PASQUA 2010
QUANTO E’ GRANDE IL TUO NOME
SU TUTTA LA TERRA
Carissimi amici,
non solo siamo vicini alla celebrazione della Pasqua ma anche alla Ostensione della Sindone e il nostro Cardinale ci ha invitati a prepararci a questo evento meditando su Passio Christi, Passio Hominis. Il nostro Dio ha passione per gli uomini: si incarna per noi, si umilia per noi, per dirci: “Ti voglio bene” accetta di morire per noi su una croce. Ma la sua non è solo una passione di amore per l’uomo, diventa accettare di patire con l’uomo e per l’uomo, dunque nulla del nostro vivere gli è estraneo, ogni nostra gioia, ogni nostra sofferenza è sua. In Lui Passione e Risurrezione portano a compimento non solo l’amore di Dio per l’uomo ma la pienezza dell’uomo che, già incoronato da Dio creatura amata dell’universo, in Gesù Cristo morto e risorto trova il suo fine.
Per dirvi la gioia del saperci amati e salvati e quindi per augurarvi una “Buona Pasqua”, invece di essere sempre io a parlarvi, quest’ anno voglio lasciar parlare un santo vescovo (sì, perché, non stupitevi, ci sono anche dei vescovi santi anche se non canonizzati). Qualcuno lo chiamava per nome: don Tonino Bello, qualcun altro semplicemente: “Vescovo”. Fu vescovo a Molfetta, presidente della Pax Cristi, innamorato di Gesù e dell’uomo. Anche la sua morte , avvenuta per cancro nel 1983 fu una testimonianza. Non sapendo se avrebbe ancora potuto celebrare la Pasqua si fece portare nella cattedrale il giovedì santo e salutò i suoi diocesani dicendo all’incirca queste parole:
“ Amici a colui che è risorto non è lecito se non stare in piedi. Noi non andiamo verso la catastrofe e verso la fine, ma verso il senso pieno della storia, verso l’inizio. Vorrei augurarvi la pace quella che si provava tornando a casa dai campi la sera. Vogliate bene a Gesù Cristo. Prendete il Vangelo tra le mani, traducetelo in pratica, amate i poveri e i piccoli perché è da loro che viene la salvezza. Non arricchitevi, non vale. Nel gioco della vita è sempre perdente chi vince con la forza. Vi abbraccio ad uno ad uno , nessuno escluso e a ciascuno dico: Ti voglio bene”.
Questo vescovo commentò per i suoi catechisti con semplicità e poesia alcuni versetti del salmo 8 che canta la gloria di Dio nell’uomo. Non sono riuscito a trovare lo scritto di questo commento, ma ne avevo una edizione registrata direttamente dalla sua voce. Ho pensato valesse la pena di fare questo lavoro di sbobinamento e di trascrizione perché, specialmente in questa Pasqua possiamo gioire di tutti i doni del Padre di Gesù che continua a vedere in ogni uomo il volto del suo Cristo e ci permette in qualunque situazione siamo di rivestirci della sua gloria e della sua gioia.
Buona Pasqua,
don Franco.
SALMO 8
O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra:
sopra i cieli si innalza la tua magnificenza.
Con la bocca dei bimbi e dei lattanti, affermi al tua potenza contro i tuoi avversari,
per ridurre al silenzio nemici e ribelli.
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cos’è l’uomo perche te ne ricordi
e il figlio dell’uomo perché te ne curi?
Eppure lo hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere sull’opera delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi;
tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna;
gli uccelli del cielo e i pesci del mare.
Che percorrono le vie del mare.
O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra.
LO HAI FATTO POCO MENO DEGLI ANGELI.
Carissimi catechisti,
E’ morto lo scorso anno, pace all’anima sua, ma ogni volta che nella recita del breviario mi imbatto in quel versetto che dice: “lo hai fatto poco meno degli angeli”, non posso fare a meno di ricordarmi di lui, povero Giuseppe.
Viveva allo sbando, come un cane randagio. Aveva 36 anni e metà dell’esistenza l’aveva consumata nel carcere. La malasorte se l’era voluta un po’ da solo per quella dissennata anarchia che gli viveva nell’anima e lo rendeva irriducibile ai nostri canoni di persone perbene. Una buona porzione di sventura gliela provocavamo a rate tutti quanti a partire da me che, avendolo accolto in casa gli facevo pagare l’ospitalità con le mie prediche, per finire con i giovanotti che al bar della stazione gli pagavano la bottiglia di whisky per godersi lo spettacolo di vederlo ubriaco.
La sera, quando tornava in episcopio più tardi del solito e non gli andava di cenare, mi guardava con le pupille stralunate che si ritiravano all’insù lasciando vedere il bianco degli occhi e biascicava parole senza costrutto dalle quali però mi sembrava di capire: “Lo so… sono un verme… cacciami via, se lo vuoi… me lo merito”.
Quell’anno, alla fine di aprile, il Santuario di Molfetta dedicato alla Madonna dei martiri, con speciale bolla pontificia, veniva solennemente elevato alla dignità di basilica minore. La città era in festa e per l’occasione giunse da Roma un cardinale il quale, nella notte precedente la festa, volle presiedere una veglia di preghiera in preparazione che si tenne nel santuario. Parlò con trasporto di Maria suscitando un vero entusiasmo. Poi, prima di mandarci tutti a dormire, diede la parola a chi avesse voluto chiedere qualcosa. Fu allora che si alzò un giovane che, rivolgendosi proprio a me, mi chiese a bruciapelo il significato di Basilica minore. Gli risposi che Basilica è una parola che deriva dal greco e significa “Casa del re” e conclusi con enfasi che il nostro Santuario stava per essere riconosciuto come casa del Signore re del cielo e della terra. Il giovane che tra l’altro disse di aver studiato il greco, replicò affermando che tutte queste cose già le sapeva, che il significato di Basilica come “casa del re” era per lui scontatissimo e insistette: “Ma perché: ‘Basilica minore’?”. Dovetti mostrare nel volto un certo imbarazzo, non avevo infatti le idee molto chiare in proposito. Solo più tardi mi sarei fatto una cultura ed avrei capito che Basiliche Maggiori sono quelle di Roma e basiliche minori sono tutte le altre. Ma una risposta qualsiasi bisognava darla ed io non ero abbastanza umile da dichiarare lì, sui due piedi, davanti all’assemblea che mi interpellava e davanti al Cardinale che si era accorto del mio disagio, la mia scandalosa ignoranza sull’argomento. Mi venne però un lampo improvviso, mi avvicinai alla parete del tempio e, battendovi contro con la mano, dissi: “Vedi, Basilica minore è quella fatta di pietre, Basilica maggiore è quella fatta di carne, l’uomo, insomma. Basilica maggiore sono io, sei tu, è il signor Cardinale: casa del Re”. Il cardinale annuiva benevolmente col capo, forse mi assolveva per quel guizzo di genio.
La veglia finì che era passata mezzanotte. Fui l’ultimo a lasciare il santuario e me ne tornavo a piedi a casa quando una macchina mi raggiunse e alcuni giovani mi offrirono un passaggio. Lungo la strada commentammo la serata mentre il tergicristallo cadenzava i nostri discorsi. Ma ecco che, giunti davanti all’episcopio, si presentò allo sguardo una scena improvvisa. Disteso a terra a dormire, fradicio di pioggia, con una bottiglia vuota fra le mani, c’era lui: Giuseppe. Sotto la luce degli abbaglianti della macchina aveva un non so che di selvaggio: la barba pareva più ispida e le pupille si erano rapprese nel bianco degli occhi. Ci fermammo muti a contemplarlo, con tristezza, finché la ragazza che era in macchina dietro di me mormorò quasi sottovoce:”Vescovo: Basilica maggiore o Basilica minore?”. “Basilica maggiore”, risposi. E lo portammo di peso a dormire. All’alba volli andare a vedere se si fosse svegliato. Avevo intenzione di contargliene quattro… Giuseppe riposava sereno. Un respiro placido gli sollevava il petto regolarmente, sotto le palpebre luccicavano due pupille scurissime e la barba dava al suo volto un tocco di eleganza. Forse stava sognando. Mi venne spontaneo rivolgermi al Signore e ripetere col salmo: “Lo hai fatto poco meno degli angeli”. Mi attardai per vedere se avesse le ali… forse le aveva nascoste sotto il guanciale.
DI GLORIA E DI ONORE LO HAI CORONATO
Carissimi catechisti, quel tratto della Messa è il più suggestivo, tant’è che anche l’attenzione dei più distratti si impenna di colpo, sembra che tutto il senso del rito precipiti lì, in quelle parole con cui il sacerdote, sollevando al cielo calice e ostia, proclama Dio unico destinatario di ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Onore e gloria. Non è il caso di attardarsi sul significato singolo di questa accoppiata di termini che riferita a Dio compare tantissime volte nella Sacra Scrittura. Sapere che cosa sia l’onore e che cosa sia la gloria nel linguaggio biblico, interessa fino ad un certo punto. Sottilizzare sulle etimologie può sembrare esercitazione accademica e addentrarsi nelle analisi verbali può lasciare perfino indifferenti, ma venire a sapere che quella corona di gloria, di onore costruita esclusivamente per la testa del Creatore, viene collocata anche sul capo della creatura, provoca sconcerto e riempie l’anima di stupore.
Il salmo 8 afferma con esplicita solennità: “Di gloria e di onore lo hai coronato”.
Immaginate che durante un solenne pontificale d’altri tempi, in piazza San Pietro, il Papa facesse chiamare un barbone, uno dei tanti che la notte dormono sotto il porticato, e, toltosi la tiara dalla testa gliela mettesse sul capo davanti agli occhi esterrefatti dei cerimonieri. Ebbene, Dio fa con ciascuno di noi la stessa cosa, anzi, mille volte di più perché è Lui che si toglie dal capo la corona e la poggia sul capo dell’uomo e si compiace nel vedere che gli sta bene e sembra che gli dica con un sorriso: “Lo sai che ti dona? Tienila pure senza profanarla”.
La corona sul capo di Riccardo. A dire il vero non si fa molta fatica a vedere Riccardo incoronato con lo stesso diadema di Dio perché lui è uno dei più grandi direttori d’orchestra del mondo e quando lo si vede sugli schermi televisivi nel rapimento trasognato di un concerto, non ci vuole molto ad intrecciare con il gioco delle dissolvenze, una corona di regalità che gli fermi finalmente i mobilissimi capelli. Anche le genti di tutta la terra e non solo i suoi concittadini di Molfetta, gli tributano gloria ed onore. Ma figurarsi Arturo recinto dello stesso diadema di Dio è molto più difficile. Arturo, si può dire che è sieropositivo per scelta perché si è degradato da solo e, quel che è peggio, nell’avvilimento morale ci vuole rimanere. Per procurarsi la roba, dopo che si è venduto i mobili di casa, si è messo a rubare. Sua moglie mi ha detto che l’altra sera lo ha visto rannicchiato sulla panchina della villa comunale con la siringa che gli era rotolata a terra e con gli occhi sbarrati nel vuoto. Eppure anche lui è titolare di un diritto regale che non può essergli contestato da nessuno.
“Di gloria e di onore lo hai coronato”. A volte, quando leggo questo versetto del salmo e penso ai bambini dell’Etiopia o ai lebbrosi respinti dal consorzio umano o ai nomadi resi tali dall’inospitalità della gente, o ai profughi dell’Albania ammucchiati sul molo di Bari o a quelle donne anziane, sudice e maleodoranti che ti russano accanto nella sala d’aspetto delle stazioni ferroviarie o a coloro che per colpa propria o per cattiveria altrui convivono con lo sfruttamento e con la miseria, mi sorprendo a spiare dove abbiano nascosto la corona… è inutile, non mi riesce di scorgerla, eppure ce l’hanno. Mi è riuscito invece di scorgerla sul capo di Amir, un marocchino di 13 anni che l’altra mattina si è accostato alla mia macchina a pulire il parabrezza quando mi sono fermato al semaforo. In quel momento ho provato una stretta al cuore, la stessa provata dai poeti dell’ 800 davanti a “Valentino vestito di nuovo come lo brocche dei biancospini ma nudi i piedi come un uccello”, a simbologie invertire, però: per Valentino piedi nudi e corpo splendidamente vestito, per Amir nudo il corpo e capo splendidamente coperto, sì, capo coperto da una corona regale. Gliel’ha messa Lui.
Carissimi catechisti, il Signore vi abiliti a introdurre nella coscienza dei vostri ragazzi un grande rispetto per quella corona di gloria e di onore collocata sul capo di ognuno, al punto che sappiano scorgere la presenza del principe nell’abito del povero e si guardino dal profanare la propria vita nell’abiezione morale e ogni oltraggio dell’uomo sull’uomo venga da essi percepito come delitto di lesa maestà.
GLI HAI DATO POTERE SULLE OPERE DELLE TUE MANI
Carissimi Catechisti, voi il racconto di Prometeo ve lo ricordate? Volle rubare il fuoco agli dei e col fuoco una scintilla del loro smisurato potere, e ci riuscì. E’ vero che la pagò cara perché Giove, una volta accortosi del furto, lo fece incatenare su una roccia del Caucaso, ma nella fantasia popolare è rimasto come simbolo della fierezza e dell’audacia, l’eroe glorioso della stirpe umana, il promotore inquieto delle rivendicazioni terrene che ha saputo contrastare con successo l’egemonia dei signori del cielo. Prometeo, insomma, è passato nell’immaginario della gente come colui che ha avuto il coraggio di sottrarre agli dei il segreto di una insopportabile onnipotenza obbligandoli, in un certo senso, a fare i conti con i miseri mortali. Basterebbe questa leggenda mitologica per misurare l’abituale contrasto che divide la concezione pagana dal messaggio biblico. Anzi, tra le verità più splendide della fede cristiana, penso emerga proprio questa: il nostro Dio non soffre di gelosia, non considera l’uomo come suo rivale ma come partner che collabora con Lui nel cantiere sempre aperto della creazione, come socio di pari dignità nella sua cooperativa di lavoro. Non si macera nel timore che l’uomo un giorno o l’altro debba trafugargli i brevetti delle sue creazioni ma gli concede i poteri delegati su tutte le ricchezze dell’universo. Non nasconde i suoi segreti nella cassaforte del mistero ma li squaderna sotto gli occhi dell’uomo perché non ne teme la concorrenza, anzi, ne sollecita la collaborazione.
“Gli ha dato potere sull’opera delle tue mani”.
Se non sapessimo che è il versetto di un salmo potentemente lirico, ci sembrerebbe la stesura di un verbale di consegna o forse, meglio, ci parrebbe il messaggio solenne di un rogito notarile con cui si prende ufficialmente atto dell’incoronazione dell’uomo a viceré dell’universo.
In realtà con queste parole bibliche veniamo messi a conoscenza, se ce ne fosse ancora bisogno, dei nostri diritti regali su tutto il creato. Si badi bene, sul creato da custodire e da portare a compiutezza non da manipolare a piacimento combinandolo e scombinandolo secondo le lussurie dei nostri capricci, sul progetto di Dio, su quadri d’autore non su tavolozze indistinte o su tele pasticciate, su capolavori con tanto di firma su cui noi abbiamo l’obbligo di incorniciare e di esporre non di imbrattare o dare alle fiamme. “Sull’opera delle tue mani” non su grezzi materiali di risulta o su coacervi di macerie, sui capolavori della sua tenerezza che gli costano sprechi di genio e rivoli d’amore che noi dobbiamo sentirci in dovere di riportare continuamente a primitivi splendori facendo sprigionare da essi le interne energie di santità.
“Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani”. Potere, non diritto di abuso. Signoria, non licenza di mettere a soqquadro. Autorità, non spadroneggiamento sulle cose. Dio, in altri termini, ha costituito l’uomo principe non despota, reggitore non tiranno, ministro dell’ordine al servizio della vita non anarchico distruggitore del cosmo, tesoriere delle struggenti bellezze della natura non delirante demiurgo che le affonda nel caos primitivo. Gli ha affidato la tela dell’universo da lui costruita con paziente tessitura non perché la sfilacciasse ma perché continuasse a ricamarla con tutta la sapienza del suo genio.
Carissimi catechisti, scusate, devo fermarmi perché sul teleschermo che ho lasciato acceso scorrono le immagini di un’allucinante antigenesi. E’ l’ennesima puntata del racconto della decreazione. Va in onda ogni sera, anzi, più volte al giorno, da quando è scoppiata la guerra del golfo. Città massacrate, macerie di ponti divelti, scempio nei covi della povera gente, ferraglie rapprese su dune di morte, crateri di desolazione, sterminio di secolari fatiche, bocche di acciaio che vomitano fuoco, bocche di carne che vomitano sangue, turbinii di fumo, mari che trascolorano nelle dissolvenze nebbiose del biblico Leviatan. E, da una sporgenza di roccia, simbolo spaurito della nostra rassegnata impotenza o della nostra suicida follia, un cormorano, con le ali appesantite che tenta inutilmente di levarsi in volo su una livida fiumana di greggio. Vi saluto con amarezza.
Post scriptum: in cappella, stasera, ho implorato il Signore così:
“Riprenditi, almeno per un poco, il potere che ci hai dato sulle opere delle tue mani”.
Se ho pregato così è segno che non ho perso la speranza. Alleluia.
TUTTO HAI POSTO SOTTO I SUOI PIEDI
Carissimi Catechisti, dalle mani di Dio ai piedi degli uomini. Con questo trasferimento in blocco la raffigurazione biblica della grandezza umana tocca vette espressive di insuperata misura.
Dalle sue mani, da cui sono fiorite come stelle di mandorlo in primavera, Dio ha fatto passare le sue opere sotto i nostri piedi. Non gli è bastato di aver posto sul capo dell’uomo una corona di gloria e di onore. Dopo avergli coronato la testa ha pensato bene di ornargli anche i piedi. E allora che c’è di meglio che stendergli sotto i piedi, come un tappeto, tutto l’universo in modo che egli vi cammini sopra sfiorandolo con il frusciare dei sandali?
“Tutto hai posto sotto i nostri piedi, tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna gli uccelli del cielo e i pesci del mare”. Terra, cielo e mare: Ecco le coordinate che disegnano l’ampiezza del Regno. Del Regno non dell’Impero. Sì, perché l’uomo è signore del creato ma non monarca che spadroneggia su tutto, principe dell’universo non tiranno con paranoie distruttive, signore del mondo non despota col diritto di violentare la natura, sovrano indiscusso sugli esseri viventi non dittatore arrogante con licenza di profanazione.
E’ vero che nel linguaggio corrente “mettere sotto i piedi” ha significato di degradare, avvilire, calpestare. Il dittatore mette sotto i piedi le persone, il criminale mette sotto i piedi le leggi, il traditore mette sotto i piedi i sentimenti, il sacrilego mette sotto i piedi la religione. Ma non è certo in questo senso dispregiativo che il versetto biblico va inteso. Quando il salmo ottavo dice che Dio ha posto l’opera delle sue mani sotto i nostri piedi vuol sottolineare, sì, la sovra eminente sovranità dei figli di Eva, ma non intende certo autorizzarli ad usare violenza con tutte le altre creature riducendole a pezze da piedi. Animali, piante, cose sono compagni di creazione dell’uomo e meritano da lui tutto il rispetto.
Oggi, purtroppo a causa della scienza e della tecnica, ma soprattutto con la complicità sotterranea delle leggi del profitto, la natura ha perso la sua plurisecolare funzione di socia dell’uomo. Amputata, sfruttata, disintegrata e ricomposta a piacimento è diventata materia grezza da asservire, schiava da soggiogare, spazio su cui esercitare sconcertanti frenesie manipolatorie. Da compagna a serva, insomma. A causa di quel maledetto delirio di onnipotenza nascosto nell’uomo, a cui però il Signore non ha mai dato carta bianca di poter sfregiare l’intima essenza delle cose o di alterarne i connotati o di svisare le leggi che ne disegnano l’identità. Dio ha messo Adamo nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse, non perché ne facesse scempio. Il rogito notarile di consegna riportato nel primo capitolo della Genesi gli dà potere di soggiogare la terra non di sterminarla e se lo autorizza a dominare sugli esseri viventi del mare, del cielo e della terra non lo fa per dargli mano libera di infierire crudelmente sulle creature ma solo perché non deve adorare gli animali o le cose trasformandole in divinità come facevano altri popoli.
La lezione è chiara: dobbiamo dare diritto di parola alle creature, dobbiamo stringere con loro rapporti cordiali.
Francesco, se vedeva distese di fiori, si fermava a predicare loro e li invitava a lodare e amare Dio come esseri dotati di ragione. Allo stesso modo le selve, le vigne. Le belle campagne, le acque correnti e i giardini verdeggianti, la terra e il fuoco, l’aria e il vento, con semplicità e purità di cuore invitava ad amare e lodare il Signore. E finalmente chiamava tutte le creature con il nome di fratello e di sorella intuendone i segreti.
A Santa Maria della Porziuncola c’era una cicala sopra un fico, vicino alla cella di Francesco. Un giorno il servo del Signore chiamò la cicala che volò sulla sua mano e le disse: “Canta sorella cicala e loda con il tuo giubilo il Dio creatore”. Essa, obbedendo senza indugio, incominciò a cantare e non smise finché, per ordine del Padre, volò di nuovo al suo posto. Quando si lavava le mani sceglieva un posto dove l’acqua non venisse pestata con i piedi, perfino per i vermi nutriva grandissimo affetto perciò si preoccupava di toglierli dalla strada perché non fossero schiacciati dai passanti. A un frate che tagliava la legna, raccomandava di non abbattere mai del tutto l’albero, ma lo tagliasse in modo per cui ne rimanesse sempre una parte intatta. Diceva al frate incaricato dell’orto di lasciare uno spazio libero di produrre erbe verdeggianti che alla stagione propizia producessero fratelli fiori.
E’ incredibile la fiducia di Dio: Egli ha posto sotto i nostri piedi l’opera delle sue mani perché dalla natura potessimo fin d’ora far scaturire i lineamenti di quella creazione nuova che Dio un giorno porterà a compimento. Ma è più incredibile ancora la sua laicità. La laicità di Dio. C’è da scommettere che Egli rende meritoria di premi eterni perfino la nostra appartenenza ad un gruppo ambientalista e la nostra attività presso l’ente della protezione degli animali. Vi saluto.
QUANTO E’ GRANDE IL TUO NOME SU TUTTA LA TERRA.
Carissimi Catechisti, ho provato a pensare se ci possa mai essere qualche angolo del mondo sottratto, per così dire, all’invadenza del nome di Dio, un posto non toccato dai raggi della sua luce, un luogo dove trovare asilo politico dal suo amorevole sguardo, un ricettacolo segreto munito insomma di franchigia religiosa. Non mi è riuscito di trovarne. La gloria di Dio straripa da tutte le parti, come un fiume in piena raggiunge le sponde più remote, non ci sono argini che ne fermino il flusso di santità, non ci sono zolle di terra che non si lascino inumidire dalla sua rugiada, neppure gli spazi dove si imbastiscono le trame più inique sono impermeabili all’azione di Dio, neppure i recinti dove si consumano i peccati più neri possono sottrarsi alla sua presenza. Anche i covi più torbidi dove ribolle la schiuma del male sono lambiti dalla sua potenza. Il nome di Dio è grande anche lì, nei posti dove la gente si raccoglie per un momento di riflessione e di preghiera ma anche lungo la siepe del giardino comunale che stamane era disseminato di siringhe, nelle celle del monastero di clausura impregnate di preghiera ma anche nei sotterranei delle metropoli dove ogni notte si celebrano le orge della dissolutezza, lassù nell’eremo solitario dove si tocca il silenzio con le mani ma anche in quell’appartamento dell’ultimo piano del grattacielo dove si progettano i loschi affari di una spregiudicata lobby finanziaria, nella biblioteca del convento dove il monaco si sprofonda nella ricerca di Dio, ma anche nello studio fotografico di una inafferrabile catena di produzione dove si allestiscono gli spettacoli licenziosi per le riviste per gli adulti, nelle aule delle università teologiche dove si racconta la storia della salvezza, ma anche nelle misteriose soffitte degli indovini dove la gente tra evocazioni e deliri abbocca ai filtri della stregoneria, all’interno della cattedrale dove risuonano i canti gregoriani e si innalzano gli incensi dai turiboli d’argento, ma anche all’interno di quella bisca clandestina, dove tra bestemmie e volute di avana la vita si impregna di disperazione; nel centro di accoglienza della Caritas dove i volontari fanno i turni della notte, ma anche nei bassifondi di periferia dove la malavita organizzata celebra le sue liturgie di violenza e di morte.
Vengono in mente i versetti del salmo 139: “Se salgo in cielo la tu sei, se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra”. La verità è che Dio solo è Signore dell’universo e che la terra non è oggetto di spartizione tra l’impero del bene e quello del male. Non ci sono paletti catastali che segnano il limite delle sue proprietà, non c’è riserva di caccia che gli impedisce di superare il filo spinato della nostra cattiveria. Lui solo, il Santo, penetra la fibra delle cose e raggiunge l’intimo della materia, invade il cuore dell’uomo anche quello di colui che continua ad esibirgli il divieto di accesso. Non gli appartengono solo le aree del sacro, riempie d’olio tutte le lampade della vita, fa ardere i roghi della storia, accende le fiammelle della cronaca, illumina i crepuscoli delle nostre stagioni spirituali.
Tutto è suo. Lo spazio e il tempo. Sì, anche il tempo perché la grandezza del suo nome non si commisura sull’arco del martirologio romano, ma si estende di generazione in generazione. Anzi, raggiunge i tempi in cui non c’erano neppure generazioni ma c’era solo il caos, il grande sbadiglio che Egli ha deciso di trasformare in Cosmos, la grande bellezza, il riflesso della sua gloria.
“O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra”. Su tutta la terra anche su quella porzione di storia e di geografia che attualmente soffre i travagli del parto ma che un giorno lascerà la zona d’ombra per entrare nella luce meridiana. Ecco perché la nostra voce deve fare esplodere l’osanna a Dio non solo nell’alto dei cieli, ma anche nel basso dei cieli.
CON LA BOCCA DEI BAMBINI E DEI LATTANTI
AFFERMI LA TUA POTENZA CONTRO I TUOI AVVERSARI
PER RIDURRE AL SILENZIO NEMICI E RIBELLI
Non scomodiamo troppo la poesia per parlare di bambini, ricordiamoci semplicemente che per noi ad essi bisogna accostarsi con fede.
Con fede, non soltanto con rispetto, perché dire con rispetto significa riconoscere che il bambino è fragile, dire “con fede” significa riconoscere che il bambino è pieno di Dio. Capite che si invertono le prospettive.
Avvicinarsi al bambino con tremore e timore, preoccupati solo di non frantumare la delicatezza e di non appannare la trasparenza di lui, significa ancora rimanere ai margini di un umanesimo estetico, che è pur sempre una cosa splendida. In questo caso, però, il massimo del rispetto del bambino consisterà nel non usargli violenza, col non far entrare nel suo vergine mondo le schegge erranti della nostra cattiveria di adulti. Ma avvicinarsi a lui con tremore e timore consapevoli che la grazia del Battesimo né ha fatto una creatura nuova, significa adoperarsi per portare a maturo sviluppo la realtà che lo Spirito Santo ha già messo dentro di lui. Noi non gli regaliamo niente. In questo caso il minimo della fede consiste nel lasciarsi evangelizzare dai bambini, sicché mentre tocchiamo con mano questo terreno di santità, un ciottolo di queste ricchezze ce lo possiamo sempre portare a casa senza ombra di furto, sia pure come souvenir della nostra innocenza perduta o come profezia del nostro destino futuro. Lasciarsi evangelizzare dai bambini con la stessa fiducia con cui nell’America latina i vescovi dicono che bisogna lasciarsi evangelizzare dai poveri. C’è nel salmo 8 un versetto che ci fa intuire tutta la fiducia che Dio ripone nella bocca dei bambini. Nella loro bocca parla riducendo al silenzio l’arroganza dei riottosi: “Con la bocca dei bambini e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari per ridurre al silenzio nemici e ribelli”.
E’ una scelta paradossale del Signore che, davanti ai tribunali della storia, vuol farsi difendere dai bambini più che dagli avvocati di grido? O è una indicazione di metodo perché gli adulti in vena di chiacchiere si mettano in ascolto dei messaggi fioriti sulla bocca dei lattanti e ne riscoprano l’attitudine evangelizzatrice?
Lasciarsi evangelizzare dai bambini. Beati voi, catechisti che, stando a contatto con loro, potete farlo più di me. E’ per questo che vi invidio. Accanto a loro, ultimi arrivati, si percepisce meglio il senso ultimo delle cose oltre che il mistero di Dio, naturalmente. Perché, forse non lo sapete, ma è il fiato dei bambini che sostiene il mondo. E’ una frase del Talmud. Vi vedo sorridere. Accidenti alla retorica, ma questa volta proprio non potevo farne a meno.
CHE COS’E’ L’UOMO PERCHE’ TE NE RICORDI?
Carissimi Catechisti, mi piacque a tal punto che otto anni fa, quando lasciai la parrocchia, quella frase volli segnarla sul ricordino di addio. E’ il versetto 16 del capitolo 19 di Isaia: “Non ti dimenticherò mai, dice il Signore, ecco ti ho disegnato sulle palme delle mie mani. Oggi mi vergogno un po’ di aver scelto quella frase perché pian piano, a dispetto di quelle promesse e con tutte le assicurazioni giurate di ricordi imperituri, mi sono dimenticato di molti. Quante volte riconosco un volto ma non so più dargli un nome o sento risuonare un nome dall’altro capo del telefono ma non so più dargli un volto. Dio, che tristezza. E’ una specie di oltraggio col contagocce che non risparmia né consolidate amicizie né conoscenze diuturne. Ma che volete, il tempo passa, si sfilacciano persino i lineamenti delle persone più care, si sgretolano le identità, nel gioco malinconico delle dissolvenze i lineamenti umani perdono i contorni e poiché, come dice il proverbio: “Chiodo scaccia chiodo”, i profili antichi cedono il posto, senza pietà, ad immagini più fresche. E’ vero che a volte basta un richiamo per far emergere dal sottosuolo della coscienza brandelli di memoria, ma diventa così difficile connetterli tra loro che non è raro esporsi al rischio di mortificare o deludere qualcuno. “Ciao, Antonella, chi si rivede!...come stai?” “Bene, grazie… ma non sono Antonella, sono Maria Lucia, non ti ricordi più?” “Già. È vero, ti confondevo con Antonella, la catechista dell’ultimo anno di cresima. Anzi, no! Quella si chiamava Barbara, mi pare…Insomma non importa! Tuo fratello gioca sempre nella squadra di palla a volo?... Ah, che smemorato, tu non hai fratelli,… ti scambiavo con la Paola…”.
Scusami Maria Lucia se ti ho deluso e scusami anche se stasera farai una smorfia di delusione leggendo quella frase sul ricordino di otto anni fa e non crederai più che io abbia scritto davvero il tuo nome sulle palme delle mie mani. Però, voglio dirti una cosa: quella frase è vera. Lo so, ho fatto male io ad appropriarmene, usurpando al Signore una finezza incompatibile con la mia ridicola vanità. Non dovevo proprio sottoscriverla conoscendomi vittima delle più sconcertanti amnesie, ma se al posto del mio autografo sciagurato ci metti la firma di Dio, quella frase tornerà a splendere in tutta la sua sovraumana bellezza.
“Non ti dimenticherò mai”. E’ Lui che questa frase la ripete a me, a te, a tutti fin da quando siamo stati concepiti nel grembo materno; Lui che, come dice il profeta Baruc, chiama le stelle per nome ed esse gli rispondono: “Eccomi!”, brillando di gioia; Lui che non deposita negli archivi i nostri volti ma li sottrae all’usura delle stagioni illuminandoli con la luce dei suoi occhi; Lui che non seppellisce i nostri nomi nel parco delle rimembranze ma li evoca ad uno ad uno dalla massa indistinta delle nebulose e, pronunciandoli con la passione travolgente dell’innamorato, li incide sulle rocce dei colli eterni. Carissimi, sono convinto che il credito delle genti a tutti i nostri messaggi, si misura proprio di qui: dalla convinzione con cui faremo capire che nel vocabolario di Dio non esistono nomi collettivi, che le persone Lui non le ama in serie; che se per la società informatica Gigi, uscito dal manicomio, è poco più che un soffio elettronico da immagazzinare nei dischi rigidi dei servizi sociali del comune, per il Signore rimane sempre un principe dell’universo; che i massacri operati dalle violenze umane trovano negli occhi di Dio lacrime per ognuno, non pianti globali; che nelle fosse comuni delle vittime della guerra Egli si aggira alla ricerca di sembianze inconfondibili su cui lasciare l’impronta di una carezza e non per collocare piastrine di riconoscimento col numero di matricola; che l’uccisione di un uomo prima ancora che nasca, gli distrugge tra le mani un capolavoro irripetibile a cui stava per dare l’ultimo tocco; che l’incupirsi per fame di una sola creatura dello Shael gli dà più angoscia che l’oscurarsi di Sirio o l’affievolirsi delle Pleiadi e che per i lividi di Maria, percossa dal marito ubriaco, si turba più di una madre per la febbre dell’unigenito.
“Chi è l’uomo perche te ne ricordi?”. La risposta forse la si può trovare accartocciata in quel viluppo di panni in cui Bortolo la notte si ripara dal freddo sotto il portale della Chiesa. Ai nostri occhi quei panni sembrano cenci che coprono membra fetide di sudore, agli occhi di Dio invece sono reliquiari che racchiudono frammenti di santità.
CHE COS’ E’ L’UOMO PERCHE’ TE NE CURI?
Carissimi Catechisti, Dio non è un computer, il grande magazziniere dei nostri nomi, e neppure l’archivista supremo che per ogni uomo allestisce un dossier riservato che nel giorno del Giudizio Egli userà come prove di merito o come capi di imputazione nei nostri confronti. Sarebbe veramente banale ridurre Dio a controllore dei nostri sgarri o al rango di banchiere custode dei nostri titoli di credito. Un Dio siffatto che vesta l’abito del funzionario compiaciuto o che indossi la divisa del gendarme, è quanto di più allucinante si possa pensare.
Forse, proprio per allontanare da noi un modo così sacrilego di concepire Dio, il salmo 8 ci fa sapere che il Signore non solo si ricorda dell’uomo ma si prende anche premura di lui. “Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. Dio dunque si prende cura, è provvidente. Non gli basta darci un letto ma la notte si alza per rimboccarci le coperte. Ha sollecitudine, insomma, è inquieto per noi, si preoccupa e non solo dell’uomo in generale ma del singolo. E’ straordinario tutto questo. Io gli sto a cuore. Gli sta a cuore il Papa ma anche Filippo gli sta a cuore. Filippo lo scansano tutti perché ha l’alito pesante, sembra un cavernicolo, non si lava mai e passa la vita taciturno raccogliendo ferri vecchi. Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la pace, gli sta a cuore ma anche Maddalena gli sta a cuore, lei che di bello ha solo il nome, con quel tanfo selvatico che si porta appresso e con quello sfregio sotto gli occhi che la deturpa da quando suo padre la gettò nel fuoco, ancor bambina. Gli sta a cuore Nicla che ha vinto un concorso di fotomodella e sua madre la mostra a tutti sulle copertine dei rotocalchi ma gli sta a cuore anche Nella che ha sposato un marocchino contro la volontà dei parenti, è stata messa fuori casa, ora ha un bambino e vive all’interno di un’Alfa Romeo sgangherata che le fa da cucina, da soggiorno e da talamo nuziale. Gli sta a cuore il leader che si batte per il riconoscimento dei diritti umani, parla alla televisione e concede interviste ai giornali più grandi del mondo ma gli sta a cuore anche Sabel, piccolo bambino etiope dal ventre gonfio di fame che trema come un cerbiatto spaurito all’interno di una capanna in attesa della morte. Gli sta a cuore Jenni che fa la serva in un night per camparsi la vita, se ne fa carico, ne segue con preoccupazione la sorte, non chiude occhio per lei, come non chiude occhio per quella madre salvadoregna che piange per il figlio scomparso, per quel vecchio vietnamita che vegeta da mesi nella stiva di una barca, per quel giovane indiano che si aggira come un ebete tra le arterie di una metropoli europea e che ha perso tutto, anche la memoria e il cui nome ora è segnato solo sull’anagrafe del cielo.
Qualcuno potrebbe osservare che non c’è bisogno del salmo 8 per sapere che Dio si prende cura dell’uomo dal momento che tutta la scrittura, dalla prima all’ultima parola, è attraversata da questo annuncio. Giusto! L’osservazione è pertinente. La portata del messaggio di questo versetto, infatti, non è proclamare la premura di Dio ma la grandezza dell’uomo. Non consiste nel rivelare la condiscendenza del Creatore ma nell’esaltare il prestigio della creatura, non si riduce a glorificare la tenerezza di Dio per ogni volto umano ma punta a mettere in luce il fascino di questo volto che riesce a stregare perfino il cuore di Dio.
“Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. Un amico ateo che avevo condotto con me alla professione religiosa di Francesca, una splendida ragazza di vent’anni, che ognuno avrebbe voluto per sé come sposa, al ritorno, in macchina, mi disse: “Ma che cos’è questo vostro Dio per cui una ragazza come quella si brucia la vita?”. Stavo per rispondergli con la stessa domanda a termini invertiti quando ho visto un vecchio che raspava nel cassone delle immondizie e allora sostituendo il nome di Francesca gli ho replicato: “E che cos’è quel miserabile senza nome per il quale Dio, stanne certo, arde di ineffabile amore?”. Era difficile dare una risposta. Avrei voluto osservare che comunque una risposta l’avremmo potuta trovare nel Vangelo, in quella pagina in cui il Signore, per ogni torto subito dal più piccolo della terra, si costituisce parte lesa davanti al tribunale della storia. Ma mi sono fermato perché mi ero accorto di aver fuso il cervello, non il motore, poi ho ripreso, mormorando all’orecchio del mio amico rimasto in silenzio, il versetto di un altro salmo: “Il Signore ci ha fatto bere vino da vertigini”.
Pro manuscripto - 2010_03 |
||