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SCHEGGE E SCINTILLE

PENSIERI, SPUNTI, RIFLESSIONI

DALLA PAROLA DI DIO E DALLA VITA

a cura di don Franco LOCCI

 

GIUGNO 2002

 

 

SABATO 1 GIUGNO 2002

San Giustino; B. Annibale di Francia

Parola di Dio: Gd. 17,20-25; Sal. 62; Mc. 11,27-33

 

"I SOMMI SACERDOTI, GLI SCRIBI E GLI ANZIANI GLI DISSERO: CON QUALE AUTORITA’ FAI QUESTE COSE? O CHI TI HA DATO L’AUTORITA’ DI FARLO?". (Mc. 11,27-28)

Anche nei nostri rapporti umani noi vogliamo sapere chi sia la persona con cui abbiamo a che fare, quale sia la sua autorità nel fare o dire determinate cose. Gli scribi, i farisei, i religiosi di allora vanno da Gesù per capire da dove gli venga l’autorità che Egli si arroga nel fare il Rabbi, nel compiere miracoli, nel suo apparente andare contro le tradizioni religiose d’Israele. In fondo loro pensavano d’essere gli unici detentori dell’autorità di guidare la religione, di interpretare la Bibbia, di indirizzare la morale e Gesù dava loro fastidio. Ma Gesù non risponde, anzi, mette in imbarazzo questi personaggi troppo "ortodossi". Chi è già pieno di se stesso, chi pensa d’essere Lui l’autorità di Dio sulla terra non ha occhi per vedere i segni che confermano l’opera di Gesù. 

Gesù aveva "parlato con autorità", aveva fatto miracoli che confermavano la sua missione divina, si era detto Figlio del Padre, ma non c’è più sordo di chi non vuol sentire e più cieco di chi non vuol vedere; con queste persone non c’è che prenderle in torta con l’astuzia, come fa Gesù mettendoli in imbarazzo. Quanto ci dimostriamo piccoli, quando recriminiamo con il Signore, quando abbiamo sempre bisogno di sindacare; ad esempio: "Con quale autorità Gesù dice "beati i poveri" e "guai a voi ricchi"? Perché il perdono proprio all’adultera?" oppure "Perché sei così benevolo nei confronti di certe persone e perché tanta sofferenza per quell’altro uomo?". L’autorità che Gesù ha gli viene da Dio suo Padre e dall’amore vero per tutti gli uomini. Cioè Gesù conferma se stesso e la propria opera con quanto fa. Non dovremmo allora usare lo stesso criterio per sapere chi abbia davvero l’autorità di parlarci a nome di Dio?

 

 

DOMENICA 2 GIUGNO 2002

SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO - Santi Marcellino e Pietro; Sant’Erasmo

Parola di Dio: Dt. 8,2-3;14-16; Sal. 147; 1Cor. 10,16-17; Gv. 6,51-58

 

1^ Lettura (Dt 8, 2-3. 14-16)

Mosè parlò al popolo dicendo: "Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz'acqua; che ha fatto sgorgare per te l'acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri".

 

2^ Lettura (1 Cor 10, 16-17)

Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane.

 

Vangelo (Gv 6, 51-58)

In quel tempo, Gesù disse alla folla dei Giudei: "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo". Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?". Gesù disse: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno".

 

RIFLESSIONE

 

Quella che celebriamo oggi dovrebbe essere la festa della riconoscenza per un dono meraviglioso che Dio ci fa, dono al quale spesso noi ci siamo così abituati che ci risulta talmente facile o dimenticarlo o viverlo con una terribile superficialità. Il nostro Dio vuole stare sempre con noi, vuole essere compagno del nostro cammino, e allora si fa pane di comunione, di perdono, di sostentamento; Egli vuole farci partecipi del suo mistero d’amore, e allora si fa mangiare per donarci la vita piena, la vita eterna.Per parlare dell’Eucarestia, per entrare in questo profondo dono d’amore, potremmo dire mille cose, ma prima di tutto dobbiamo renderci conto che l’Eucarestia è il mistero di un Dio che ci ama immensamente, quindi noi, poveri principianti dell’amore, più che dire tante cose di essa, se vogliamo comprenderla, dobbiamo immergerci in essa. Per capirci faccio un esempio: se voi chiedete a due fidanzati che cosa sia per loro l’amore, essi possono descriverlo in mille modi diversi, possono sottolineare le sensazioni che esso provoca in loro, possono dirvi che cosa esso genera nel loro cuore e nella loro vita, ma non riusciranno mai a dirvi tutto, eppure a voi basta magari guardare i loro occhi come luccicano, o il modo con cui si tengono la mano per capire qualcosa della profondità del bene che si vogliono. Per riflettere dunque sull’Eucarestia, mi servirò di alcune frasi della parola di Dio che abbiamo ascoltato oggi che ce ne rivelano alcuni tratti, ma sono ben consapevole che l’Eucarestia la si comprende solo vivendola dal di dentro e accettandola con riconoscenza come il dono più grande di comunione che il nostro Dio ci ha fatto. La prima lettura si rifà alla grande esperienza dell’esodo: é un invito per noi a ricordare ciò che Dio ci ha fatto: "Ricordati che il Signore tuo Dio nel deserto ti ha nutrito di manna". "Ricordati": l’Eucarestia è il Sacramento della memoria. Anche qui un esempio può aiutarci. Quando ci si trova in fraternità e amicizia attorno ad un tavolo per mangiare insieme, è facile ricordare avvenimenti vissuti o persone che hanno condiviso esperienze di vita con noi e che non sono in quel momento presenti fisicamente: si ricordano magari i nonni, i compagni di avventura, certe esperienze che ci sono successe. Celebrare l’Eucarestia è trovarsi attorno ad una mensa, con degli amici (anche se non li conosco tutti) che hanno condiviso gli stessi doni di Dio, e lì ricordiamo. Attraverso la Parola di Dio ricordiamo la Storia della salvezza, i modi con cui Dio è intervenuto nella storia dei nostri padri, le sue opere meravigliose, i suoi insegnamenti. Ma il nostro modo di ricordare non è solo stabilire radici genealogiche o successioni di eventi, è ricordare una storia passata ma viva oggi in noi, infatti diciamo "E’ parola di Dio", "E’ Parola del Signore" in quanto non è solo una parola detta "allora", è una parola viva oggi; che si dona a noi, oggi; che ci interpella oggi. Ma la memoria più viva che noi possiamo fare è quella di aver ottenuto gratuitamente la salvezza attraverso il Figlio di Dio venuto in mezzo a noi e che per dirci quanto ci amava ha dato la sua vita per noi "mentre eravamo ancora peccatori", morendo sulla croce e risorgendo dai morti per essere il vivente in eterno e per indicarci che anche noi siamo chiamati a fare lo stesso passaggio dalla morte alla vita. Gesù, infatti, sia quando istituisce l’Eucarestia nell’ultima cena, sia quando lava i piedi ai suoi discepoli conclude entrambi i gesti di amore dicendoci: "Fate questo in memoria di me". Se noi capissimo anche solo quest’aspetto dell’Eucarestia, quanto cambierebbe il nostro modo di vedere e di partecipare alla Messa. Che senso ha andare a Messa per obbligo, per assolvere al precetto festivo? Se davvero credo che Cristo ha versato il suo Sangue per me, non sarà una gioia, un desiderio, poter rivivere con dei fratelli la gioia di questa memoria in maniera così viva da essere sicuro che Gesù, il mio Salvatore è davvero lì presente? Quanto è assurdo andare a ricercare le parole di preghiere per "fare il ringraziamento" all’Eucarestia se davvero avessimo scoperto l’amore di comunione che ci viene donato. Un innamorato che ha la gioia di poter stare con la propria innamorata non le dice di certo: "Adesso aspetta che vado a prendere un libro di poesie e poi te le recito per dirti quali sono i miei sentimenti." Il miglior ringraziamento è cuore nel cuore, è memoria gioiosa del bene ricevuto, è cercare di rivestirsi dell’Altro, è imparare dall’Amore ad amare. "Nel deserto Dio ti ha nutrito con la manna" L’Eucarestia è il Pane di Dio per il nostro cammino. Dio ha visto la nostra fame. Dio ha mandato la manna, il pane disceso dal cielo al popolo di Israele, affamato e in cammino verso la terra promessa, ma Dio si è fatto pane in Gesù per la nostra fame e per il nostro cammino quotidiano. Gesù, dal giorno della sua incarnazione non ha mai smesso di incarnarsi e continua ad offrirsi ad ogni uomo che senta il bisogno di Lui. Spesso il ritualismo religioso ci ha fatto dimenticare che la Messa è soprattutto Gesù, Pane donato per farci camminare verso il Padre… Ma noi abbiamo ancora fame? Quando la televisione ci fa vedere certe immagini di uomini che nel mondo muoiono di fame o quando i nostri vecchi ci raccontano delle ristrettezze subite "ai tempi della guerra", forse vagamente ci rendiamo conto di quanto sia brutto e triste avere fame. Ma come, spesso, nei nostri paradisi gastronomici artefatti ed artificiali, sentiamo il bisogno di ritrovare le fragranze vere dei cibi e il sapore genuino del pane, così nella vita in un mondo che cerca con facili proposte palliative, di rispondere a tutte le nostre domande ed esigenze, ogni tanto scopriamo il bisogno di trovare delle risposte vere, eterne alle nostre domande. "Chi mangia questo pane ha la vita eterna" Se davvero hai fame di Verità, di giustizia, di vita, Gesù è la Via, la Verità e la Vita. Se non ti accontenti di apparenze, se le cose non ti soddisfano pienamente, se la paura della sofferenza e della morte ogni tanto ti fanno gridare per trovare una risposta, ecco allora che tu hai a disposizione un pane che discende dal cielo, il pane di Dio, Colui che non ti sazia solo per un momento, Colui che con la sua sofferenza ti aiuta a dar senso a certe pagine oscure e difficili della tua vita, Colui che essendo il Dio della vita riempie di significato ogni momento del vivere per quanto banale esso possa essere, Colui che non si ferma alle poche decine di anni della vita terrena, ma già fin d’ora ti mette in comunione con l’eternità, con i santi di tutti i tempi, con i tuoi morti, viventi in Lui. Fratelli, quante altre cose si potrebbero dire dell’Eucarestia! E’ giusto però fermare le parole per viverla. Lasciatemi però concludere questa riflessione ancora con le parole di Gesù: "Un re un giorno approntò un banchetto per le nozze di suo figlio. Mandò a chiamare gli invitati di riguardo, ma chi con una scusa o con l’altra essi si rifiutarono. Il Re mandò allora i suoi servi a crocicchi delle strade ad invitare tutti, poveri e ricchi, l’unica cosa richiesta era avere l’abito della gioia". Gesù si fa pane, Gesù ci invita al Banchetto e noi o non ci andiamo, o inventiamo scuse (anche la scusa di una presunta purezza religiosa per poter fare la Comunione), o andiamo all’Eucarestia con una seriosità che spesso sconfina nella mestizia, o riceviamo l’Eucarestia per abitudine e usciti dalla messa la gente ci vede esattamente come eravamo prima. L’Eucarestia è un dono, ma se il dono o non lo vai a ricevere o non apri il pacchetto che lo contiene, non serve a nulla. L’Eucarestia è l’Amore, ma se non lasci palpitare il tuo cuore per esso che amore è? L’Eucarestia è un Qualcuno che ti coinvolge e che vuole trasmettersi ad altri tramite te, ma se la tua Comunione con Dio finisce nel rito e non diventa condivisione di tutto te stesso con i fratelli, che Eucarestia stai celebrando?

 

 

LUNEDI’ 3 GIUGNO 2002

Ss Carlo Lwanga e compagni; S. Clotilde; S. Olivia

Parola di Dio: 2Pt. 1,1-7; Sal. 90; Mc. 12,1-12

 

"UN UOMO PIANTO’ UNA VIGNA…". (Mc. 12,1ss)

Gesù racconta questa parabola ai sommi sacerdoti, agli scribi e ai farisei, dunque è facile capirne il senso generale: Dio aveva scelto Israele per la sua alleanza, ma questo popolo e i suoi capi hanno voluto fare di testa loro, non hanno ascoltato né i profeti né il Figlio: Dio darà il suo regno ad un altro popolo. Di solito noi sottolineiamo soprattutto questo aspetto di infedeltà del popolo. Proviamo invece oggi a sottolineare la fedeltà di Dio.

Dio ha fatto le cose in grande sia per Israele che per noi. Per farsi conoscere e per portaci la salvezza si è ‘abbassato’ Lui fino a noi, ha piantato con cura questa sua vigna attraverso l’elezione di un popolo che ha curato nei minimi particolari: gli ha dato una terra, gli ha dato delle norme che lo distinguessero da ogni altro popolo, ha abitato prima la Tenda e poi il Tempio per stare con loro, ha perdonato più volte le ribellioni, ha sanato le ferite di questo popolo, lo ha liberato con potenza quando è diventato schiavo… E Dio, tramite Gesù, non è forse stato grandioso con noi? Egli ci ha amato fino a farsi uno di noi, ci ha parlato con parole ed opere, ci ha dato una nuova legge liberante, quella dell’amore, ha accettato di morire in croce per nostra mano non perché eravamo bravi ma "mentre eravamo ancora peccatori", si è fatto nostro servo e pane per la nostra fame, ci ha lasciato i suoi segni, i Sacramenti, è vivo e cammina con noi…Non è quindi Dio che manca di fedeltà alle sue promesse né con Israele né con noi: certo che se trova sempre la nostra porta chiusa o, peggio, ci trova pronti ad approfittare dei suoi doni per costruirci il nostro spazio di potere, non può nulla contro la nostra libertà male usata e allora come dice Gesù: "Le prostitute e i peccatori vi precederanno nel Regno dei cieli"

 

 

MARTEDI’ 4 GIUGNO 2002

S. Quirino; S. Francesco Caracciolo

Parola di Dio: 2Pt. 3,12-15.17-18; Sal. 89; Mc. 12,13-17

 

"RENDETE A CESARE CIO' CHE E’ DI CESARE E A DIO CIO' CHE E’ DI DIO". (Mc. 12,17)

La verità può essere ricercata in molti modi diversi, ma perché la ricerca sia vera occorre essere onesti Qui ci troviamo chiaramente davanti a gente in mala fede: sono andati da Gesù avendo già deciso di trovar motivi per toglierlo di mezzo e la domanda che gli fanno, posta in questo modo, voleva costringerlo ad inimicarsi o il popolo o il potere romano.

La risposta di Gesù non è una semplice astuzia per eludere il problema e non cadere in tranello.

Intanto, Gesù, chiedendo di vedere la moneta dimostra di non possederne e ci fa capire che l’unico che possa veramente parlare con giustizia di denaro è proprio quello che non ne ha, poi non dice semplicemente: "Date a ciascuno ciò che gli spetta", senza determinare ciò che spetta a ciascuno. Di solito ci fermiamo a discutere sulla prima parte di questa risposta di Gesù chiedendoci quale tipo di obbedienza un cristiano debba alle forze civili, alla politica, alle tasse. Proviamo oggi, invece, a chiederci che cosa deve "rendere a Dio". Posso pagare i miei "debiti" con Dio? Mi ha dato la vita, mi chiama all’eternità, mi ha dato suo Figlio Gesù con i suoi sacramenti di salvezza... Come posso rendergli questi doni? Impossibile pensare di poter ripagare una generosità tale! Anche tutte le buone opere, le sofferenze offerte, le preghiere sono una piccola cosa!

Quel "rendere" allora non vorrà dire ‘‘accettare’’? Rendere a Dio significa accettare con gioia e riconoscenza quello che ci dà. Rendere felice Dio è ricevere con amore da Lui i suoi doni, accettare la sua generosità, riconoscere la sua immensa bontà, vivere in rendimento di grazie, è lasciare che l’opera di Dio operi in noi senza porvi ostacoli.

 

 

MERCOLEDI’ 5 GIUGNO 2002

San Bonifacio; Santa Valeria

Parola di Dio: 2Tim. 1,1-3.6-12; Sal. 122; Mc. 12,18-27

 

"NELLA RISURREZIONE A CHI APPARTERRA’ LA DONNA? ".(Mc. 12,23)

Questi sadducei che vanno da Gesù si dimostrano gretti e calcolatori. Vanno a fargli una domanda per "metterlo alla prova". L’esempio che portano, si vede lontano un miglio, è artefatto per mettere in imbarazzo e oltretutto dimostrano una visione del matrimonio solo come di possesso dell’uomo sulla donna. Tutto questo purtroppo ci fa riflettere su di noi che spesso siamo dei gran chiacchieroni di religione e che invece poco viviamo la fede e anche al fatto che spesso tutto per noi è calcolo, anche la vita futura. L’uomo, anche quando pensa alla vita futura, spesso continua a ragionare solo in termini di possesso, di calcolo, di diritti, di appropriazione. Si ha quasi paura di essere defraudati di qualcosa. Ci interessiamo delle cose che Dio deve darci in paradiso e non badiamo a Lui. Vogliamo la ricompensa e non pensiamo a chi fa il dono. E non guardando a Lui mettiamo in evidenza solo noi stessi. Ma Dio non è forse il Dio della vita, il creatore, il Dio della gioia? Se ci ripetessimo in continuazione che "Dio non è un Dio di morti, ma di viventi" non ci preoccuperemo più tanto del come sarà il Paradiso con il premio soddisfacente di tutti i piccoli piaceri umani ma ci fideremo di Lui che le cose le ha fatte e le sa fare bene e che è un "Padre buono che sa dare cose buone ai suoi figli".

 

 

GIOVEDI’ 6 GIUGNO 2002

S. Norberto; S. Paolina; San Gerardo; Memoria del Miracolo di Torino

Parola di Dio: 2Tim.2,8-15; Sal. 24; Mc. 12,28-34

 

"UNO DEGLI SCRIBI GLI DOMANDO’: QUAL E’ IL PRIMO DI TUTTI I COMANDAMENTI?". (Mt. 12,28)

Ed eccoci sempre pronti alle classifiche. Per i rabbini di allora cercare quale fosse il primo comandamento rimaneva una delle tante questioni teoriche, una ricerca puramente intellettuale, ed anche per noi stabilire quali siano le cose migliori o quelle peggiori spesso serve per crearci dei parametri per poter nascondere la nostra mediocrità. Gesù non accetta queste classifiche ma ci dice che alla base di tutto ci sta l’amore, l’amore con cui tu ti lasci amare, l’amore di Dio che previene, che accompagna, che provvede, l’amore del prossimo che è riconoscersi figli di un unico Padre, che è riconoscere il potenziale di amore che è in ciascuno, l’amore vero per se stessi che è volersi costruire non secondo il proprio egoismo ma secondo il piano di Dio. E appare evidente che neanche nell’amore si possono fare classifiche tipo: prima Dio, poi il prossimo, poi se stessi, perché in qualunque modo l’amore vero si esprima, comprende sempre questi tre livelli: se ami davvero te stesso, tu ti realizzi secondo il piano di Dio a favore dei fratelli. Se tu ami il fratello, ami Dio che è in Lui e realizzi il bene di te stesso. Se tu ami Dio o ti lasci amare da Lui, il suo amore immenso non può che straripare da te a favore degli altri e nello stesso tempo non può che realizzare la tua vera gioia profonda.

 

 

VENERDI’ 7 GIUGNO 2002

SACRATISSIMO CUORE DI GESU’ - S. Antonio M. Giannelli

Parola di Dio: Dt. 7,6-11; Sal. 102; 1Gv. 4,7-16; Mt. 11,25-30

 

"VENITE A ME VOI TUTTI CHE SIETE AFFATICATI E OPPRESSI E IO VI RISTORERO’ ". (Mt 11,28)

Il cuore, in quasi tutte le culture ha simbolizzato il centro vivo della persona, il luogo dei sentimenti e quindi dell’amore. Celebrare la festa del cuore di Gesù è quindi andare al centro dell’intimità divina: Dio Padre ci ha tanto amati da donarci il suo Figlio, il Figlio ha tanto amato il Padre e amato noi da donare se stesso, lo Spirito Santo che è l’amore che unisce il Padre al Figlio ci ha tanto amati che, mentre eravamo ancora peccatori, ci ha uniti alla morte di Gesù per farci risorgere per sempre con Lui. Ecco il cuore di Gesù in cui ogni uomo può trovare riparo e conforto, in cui anche colui che soffre trova sollievo, perché è un cuore che conosce la sofferenza e la chiave redentiva di essa. E’ un cuore in cui chi gioisce si rallegra perché l’amore di Gesù vuole portarci la gioia vera. E ‘ un cuore a cui il dubbioso può rivolgersi, perché è la verità, è un cuore che accoglie chi ama e chi crede di non saper amare, è un cuore di madre che prende per mano e che insegna a camminare, è un cuore di amico in cui ci si può sicuramente confidare, è un cuore di padre che per il tuo bene sa rimproverarti senza ferirti, è un cuore amante che ti fa entrare nel mistero di un Dio innamorato di te.

 

 

SABATO 8 GIUGNO 2002

CUORE IMMACOLATO DELLA BEATA VERGINE MARIA - San Medardo

Parola di Dio: Is. 61,10-11; Sal. da 1Sam. 2,1.4-8; Lc. 2,41-51

 

"MARIA, SUA MADRE, SERBAVA TUTTE QUESTE COSE NEL SUO CUORE". (Lc. 2,51)

Maria fa anche l'esperienza di perdere Gesù. E' la stessa esperienza che faranno gli Apostoli quando si troveranno soli sul lago, in balia della tempesta, o, peggio ancora, nascosti nel cenacolo, vergognosi di quanto non hanno fatto durante la passione di Gesù e senza speranze per il domani. E’ la stessa esperienza che succede a volte anche nella nostra vita quando le vicende buie o dolorose sembrano farci sentire soli, abbandonati, angosciati. Il Vangelo ci presenta Maria in tutta la sua umanità, preoccupata di questo Figlio che, senza dir niente, si è allontanato. Ogni madre può capire che cosa voglia dire l’angoscia di cercare un figlio per tre giorni e lo stupore di scoprire un aspetto sconosciuto del proprio ragazzo. Anche noi, quando i figli ci sorprendono e ci rattristano, domandiamo: "perché?" e ci sentiamo in colpa anche senza volerlo dire. E soprattutto stentiamo a capire i figli quando cominciano a staccarsi da noi e a cercare la loro strada; e come ci conforta sentire Maria e Giuseppe uguali a noi! Ma l’insegnamento che essi ci danno, la novità, è in questo "serbare nel cuore": far tesoro delle esperienze dei figli, non considerarle ragazzate; rifletterci sopra, perché anche i bambini hanno qualcosa da insegnarci; attribuire loro importanza, anche quando ci sembrano sciocchezze, perché per loro non lo sono mai; dedicare tempo ai loro problemi. Ma per far questo ci vuole un "cuore immacolato", cioè libero da preoccupazioni per falsi problemi: se siamo assillati dal lavoro, dal guadagno, dalla carriera, dal desiderio di "dare tutto ai figli" in termini di "cose" e non di attenzione, tempo, pazienza, continueremo a non capire e non ci sarà un vero posto per loro nel nostro cuore. E la stessa cosa succede anche nei confronti di Gesù. Certi silenzi del Signore che ci fanno soffrire, certe prove della nostra vita che sembrano incomprensibili e non coniugabili con un Dio che ci ama, solo in un cuore capace di amore silenzioso sanno trovare il loro posto.

 

 

DOMENICA 9 GIUGNO 2002

10^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

S. Efrem; B. Anna M. Taigi

Parola di Dio: Os. 6,3-6; Sal. 49; Rom. 4,18-25; Mt. 9.9-13

 

1^ Lettura (Os 6, 3-6)

"Affrettiamoci a conoscere il Signore, la sua venuta è sicura come l'aurora. Verrà a noi come la pioggia di autunno, come la pioggia di primavera, che feconda la terra". Che dovrò fare per te, Efraim, che dovrò fare per te, Giuda? Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all'alba svanisce. Per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti, li ho uccisi con le parole della mia bocca e il mio giudizio sorge come la luce: poiché voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.

 

2^ Lettura (Rm 4, 18-25)

Fratelli, Abramo ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia. E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato come giustizia, ma anche per noi, ai quali sarà egualmente accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione.

 

Vangelo (Mt 9, 9-13)

In quel tempo, Gesù, passando, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: "Seguimi". Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: "Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?". Gesù li udì e disse: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori".

 

RIFLESSIONE

 

Dopo questo lungo periodo in cui abbiamo celebrato la Pasqua, l’ascensione di Gesù al cielo, la Pentecoste, le feste della Trinità e del Corpo e Sangue del Signore, con questa domenica rientriamo nel Tempo ordinario dell’anno. Il tempo ordinario, le abitudini quotidiane, possono a prima vista sembrarci meno importanti dei momenti forti, mentre non è vero: una mamma può chiamare vita solo il momento della nascita del figlio oppure non è altrettanto vita il quotidiano fatto di spesa, di preparazione di cibi, di cambio di pannolini? Anche nella nostra vita spirituale, ogni momento per noi è il momento decisivo in cui possiamo incontrare il Signore, in cui possiamo rispondere in molti modi diversi al suo amore per noi.Ci ha ricordato questo il profeta Osea che abbiamo sentito leggere nella prima lettura: "Affrettiamoci a conoscere il Signore" perché Lui è fedele alle sue promesse, Lui viene. Non corriamo il rischio, come diceva ancora Osea "che il nostro amore per Lui sia soltanto come rugiada che all’alba svanisce". Chi ha capito anche solo parzialmente chi sia Dio, che cosa venga a portarci e che cosa desideri da noi, sa che Lui cerca la nostra persona, non si accontenta dell’esteriorità o delle briciole: è talmente innamorato di noi che vuole arrivare al nostro cuore per riempirci di se e per darci la capacità di rispondere a questo amore immenso. E Gesù, nel vangelo di oggi, attraverso la chiamata del pubblicano Matteo e attraverso le parole che rivolge ai farisei, ci fa capire ancor meglio il senso della sua venuta e il tipo di risposta che noi possiamo dargli. Gesù aveva già chiamato alcuni Apostoli e già qualcuno aveva arricciato il naso vedendo che a seguire Gesù erano semplici pescatori, ma ora Gesù si rivolge ad un pubblicano e lo invita a seguirlo. Questa volta si tratta di Matteo, un personaggio di un certo rilievo. E’ uno che ha studiato, sa di calcolo, di misure, di scambi, deve conoscere per forza alcune lingue, almeno l’aramaico, il latino e il greco e i molti idiomi e dialetti. Il suo mestiere è uno di quelli che la Bibbia condanna e che molti uomini invidiano. Egli raccoglie le tasse. E’ un collaborazionista dei Romani i quali gli hanno dato in appalto la raccolta delle tasse in una determinata regione: essi gli fissano una cifra totale che ogni anno deve consegnare loro e poi lui si arrangi: ha diritto a riscuotere anche più del dovuto ed ha così la possibilità di arricchirsi. E’ un pubblicano cioè un pubblico peccatore per la legge. I farisei, i cosiddetti puri si tengono lontani da personaggi come questi che sono a contatto con tutti, che toccano monete varie, specialmente quelle con su effigi di imperatori e quindi sinonimo di idolatria… e poi gli esattori delle tasse in sé non piacciono a nessuno, però tutti cercano di tenerseli cari, un po’ come succede ancora oggi a certi imprenditori che dicono: "La finanza è meglio tenersela buona". Che un Rabbi, un Maestro riconosciuto in parole ed opere come Gesù, uno che ha compiuto miracoli, chieda ad un pubblico peccatore di diventare suo discepolo, fa scandalo e ancor più scandalo il fatto che Gesù accetti l’invito a pranzo di Matteo che con questo gesto esterna la propria gioia di essere stato chiamato. A questo pranzo non c’è solo Matteo e la sua famiglia, ma anche gli amici di Matteo. E che amici possono essere se non altri esattori o pubblici peccatori come Lui? Sembra di vederli questi farisei, avvolti nelle sontuose vesti che li distinguono dagli altri comuni mortali, che girano, alla larga per non contaminarsi, attorno a Gesù e a questi commensali: hanno lo sguardo scandalizzato, cercano come avvoltoi la preda da colpire. Il loro onore, il loro perbenismo, la loro "fede" è stata colpita: ci vuole una vittima. E, invece di gioire per un pubblicano che si converte e che lascia il suo banco di cambiavalute, vogliono approfittare della situazione: "Gesù con questa sua scelta si è dato una zappata sui piedi, si è contaminato con peccatori, ha compromesso tutto il suo operare… chi può ancora credere ad un maestro che non osserva la legge della purità?" Purtroppo questa scena lungo la storia si è ripetuta infinite volte cominciando proprio dai primi discepoli di Gesù. Il Sinedrio vede che gli apostoli compiono miracoli nel nome di Gesù? Convertono persone con la loro parola e con la loro vita? Ed ecco giungere la persecuzione che non è portata da non credenti, ma che si abbatte sui primi cristiani da parte di altri credenti che perseguitano nel nome di Dio. Francesco fa scelte di povertà, si spoglia delle sue vesti per ridarle nelle mani di Bernardone? Francesco è un matto! Padre Pio opera in un modo non perfettamente conforme ai canoni previsti per dei poveri frati? Ecco i saputoni della scienza e del potere religioso che lo emarginano; don Milani dà fastidio con il suo parlare e con le sue scelte? Mandiamolo in un paesino sperduto in montagna dove non dovrebbe più dar fastidio a nessuno. Sono questi gli avvoltoi del potere religioso che si dipingono le nere ali di bianco, persone che non sanno gioire per il bene e si servono dei doni di Dio per giudicare, per colpire, per giustificare il proprio tradizionalismo che non li smuove e che rende anche il passo degli altri credenti sempre più pesante. Ma possiamo scoprire questi personaggi anche in noi, tutte le volte che vogliamo essere giudici dei nostri fratelli, tutte le volte che non gioiamo quando vediamo che altri fanno il bene magari anche meglio di noi, tutte le volte che ci camuffiamo da religiosi per nascondere il nostro immobilismo e le nostre pigrizie. Gesù a questi personaggi e a noi dice due cose: la prima è quale sia la missione del Figlio di Dio venuto sulla terra: "Sono venuto per coloro che sono peccatori", cioè: se ti senti a posto, ti senti sicuro nella tua religiosità, se pensi di metterti al posto di Dio per giudicare i tuoi fratelli classificandoli in buoni e cattivi, vuol dire che non hai bisogno di Gesù, che sei refrattario ai suoi doni, che chiudi la porta alla salvezza che Lui è venuto ad offrirti; se invece riconosci la tua povertà allora gioirai per i suoi doni, saprai fare festa con altri, sarai anche disposto a lasciare il tavolo del cambiavalute e il posto tranquillo che la tua posizione economica ti permetteva. E, seconda cosa dice Gesù: "Dio dagli uomini non desidera sacrifici, offerte, culti formali, esteriorità, desidera misericordia e amore. Dio non lo puoi comprare con preghiere sacrifici e offerte: Dio non è in vendita! Egli è dono, Amore. Tu ricco non onori Dio se per farti vedere dai i soldi (che poi scalerai dalle tasse) per costruire un tempio: Dio se la ride dei marmi, dei mattoni, delle curie funzionali, dei culti legati a cerimoniali impeccabili, dei vestiti alla moda di sacerdoti che andrebbero meglio ad una sfilata di moda piuttosto che indosso a persone che dovrebbero guidare con umiltà, amore e fede la preghiera dei cristiani in una parrocchia; Dio preferisce un balbettare sincero di preghiera, magari neanche troppo ortodossa, piuttosto che le parole fredde e ripetitive che manifestano un cuore formale e incapace di pregare; Dio preferisce vedere la fatica e la misericordia che ci metti con quel vecchio in casa tua che non il pavoneggiarsi che puoi prendere sentendoti membro di qualche consiglio pastorale. Dio vede, apprezza, accoglie il tuo cercare di trasmettere ai tuoi figli valori che essi sembrano non più credere, Dio apprezza il tuo gioire per il bene che altri fanno, il tuo non giudicare perché anche tu senti di aver bisogno di non essere giudicato, ma solo amato da Lui Se ritrovi la semplicità, la gioia, se riscopri di avere un cuore feribile, ma ancora capace d’amare, allora Gesù, anche oggi, s’invita a mensa a casa tua e non si scandalizza se in essa ci sono ancora angoli sporchi e bui, se i tuoi commensali non sono tutti "secondo la legge"; se scopre che c’è la gioia e la riconoscenza per il perdono ricevuto allora l’incontro con Lui diverrà gioia permanente e non ti costerà neanche troppo il lasciare i tuoi piccoli o grandi banchi di cambiavalute per seguirlo.

 

 

LUNEDI’ 10 GIUGNO 2002

San Maurino; B. Enrico da Bolzano

Parola di Dio: 1Re 17,1-6; Sal.120; Mt.5,1-12

 

"BEATI GLI AFFLITTI PERCHE’ SARANNO CONSOLATI". (Mt. 5,4)

Tutti noi, nella vita abbiamo incontrato la sofferenza. Le lacrime sono eredità di tutti. Ogni vita umana è attraversata prima o poi dal torrente del dolore e se si vuole andare avanti ci si deve bagnare in esso. Ma il dolore può uccidere, annebbiare oppure illuminare, redimere. Le lacrime si possono sciupare, versare a terra e diventano fango o volgerle al cielo per farle brillare come perle al sole. Gesù, rivolgendo questa parola agli afflitti, non ha in mente una categoria particolare di sofferenti. Lui, l’uomo della sofferenza, pensa a chiunque pena, sia adulto o bambino, uomo o donna, di qualsiasi razza e latitudine, per qualsiasi causa soffra, sia per una disgrazia, una calamità, una malattia, la perdita di una persona cara o di beni materiali o della stima, pensa alle delusioni, alle angosce mute del cuore… Gesù pensa a tutti e pensa anche alle mie e alle tue sofferenze, e ci dice che di esse possiamo già essere consolati fin da adesso se sappiamo accettarle come le ha accolte Lui. Se tu "prendi la tua croce" come Lui, Dio te la rende leggera, senti che puoi portarla. C’è una forza in te che non è da te, viene da Lui. La religione non vuole addormentarci davanti al dolore; noi dobbiamo reagire ad esso, dobbiamo combatterlo. Ma, nonostante tutto le sofferenze possono permanere. Allora, se noi le accogliamo come Lui, come mezzo di redenzione c’è davvero un nuovo vigore che ci aiuta a portare le prove della vita e ad aiutare anche gli altri nelle loro pene.

 

 

MARTEDI’ 11 GIUGNO 2002

San Barnaba

Parola di Dio: Atti 11,21-26; 13,1-3; Sal. 97; Mt. 10,7-13. Opp. Mt. 5,13-16

 

"COSI’ RISPLENDA LA VOSTRA LUCE DAVANTI AGLI UOMINI PERCHE’ VEDANO LE VOSTRE OPERE BUONE E RENDANO GLORIA AL VOSTRO PADRE CHE E’ NEI CIELI". (Mt. 5,16)

Se ci diciamo cristiani, allora abbiamo un compito nei confronti degli altri uomini, specialmente di quelli che non conoscono Dio o che lo hanno dimenticato. Il cristiano infatti non può considerare la propria fede come un affare privato. Il cristiano sente di dover essere luce che illumina se no la sua fede è nulla. E la luce, dice Gesù, risplende attraverso le "opere buone". Certamente "opere buone" non le fanno solo i cristiani, ma il cristiano, inserito in Dio attraverso Cristo, deve fare di tutta la sua vita l’opera buona di Cristo. Detto in parole semplici: se noi abbiamo Cristo dentro lo lasceremo trasparire e anche la comunità cristiana deve avere, in mezzo al mondo, la medesima specifica funzione: rivelare attraverso la sua vita e le sue scelte la presenza di Dio. Il nostro Vescovo, attraverso il Piano Pastorale, ci ha invitato a diventare una chiesa missionaria e testimone proprio nei confronti delle persone con cui viviamo. Non sarà allora il caso di ‘fare un buon rifornimento di Cristo’ per poterlo poi portare agli altri? Oggi ci lamentiamo tutti di una cosa evidente: i credenti cristiani diminuiscono.. Quale sarà il motivo? La mancanza di preti? Il mondo che cerca di soddisfare i bisogni delle persone con le cose? Sentiamo pure sociologi e psicologi, diano pure il loro parere. Per me, penso che i credenti scarseggiano perché stentano a vedere la gioia, la serenità, la fede concreta di coloro che si dicono cristiani o di comunità cristiane che hanno di tutto ma hanno perso Gesù per la strada.

 

 

MERCOLEDI’ 12 GIUGNO 2002

S. Onofrio; S. G. Bretoni; S. Paola Frassinetti;

Parola di Dio: 1Re 18,20-39; Sal.15; Mt.5,17-19

 

"NON SONO VENUTO PER ABOLIRE LA LEGGE, MA PER DARE COMPIMENTO". (Mt. 5,17)

Nel nostro comune modo di pensare e di agire noi, quando facciamo una affermazione o prendiamo una decisione, spesso, la consideriamo unica ed escludiamo tutte le altre alternative. Gesù aveva predicato l’amore, e l’amore certamente è superiore alla Legge, alle norme: le norme obbligano, costringono, l’amore fa liberi, da gusto. Ecco che alcuni interpretavano Gesù come uno che volesse abolire la Legge di Mosè, una specie di anarchico nel nome dell’amore. Gesù invece dice di non essere venuto ad abolire la legge ma di portarla a compimento. Che cosa vuol dire? Alcuni esempi: se io verso la decima parte del mio stipendio per opere di bene perché c’è una legge che me lo dice, perché con questo voglio tenermi buono il Signore e guadagnarmi il paradiso, io non faccio una cosa cattiva, anzi, la mia offerta aiuta altre persone, ma una cosa è fare l’elemosina, l’altra il condividere e amare, una cosa è essere obbedienti ad una norma per andare in paradiso, un’altra è amare e gioire di questa norma perché mi apre agli altri. Io posso essere cortese corretto, ben educato nei confronti del prossimo (ed è una buona norma) ma solo per avere nomea di brava persona e magari odiando dentro di me il prossimo impiccione e che non la pensa come me, o posso cercare di vedere nel mio prossimo la presenza di un fratello, di un figlio di Dio come me, col quale sono chiamato a camminare al meglio; posso perdonare a denti stretti perché mi è comandato o posso perdonare con amore perché so che questo da gioia al fratello e anche a me; posso pregare perché bisogna pregare o posso pregare perché è bello e giusto stare con Colui che per stare con me è sceso dai cieli; posso andare a Messa per pagare una tassa a Dio o posso andarci perché vado a ricevere dei doni preziosi, perché è bello pregare con gli altri, perché posso entrare in comunione con Dio e con i fratelli. Gesù non abolisce la legge ma ci insegna a vivere la Legge non come obbligo, non come catene di schiavo, ma come gioia, come compimento della volontà di Dio, come realizzazione della mia vera libertà.

 

 

GIOVEDI’ 13 GIUGNO 2002

Sant’Antonio da Padova; S. Alice

Parola di Dio: 1Re 18,41-46; Sal. 64; Mt. 5,20-26

 

"IO VI DICO: SE LA VOSTRA GIUSTIZIA NON SUPERERA’ QUELLA DEGLI SCRIBI E DEI FARISEI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI". (Mt. 5,20)

Gesù parla di giustizia degli scribi e dei farisei e di giustizia di Dio. Noi scopriamo nel nostro mondo colui che si fa giustizia da solo, la giustizia delle legge, la giustizia del più forte… Ma, quante giustizie ci sono? La giustizia è una sola, solo Dio è il Giusto. Gli uomini guardando a Lui, da Lui dovrebbero imparare la giustizia. Infatti, penso che siamo tutti d’accordo nel dire che nel nostro mondo non c’è giustizia vera. Anche le leggi più giuste spesso non sono applicate in modo equanime, non tengono conto di persone o situazioni. Qualche volta ci fa perfino difficoltà la giustizia di Dio "che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi". E allora, ognuno di noi vorrebbe la giustizia come la pensa lui. Gesù, oggi, ci invita a cercare e vivere una giustizia che non sia ipocrita, cercata solo a misura di noi stessi, esteriore, solo legalistica. Il credente in primo luogo sa che solo a Dio che conosce i cuori spetta la vera giustizia. Chi sono io per giudicare il mio fratello se del mio fratello conosco unicamente ciò che appare? Chi sono io, piccola creatura, per dettare leggi al mio Creatore? Ma allora può esistere ancora la giustizia sulla terra? Come per la Verità, per la Bontà e per tutti gli altri assoluti, sulla terra non avremo mai la pienezza di questi valori, ma ci avvicineremo enormemente ad essi se faremo derivare il nostro agire da Colui che è in sé la pienezza di tutte queste cose.

 

 

VENERDI’ 14 GIUGNO 2002

Santi Rufino e Valerio; Sant’Eliseo

Parola di Dio: 1Re 19,9.11-16; Sal. 26; Mt. 5,27-32

 

"CHIUNQUE GUARDA UNA DONNA PER DESIDERARLA HA GIA’ COMMESSO ADULTERIO CON LEI NEL SUO CUORE". (Mt. 5,28)

Ricordo che dopo aver letto la pagina del Vangelo odierno, uno dei miei tanti amici che si dichiarano non credenti mi rinfacciava: "Ho troppo rispetto per l’uomo Gesù da pensare che sia stato lui a dire una frase del genere, qui deve esserci senz’altro lo zampino o di quel misogino di San Paolo o della Chiesa che sul senso del peccato ci vive. Come farebbe infatti Dio a dirci che uno sguardo e un desiderio, cose che Lui ha messo nella nostra natura, sono già adulterio?" "Mi spiace, - gli ho risposto - ma questa volta ti deludo: penso proprio che queste frasi, a prima vista così dure e difficili, le abbia dette proprio Gesù. Gesù dice frasi come questa per liberarci dalla paura e dalla schiavitù della legge! Gesù non vuole negare la natura umana. Sa benissimo quali sono i nostri istinti che per altro ci sono stati dati con degli scopi precisi, ma sa anche che se io cerco di indirizzare le mie scelte ad un scala di valori precisi, riuscirò, magari con fatica a portare ciò che è istintivo verso quello che è un progetto di vita. Detto in altre parole: quando vedo una bella donna o un bell’uomo, non posso non sentire magari un’attrattiva o un interesse, ma se credo ai valori della famiglia, delle mie scelte, allora saprò indirizzare anche il mio cuore. Se riesco a fare questo, allora nulla mi scandalizzerà più. Se aldilà del sesso vedo la mia e l’altrui persona non come oggetto di possesso ma come un fratello o una sorella, figli di Dio, amati da Lui, tempio dello Spirito, ecco che nasce in me la forza per superare l’istinitivo ed anche la morale non è più: "non devi far questo o quello", "devi sacrificarti perché c’è un divieto", ma diventa: "gioisco per i doni che ho e che Dio ha fatto al mio fratello e alla mia sorella e liberamente e gioiosamente mi costruisco sui valori che rispettano me stesso e l’uomo".

 

 

SABATO 15 GIUGNO 2002

San Vito; S. Germana Cousin

Parola di Dio: 1Re 19,19-21; Sal. 15; Mt. 5,33-37

 

"SIA IL VOSTRO PARLARE SI’, SI’; NO, NO; IL PIU’ VIENE DAL MALIGNO". (Mt. 5,37)

Qui tutti, io per primo, abbiamo molto da imparare. Noi siamo tutti dei grandi parolai e chiacchieroni. Spesso pensiamo che con le nostre parole possiamo convincere o addirittura ‘convertire’. E non ci rendiamo invece conto che la semplicità, la sincerità e la testimonianza dei fatti parlano certamente più di tante chiacchiere o di tanti salotti religiosi, sfoggio di presunte culture, che lasciano indifferenti e creano ancora maggiori divisioni tra credenti. Non lo avete notato che quelli che parlano di più sono spesso coloro che hanno meno cose da trasmettere? Ricordo di essere stato una volta per una settimana in un monastero. Oh, non in uno di quei monasteri asettici, dove frati tutti lindi sembrano levitare e dove liturgie perfette qualche volta aiutano la preghiera e altre volte la vivisezionano fino a farla diventare ipocrita e formale. Il monastero dove sono stato io era un piccolo monastero di frati francescani. Ci si alzava abbastanza presto, la mattina, si pregava, si faceva una buona e grezza colazione e poi: "Se vuoi fermarti a meditare, fa pure. Ma se vuoi venire a darci una mano nei campi o nel giardino è meglio". Dopo aver combinato guai nel giardino per due giorni, decisi di andare con un vecchio frate, che era stato partigiano ai tempi della guerra, a tagliar legna. Non credo che quest’uomo mi abbia mai detto una parola di religione, di fede o di teologia anzi, taceva e sorrideva quando io accennavo qualche parolona grossa, ma lo vedevo lavorare con gioia, fermarsi ogni tanto a parlare in dialetto con i contadini che incontrava, non spaventarsi davanti ai moccoli che qualche volta sentiva dire, essere sempre disposto a dare una mano e ogni tanto fermarsi, togliersi il berrettaccio che aveva in testa, asciugarsi il sudore, alzare gli occhi al cielo e riprendere il suo lavoro molto umile… la predica era belle e fatta!

 

 

DOMENICA 16 GIUGNO 2002

11° DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Ss. Quirico e Giulitta; S. Aureliano; S. Maria Teresa Scherer

Parola di Dio: Es. 19,2-6; Sal. 99; Rom. 5,6-11; Mt. 9,36-10,8

 

1^ Lettura (Es 19, 2-6)

Dal libro dell'Esodo.

In quei giorni, gli Israeliti arrivarono al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: "Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa ".

 

2^ Lettura (Rm 5, 6-11)

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani.

Fratelli, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall'ira per mezzo di lui. Se infatti, quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione.

 

Vangelo (Mt 9, 36 - 10, 8)

Dal vangelo secondo Matteo.

In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!". Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità. I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda l'Iscariota, che poi lo tradì. Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: "Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele. E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date".

 

RIFLESSIONE

 

Tutto parte dalla compassione. Nella prima lettura è la compassione di Dio che solleva il suo popolo su ali di aquila per farlo diventare un popolo santo e sacerdotale. Nel Vangelo è ancora la compassione che Gesù prova nei confronti di Israele visto come popolo sbandato senza pastori veri che lo guidino alla santità cui è chiamato, che spinge Gesù a mandare i dodici in missione. Ma, attenzione! Il termine compassione può essere ambiguo; noi spesso riduciamo la compassione ad un sentimento di pena che proviamo nei confronti di qualcuno: dico "Poveretto" ad un malato, mi dispiace per la sofferenza di una vedova, provo un sentimento di pena nel vedere un bambino affamato. Per Gesù la compassione è soprattutto un servizio da compiere. Non è solo un vedere, non è neppure solo un provare pena "per", ma è "andare verso", è cercare di fare di tutto per cambiare la situazione. La seconda lettura ci ha ricordato chiaramente questo atteggiamento di Gesù nei nostri confronti: Lui ha visto la nostra povertà, il nostro peccato, Lui sa che da soli non potevamo salvarci e allora come dice la lettera ai Romani: "Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito". Noi spesso, parlando di Chiesa, vediamo solo le pecore buone, quelle che formano quel tipo di gregge che risponde più alle caratteristiche della religione che non a quelle del popolo di Dio intero. Gesù non vede solo le "pecore buone", vede le folle, cioè il suo cuore è per tutti gli uomini e se anche in questa prima missione manderà gli apostoli solo al popolo di Israele, con la discesa dello Spirito santo essi comprenderanno che il Regno dei cieli è per tutti, che il sangue di Cristo è stato versato per tutti gli uomini, che la Chiesa non può darsi dei confini perché è la casa di ogni uomo. Gesù vede il popolo di Israele, il popolo della elezione, sbandato senza guide sicure e buone. Eppure Israele al tempo di Gesù aveva i suoi sacerdoti, gli scribi, i farisei. Ma Gesù, e lo dirà chiaro nella sua predicazione, trova dei pastori mestieranti, delle guide troppo legate all’ortodossia senza attenzione al gregge, trova dei pastori che vivono del gregge ma che non sono buoni pastori, disposti a dare la propria vite per le pecore. E qui possiamo incominciare a fare alcune riflessioni che ci riguardano da vicino. Prima di tutto, abbiamo coscienza di essere popolo chiamato alla santità per essere insieme popolo sacerdotale? La santità non è un dono speciale riservato a qualcuno, santi e beati non sono solo quei pochi o tanti che il papa definisce tali: io sono chiamato a far risplendere in me la santità di Dio, a manifestare la sua bontà verso tutti, a testimoniare il suo perdono e la sua volontà di ripartire sempre con noi. Io non sono chiamato solo a pregare perché il padre mandi a tutti il pane quotidiano, ma sono chiamato a condividere i miei pani con gli altri. Se tutti noi avessimo più chiaro di essere chiamati alla santità, scopriremo anche meglio il nostro ruolo di popolo sacerdotale e, senza nulla togliere al servizio ministeriale dei sacerdoti capiremmo sempre di più che i nostri gesti di fede, di preghiera, di servizio, non sono solo gesti individuali ma sono vocazione per ciascuno di noi e la Chiesa, specialmente quella gerarchica, comprenderebbe allora che non è tanto importante la separazione netta tra sacerdote e popolo, ma che ogni vocazione, anche laicale ha una dimensione sacerdotale e che ogni dono, sia ministeriale che laicale, fanno parte in egual dignità del ruolo sacerdotale di tutto il popolo di Dio. E allora vedete anche come cambia il significato del seguito della frase di Gesù dove Egli dice: "Pregate il padrone della messa perché Egli mandi operai nella sua messe". Questa frase, molti di noi, e specialmente certi procacciatori di vocazioni sacerdotali o religiose, l’abbiamo unicamente tradotta come: "Preghiamo il Signore che ci mandi tanti sacerdoti". Ma non credo che questo sia il senso con cui Gesù l’ha detta infatti, se egli manda in missione i dodici (che sono simbolo delle dodici tribù di Israele), essi sono pur sempre soltanto dodici, quindi Gesù non è tanto preoccupato dell’esiguità del numero, come non è neanche troppo preoccupato a fare distinzioni tra chi sia sacerdote e chi no, l’importante è che essi vadano e portino in parole ed opere un messaggio di gioia e di liberazione. Infatti i compiti che Gesù affida loro sono: 1) "Predicare che il Regno dei cieli è vicino ". 2) Dimostrare queste parole guarendo i malati e combattendo e vincendo tutte le forme del male. Tutto questo da compiersi in modo gioioso e completamente gratuito. Proviamo anche qui a tradurre in termini concreti per i nostri giorni. Se abbiamo capito che questo discorso non è solo per i preti ma per ogni credente in Cristo, riscopriamo che la nostra fede non è mai un affare privato, ma che ogni cosa che ci è data ci è data anche in favore degli altri; scopriamo che è essenza della Chiesa la missionarietà; scopriamo che i modi di manifestare la missionarietà non solo legati a formule o a persone determinate, ma sono propri di tutti e si manifestano in modi diversi tra loro. Scopriamo anche che siamo mandati a portare un annuncio molto semplice e concreto. Non si tratta di arrivare alle persone con le formule di una religione a cui convertire altri, ma con l’annuncio di una buona notizia che ci ha cambiati e che può cambiare gli altri. La gente per cui Gesù sente compassione non ha bisogno (almeno in un primo momento) di vedersi piombare addosso dei catechismi di 800 pagine, non ha bisogno di vedere la fede come un complesso di norme morali o di osservanze religiose che spesso soffocano (esse potranno essere poi un gioiosa conseguenza di un atto di fede), ha bisogno di incontrare un Gesù liberatore vivo. Scriveva il Card. Giacomo Biffi che, quando insegnava a Milano all’istituto per la Pastorale, aveva tenuto una lezione sulla risurrezione di Cristo; finita la lezione, una signora si avvicina e fa: "Ma lei vuole proprio dire che Gesù è vivo?". "Sì, signora; che il suo cuore batte proprio come il suo e il mio". "Ma allora bisogna proprio che vada a casa a dirlo a mio marito". "Brava signora, provi ad andarlo a dire a suo marito". il giorno dopo quella catechista tornò da mons. Biffi informandolo che aveva portato l’annuncio (come diceva) al marito, e questi le aveva risposto che sicuramente aveva capito male. La signora ottenne la registrazione della lezione e la fece sentire a suo marito. E quello, alla fine, crollò: "Ma se è così, se Gesù è vivo, cambia tutto". Purtroppo tanti nostri sforzi di Chiesa sono per portare le strutture di una religione che sempre più appare meno attraente e ammuffita e ci dimentichiamo di portare la novità di Cristo e di dimostrare la nostra fede e convinzione in Lui con opere di liberazione e di lotta contro ogni forma di male. Qualcuno potrà dire: "Al tempo degli apostoli era più facile: essi operavano miracoli, noi non abbiamo più questo dono". Non è vero: non sono i segni straordinari quelli più importanti per dimostrare che Cristo è vivo: da una malattia si può anche guarire miracolosamente, ma nulla toglie che ci si possa di nuovo ammalare, i segni importanti sono quelli autentici, quelli che fanno capire che per noi Gesù, non solo è davvero vivo, ma è l’unico scopo e senso della nostra vita.

 

 

LUNEDI’ 17 GIUGNO 2002

Sant’ Imerio; Santi Nicandro e Marciano; S. Adolfo

Parola di Dio: 1Re 21,1-16; Sal. 5; Mt. 5,38-42

 

"MA IO VI DICO DI NON OPPORVI AL MALVAGIO" . (Mt. 5,39)

Questo discorso della montagna anche se preso a piccole dosi giornaliere è duro da mandare giù. Gesù ci manda sempre in crisi perché spesso il nostro "buon senso" non corrisponde al suo. Noi spesso chiamiamo giustizia ciò che è vendetta, e perlomeno abbiamo sempre la scusa pronta: "se continui a perdonare, se offri sempre l’altra guancia, alla fine gli schiaffoni sono tutti tuoi e l’ingiustizia ne guadagna". Noi sappiamo benissimo che violenza chiama violenza, ma spesso giustifichiamo certe violenze come legittima difesa, come lotta contro il male, come ricerca di giustizia. E quindi, nel nome di vere o presunte giustizie creiamo altre situazioni in cui persone subiscono altre violenze. Pensiamo alla logica delle guerre, anche e soprattutto quelle contemporanee, ammantate di titoli di ricerca di giustizia, di sconfitta di altre cose che certamente buone non sono: per difendere una verità, un territorio, delle persone oppresse si fanno delle guerre "giuste?!" nelle quali molte persone ‘giuste o ingiuste" subiscono violenze. Pensiamo a certe divisioni presenti nelle nostre famiglie dovute a motivi di "giustizia" che hanno creato lotte, incomprensioni che durano anni, pensiamo anche, nella vita della Chiesa, quando per garantire l’ortodossia della fede si uccidono o si fanno tacere le persone scomode che non la pensano come noi… Gesù, come si è comportato in frangenti simili? Ha sempre detto la verità, è stato anche deciso nel difendere la casa di suo Padre dai venditori o nel mettere in evidenza la piaga dell’ipocrisia dei religiosi, ma ha sempre richiamato ai valori che possono liberare, ma non ha mai imposto nulla a nessuno con la violenza. Quando, durante la passione, viene preso a schiaffi, Gesù non risponde facendo seccare la mano a chi lo ha colpito, ma si rivolge a quella persona cercando di farla ragionare: "Se ho sbagliato, dimostramelo, se no, perché mi colpisci?". Non opporsi al malvagio non significa lasciare che egli faccia quello che vuole ma non significa neanche ricorrere alla violenza personale, mettendoci noi al posto di Dio e creando altre ulteriori violenze. Pensiamo a livello personale quando invochiamo: "Giustizia" e in effetti facciamo "vendetta", pensiamoci a livello di comunità cristiane quando le intransigenze non ci permettono più di vedere i fratelli, pensiamoci anche a livello sociale e politico prima di appoggiare coloro che mascherano con motivi di presunta ricerca di giustizia quelli che sono solo i propri interessi economici.

 

 

MARTEDI’ 18 GIUGNO 2002

San Gregorio Barbarigo; San Calogero

Parola di Dio: 1Re 21,17-29; Sal. 50; Mt. 5,43-48

 

"AVETE INTESO CHE FU DETTO: AMERAI IL TUO PROSSIMO E ODIERAI IL TUO NEMICO; MA IO VI DICO… ". (Mt. 5, 43-44)

Il brano che abbiamo letto oggi è un crescendo: prima Gesù ci dice di non odiare, poi di amare, poi di amare i propri nemici, poi di rifarci nel nostro agire a quello di Dio "che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi sui giusti e sugli ingiusti", e alla fine arriva il compito più arduo: quello di "essere perfetti come il Padre nostro Celeste" Ammiro coloro che sono riusciti a fare tutto questo percorso, io purtroppo, spesso mi trovo ancora al primo passo: quello di cercare di non odiare, di non portare rancore. Qualcosa l’ho capito: l’odio è una forma di pazzia, è come un chiodo fisso che perfora il cuore dell’uomo, è come un tarlo che prima o poi distrugge e divora tutto, indebolisce e fa crollare, è come un acido che prima o poi corrode ogni forma di bontà e ogni sentimento delicato. E’ qualcosa che fa perdere la pace, è un qualcosa che prima o poi ti fa ammalare anche fisicamente, è un demone che non ti permette di respirare. Ho anche capito (anche se poi il metterlo in pratica è dura fatica quotidiana) che quando riesco a gettarmi l’odio alle spalle, ritrovo la possibilità di sorridere, riesco nuovamente a guardare in faccia le persone e ad essere sereno con loro, disintossico il mio sangue e ne guadagna molto il mio fegato. Se anche tu scopri che non riesci ancora ad essere "perfetto come il Padre", se scopri che non sempre riesci ad "amare il tuo nemico", comincia la tua lotta contro l’odio e, ti assicuro, questo primo passo, ti aprirà il cuore e, perfino due tipi come io e te, riusciremo a voler più bene a tutti, anche a quelli che ci sono più ostici.

 

 

MERCOLEDI’ 19 GIUGNO 2002

San Romualdo; S. Giuliana F; Santi Protasio e Gervasio

Parola di Dio: 2Re 1.6-14; Sal. 30; Mt. 6,1-6.16-18

 

"GUARDATEVI DAL PRATICARE LE VOSTRE OPERE BUONE DAVANTI AGLI UOMINI PER ESSERE DA LORO AMMIRATI". (Mt. 6,1)

E’ proprio sbagliato il ricercare l’ammirazione degli uomini? In sé non credo. E’ un motivo naturale di autodifesa, di manifestazione di se stessi, di bisogno emotivo di essere amati. Quello che è sbagliato è utilizzare il bene per secondi fini, è mistificare il bene fatto per ottenere qualcosa per noi. Ad esempio, il dare testimonianza della propria fede con un atteggiamento coerente, senza nascondersi, non solo è un bene ma un dovere, una necessità della nostra adesione a Cristo, ma il farsi veder buoni per ottenere, ad esempio, un posto di rilievo nella comunità, per cercare magari l’elogio pubblico, significa svilire la propria testimonianza e significa ridurre la propria fede a merce di commercio per ottenere onori e favori. Ricordo ad esempio una signora che in chiesa non veniva. Era però presente una sera ad una messa di suffragio per amici defunti. Essendo quella sera a corto di lettori le chiesi se se la sentiva di leggere una lettura della Parola di Dio. Lo fece e da quella sera, per un lungo periodo la prima lettura diventò suo appannaggio esclusivo. "Bene, - dicevo tra me nei primi tempi – abbiamo recuperato una persona alla Messa e per di più riesce, anche se a modo suo, a fare un servizio". Ma il giorno in cui, credendo che ormai un certo cammino l’avesse maturata, le dissi che leggere la Bibbia in pubblico era diverso che leggere un romanzo in privato e che era giusto alternarsi in questo servizio, se ne andò e non la vidi più. Ma quanti modi abbiamo per essere ipocriti religiosi. Dal vescovo o dal prete che vuol essere presente a tutte le manifestazioni, ma ci va per farsi vedere e poi non ascolta magari le istanze concrete che vengono portate o le persone che lo interpellano, fino a noi quando, rivestendoci di bontà, chiediamo agli altri di usare misericordia, di perdonare mentre nel nostro cuore siamo noi i primi a giudicare e a condannare. E pensare che non c’è nulla di più assurdo che l’ipocrisia religiosa nella quale abbiamo la pretesa di ingannare nientemeno Dio che conosce a fondo i nostri cuori!

 

 

GIOVEDI’ 20 GIUGNO 2002

Beata Vergine Maria Consolatrice; San Silverio

Parola di Dio: Sir. 48,1-14; Sal. 96; Mt. 6,7-15

 

"VOI DUNQUE PREGATE COSI’: PADRE NOSTRO…". (Mt 6,9)

Tante volte commentando il padre Nostro ci siamo detti che questa non è soltanto una bellissima formula di preghiera, abitualmente usata da Gesù e che quindi esprime i suoi sentimenti e atteggiamenti, ma anche una vera propria scuola di preghiera. Provo brevemente ad accennare ad alcuni insegnamenti che essa ci offre sul modo di pregare. Nella preghiera deve esserci sempre un centro verso cui tendere. Noi spesso, moltiplicando nella preghiera le nostre parole, corriamo il rischio di mettere noi in questo centro o di far dipendere la preghiera dalle parole che diciamo o dai sentimenti che esprimiamo. Gesù, nella prima parola ci fa capire quale deve essere il centro della preghiera a cui convergere poi anche noi stessi, i nostri sentimenti, la nostra storia. Il centro è il Padre. Non un Dio asettico, ma il Padre, il Dio che mi ama da Padre, il Dio che è Padre di Gesù, il Dio che, essendo Padre di tutti, ci fa fratelli. E noi come figli possiamo rivolgerci con fiducia a Lui. Nelle nostre preghiere echeggia più che sovente il pronome personale "Io": "Io ho bisogno", "Io ti offro", "Io ti chiedo"… Nel Padre nostro l’ "Io" è sostituito dal "Noi". Non che l’individualità debba sparire, non che dobbiamo essere solamente intruppati come in un gregge belante. Siamo però dei figli che pregano insieme. La forza della nostra preghiera sta proprio nella comune lode e nella comune richiesta. Le prime aspirazioni e richieste di questa preghiera poi, non sono le necessità immediate, ma diventano le stesse aspirazioni di Dio: che il nome di Dio sia riconosciuto e amato da tutti, che il Regno di amore, di giustizia, di verità che Gesù ha instaurato nel suo sangue venga, si diffonda, raggiunga tutti gli uomini nostri fratelli e porti loro la salvezza e la gioia, che l’amore che Dio ha per noi, la sua volontà, possa compiersi per tutti. Nella seconda parte chiediamo anche le cose concrete. In quel pane quotidiano sono rappresentate tutte le nostre richieste, le necessità mie e di tutti i fratelli. Ma questa preghiera mi coinvolge. Mentre chiediamo dobbiamo anche renderci disponibili: chiediamo il pane delle necessità quotidiane, ma nello stesso tempo ci rendiamo disponibili a spezzare il nostro pane e noi stessi con i fratelli; chiediamo i doni al Signore ma ci rendiamo disponibili ad essere il mezzo attraverso cui Lui fa giungere questi doni agli altri; chiediamo il perdono di cui sempre abbiamo bisogno, ma il pensare alla misericordia di Dio deve per forza farci diventare dispensatori di questo perdono nei confronti di chi ci ha offeso; chiediamo che il Signore ci aiuti nelle prove e ci liberi da ogni male, ma ci rendiamo disponibili a combattere la tentazione e il male in ogni modo si presenti a noi. Per riassumere ulteriormente: il Padre Nostro è una preghiera che ci indirizza al Padre, ma che, dopo avercelo fatto incontrare, ci manda a portare i frutti del suo amore ai fratelli.

 

 

VENERDI’ 21 GIUGNO 2002

San Luigi Gonzaga

Parola di Dio: 2Re 11,1-4.9-18.20; Sal. 131; Mt. 6,19-23

 

"DOV’E’ IL TUO TESORO LA E’ IL TUO CUORE". (Mt. 6,21)

Rifacendoci a questa parola di Gesù possiamo chiederci: chi o che cosa è il nostro tesoro? Qual è il valore base che noi mettiamo nella nostra vita? Dove vanno abitualmente i nostri pensieri? Che cos’è che informa la nostra morale e il nostro modo di agire? Dietro i nostri pensieri infatti corre il nostro cuore, perché si ama ciò che si stima. Se il nostro cuore, guidato dalla ragione avesse il suo centro nella fede, allora non ci sarebbero preoccupazioni, ma il guaio è che spesso la ragione, e di conseguenza il cuore, si fanno prendere la mano da altri padroni. Non è forse vero che sovente sono i sentimenti, le passioni, i desideri, le fantasie a prendere possesso di noi e a guidarci? Se noi, in certi momenti non stimiamo altro che il denaro, esso diventa il padrone del nostro cuore, se stimiamo il potere, gli onori, l’appagamento dei nostri desideri umani, saranno questi i nostri padroni. Proviamo a guardarci intorno: quante persone invece che essere chiamate con il loro nome potrebbero essere chiamate: schiavo del denaro, della passione, dei sensi, della pigrizia, della superbia. Ma quante volte, guardando dentro di noi ci troviamo magari legati non da una ma da molte di queste catene. E pensare che se noi ponessimo il nostro cuore su Gesù non solo non diventeremmo schiavi di Lui (Lui si è fatto nostro schiavo per amore), ma avremmo un luogo meraviglioso dove il nostro cuore troverebbe davvero conforto, realizzazione, riposo. Infatti servire Dio è servire la Verità, la Giustizia, l’Amore e questo non solo non è schiavitù ma è soddisfare senza alcun limite, i più profondi ed essenziali desideri di ogni uomo.

 

 

SABATO 22 GIUGNO 2002

San Paolino da Nola; Santi Giovanni Fisher e Tommaso More

Parola di Dio: 2Cr. 24,17-25; Sal. 88; Mt. 6,24-34

 

"CERCATE PRIMA IL REGNO DEI CIELI LA SUA GIUSTIZIA".(Mt. 6, 33)

La mentalità di molti, anche cristiani, è oggi spesso quella di dire: "Facciamo prima l’uomo, e quando avremo formato l’uomo, più agevolmente lo faremo cristiano." Il Vangelo parte da un’altra prospettiva: Gesù è venuto a salvare l’uomo intero. E’ l’uomo nella sua materialità ma anche nella sua spiritualità che è l’oggetto dell’amore di Dio. Non si può formare l’uomo integrale senza formarlo nel soprannaturale, non si possono salvare le realtà terrestri senza tendere alle realtà celesti, non si può costruire una società in questo mondo senza impegnarsi per dare all’uomo delle prospettive che vadano al di là della materialità. E questo proprio per il fatto che ogni forma di educazione umana parte solo e sempre da una conoscenza parziale dell’uomo. Gesù dicendoci che dobbiamo cercare prima il Regno di Dio, non vuol escludere i valori terreni, ma quel "prima" per Lui e per noi vuol dire: "sopra ogni cosa". Gesù non ci esorta all’immobilismo, alla passività per le cose terrene, a una condotta irresponsabile o superficiale nel lavoro. Lui ci dice che se cercheremo Dio e la sua volontà il resto non sarà più una "preoccupazione", ma una "occupazione", una conseguenza, un impegno derivante dal nostro rapporto con Lui.

 

 

DOMENICA 23 GIUGNO 2002

12° DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - San Giuseppe Cafasso; S. Lanfranco

Parola di Dio: Ger. 20,10-13; Sal. 68; Rom. 5,12-15; Mt. 10,26-33

 

1^ Lettura (Ger 20, 10-13)

Dal libro del profeta Geremia.

Io sentivo le insinuazioni di molti: "Terrore all'intorno! Denunciatelo e lo denunceremo". Tutti i miei amici spiavano la mia caduta: "Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta". Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori cadranno e non potranno prevalere; saranno molto confusi perché non riusciranno, la loro vergogna sarà eterna e incancellabile. Signore degli eserciti, che provi il giusto e scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di essi; poiché a te ho affidato la mia causa! Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.

 

2^ Lettura (Rm 5, 12-15)

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani.

Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. Fino alla legge infatti c'era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini.

 

Vangelo (Mt 10, 26-33)

Dal vangelo secondo Matteo.

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: "Non temete gli uomini poiché non v'è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sui tetti.

E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri! Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli".

 

RIFLESSIONE

 

Il brano di vangelo di oggi continua quello di domenica scorsa e fa parte del cosiddetto "discorso missionario" ma non può fare a meno di colpire il ripetuto invito di Gesù a : "Non temere". Il tema della paura era già presente nel brano di Geremia che abbiamo ascoltato: egli è costretto ad annunziare violenza ed oppressione e i suoi nemici lo accusano, diremo oggi, di terrorismo e minacciano contro di lui. Il profeta dunque vive una situazione di paura dentro di sé perché la parola che deve annunziare lo costringe a tristi presagi, e vive anche una situazione di paura fuori di sé perché i nemici si accaniscono contro di lui. Anche il salmo racconta una situazione di paura e angoscia infatti dice: "Per Te sopporto l’insulto e la vergogna mi copre la faccia; sono un estraneo per i miei fratelli, ricadono su di me gli oltraggi di chi insulta…"La paura è un elemento di cui è intrisa tutta la nostra esistenza. Fin da bambini abbiamo paura di tante cose: di essere staccati dalle persone che ci amano, paura del buio, di chi alza la voce, paure di mostri o di spauracchi che ci sono stati messi davanti per tenerci buoni. Un adolescente vive di mille paure tormentose su se stesso, sulle proprie capacità, sul rapporto con l’altro sesso… e l’adulto sperimenta l’angoscia di un mondo difficile, l’angoscia per il proprio futuro, le paure per le malattie e la morte. Nella nostra società moderna e tecnologica poi le paure invece di diminuire sono aumentate e avvertiamo la nostra vulnerabilità in un mondo violento e spesso impazzito. Ma che cos’è la paura? In fondo essa è un bene perché fa parte del nostro istinto di conservazione. Se non avessimo paure saremmo molto più sventati e quindi più a rischio. Essa è la reazione ad una minaccia portata alla nostra vita, la risposta ad un pericolo vero o presunto. Certo, ci possono essere paure giustificate o paure non giustificate o addirittura patologiche, pensate alla claustrofobia o al bisogno nevrotico di voler tenere tutto sotto controllo, in modo che nulla possa avvenire contro quello che abbiamo stabilito. Ci sono poi paure acute determinate da situazioni di pericolo straordinario e ci sono paure croniche che ci portiamo dietro fin dalla nascita o dall’infanzia che diventano parte del nostro essere e alle quali finiamo perfino di affezionarci. La paura diventa veramente un male che consuma e non fa vivere, quando anziché stimolo a reagire e molla all'azione, diventa scusa all'inazione, qualcosa che paralizza, quando si trasforma in ansia. L'ansia è diventata la malattia del secolo ed è una delle cause principali del moltiplicarsi degli infarti. Viviamo nell'ansia, ed è cosi che non viviamo! L’ansietà è la paura irrazionale d'un oggetto sconosciuto. Un temere sempre, di tutto, un attendersi sistematicamente il peggio e vivere sempre con il batticuore. Se il pericolo non esiste, l'ansia lo inventa, se esiste lo ingigantisce. La persona ansiosa soffre sempre i mali due volte: prima nella previsione e poi nella realtà. Gesù ha avuto paura? Gesù aveva ben chiaro l’istinto di conservazione. Quando vogliono gettarlo dalla rupe di Nazaret, scappa; quando sa che i Giudei lo cercano per ucciderlo, evita di andare in Giudea, ma più forte in Lui è il desiderio di fare la volontà di Dio. Gesù prova anche la paura acuta, nell’orto degli ulivi, questa paura genera addirittura in Lui il fenomeno spiegato dalla medicina della sudorazione di sangue. Però anche in questo caso Gesù supera la paura fidandosi di Dio. Gesù ha esentato gli apostoli dalla paura? Basta sfogliare il Vangelo che senza ritegno ce li presenta a volte timorosi, a volte terrorizzati (pensate alla tempesta sul lago o quando scambiano Gesù per un fantasma) a volte disposti anche a tradire per paura, pronti a scappare per non fare la fine di Gesù. E anche dopo la discesa dello Spirito Santo, quando troveranno la forza di essere testimoni coraggiosi, di essere addirittura "contenti di subire oltraggio nel nome di Gesù", essi avranno ancora momenti di paura e di fuga. Gesù ci dà delle motivazioni per cercare di superare le paure, i timori, le ansie. Egli ci ricorda: "Il Padre vostro celeste sa di che cosa avete bisogno. Non abbiate dunque paura, voi valete più di molti passeri" La vera radice di tutte le paure è di ritrovarci soli. Essa continua la paura del bambino di essere abbandonato. E Gesù ci assicura proprio di questo: che non saremo abbandonati. «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto», dice il salmo 27, anche se tutti ci abbandonassero, Lui no! 

Il suo amore è più forte di tutto. San Paolo, rammentando le varie prove della sua vita ("tribolazione, angoscia, persecuzione, fame nudità, pericolo, spada"), ci ricorderà che "In tutte queste cose noi possiamo stravincere grazie a Colui che ci ha amati". Noi siamo invitati a fare lo stesso. A guardare la nostra vita, presente e passata; a portare a galla le paure che vi si annidano: le tristezze, le minacce, i complessi, chissà, quel tale difetto fisico o morale che ingigantiamo a forza di pensarci e che ci impedisce di accettarci e avere fiducia in noi stessi; quindi a esporre tutto ciò alla luce del pensiero che Dio ci ama, cosi come siamo. Le paure, sono come i fantasmi: hanno bisogno del buio per agire. Ci sopraffanno se le manteniamo a livello inconscio. Spesso basta portarle alla luce, dar loro un nome, parlarne, perché si dissolvano o si ridimensionino. 

Un bel racconto di Bruno FERRERO può aiutarci in questa riflessione:

C’era una volta un passerotto beige e marrone che viveva la sua esistenza come una successione di ansie e di punti interrogativi. Era ancora nell’uovo e si tormentava: "Riuscirò mai a rompere questo guscio così duro? Non cascherò dal nido? I miei genitori provvederanno a nutrirmi?". Fugò questi timori, ma altri lo assalirono, mentre tremante sul ramo doveva spiccare il primo volo: "Le mie ali mi reggeranno? Mi spiaccicherò al suolo…Chi mi riporterà quassù?" Naturalmente imparò a volare, ma cominciò a pigolare: "Troverò una compagna? Potrò costruire un nido?". Anche questo accadde, ma il passerotto si angosciava: "Le uova saranno protette? Potrebbe cadere un fulmine sull’albero e incenerire tutta la mia famiglia... E se verrà il falco e divorerà i miei piccoli? Riuscirò a nutrirli?". Quando i piccoli si dimostrarono belli, sani e vispi e cominciarono a svolazzare qua e là, il passerotto si lagnava: "Troveranno cibo a sufficienza? Sfuggiranno al gatto e agli altri predatori?". Poi, un giorno, sotto l’albero si fermò il Maestro. Additò il passerotto ai discepoli e disse: "Guardate gli uccelli del cielo: essi non seminano, non mietono e non mettono il raccolto nei granai... eppure il Padre vostro che è in cielo li nutre!". Il passerotto beige e marrone improvvisamente si accorse che aveva avuto tutto... E non se n’era accorto. Certo, fidarci della Provvidenza non significa essere automaticamente liberati da ogni male, ma significa fidarsi del fatto che anche nelle prove Dio mi ama, significa trovare in lui il coraggio. E voglio allora terminare questa piccola e parziale riflessione sulla paura e sui modi indicati da Gesù per vincerla rifacendomi ad un racconto molto bello di Bernanos: "I dialoghi delle carmelitane. Egli Narra la storia di sedici carmelitane cadute al tempo della rivoluzione francese, il 4 agosto 1790 e dichiarate beate da Pio X. Tra loro, nel dramma, c’è una suora giovanissima, di famiglia nobile. La madre l'ha data alla luce in seguito a un terribile spavento e lei è cresciuta letteralmente impastata di paura. Facendosi suora ha voluto, di proposito, prendere il nome di Sr. Bianca dell'Agonia di Gesù. Quando le minacce e le perquisizioni dei rivoluzionari si fanno sempre più gravi, prima che vengano ad arrestare le suore, terrorizzata, ella frigge e si nasconde. Le consorelle sono processate, condannate e condotte alla ghigliottina. Cantano in coro il Veni creator, l'inno dello Spirito Santo. A mano a mano che ognuna sale sul palco e cade, il coro si fa più flebile. Solo ormai due voci, una sola, poi, giunti alla penultima strofa, silenzio. Quand'ecco, nel silenzio generale, levarsi in mezzo alla folla una voce nitida, risoluta, quasi infantile. E suor Bianca che ha scoperto in sé un nuovo coraggio, si fa avanti, sale sul palco cantando l'ultima strofa e presenta anche lei il capo alla ghigliottina. La paura ha reso ancora più puro il suo martirio.

 

 

LUNEDI’ 24 GIUGNO 2002

NATIVITA’ DI SAN GIOVANNI BATTISTA

Parola di Dio: Is. 49,1-6; Sal. 138; Atti 13,22-26; Lc. 1,57-66.80

 

IN QUEI GIORNI, PER ELISABETTA, SI COMPI’ IL TEMPO DEL PARTO E DIEDE ALLA LUCE UN FIGLIO" . (Lc. 1,57)

Chi di noi non si è intenerito davanti all’immagine di un bambino piccolo, appena nato. Tutte le volte che sono chiamato a battezzare questi "cuccioli d’uomo", li prendo tra le braccia e penso a che cosa riserverà loro la vita, a come essi possono essere speranza per un mondo nuovo, penso all’amore di Dio che non si è ancora stancato dell’uomo, mi rispecchio in quegli occhi limpidi, non ancora avvelenati dalle cattiverie e riesco a vedere l’immagine di Dio riflessa in loro. Ogni qual volta nasce un bambino il mondo si trasforma. Tutti si dedicano a questo piccolo essere e la gioia che irradia da lui vince quel distacco che gli uomini inalberano per tenersi lontani a vicenda. Si crea una sorta di fratellanza di tutti verso tutti. La nascita di Giovanni Battista ci dice tutte queste, ci parla di speranza come ogni nascita, ma ancora di più. Dio è fedele alle sue promesse: Dio non si tira indietro neanche davanti ai tanti ‘no’ degli uomini. Da due anziani nasce un figlio ed è come se il vecchio tronco sfatto dell’umanità, generasse un pollone nuovo, che apre la strada a quell’altra nascita che ricordiamo nel Natale e che proprio grazie al nostro Battesimo possiamo sperimentare e speriamo di rivivere. La nascita di Giovanni prelude la nascita di Gesù e la nascita di Gesù prelude alla nostra rinascita. Dio sta preparando il mondo nuovo, sta a noi crederci, lasciare l’uomo vecchio e rigenerare noi e questa vecchia, incartapecorita umanità.

 

 

MARTEDI’ 25 GIUGNO 2002

San Guglielmo di Montevergine; San Massimo di Torino

Parola di Dio: 2Re 19,9-11; Sal. 47; Mt. 7,6.12-14

 

"NON DATE LE COSE SANTE AI CANI E NON GETTATE LE PERLE AI PORCI". (Mt. 7,6)

L’insegnamento di Gesù che meditiamo oggi mi fa fare due tipi di riflessione.

La prima è questa: se io credo che il dono della Parola e dei Sacramenti di Gesù sono un dono importante, allora li apprezzo e desidero anche che i miei fratelli ne possano godere, ma nello stesso tempo rispetto questi doni e li offro e non li impongo. Mi fanno paura le persone che a tutti i costi "vogliono convertire l’altro": il più delle volte esse presentano se stesse e il proprio integralismo religioso piuttosto che Gesù e il suo messaggio, e anche noi preti, quando vogliamo a tutti i costi sacramentalizzare le persone, in fondo, non stiamo svilendo proprio i sacramenti? Un esempio: in Italia ancora oggi più del 90% delle persone sono battezzate, ma quante conoscono il Battesimo e quante cercano di viverlo?

Qui si inserisce la seconda riflessione: E noi credenti abbiamo rispetto e riconoscenza per i doni ricevuti?

Oggi, ad esempio, molti credenti entrano in chiesa come si entrerebbe in una discoteca, non si saluta neppure l’Eucarestia con una genuflessione, si va a cercare il posto vicino all’amico per poter con lui commentare meglio quanto succede, ci si mette in fila per la comunione, si allunga una mano più o meno pulita, si viaggia magari per mezza chiesa prima di ricordarsi che "quel Pane" va mangiato... Oh, ricordiamoci, non è il formalismo esteriore che dice la qualità della fede e della preghiera, ma certi gesti, certe attenzioni non dovrebbero aiutare noi e gli altri a comprendere e a vivere più a fondo i misteri celebrati? E poi c’è un'altra forma di rispetto che è ancora più importante di questa: è vivere ciò che abbiamo celebrato e ricevuto. Se l’andare all’Eucarestia non migliora la nostra vita o, per lo meno, non ci mette in tensione per farlo, se ci lascia indifferenti dal punto di vista pratico, non sarà forse il momento di chiederci se è più giusto continuare così, o fermarci, o recuperare il senso di ciò che celebriamo?

 

 

MERCOLEDI’ 26 GIUGNO 2002

Santi Giovanni e Paolo; San Vigilio;

Parola di Dio: 2Re 22, 8-13; 23,1-3; Sal. 118; Mt. 7,15,20

 

"GUARDATEVI DAI FALSI PROFETI CHE VENGONO A VOI IN VESTI DI PECORE, MA DENTRO SON LUPI RAPACI: DAI LORO FRUTTI LI RICONOSCERETE". (Mt. 7,15)

Non dobbiamo stupirci, spaventarci, scandalizzarci. Gesù ce lo ha detto: anche in mezzo alle comunità dei fedeli ci sono "falsi profeti". Non ci spaventi dunque lo scoprire che anche in mezzo alle gerarchie della Chiesa si possono trovare "lupi rapaci", che certi sedicenti cristiani impegnati che soavemente parlano di Vangelo, che dicono di voler costruire insieme la comunità, sono poi impegnati unicamente a ricercare il proprio prestigio, il proprio potere e a distruggere tutto quello che magari altri con fatica hanno cercato di mettere insieme. Ma se non dobbiamo stupirci di questo fatto, dobbiamo però essere molto attenti a questi personaggi per non cadere nelle loro grinfie e dare così adito al male che essi generano di crescere ancora maggiormente. Gesù dice: "li riconoscerete dai loro frutti" e tutta la sapienza del Vangelo ci insegna a riconoscere i frutti buoni da quelli cattivi. Alcuni esempi: qualunque frutto anche apparentemente buono se é coperto di ipocrisia diventa velenoso. Attenti dunque a quei personaggi che si vogliono mostrare migliori degli altri, che dicono di avere la verità e la impongono, che giudicano e condannano ma trovano poi tutte le scappatoie per se stessi. Attenti a quelli che dicono: "Partite!", ma si prendono ben guardia di muovere un passo. Attenti anche a quelle false umiltà pelose per cui ci viene detto: "Io non conto nulla" perché noi possiamo dir loro: "Non è vero!". Attenti a coloro che si fanno sempre passare per vittime di tutti i mali degli altri. Attenti a coloro che giudicano senza remissione, ma attenti anche a quelli che invitano gli altri ad aver misericordia solo per nascondere le proprie magagne. Attenti a quelli che lisciano troppo il potere solo perché lo vogliono per se stessi. Attenti a coloro che dicono di essere sempre poveri: vogliono solo carpire soldi. Attenti a lasciarci ingannare da due parole dolci che sono solo l’antipasto del veleno che ci viene propinato…Ci siamo detti di stare attenti davanti ai frutti velenosi dei falsi profeti, ma attenti! Lo stesso discorso vale anche per noi!

 

 

GIOVEDI’ 27 GIUGNO 2002

San Cirillo d’Alessandria

Parola di Dio: 2Re 24,8-17; Sal. 78; Mt. 7,21-29

 

"NON CHIUNQUE DICE: SIGNORE, SIGNORE…". (Mt. 7,21)

Siccome qualcuno mi accusa di essere troppo critico, quando commento questi brani di Vangelo, vi propongo oggi un commento di L. Tognon, datato (1995), dalla Rivista Spirito e Vita.

 

RELIGIOSI DI SERIE A E DI SERIE B

Lo sapete bene che, in passato, nei vari conventi esistevano diverse categorie di religiosi o religiose. C’erano i colti, coloro che avevano potuto o saputo affermarsi con un buon bagaglio di conoscenze e quindi di diplomi. Erano quelli e quelle di serie A. C’erano quindi quelli della serie inferiore che, oltre ad avere addirittura una veste non uguale agli altri, erano trattati in modo decisamente diverso quando non si doveva dire ingiusto. I tempi sono cambiati e, in qualche modo, possiamo dire positivamente. Ma temo che la sostanza resti, troppo spesso, la stessa. Cambiano i nomi, cambiano le regole, cambiano i suonatori, ma la musica rimane la stessa. Ci sono gli intelligenti, quelli cioè che sanno farsi strada e ottenere quanto desiderano, ed esistono gli incolti e timidi che, tristemente, arrivano sempre un po’ dopo con i desideri che finiscono per rimanere tali, quando poi non sono mortificati del tutto. Mi viene in mente la scenetta riportata dal Vangelo allorquando Gesù, davanti ad un povero paralitico alla Piscina di Siloe, si sente dire che da molti anni aspettava che qualcuno lo immergesse nell’acqua nel momento opportuno, ma che non era mai riuscito, perché c’era stato sempre il raccomandato che arrivava prima di lui. Gesù si mette dalla sua parte e non è per niente senza significato. Quando allora parliamo di uguaglianza, di famiglia, di fraternità, di accoglienza, vediamo che non siano solo parole, perché quelle non fanno bene a nessuno. Anzi hanno la triste possibilità di illudere di essere a posto quando invece la strada da fare è ancora tanta. Un bel canto di Marcello Giombini diceva:

 

"Tante parole per non parlar d’amore, tanta cultura per non saper amare.

Sai tante cose ma non cos’è l’amore; il tuo discorso non m’ha toccato il cuore.

 

Per te l’amore è un gioco di parole; parole nuove per non parlar d’amore.

Sai tante cose, ma non cos’è l’amore; troppa cultura ti ha inaridito il cuore.

 

Tanta cultura per essere più solo e per tradire lo scopo della vita.

È il fallimento dell’intellettuale! O mio Signore, aiutalo ad amare!".

 

Provate ora a sostituire la parola "amore" con "famiglia" o "fraternità" o "comunità" e ne resterete un po’, anzi speriamo tanto, meravigliati.

 

 

VENERDI’ 28 GIUGNO 2002

Sant’Ireneo

Parola di Dio: 2Re 25,1-12; Sal. 136; Mt. 8,1-14

 

"SIGNORE, SE VUOI TU PUOI SANARMI". (Mt. 8,2)

Noi spesso pensiamo che quelle due parolette: "Se vuoi" debbano solo e sempre essere rivolte agli uomini: "Se vuoi, puoi scegliere il bene per la tua vita", "Se vuoi, puoi perdonare", "Se vuoi, puoi vincere"… Ricordo che il grande romanziere americano Steinbeck ha intessuto tutta la trama di un suo libro che raccontava la storia di due fratelli sul "Se vuoi" che Dio dice a Caino: "Il male è accovacciato davanti alla porta di casa tua, ma se vuoi, puoi vincerlo". Ma se è giusto ricordarci del dono e dell’impegno della nostra volontà nel vincere il male e nel costruirci su valori è altrettanto meraviglioso questo "Se vuoi" che il lebbroso rivolge a Gesù. "Se vuoi" significa riconoscere in Colui al quale si fa la richiesta, la possibilità di esaudirla. Cioè: "lo so che a te tutto è possibile. Tu sei Dio. Tu hai dato origine e corso a tutto. Tu puoi modificare anche le leggi della natura perché sei tu che le hai istituite". "Se vuoi" significa anche: "lo ti chiedo perché a me sembra la cosa migliore, ma mi fido di te che sei Padre, che non puoi dare cose cattive ai tuoi figli; mi fido dì te che vedi più lontano delle mie piccole e immediate prospettive; mi abbandono fiducioso alla tua volontà che è meglio della mia". Quel "se vuoi" è un atto di fede, è espressione fiduciosa di richiesta, è abbandono sereno alla volontà di Colui che vuole il nostro vero bene. Anche noi sovente dovremmo con fiducia e speranza pregare così. E dovremmo anche sentire la preghiera che Gesù continua a rivolgerci: "Se vuoi essere sanato, liberato, puoi cominciare ad amare un po’ di più, a perdonare quel tuo fratello, ad essere meno ipocrita, a giudicare meno... lo voglio la tua salvezza, la tua liberazione, ma, anche tu la vuoi davvero?".

 

 

SABATO 29 GIUGNO 2002

SANTI PIETRO E PAOLO

Parola di Dio: At. 12, 1-11; Sal. 33; 2Tim. 4,6-8.17-18; Mt. 16,13-19

 

"TU SEI PIETRO E SU QUESTA PIETRA EDIFICHERO’ LA MIA CHIESA". (Mt. 16,16)

La festa di oggi ci ricorda che noi siamo Chiesa fondata sull’insegnamento degli Apostoli. Con questa celebrazione professiamo la presenza di Cristo tra noi non solo nella Parola e nei sacramenti, ma anche nelle persone che, incarnando la dimensione pastorale di Cristo, a nome suo, guidano la Chiesa… Sento già la voce di qualcuno che mi dice: "Un momento! Non sempre queste persone mi rappresentano davvero il Cristo. Non è stato Gesù stesso a dirci di stare attenti ai cattivi profeti?". Certamente è vero e certamente dobbiamo stare attenti, invocare lo Spirito Santo per discernere il bene e il male, ma dobbiamo anche fare attenzione perché Gesù non ha scelto, per fondare la sua Chiesa, dei personaggi perfetti. Pietro è anche colui che ha rinnegato il Signore e Paolo colui che perseguitava i cristiani. Gesù cambia il nome a Simone ed egli sarà Pietro ma in Lui resteranno tutte le povertà di Simone e tutte le promesse che Gesù ha fatto a Pietro. In Paolo resterà tutta l’umanità, tutta la cultura del suo tempo, ma anche tutti i doni che Gesù gli ha fatto. La nostra attenzione allora sarà quella di discernere il male anche nella gerarchia della Chiesa per prenderne le distanze, ma anche di saper cogliere sempre il bene, e per questo c’è una regola indefettibile: se il servizio ministeriale della Chiesa ci porta a Gesù, ci fa crescere nella fede, ci aiuta a comprendere e vivere meglio i valori del Vangelo, è certamente da Dio e con verità e umiltà possiamo anche accogliere la povertà di chi ce li indica. Se invece scopriamo che ci viene predicato qualcosa che non è Vangelo ma ricerca di potere terreno, abuso di poteri o legami a poteri terreni: questa non è la Chiesa degli apostoli.

 

 

DOMENICA 30 GIUGNO 2002

13° DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - Santi Primi Martiri Chiesa Romana; San Marziale

Parola di Dio: 2Re 4,8-11.14-16; Sal. 88; Rom. 6,3-4.8-11; Mt. 10,37-42

 

1^ Lettura (2 Re 4,8-11.14-16)

Dal secondo libro del Re.

Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c'era una donna facoltosa, che l'invitò con insistenza a tavola. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei. Essa disse al marito: "Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Prepariamogli una piccola camera al piano di sopra, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e una lampada, sì che, venendo da noi, vi si possa ritirare". Recatosi egli un giorno là, si ritirò nella camera e vi si coricò. Eliseo replicò: "Che cosa si può fare per lei?". Il servo disse: "Purtroppo essa non ha figli e suo marito è vecchio". Eliseo disse: "Chiamala!". La chiamò; essa si fermò sulla porta. Allora disse: "L'anno prossimo, in questa stessa stagione, tu terrai in braccio un figlio".

 

2^ Lettura (Rm 6, 3-4. 8-11)

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani.

Fratelli, quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.

 

Vangelo (Mt 10, 37-42)

Dal vangelo secondo Matteo.

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: "Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa ".

 

RIFLESSIONE

 

Per la terza domenica consecutiva il vangelo ci propone una parte di quello che in Matteo è il discorso missionario. Abbiamo già capito che questo discorso non riguarda solo i preti o i missionari, ma riguarda ogni credente in Cristo, quindi sentiamo le parole di Gesù indirizzate a ciascuno di noi. Ma le sue parole di oggi sono di una radicalità quasi insopportabile. Sembra che Gesù ci chieda dei gesti disumani, come quello di amare Dio più dei nostri familiari, come quello di caricarci volontariamente della croce o addirittura di perdere la propria vita: "Chi ama il Padre e la madre più di me, non è degno di me". Come a dire che Lui ci obbliga a scelte costose, perfino laceranti, esige una decisione preferenziale, per cui dobbiamo essere disposti a sacrificare ogni altra realtà. Mentre noi pretenderemmo scegliere, tenendoci però stretto un mucchio di cose. Noi, più che altro, siamo "indecisi a tutto". "Chi non prende la sua croce e mi segue non è degno di me". Noi, invece, tendiamo a considerare la croce come un optional cui rinunciamo volentieri, dato l’impaccio che provoca; o un incidente spiacevole, che facciamo di tutto per scansare. La croce ci sta bene come elemento decorativo, sul petto. Ma ho motivo di ritenere che Gesù non pensasse precisamente a quella collocazione ornamentale, neppure per i vescovi e i cardinali. "Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà". E proprio l’ultima idea che ci passa per la testa. Il perdere non rientra nella nostra contabilità religiosa. Acquistare, accumulare, aggiungere, ecco il nostro linguaggio. Ma l’ipotesi che i conti tornino in perdita, per noi risulta inaccettabile, non la prendiamo neppure in considerazione. Eppure, perché Gesù ci chiede queste cose. Non di certo per il nostro male, non perché goda a vederci soffrire per poi poterci dare un premio di eroismo, non perché la vita sia un qualcosa di brutto: ce l’ha donata Lui!. Gesù ci chiede di metterlo avanti ad ogni cosa perché è Lui che dà senso ad ogni cosa, alla famiglia, alla croce, alla vita. Con lui, infatti, le mie prospettive si allargano e si allungano: non vedo solo più con la prospettiva del tempo, ma con quella dell’eternità, non mi fermo solo all’apparenza della vita, ma riesco a coglierla nel suo senso totale e anche il dolore, la prova, la croce, la testimonianza non sono solo le cose difficili, brutte per ottenere un premio, ma possono diventare fin da ora un atto d’amore. Il secondo grande tema del Vangelo riguarda ancora il nostro modo di rapportarci a Cristo ed è il tema dell’accoglienza. Esso è anticipato, nella prima lettura, da quel semplice e simpatico gesto della donna sunamita che accoglie il profeta Eliseo ogni volta che passa per la sua città, lo rifocilla e gli prepara una stanza per riposarsi. Essa è ricompensata della sua accoglienza con la promessa di avere una discendenza. Quando il tema è ripreso da Gesù nel Vangelo, troviamo ancora l'idea di una ricompensa; anche Gesù promette qualcosa a chi accoglie un profeta, cioè un suo rappresentante. Ma questa ricompensa è spiritualizzata. Che cos'è che promette, in fondo, Gesù a chi accoglie un fratello, specie se piccolo e povero? Promette se stesso: "Chi accoglie voi, accoglie me"; altrove dice: "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" E poi allarga ancora la promessa: "Chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato". Gesù annette, dunque, una grande importanza e una grande promessa a questo gesto umano dell'accoglienza ed è perciò necessario sapere bene cosa significa accogliere un fratello. Ci sono alcuni esempi più comuni di accoglienza che il testo evangelico stesso, soprattutto se confrontato con la prima lettura, mette in luce: accogliere il discepolo che è forestiero o di passaggio, dare un bicchiere d'acqua a chi ha sete. Chi conosce il Vangelo sa quanto questa lista sia lunga: dar da mangiare a chi ha fame, visitare i malati, consolare gli afflitti... Sono le opere di misericordia che costituiscono la manifestazione concreta dell'accoglienza. San Paolo le riassumeva con l'espressione: "Portare i pesi gli uni degli altri" Fare buona accoglienza al fratello significa uscire dal nostro egoismo per interessarci attivamente di lui per dargli un po' del nostro tempo, della nostra solidarietà e stima e, prima ancora, per ascoltarlo con pazienza. Si può uscire rinfrancati da un incontro come questo. Oggi una forma di accoglienza andata smarrita è l'ospitalità. Se non sempre è possibile accogliere in casa nostra il forestiero, almeno bisognerebbe non rifiutare per principio e non evitare chi viene da parti diverse e ha abitudini o colore diverso da noi. Certo, il problema dell'accoglienza e dell'inserimento degli immigrati è un problema grave e complesso che non può risolversi solo con atti di bonomia, ha bisogno di regole, di leggi ma è anche un problema cristiano, oltre che sociale. San Paolo raccomandava ai cristiani: "Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi". Ecco, dunque, il modello della nostra accoglienza nei confronti dei fratelli. Come ci ha accolti Cristo? Ci ha accolti anche se peccatori, recidivi, anche se spesso l'abbiamo offeso e gli abbiamo voltato le spalle, anche se rozzi e tardi a capire, come erano gli stessi apostoli, ci ha accolti gratuitamente; ci ha accolti, nonostante l'immenso dislivello « sociale » che c'è tra noi e lui. Dobbiamo fare anche noi così. Questo nella vita di ogni giorno e a cominciare dalle persone più vicine. Accogliersi, cioè accettarsi reciprocamente, tra persone della stessa famiglia o tra colleghi di lavoro, spesso è più difficile che accogliere ed accettare persone estranee. Con queste abbiamo meno cose da perdonare e da farci perdonare. Ma c'è un momento della nostra vita cristiana in cui l'accoglienza reciproca deve assumere un carattere e un'intensità tutta particolare: il momento in cui ci ritroviamo insieme come comunità, per ascoltare la parola di Dio e spezzare il comune pane eucaristico. Quanto cammino ci resta da fare! Penso al modo con cui Gesù accolse i suoi discepoli per quella prima assemblea eucaristica che si celebrò nel Cenacolo. Si rivolse ai discepoli chiamandoli "figliolini", lavò loro i piedi, volle che la sala che doveva accoglierli fosse pulita e adornata con tappeti e cuscini Perché certe nostre assemblee liturgiche sono così fredde? Con la scusa del rispetto del luogo sacro, non ci si accoglie non ci si saluta, si resta indifferenti al compagno di banco come si farebbe con lo sconosciuto che ha preso con noi l’ascensore, si ha paura di cantare di farsi vedere partecipi. Spesso gli stessi celebranti fanno di tutto per rendersi staccati dal popolo, per non far cadere da parte loro il minimo gesto di partecipazione personale a quello che stanno facendo e dicendo e finita la messa si scappa velocemente perché "abbiamo tanto da fare". lo sono persuaso che se le nostre assemblee liturgiche ci lasciano spesso freddi e apatici, se non producono mutamenti profondi nel nostro spirito, il motivo principale non è perché stiamo distratti o non pensiamo abbastanza a Gesù; sì, è anche questo, ma è soprattutto perché non ci accogliamo davvero gli uni gli altri, non ci apriamo per fare "un cuore solo e un'anima sola"; ognuno resta nel suo guscio. Dobbiamo sforzarci di uscire dall'anonimato e valorizzare i segni di riconoscimento e di accoglienza che la liturgia ci offre, come per esempio il gesto della pace, e inventarne degli altri, se necessario. "Dove sono due o più riuniti nel mio nome – dice Gesù - io sono lì in mezzo a loro": è necessario, dunque, che siamo davvero riuniti "nel suo nome", che ci accogliamo gli uni gli altri come lui ha accolto noi, perché egli sia in mezzo a noi e, con lui, la sua gioia e la sua pace. Proprio durante la Messa è Cristo che ci accoglie così come siamo, poveri e !aceri, nella sua casa, ci ammette alla sua mensa e si appresta a servirci: regalandoci se stesso. Non è proprio partendo di qui che noi dovremmo imparare a volerci bene da veri fratelli?

     
     
 

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