ALMANACCO 1990
"FAVOLE PER PENSARE"
Raccolta a cura di don Franco LOCCI
Favole: Storie per far star buoni i bambini? Giochi di fantasia che allontanano dalla realtà? Poesia inutile o dimensione importante della vita dell’uomo?
L’ANGELO E LA FAVOLA
Degli angeli che calarono a frotte dal più alto dei cieli a cantare il “Gloria” stilla capanna dove nacque Gesù Bambino, uno si perse. Era un angelo distratto, sempre assorto nei suoi pensieri. Fu così che, quando scese sulla terra in quella notte fatale, l’angelo favolista vide, poco discosto da Betlemme, un gruppo di ragazzini che, dopo aver anch’essi fatto visita a Gesù, se ne tornavano a casa. Quale magnifica occasione. Sceso accanto a loro in veste di pellegrino dalla barba bianca, incominciò uno dei suoi racconti. Ed era l’alba quando i bambini furono costretti dalle grida delle mamme a tornare a casa, con la fantasia ed il cuore accesi da decine di meravigliose fiabe che l’anziano pellegrino aveva raccontato loro.
Il sole stava sorgendo e per Gesù iniziava la prima giornata terrestre. L’angelo pellegrino era in ritardo, molto in ritardo. E per di più non ricordava più, assolutamente, come si facesse a ridiventare angelo: una formula? ma quali parole? un pensiero chiave? ma quale?
L’unica soluzione era andare da Gesù, chiedergli scusa e raccontargli tutto. Ma Gesù ora non era che un bimbetto in fasce, un bimbo di donna. E il Bimbo e la Donna, alle parole del pellegrino, non seppero proprio cosa rispondere: il Bimbo perché sorrideva soltanto e non sapeva ancora parlare; la Donna perché non conosceva che il Mistero che portava stretto al petto.
Fu così che l’angelo—pellegrino cominciò il suo girovagare terreno. E tanto gli piacque narrar favole ai bambini di quaggiù che il Signore, quando fu tornato nei Cieli e lo vide attorniato da bambini con gli occhi spalancati e la bocca aperta per la meraviglia, ce lo lasciò. Ancor oggi di tanto in tanto appare. E’ talmente invecchiato che la sua veste umana gli si è logorata completamente. Ma ben lo conoscono le mamme, quando suggerisce loro le più belle favole; ben lo conoscono i poeti, quando sussurra al loro cuore i versi più ricchi di fantasia e di colore; ed anche qualche prete, quando sente nel cuore un certo pizzicorino che lo spinge a dire — finalmente — cose meravigliose. Ma tutti lo conosceremo, se saremo stati buoni, nel momento del nostro volo verso il cielo. Quel momento buio sarà illuminato dalla Favola più bella ch’egli solo sa raccontare così bene perché così bene egli solo la conosce. Ci ricorderemo d’invocarlo, almeno allora?
(Riduzione da un racconto di Piero Gribaudi)
La vera favola non è semplice raccontare, è un lasciarsi prendere, un far sì che i confini tra il racconto e la realtà crollino
RACCONTARE UNA FAVOLA
Si pregò un rabbì, il cui nonno era stato alla scuola di Baalshern, di raccontare una storia. “Una storia’’ egli disse “la si deve raccontare in modo tale che possa essere di aiuto”, e raccontò: “Mio nonno era paralitico. Un giorno gli si chiese di narrare una storia del suo maestro. E allora prese a raccontare come il santo di Baalshem, quando pregava saltellasse e ballasse. Mio nonno si alzò in piedi e raccontò. Ma la storia lo trasportava talmente che doveva anche mostrare come il maestro facesse, saltellando e ballando pure lui. E così, dopo un’ora era guarito. E’ questo il modo di raccontare storie”. (Martin Buber)
LA CASA DALLE FINESTRE D’ORO
C’era una volta un bambino che viveva in una casa sulla cima della collina. Un mattino, nell’uscire di corsa per andare a scuola, si fermò di botto a guardare perché là, su una collina dall’altro lato della valle, vide una casa dalle finestre tutte d’oro lucente che splendeva al sole come un palazzo incantato in un racconto di fate. Da dove era venuta? Come era giunta fin lassù? Chi vi abitava? E che persone fortunate dovevano essere, con quelle meravigliose finestre d’oro invece che di vetro comune! Chissà quali splendidi tesori c’erano in una simile dimora!
Il bambino non ci pensò due volte e si affrettò a raggiungere l’altra collina, lasciandosi alle spalle la strada che conduceva a scuola. Partì dunque, continuando a salire, finché, finalmente, raggiunse la sommità. Avidamente si guardò intorno in cerca della casa che aveva veduto: ma non c’era che una casa come tante altre, e una donna dall’aspetto gentile sulla porta, con accanto una bambina pressa poco della sua stessa età. Affannato e accaldato ma pieno d’impazienza, chiese alla donna dove fosse la casa dalle finestre d’oro. Sorpresa, ella rispose: “Non c e nessuna casa come tu dici su questa collina; anzi, la nostra è l’unica e come vedi le finestre sono di vetro comune . Poi, vedendolo tutto mortificato e deluso, gli disse gentilmente: “Non importa! Entra, vieni a far compagnia alla mia bambina, darò a tutt’e due un bicchiere di limonata e una fetta di torta e potrete giocare in giardino”.
E così i due bambini rimasero insieme finché scese la sera e venne l’ora di tornare a casa. Ed egli raccontò alla bambina la storia della casa incantata, che appariva e spariva, e di certo doveva trattarsi della dimora di qualche fata o re e lui l’avrebbe cercata tutti i giorni, finché non ci fosse riuscito.
La bambina lo ascoltava con occhi sgranati e pieni di comprensione, annuendo di tanto in tanto. Poi si alzò, lo condusse con fare misterioso fino al cancello del giardino. La bambina indicò con la mano e davvero, là sull’altra collina, c’era una casa con meravigliose finestre splendenti d’oro, così abbaglianti che il bambino dovette socchiudere gli occhi per guardare.
“Non è bellissima?” disse la bambina tutta assorta. Ma il bambino, continuando a guardare esclamò: “E’ la mia casa! Ci sono due grandi pini ai lati, e si vede la mamma che sta ritirando il bucato!”.
Poi, mentre entrambi continuavano a guardare con stupore, il sole calò pian piano: ad una ad una le finestre scintillanti d’oro sparirono, e l’imbrunire delineò i contorni della solita casetta che il bambino conosceva tanto bene. La sua mamma doveva cominciare a preoccuparsi non vedendolo arrivare, e bisognava tornare subito a casa. Disse perciò addio alla bambina, promettendo che sarebbe tornato a giocare con lei.
Corse giù per la collina, e risalendo l’altra trovò sua mamma ad aspettarlo con un sorriso e le braccia colme d’affetto. E non dubitò mai più che l’incanto e la gioia dimorassero anche nelle case dalle finestre di vetro comune, dove il sole sostava festoso. (Hannah I-Iurnard)
ULTIMO
“Una Principessa sta per venire qui”, disse il Leone agli animali della giungla riuniti in assemblea, “come possiamo dimostrarle che siamo molto felici di averla con noi?”. “Potremmo farle dei profondi inchini”, suggerì l’ippopotamo, “ma e vero che non tutti abbiamo il fisico adatto”. “Potremmo tutti gridare forte Benvenuta”, soggiunse l’elefante, “ma forse si spaventerebbe”. “Potremmo danzare”, propose la Giraffa, ma il Leone guardò l’ippopotamo, scosse la testa e tutti gli animali sospirarono. Allora l’Uccellino Marrone cinguettò timidamente: “Non potremmo fare un giardino? Le Principesse adorano i fiori”. Tutti lo fissarono ammirati. “Questa sì, che è un’idea felice”, disse il Leone, “lo faremo insieme”. Venne scelto con cura un luogo molto bello, ma il Leone osservò che andava dissodato.
“Ci penso io”, gridò l’ippopotamo. “Pesterò la terra coi miei piedoni e con il mio grosso e pesante corpo finché diverrà fine e leggera”. “Benissimo”, approvò il Leone. “Ora dobbiamo fare dei buchi per piantare i semi “Lo faccio io con gli aculei della mia schiena”, si offrì il Porcospino. Si appallottolò tutto e cominciò a rotolare su e giù per il campo, finché fu pieno di buchetti regolari. “Benissimo”, disse il Leone. “Ora pianteremo i semi!”. “tocca a me”, disse la Cavalletta, “sono veloce e leggera”. Sorvolò saltellando il terreno e in un batter d’occhio piantò tutti i semi. “Benissimo”, disse il Leone. “Ora bisogna innaffiare il giardino”. “Lasciate fare a me”, esclamò l’Elefante. “Userò la proboscide”. Andò al fiume, riempì bene la proboscide e spruzzò un bel po’ d’acqua sul giardino. “Benissimo”, disse il Leone. “E ora come faremo a impedire alla Scimmia di rovinarci tutto il giardino?”. “Sarà mio compito, farò io la guardia”, propose la Giraffa allungando il collo. E l’Uccellino Marrone. Avrebbe voluto essere di aiuto, ma pareva che nessuno avesse bisogno di lui. Dopo un po’ i semi cominciarono a crescere, ma il Leone, che si era recato a controllare i progressi del giardino, scosse la testa: “Quante erbacce! Rovineranno tutto! Chi è capace di estirparle?”. Gli animali rimasero tutti zitti. L’ippopotamo si giustificò: “I miei piedi sono troppo grossi, rovinerei tutto”. “i miei aculei danneggerebbero le foglie”, si scusò il Porcospino. “Le erbacce sono troppo pesanti per me”, disse la Cavalletta. “La mia proboscide spezzerebbe gli steli”, affermò l’Elefante. “Ho il collo troppo lungo e non posso chinarmi tanto”, si lagnò la Giraffa. “Cri-cri”, fece il grillo e se la squagliò. Tutti quei pigroni si girarono e se ne andarono. Allora l’Uccellino Marrone volò nel giardino. Con il suo minuscolo becco sradicò un’erbaccia e la gettò dietro una siepe. Le radici erano forti e spesso il becco gli doleva e dopo ori po’ anche le ali gli pesavano. Ma con pazienza, un giorno dopo l’altro, l’Uccellino Marrone ripulì il giardino finché non rimase una sola erbaccia. Intanto una miriade di fiori rossi, azzurri e gialli mostrava graziosamente la corolla sui lunghi e sottili steli.
Il giorno dopo, la Giraffa, che era di guardia, annunciò: “Arriva la Principessa! La vedo!”. Gli animali si riunirono tutti nel giardino e si meravigliarono di trovarlo così in ordine. “Forse le erbacce si sono seccate”, disse il Leone, mentre l’Uccellino Marrone appollaiato su un albero taceva. La Principessa sorrise: “Non ho mai visto un giardino cosi bello”, disse, “dovete aver lavorato sodo!”. “E’ vero, abbiamo lavorato sodo!”, risposero in coro gli animali pieni di sé sorridendo. “Chi di voi è così gentile da cogliere qualche bel fiore per me?”, chiese la Principessa. Il Leone si fece avanti. “lo ho dato tutte le istruzioni, perciò tocca a me”. “Però io ho arato la terra”, protestò l’ippopotamo. “E io ho fatto i buchi per i semi”, aggiunse il Porcospino. “E io ho piantato i semi”, fece la Cavalletta. “lo ho innaffiato”, disse l’Elefante. “Mentre io facevo la guardia”, sottolineò la Giraffa. La Principessa sorrise. “Chi ha tolto le erbacce?”, chiese. Tutti rimasero zitti, poi: “Nessuno”, disse il Leone. In quel momento la Principessa scorse due occhietti brillanti e un sottile becco che faceva capolino tra le foglie di un albero. “L’hai fatto tu questo lavoro, Uccellino Marrone?”, e l’uccellino annui. “Allora tu coglierai i fiori per me, perché il tuo è stato il lavoro più duro e più lungo”. L’Uccellino Marrone volò giù verso il giardino; poi con il becco sottile colse con garbo il più bel fiore e l’offrì alla Principessa.
Ne colse un altro e un altro ancora fino a mettere insieme un bel mazzolino variegato. La Principessa baciò la sua testolina marrone e gli sorrise. Allora l’Uccellino Marrone cantò come non aveva mai fatto prima finché il sole tramontò nel bel giardino degli animali. (Bruno Ferrero)
LA VERITA’ STA NELLE FACCENDE DOMESTICHE
Un uomo chiese a Bayazid di prenderlo come suo discepolo. “Se sei in cerca della verità”, gli disse Bayazid, “ci sono dei compiti da svolgere e dei doveri a cui assolvere”. “Di che si tratta?” “Dovrai attingere l’acqua e tagliare la legna, pulire la casa e cucinare”. “Ma io sono in cerca della verità, non di un lavoro”, replicò l’uomo mentre si allontanava.
Abba Eulogio un giorno non riuscì a nascondere la propria tristezza.
- Perché sei triste, abba? - gli chiese un anziano.
- Perché comincio a dubitare dell’intelligenza dei fratelli circa le grandi realtà divine. E’ già la terza volta che, avendo mostrato loro una pezza di lino su cui dipingo un puntolino rosso, e avendo chiesto loro che cosa vedano, mi rispondono tutti: “Un puntolino rosso”, mai: “Una pezza di lino”.
LA FUNE SOSPESA SULL’ABISSO
I discepoli di Baal Shem un giorno chiesero: “Rabbi caro, dicci come dobbiamo servire Dio”. Egli rispose: “Come faccio a saperlo?”... poi raccontò loro l’episodio seguente:
Un re aveva due amici che furono dichiarati colpevoli di un delitto e condannati a morte. Pur amandoli, il re non osò graziarli per timore di dare cattivo esempio al suo popolo, perciò emise il seguente verdetto: “Si stenda una fune attraverso un burrone profondo e ciascuno dei condannati vi cammini sopra, verso la libertà, o verso la morte, nel caso di caduta”. Il primo riuscì ad arrivare sano e salvo dall’altra parte, l’altro allora gli gridò: “Amico dimmi come hai fatto”. E quello di rimando: “Che ne so? Ogni volta che pendevo da una parte, mi inclinavo verso quella opposta”.
CHI E’ IL PIU’ POVERO?
Pinin era povero. Così povero che nella sua soffitta con pazienza spezzava in due i fiammiferi per poterli usare due volte. Una volta Pinin aveva fatto una scommessa con Brigida, un altro barbone come lui. Una scommessa da nulla perché nessuno dei due aveva qualcosa da poter pagar pegno, ma sempre una scommessa, su chi dei due era più povero. Aveva cominciato Brigida. “Io sono così povero che non si vede mai nulla sulla mia tavola”. Ma Pinin aveva ribattuto: “Son più povero io, perché non ho neanche la tavola”. Brigida aveva proseguito: “Io sono così povero che non ho calze nelle scarpe”. Ma Pinin mostrando i piedi aveva detto: “A me mancano anche le scarpe Brigida allora aveva esclamato: “Io son così povero che mi pare che tutti i giorni siano uguali. Tutti grigi come l’inverno. Non so neppure se valga la pena vivere questa vita”. Pinin allora aveva detto: “Ma come? In primavera non senti l’aria che ti solletica e ti mette addosso la gioia di essere al mondo? E un bimbo che ride con il sole nei capelli, non ti sembra una promessa per il futuro? E i papaveri e i fiordalisi nel grano, i colori del tramonto, gli spruzzi argentati dell’acqua del torrente.., sono ricchezze per tutti. Bisogna solo raccoglierle”. Ma Brigida aveva sbuffato: “Tutte storie. Tutte belle storie che mi lasciano a pancia vuota Pinin aveva allora sentenziato: “Hai vinto tu. Sei proprio più povero di me”. (Rielaborazione da una favola piemontese di Sergio Blin)
Laila e Rama erano innamorati, ma ancora troppo poveri per sposarsi. Vivevano in villaggi diversi, divisi da un grande fiume infestato dai coccodrilli. Un giorno Laila venne a sapere che Rama era gravemente ammalato e non aveva nessuno che lo curasse. Corse sulla riva del fiume e implorò il barcaiolo di portarla dall’altra parte, anche se non aveva denaro per pagarlo. Ma il malvagio barcaiolo rifiutò ponendole come condizione di passare la notte con lui.
La povera donna pianse e si disperò, ma invano e così, per la disperazione, accettò la proposta del barcaiolo. Quando finalmente arrivò da Rama, lo trovò che stava morendo. Ma restò con lui per un mese e lo curò finché guarì. Un giorno Rama le chiese come aveva fatto ad attraversare il fiume ed ella, incapace di mentire al suo amato, gli raccontò la verità. Quando Rama udì il suo racconto, si infuriò poiché considerava la virtù più preziosa della vita stessa. La cacciò di casa e non volle vederla mai più. (A. De Mello)
Chiediamoci, qual’è la vera virtù:quella di Rama, o quella di Laila?
L’OCCHIO DEL BOSCAIOLO
Un boscaiolo non trovava più la sua ascia preferita. Aveva girato tutta la casa, rovistato un po’ dappertutto. Niente da fare. L’ascia era sparita. Cominciò a pensare che qualcuno gliel’avesse rubata. In preda a questo pensiero si affacciò alla finestra. Proprio in quel momento passava il figlio del suo vicino di casa. “Ha proprio l’andatura di un ladro di asce!”, pensò il boscaiolo. “E ha anche gli occhi da ladro di asce... E perfino i capelli da ladro di asce!”. Qualche giorno dopo, il boscaiolo ritrovò la sua ascia preferita sotto il divano, dove lui l’aveva buttata una sera tornando dal lavoro. Felice per il ritrovamento, si affacciò alla finestra. Proprio in quel momento passava il figlio del suo vicino di casa. “Non ha proprio l’andatura da ladro di asce!”, pensò il boscaiolo. “Anzi, ha gli occhi da bravo ragazzo... e anche i capelli!”.
CECITA’
La lepre e il rospo se ne andavano a zonzo per la campagna, chiacchierando. Strada facendo si avvicinò loro una fama. Le comari fecero appena in tempo a udire “Che orribile bestia!” prima di veder saettare via l’insolente animale. La lepre, colpita, rimase pensierosa: “Sono brutta, è vero, ma non ne ho colpa...” concluse umilmente. Dal canto suo il rospo sbirciava in silenzio la compagna: “La fama ha ragione: la lepre è mostruosa!” Poco più avanti le due bestie si imbatterono in uno scoiattolo linguacciuto. “.. Mi ripugni!!” esclamò questi in una smorfia. La lepre quasi arrossì di vergogna: “Bisogna che non esca più dalla mia tana — decise. — E’ terribile disgustare il prossimo”, Il rospo rise soddisfatto: “Non si può certo dire che la mia compagna abbia del fascino!” Vennero infine raggiunti da una volpe. “Lepre carissima — disse cortese — ti trovo in splendida forma. Quello che non capisco è come tu, così aggraziata e pulita, possa tollerare la compagnia di quell’orrenda creatura...!” La lepre chinò il capo confusa, e nella sua modestia si convinse che la volpe di certo esagerava. Si era mai vista una volpe sincera? Il rospo, del resto, era del tutto d’accordo; quella bestiaccia aveva di certo affermato il contrario di ciò che pensava — magari per dispetto — Così tronfio e pieno di sé, nemmeno una volta il dubbio lo aveva sfiorato che fosse davvero lui l’oggetto di tanti schemi. (Favola catalana)
Due passerotti se ne stavano beatamente a prendere il fresco sulla stessa pianta, che era un salice. Uno si era appollaiato sulla cima del salice, l’altro in basso su una biforcazione dei rami. Dopo un po’, il passerotto che stava in alto, tanto per rompere il ghiaccio, dopo la siesta, disse: “Oh, come sono belle queste foglie verdi!”. Il passerotto che stava in basso la prese come una provocazione. Gli rispose in modo seccato: “Ma sei orbo? Non vedi che sono bianche?!”. E quello di sopra, indispettito: “Sei orbo tu! Sono verdi!”. E l’altro dal basso con il becco in su: “Ci scommetto le piume della coda che sono bianche. Tu non capisci nulla. Sei matto!”. Il passerotto della cima si senti bollire il sangue e senza pensarci due volte si precipitò sul suo avversario per dargli una lezione. L’altro non si mosse. Quando furono vicini, uno di fronte all’altro, con le piume del collo arruffate per l’ira, prima di cominciare il duello ebbero la lealtà di guardare nella stessa direzione, verso l’alto. Il passerotto che veniva dall’alto, emise un “Oh” di meraviglia: “Guarda un po’ che sono bianche”. Disse però al suo amico: “Prova un po’ a venire lassù dove stavo prima”. Volarono sul più alto ramo del salice e questa volta dissero in coro: “Guarda un po’ che sono verdi”.
OCCHI
Un giorno al diavolo saltò l’uzzolo di prender moglie. E siccome la voleva da par suo, si mise a cercarla sulla terra. In realtà molte donne avevano di che piacergli: la loro malizia era tanta che non lo avrebbero fatto sfigurare. Ma in tutte — anche nelle più diaboliche — egli vedeva emergere, in determinate occasioni, un sentimento molto pericoloso: la tenerezza, che è sempre un preludio alla bontà. Era dunque necessario trovare una donna che non conoscesse tale sentimento; meglio, che lo avesse a tal punto stravolto da non esserne più assolutamente capace. Cammina, cammina, un giorno il diavolo la trovò: ora una donna mercenaria, dura e fredda, che per tutta la sua vita aveva speculato sulla tenerezza, facendone un miraggio per gli allocchi. Il diavolo la prese con sé e convolò a nozze. Ma la sua felicità fu presto turbata da un’ombra. La donna, pur degna in tutto di lui, aveva conservato un’abitudine contratta col lavoro: un gesto meccanico, in intenzionale, ma subdolo: ogni tanto, senza accorgersene, apriva le braccia come per accogliere qualcuno. E quel gesto, quell’abbozzo di abbraccio, che in un primo tempo lo aveva solo stupito, poco alla volta sembrava attirano; quel gesto meccanico pareva avesse in sé qualcosa d’irresistibile. Fu così che quando, un giorno, il diavolo si sorprese ad imitarlo, allarmatissimo rimandò la donna. E sprangò per sempre le porte dell’inferno ad ogni tentazione. (Piero Gribaudi)
AMORE
Una giovane sposa fu colpita dal vaiolo prima di fare il suo ingresso nella casa del marito. Questi disse: “Mi dolgono gli occhi”. E più tardi: “Sono divenuto cieco La sposa gli fu condotta in casa. Quando, dopo vent’anni di matrimonio, essa venne a mancare, il marito riaperse gli occhi. Richiesto di spiegazioni, rispose: “Non ero cieco, ma mi sono finto tale perché mia moglie non si addolorasse pensando che io la vedevo deturpata dal vaiolo”. (Fiaba africana)
L’INVENTORE
Dopo lunghi anni di lavoro, un inventore scopri l’arte di accendere il fuoco. Portò con sé i suoi attrezzi nelle regioni del nord ammantate di neve e insegnò a una tribù quell’arte e i suoi vantaggi. La gente era così affascinata da quella novità che a nessuno venne in mente di ringraziare l’inventore, il quale un giorno se ne andò in silenzio. Poiché era uno di quei rari esseri umani dotati di vera grandezza, non aveva alcun desiderio di essere ricordato o riverito; si accontentava di sapere che la sua scoperta era servita a qualcuno. La seconda tribù presso cui si recò era altrettanto ansiosa di imparare della prima. Ma i preti locali, gelosi dell’ascendente che egli esercitava sul popolo, lo fecero assassinare. Per sviare i sospetti, fecero collocare un ritratto del Grande inventore in bella vista sull’altare principale del tempio, studiarono una speciale liturgia che rendesse omaggio al suo nome e ne mantenesse vivo il ricordo e posero la massima cura nell’evitare che si modificasse o omettesse anche solo una rubrica di tale liturgia. Gli attrezzi per accendere il fuoco furono conservati in uno scrigno e si diceva che avessero il potere di guarire tutti coloro che vi ponevano sopra le mani con spirito di fede. Il Sommo Sacerdote si incaricò personalmente di redigere una biografia dell’inventore, il Libro Sacro in cui venivano presentate la sua tenerezza e la sua generosità come esempio da imitare per tutti, si tesseva l’elogio delle sue opere grandiose e la sua origine soprannaturale era diventata un articolo di fede. I preti si occuparono di tramandare il Libro alle generazioni successive, mentre interpretavano con autorevolezza il senso delle sue parole e il significato profondo della santità della sua vita e della sua morte. Chiunque si discostasse dai loro insegnamenti veniva punito senza pietà con la morte o la scomunica. Assorta com’era nelle attività religiose, la gente finì col dimenticare come si accendeva il fuoco.
IL RAGNO DISTRATTO
Un piccolo ragnetto, portato dal vento, approdò sulla cima di un albero. Ma quel luogo non era adatto e discese su una grande siepe spinosa. Qui c’erano rami e germogli in abbondanza per tesservi una tela. E il ragno si mise subito al lavoro, lasciando che il filo, lungo il quale era disceso, reggesse la punta superiore della ragnatela. Filo dopo filo, nodo dopo nodo, la tela del ragnetto si fece bellissima. Mosche e moscerini incappavano numerosi. Al mattino, dopo la rugiada, i fili sembravano collane di brillanti e il ragno era orgoglioso del suo capolavoro. Lavorava alla sua tela tutti i giorni ed era diventato un ragno commendatore, grande e grosso. Aveva la più bella e redditizia tela di tutto il bosco. Un mattino, però, si svegliò di cattivo umore o forse scese dal letto con le quattro zampe sbagliate. Fece un giro della tela per far colazione con qualche moscerino, ma non ne trovò. Nella notte aveva gelato e questo aumentò il suo umore nero. Nell’aria non volava neanche una mosca. Ispezionò la tela per passare il tempo, tirò qualche filo che si era allentato e, gira e rigira, finì col notare un filo strano. Apparentemente non si attaccava da nessuna parte. Sembrava finisse nelle nuvole. Più lo guardava, più si arrabbiava. “Sta a vedere”, pensò, “che da quel filo vengono giù dei concorrenti a mangiarsi le mie prede”. “E’ uno stupido filo buono a nulla”, ruminava tra sé. E con un colpo secco delle robuste mandibole lo tagliò. Tutta la tela cedette e si trasformò in un umido cencio che avviluppava il ragno. Troppo tardi il poverino sì ricordò che, in un sereno giorno di settembre, era sceso giù da quel filo e quanto gli era stato utile, proprio quel filo, per tessere e allargare la sua tela.
IL PRIMO FIORE
In un paesino di montagna c’è un’usanza molto bella. Ogni primavera si svolge una gara tra tutti gli abitanti. Ciascuno cerca di trovare il primo fiore della primavera. Chi trova e raccoglie il primo fiore sarà il vincitore e avrà buona fortuna per tutto l’anno. Per questo partecipano tutti, giovani e vecchi. Un anno, all’inizio della primavera, quando la neve cominciava a sciogliersi e a lasciare liberi larghi squarci di terra umida, tutti in quel paesino partirono alla ricerca del primo fiore. Per ore e ore cercarono in alto e in basso, sulle pendici dei monti, ma non trovarono nessun fiore. Stavano già abbandonando la ricerca, quando udirono un grido. “E’ qui! L’ho trovato!”. Era la voce di un bambino. Uomini, donne e bambini corsero verso di lui, che stava battendo le mani e saltando di gioia. Quel bambino aveva trovato il primo fiore. Il primo fiore, però, era sbocciato in mezzo alle rocce, qualche metro sotto il ciglio di un terribile dirupo. Il bambino lo indicava con il braccio teso, giù in basso, ma non poteva raggiungerlo perché aveva paura della bocca spalancata del burrone. il bambino però desiderava quel fiore più di qualunque altra cosa al mondo. Voleva vincere la gara. Voleva la buona fortuna. Tutti gli altri erano gentili, lo volevano aiutare. Cinque uomini forti portarono una corda. Intendevano legare il bambino e calarlo fino al fiore perché potesse coglierlo. Il bambino però aveva paura. Aveva paura del baratro, aveva paura che la corda si rompesse. “No, no”, diceva piangendo, “ho paura!”. Gli fecero vedere una corda più forte. Non cinque, ma quindici uomini forti l’avrebbero tenuta. Tutti lo incoraggiavano. A un tratto il bambino cessò di piangere. Con una mano si asciugò le lacrime. Tutti fecero silenzio per sentire che cosa avrebbe fatto il bambino. “Va bene”, disse il bambino, “andrò giù. lo andrò giù se mio padre terrà la corda!”.
NON TI VEDO, PAPA’”
Era una famigliola felice e viveva in una casetta di periferia. Ma una notte scoppiò nella cucina della casa un terribile incendio.
Mentre le fiamme divampavano, genitori e figli corsero fuori. Si abbracciarono e si voltarono,, impotenti, a guardare la loro casa avvolta dal fuoco e dal fumo. In quel momento si accorsero, con infinito orrore, che mancava il più piccolo, un bambino di cinque anni. Al momento di uscire, impaurito dal ruggito delle fiamme e dal fumo acre, era tornato indietro ed era salito al piano superiore. Che fare? Il papà e la mamma si guardarono disperati, le due sorelline cominciarono a gridare. Avventurarsi in quella fornace era ormai impossibile... E i vigili del fuoco tardavano. Ma ecco che lassù, in alto, s’apri la finestra della soffitta e il bambino si affacciò urlando disperatamente: “Papa! Papà!”. Il padre accorse e gridò: “Salta giù!” Sotto di sé il bambino vedeva solo fuoco e fumo nero, ma sentì la voce e rispose: “Papà, non ti vedo...”. “Ti vedo io, e basta. Salta giù!”. Urlò l’uomo. Il bambino saltò e sì ritrovò sano e salvo nelle robuste braccia del papà, che lo aveva afferrato al volo.
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LA RISPOSTA DI DIO
Andrea aveva un solo grande desiderio: una bicicletta. Una bicicletta gialla super-accessoriata che aveva visto in una vetrina della città. Non se la poteva più togliere dalla mente. Vedeva la bicicletta gialla nei sogni, nel caffelatte, nella figura di Carlo Magno che c’era sul libro di scuola. Ma la mamma di Andrea aveva tante cose da pagare ancora e le spese aumentavano ogni giorno. Non poteva certo comprare una bicicletta costosa come quella sognata da Andrea.
Andrea conosceva le difficoltà della mamma e così decise di chiedere la bicicletta direttamente a Dio. Per Natale. Tutte le sere Andrea cominciò ad aggiungere una frase alle sue preghiere: “Ricordati di farmi avere la bicicletta gialla per Natale. Amen
Ogni sera la mamma sentiva Andrea pregare per ottenere la bicicletta gialla e ogni sera scuoteva tristemente la testa. La mamma sapeva che Natale sarebbe stato un giorno ben doloroso per Andrea. Non ci sarebbe stata la bicicletta e il bambino ne sarebbe stato mortalmente deluso. Venne il giorno di Natale e naturalmente Andrea non ricevette nessuna bicicletta. Alla sera, il bambino si inginocchiò come al solito accanto al lettino per dire le preghiere. “Andrea”, gli disse dolcemente la mamma, “penso che sarai scontento, perché non hai ricevuto la bicicletta per Natale. Spero che tu non sia arrabbiato con Dio, perché non ha risposto alle tue preghiere”. Andrea guardò la mamma. “Oh no, mamma. lo non sono arrabbiato con Dio. Ha risposto alle mie preghiere. Dio ha detto: “No!”.
Il maestro seguitava a sfregare un mattone sul pavimento della stanza in cui il suo discepolo sedeva in meditazione. Dapprima il discepolo ne fu contento, prendendola come una prova della sua forza di concentrazione. Ma quando il suono divenne insopportabile, proruppe: “Che diamine stai facendo? Non vedi che sto meditando?”. “Sto levigando questo mattone per farne uno specchio”, rispose il maestro. “Sei pazzo! Come puoi ricavare uno specchio da un mattone?”. ‘Non più pazzo di te! Come puoi ricavare uno che medita da un egocentrico?”.
LA STORIA DI ROMOLETTO
C’era una volta un brav’uomo che si chiamava Romoletto e che abitava in una villetta sulle rive del Tevere. Un mattino di primavera, Romoletto si accorse che l’acqua del fiume lambiva la porta di casa. Aveva piovuto molto e il Tevere era gonfio di acqua gialla e minacciosa. La radio lo spaventò un po’. “Tutti coloro che abitano nelle vicinanze del Tevere devono lasciare le loro abitazioni, sta per arrivare una piena del fiume”, ripeteva il Giornale Radio. Romoletto era molto pio e aveva una grande fiducia nel Signore. Così si inginocchiò e cominciò a pregare. “Signore, salvami!”. In quel momento sentì una voce proveniente dall’alto. “Non avere paura, Romoletto! Ci penso io a te!”. Era la voce del Signore. Romoletto, pieno di gioia, si rialzò e cominciò a sbrigare le faccende quotidiane, come se niente fosse. Alle undici l’acqua del fiume gli arrivò alle spalle e Romoletto si rifugiò al piano superiore. Passò una lancia dei pompieri. Uno di essi lo vide e gridò: “Presto, venga via con noi! E’ pericoloso rimanere!".“No. Ho il superiore!”, rispose Romoletto indicando il cielo. Alle quindici, l’acqua era più alta del letto e Romoletto si rifugiò in soffitta. Passò una barca della Protezione Civile e una voce gridò: “Venga via subito! L’acqua salirà ancora!”. Romoletto rifiutò ostinatamente. “Ho un protettore, io!” rispondeva. Alle diciassette e un quarto l’acqua era più alta delle grondaie Romoletto salì sul tetto. Passò un gommone della Croce Rossa che cercava gli ultimi da salvare. Invano cercarono di portar via Ronioletto. Lui si attaccò al. camino come il caprifoglio ad un albero. “Non ne ho bisogno. Ho chi mi salva, io!”.
L’acqua continuò a salire e alle diciotto meno dieci Romoletto annegò. Appena si ritrovò in Paradiso, Romoletto andò su tutte le furie. Si presentò dal Signore e protestò: “Hai detto che pensavi a me? E invece sono bell’e morto!”. Il Signore lo fissò con il suo sguardo pieno di bontà. “Ma io ho pensato a te, Romoletto. Tre barche ti ho mandato!”.
IL SANTO E IL TOPOLINO
Un grande asceta, noto in tutto il mondo per la sua grande santità, abitava in una profonda caverna. Sedeva tutto, il giorno immerso in profonda meditazione e il suo pensiero era sempre rivolto al Signore. Ma un giorno, mentre il santo asceta stava meditando, un topolino sbuco dall’ombra e cominciò a rosicchiargli un sandalo. L’eremita aprì gli occhi arrabbiatissimo. “Perché mi disturbi durante la meditazione?”. “Ma io no fame”, piagnucolò il topolino. “Vattene via, topastro della malora”, sbraitò l’asceta, come osi infastidirmi proprio mentre cerco l’unione con Dio?’. “Come fai a trovare l’unione con Dio”, chiese il topolino, se non riesci neppure ad andare d’accordo con me?”,
IL GIRASOLE
In un giardino ricco di fiori di ogni specie, cresceva, proprio nel centro, una pianta senza nome. Era robusta, ma sgraziata, con dei fiori stopposi e senza profumo. Per le altre piante nobili del giardino era né più né meno una erbaccia e non gli rivolgevano la parola. Ma la pianta senza nome aveva un cuore pieno di bontà e di ideali. Quando i primi raggi del sole, al mattino, arrivavano a fare il solletico alla terra e a giocherellare con le gocce di rugiada, per farti sembrare iridescenti diamanti sulle camelie, rubini e zaffiri sulle rose, le altre piante si stiracchiavano pigre. La pianta senza nome, invece, non si perdeva un solo raggio di sole. Se li beveva tutti uno dopo l’altro. Trasformava tutta la luce del sole in forza vitale, in zuccheri, in linfa. Tanto che, dopo un po’, il suo fusto che prima era rachitico e debole, era diventato uno stupendo fusto robusto, diritto, alto più di due metri. Le piante del giardino cominciarono a considerano con rispetto, e anche con un po’ d’invidia. “Quello spilungone è un po’ matto”, bisbigliavano dalie e margherite. La pianta senza nome non ci badava. Aveva un progetto. Se il sole si muoveva nel cielo, lei l’avrebbe seguito per non abbandonano un istante. Non poteva certo sradicarsi dalla terra, ma poteva costringere il suo fusto a girare all’unisono con il sole. Così non si sarebbero lasciati mai. Le prime ad accorgersene furono le ortensie che, come tutti sanno, sono pettegole e comari. “Si è innamorato del sole”, cominciarono a propagare ai quattro venti. “Lo spilungone è innamorato del sole”, dicevano ridacchiando i tulipani. “Ooooh, com’è romantico!”, sussurravano pudicamente le viole mammole. La meraviglia toccò il culmine quando in cima al fusto della pianta senza nome sbocciò un magnifico fiore che assomigliava in modo straordinario proprio al sole. Era grande, tondo, con una raggiera di petali gialli, di un bel giallo dorato, caldo, bonario. E quel faccione, secondo la sua abitudine, continuava a seguire il sole, nella sua camminata per il cielo. Così i garofani gli misero nome “girasole”. Glielo misero per prenderlo in giro, ma piacque a tutti, compreso il diretto interessato. Da quel momento, quando qualcuno gli chiedeva il nome, rispondeva orgoglioso: “Mi chiamo Girasole”.
Rose, ortensie e dalie non cessavano però di bisbigliare su quella che, secondo loro, era una stranezza che nascondeva troppo orgoglio o, peggio, qualche sentimento molto disordinato. Furono le bocche di leone, i fiori più coraggiosi del giardino, a rivolgere direttamente la parola al girasole.
“Perché guardi sempre in aria? Perché non ci degni di uno sguardo? Eppure siamo piante, come te”, gridarono le bocche di leone per farsi sentire. “Amici , rispose il girasole, “sono felice di vivere con voi, ma io amo il sole. Esso è la mia vita e non posso staccare gli occhi da lui. Lo seguo nel suo cammino. Lo amo tanto che sento già di assomigliargli un po’. Che ci volete fare? il sole è la mia vita e io vivo per lui... Come tutti i buoni, il girasole parlava forte e l’udirono tutti i fiori del giardino. E in fondo al loro piccolo, profumato cuore, sentirono una grande ammirazione per “l’innamorato del sole
I TRE AGNELLINI
Lassù sulle montagne del Tirolo, c’era un piccolo villaggio dove tutti sapevano scolpire santi e Madonne con grande abilità. Ma giunse il tempo in cui non ci furono più ordinazioni per le loro belle statuine religiose. Un pomeriggio Dritte, uno dei maestri intagliatori, entrando nella sua bottega trovò un fanciullo biondo, che giocava con le statuine del presepio. Dritte gli disse con fare burbero che le statuine del presepio non erano giocattoli. Il bambino rispose: “A Gesù non importa, lui sa che non ho giocattoli per giocare . Maestro Dritte commosso gli promise un agnellino di legno con la testa che si muoveva. “Vienilo a prendere domani pomeriggio, però, strano che non ti abbia mai visto, dove abiti?”. “Là”, rispose il fanciullo indicando vagamente l’alto. Il giorno dopo, prima di mezzogiorno, l’agnellino era pronto, bello da sembrare vivo. Ad un tratto si affacciò alla porta della bottega di Dritte una giovane zingara con un bambino in braccio. Il bambino appena vide l’agnellino protese le braccine e l’afferrò. Quando glielo vollero togliere di mano si mise a piangere disperato. Dritte che non aveva nulla da dare alla povera donna disse sospirando: “Tienilo pure intaglierò un altro agnellino”. Nel pomeriggio tardi Dritte aveva appena terminato il secondo agnellino quando Pino, un povero orfanello, venne a salutarlo. “Oh! Che meraviglioso agnello”, disse. “Posso averlo per piacere?”. “Sì tienilo pure, Pino, io ne intaglierò un altro”. E così fece. Ma il bambino dai capelli d’oro non ritornò, e l’agnellino rimase abbandonato sullo scaffale della bottega. La situazione del villaggio continuava a peggiorare e Dritte cominciò ad intagliare giocattoli per i bambini del villaggio per far loro dimenticare la fame. Un giorno un mercante di passaggio si offrì di comperare tutti i giocattoli che Dritte riusciva ad intagliare. Dritte rifiutò di intagliare giocattoli per denaro: “Sono alla locanda”, disse il commerciante, “in caso cambiaste idea”. La piccola Marta era molto malata e Dritte, per farla sorridere, le regalò l’agnellino che aveva conservato sullo scaffale della sua bottega. Mentre tornava dalla casa di Marta, incontrò il bambino dai capelli d’oro. “Ho tenuto l’agnellino fino ad oggi, ma tu non sei venuto. Ne farò subito un altro”. “Non ho bisogno dì un altro agnellino” disse il fanciullo scuotendo il capo, “quelli che hai donato al piccolo zingaro, a Pino e a Marta li hai donati anche a me. Fare un giocattolo può servire alla gloria di Dio quanto intagliare un santo”. Un attimo dopo il fanciullo era scomparso. Quella notte Dritte si recò alla locanda. “Costruirò giocattoli per voi”, disse. “Allora avete cambiato idea” sussurro il mercante. “No”, rispose Dritte con gli occhi scintillanti, “ma ho ricevuto un segno da Dio!”.
Il postino suonò due volte. Mancavano cinque giorni a Natale. Aveva fra le braccia un grosso pacco avvolto in carta preziosamente disegnata e legato con nastri dorati. “Avanti”, disse una voce dall’interno. Il postino entrò. Era una casa malandata: si trovò in una stanza piena d’ombre e di polvere. Seduto in una poltrona c’era un vecchio. "Guardi che stupendo paccone di Natale!” disse allegramente il postino. “Grazie. Lo metta pure per terra”, disse il vecchio con la voce più triste che mai. Il postino rimase imbambolato con il grosso pacco in mano. Intuiva benissimo che il pacco era pieno di cose buone e quel vecchio non aveva certo l’aria di spassarsela bene. Allora, perché era così triste? “Ma, signore, non dovrebbe fare un po’ di festa a questo magnifico regalo?”. “Non posso... Non posso proprio”, disse il vecchio con le lacrime agli occhi. E raccontò al postino la storia della figlia che si era sposata nella città vicina ed era diventata ricca. Tutti gli anni gli mandava un pacco, per Natale, con un bigliettino: “Da tua figlia Luisa e marito”. Mai un augurio personale, una visita, un invito: Vieni a passare il Natale con noi”. “Venga a vedere”, aggiunse il vecchio e si alzò stancamente, il postino lo seguì fino ad uno sgabuzzino. Il vecchio aprì la porta. “Ma.. .“ fece il postino. Lo sgabuzzino traboccava di regali natalizi. Erano tutti quelli dei Natali precedenti. Intatti, con la loro preziosa carta e i nastri luccicanti. “Ma non li ha neanche aperti!” esclamò il postino allibito. “No”, disse mestamente il vecchio. “Non c’è amore dentro”.
Il piccolo e zoppo Matusalemme ed Eliogabalo (detto Gabalo) erano due ragazzi poveri della città. Avevano sempre vissuto, dalla nascita, nel collegio dei ragazzi poveri. “Sai che domani è Natale?” chiese Gabalo, un giorno che tutti e due stavano spalando la neve dall’ingresso dell’istituto. “Ah, davvero?” rispose Matusalemme. “Spero proprio che la signora Pynchum non se ne accorga. Diventa particolarmente antipatica nei giorni di festa!”. L’antipatica signora Pynchum era la direttrice dell’Istituto dei poveri, ed era temuta da tutti. Matusalemme proseguì: “Gabalo, tu credi che Babbo Natale ci sia davvero?”. “Certo che c’e". “E allora perché non viene mai qui alla Casa dei Poveri?”. “Beh”, rispose Gabalo, “noi stiamo in una strada tutta curve, lo sai no? Forse Babbo Natale non riesce di trovarla”. Gabalo cercava sempre di mostrare a Matusalemme il lato bello delle cose, anche quando non c’era! Proprio in quel momento un’automobile investì un povero cane che cadde riverso sulla neve. Gabalo corse subito in suo aiuto e vide che aveva una zampa rotta. Fece una stecca e fasciò strettamente la zampa del cane. Gabalo lesse sul collare che il cane apparteneva al dottor Carruthers, un medico famoso nella città. Lo prese in braccio e si avviò verso la casa del dottore. Il dottore aveva una gran barba bianca, lo accolse con un sorriso e gli chiese chi aveva immobilizzato e steccato cosi bene la zampa del cane. “Perbacco, io, signore”, rispose Gabalo e gli raccontò di tutti gli altri animali ammalati che aveva guarito. “Sei un ragazzo davvero in gamba!” gli disse alla fine il dottor Carruthers guardandolo negli occhi. “Ti piacerebbe venire a viver da me e studiare per diventare dottore?”. Gabalo rimase senza parole. Andare lontano dalla signora Pynchum e non essere più uno “della Casa dei Poveri”, diventare un dottore! “Oh, oh s—s—sì, signore! Oh... Improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi. Se Gabalo se ne andava, chi si sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Matusalemme? “Io... io vi ringrazio, signore” disse. “Ma non posso venire, signore!”. E prima che il dottore scorgesse le sue lacrime corse fuori dalla casa.. Quella sera, il dottor Carruthers si presentò all’istituto con le braccia cariche di pacchetti. Quando Matusalemme lo vide cominciò a gridare: “E’ arrivato Babbo Natale!”. Il dottore scoppiò a ridere e, mentre consegnava al ragazzo un pacchetto dai vivaci colori, notò che zoppicava e gli fece alcune domande. Dopo un attimo, il dottor Carruthers disse: “Conosco un ospedale in città dove potrebbero guarirti. Hai parenti o amici?”. “Oh, sì”, rispose subito Matusalemme, “ho Gabalo!”. Il dottore lanciò uno sguardo penetrante a Gabalo. “E’ per lui che non hai voluto venire a stare da me, figliolo?”. “Beh, io... io sono tutto quello che lui possiede”, rispose Gabalo. Il dottore, profondamente commosso, disse: “E se prendessi anche Matusalemme con noi?”. Questa volta a Gabalo non importò che tutti vedessero le sue lacrime, e Matusalemme si mise a battere le mani dalla gioia. Naturalmente non sapeva che sarebbe guarito e che un giorno Gabalo sarebbe diventato un chirurgo famoso. Tutto quello che sapeva era che Babbo Natale aveva trovato la strada dei poveri e che lo portava via con Gabalo.
PERCHE’ ALLA GROTTA C’ERANO L’ASINO E IL BUE
Mentre Giuseppe e Maria erano in viaggio verso Betlemme, un angelo radunò tutti gli animali per scegliere i più adatti ad aiutare la Santa Famiglia nella stalla. Per primo, naturalmente, si presentò il leone: “Solo un re è degno di servire il Re del mondo”, ruggì, “io mi piazzerò all’entrata e sbranerà tutti quelli che tenteranno di avvicinarsi al Bambino!”. “Sei troppo violento” disse l’angelo. Subito dopo si avvicinò la volpe.. Con aria furba e innocente, insinuò: “lo sono l’animale più adatto. Per il figlio di Dio ruberà tutte le mattine il miele migliore e il latte più profumato. Porterò a Maria e Giuseppe tutti i giorni un bel pollo!”. “Sei troppo disonesta”, disse l’angelo. Tronfio e splendente arrivò il pavone. Sciorinò la sua magnifica ruota color dell’iride: “Io trasformerà quella povera stalla in una reggia più bella del palazzo di Salomone!”. “Sei troppo vanitoso” disse l’angelo. Passarono, uno dopo l’altro, tanti animali ciascuno magnificando il duo dono. Invano. L’angelo non riusciva a trovarne uno che andasse bene. Vide però che l’asino e il bue continuavano a lavorare, con la testa bassa, nel campo di un contadino, nei pressi della grotta. L’angelo li chiamò: “E voi non avete niente da offrire?”. “Niente”, rispose l’asino e afflosciò mestamente le lunghe orecchie, “noi non abbiamo imparato niente oltre all’umiltà e alla pazienza. Tutto il resto significa solo un supplemento di bastonate!”. Ma il bue, timidamente, senza alzare gli occhi, disse: “Però potremmo di tanto in tanto cacciare le mosche con le nostre code L’angelo finalmente sorrise: “Voi siete quelli giusti!”.