. Mi rendo conto che ciò comporta subito varie difficoltà. Va bene per coloro che hanno una propria stanza a disposizione e molte opportunità di solitudine per appartarsi e passare un po’ di tempo “di qualità” con Dio. Ma per molta gente che vive nel mondo moderno (e anche nel mondo che conosceva Gesù, se vogliamo) non è facile trovare pace e tranquillità. Perciò è molto im­portante imparare a crearsi uno spazio interno: una specie di cantuccio di tranquillità e di riflessione all’interno della mente. Se riuscite a trovare un momento della giornata in cui l’attività è un po’ meno frenetica, anche solo per pochi minuti, questo può darvi l’opportunità di entrare nel cantuccio di tranquillità che vi siete creato. Idealmente dovrebbe esserci anche un luogo: forse la vostra camera, o una panchina del parco, o una sedia al tavolo della cucina magari anche davanti ad una tazza di caffè dopo lavati i piatti. Ma se questa possibilità non si offre in nessun modo, allora non ci rimane che ricor­rere alla tranquillità interiore. C’è gente che ha fatto questa esperienza nei luoghi più impensati! Conosco persone che hanno sperimentato la pre­senza di Dio in mense affollate, mentre viaggiavano in tram, su un treno di pendolari o quando andavano a fare la spesa con il bambino nella carrozzella. Dopo tutto Dio è in ogni luogo e può incontrarci, per così dire, dietro appuntamento, nel luogo che gli indichiamo noi. Una volta creatoci lo spazio, abbiamo poi bisogno di una specie di schema. Non intendo nel modo più assoluto una formula rigida: non c’è niente che soffochi più rapidamente la preghiera. Ma la nostra preghiera ha bisogno di una certa “forma”, altrimenti sfumerà facilmente in vaghi pensieri. La forma della preghiera può variare, ma dovrebbe contenere tutti gli elementi principali di cui abbiamo parlato. Deve contenere il ringraziamento, la lode, la confessione dei peccati, riflessioni sulla natura di Dio (il suo amore, la sua misericordia, la sua santità) e, naturalmente, le nostre richieste. Come ho già accennato, è una buona idea cominciare con un breve brano della Bibbia — un detto di Gesù o un versetto di un salmo — per dare a Dio la possibilità di iniziare la conversazione. Possiamo lasciare che le sue parole penetrino nella nostra mente, assaporandone il contenuto: come tenere un vino pregiato in bocca per assaporarne la qualità!

Come secondo passo alcuni trovano utile recitare una preghiera “tradizionale”: parole che sono state usate da milioni di persone attraverso i secoli nell’avvicinarsi a Dio nella preghiera. Il ricordo delle nostre mancanze e disobbedienze a Dio ci porterà poi ad un semplice atto di pentimento, con il quale diciamo a Dio che non cerchiamo di giustificare le nostre azioni ma siamo pronti e disposti a confessarle davanti a Lui e a chiedere il suo perdono. In questa atmosfera di gratitudine siamo pronti a presentargli i nostri bisogni e i bisogni di coloro per i quali vogliamo pregare. L’apostolo Paolo ha scritto queste parole: “Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e rin­graziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (Filippesi 4,6—7). “Non angustiatevi”, dice San Paolo. Non angustiatevi neppure nei confronti della preghiera, ma semplicemente “esponete a Dio le vostre richieste”. Coinvolgete Dio negli affari della vostra vita quotidiana e nelle attività che vi stanno a cuore. Lasciate che entri nel vostro modo di pensare, negli atteggiamenti che adottate, nei sogni che sognate. Coltivate la gratitudine, contate i vostri doni. E allora vi accadrà qualche cosa di meraviglioso: la pace stessa di Dio invaderà il vostro cuore e la vostra mente e comincerà a preservarli da ogni ansietà e da ogni preoccupazione. In tal modo avrete trovato la chiave per la vita di fede. Quando ciò accadrà, potrete veramente pregare. E mi piace terminare queste lunghe riflessioni sulla preghiera con ancora un riferimento a Betania e agli amici di Gesù che vi vivevano. Betania è il luogo dell’incontro, dell’accoglienza, della fede nel Figlio di Dio, dell’ascolto e della fraternità e certamente Marta a Maria avevano imparato da Gesù a pregare. Quando il loro fratello Lazzaro si ammala si fanno premura di avvisare subito Gesù ed è anche bello e confidenziale il modo con glielo comunicano: “Il tuo amico, Lazzaro è malato”. Esse hanno confidenza in Gesù, esse chiedono con fede, ma come succede a molti di noi la risposta tarda ad arrivare, anzi la preghiera si scontra con una realtà nettamente opposta: non solo Gesù non è venuto, ma Lazzaro muore. La fede in Gesù delle due sorelle è però grande e le rende audaci ciascuna a modo suo ma con un unico spirito. Quando Gesù finalmente arriva è per prima Marta, la signora di casa, donna pratica che gli và incontro e gli dice tutto il suo dolore con un velato rimprovero “Se tu fossi stato qui”. Lo stesso gli dirà anche Maria ed è la stessa preghiera che qualche volta sgorga dai nostri cuori: “Dov’eri Signore quando ti pregavo? Perché?”. Non spaventiamoci di questa preghiera che se detta in certo modo può essere bestemmia, se detta senza acrimonia, nel dolore e soprattutto nell’amicizia è una vera preghiera che porta Gesù al chiedere dove sia la tomba di Lazzaro e alle lacrime di una sofferenza condivisa. Mi piace moltissimo la preghiera di queste due sorelle perché è una preghiera semplice, sincera, veritiera che porta Gesù alle lacrime. La vera preghiera porta a far piangere Gesù con noi per arrivare però a far gioire Gesù con noi dandogli l’opportunità di poter fare quel miracolo che Gesù aveva già nel cuore e che abbisognava solo della fede delle due sorelle per potersi compiere.

 

Stampato in proprio Pro - manuscripto 2011

     
     
 

Archivio