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VIVERE NELLA LIBERTA' DI DIO

 

 

I DIECI COMANDAMENTI

 

 

I comandamenti

 

IO SONO IL SIGNORE DIO TUO

 

I dieci comandamenti di Dio iniziano con la frase: “lo sono  il Signore Dio tuo”. A prima vista sembra che il Signore, con queste parole, voglia fare appello alla sua autorità per dare i suoi comandi. Non è esattamente così. Nel testo ebraico Dio non si presenta con il termine “Signore”, ma con il nome “Jahvè” che vuoi dire “Io sono presente”. Questo nome riesce a farci capire con più esattezza il pensiero di Dio. Egli vuoi far comprendere all’uomo che i suoi comandi non devono essere visti come una costrizione, ma come un mezzo scelto da Dio per poter essere presente con il suo aiuto durante la sua esistenza. In altre parole si può dire che Dio introduce i suoi comandi così “O uomo, ora che hai capito che il tuo Dio ti  a fianco, come un buon padre, non essere così sciocco e cieco da non seguire i suoi comandi, che sono stati pensati per essere di aiuto nella tua vita”.

Quindi la Bibbia pone come motivazione dei comandamenti Dio stesso, il Liberatore, il Creatore, il Padre e il Salvatore dell’uomo, infatti il dono dei comandamenti viene dato nel contesto dell’Alleanza e della liberazione della Pasqua, immagine biblica di ogni liberazione.

 

Un’ obiezione

  1. Gesù non è venuto ad abolire ma a portare a compimento. Quindi la strada per entrare nel Reqno è l’osservanza dei  comandamenti.  (Vedi: Mc. 10,17—22)

  2. Anzi Gesù senza abolirli sintetizza i comandamenti in quello dell’amore di Dio e del prossimo. E infine: nel Discorso della montagna Gesù non ha soppresso i comandamenti, ma al contrario li ha ancor più radicalizzati. (Vedi: Mt. 5,17-19) Ora, anzi, un’imprecazione è già uguale a un omicidio, uno sguardo lascivo a un adulterio, una bugia a uno spergiuro, mentre soltanto l’amore dei nemici costituisce la perfezione dell’amore del prossimo (Mt. 5,20-46). Quindi lo stesso Gesù, che sì è impegnato in ogni sorta di battaglie con gli scribi e i farisei per liberare l’uomo dall’insopportabile pressione di una legge impossibile da praticarsi, che ha subito ogni sorta di  scomuniche per dimostrare ai “senza legge”, ai peccatori, la sua misericordia e persino la sua predilezione ha con tutta naturalezza, e a volte persino in maniera molto drastica, ricordato che esiste un comandamento E di Dio, che il peccato rimane peccato e che nel Regno di Dio entra non chi dice “Signore, Signore”, ma chi fa la volontà di Dio (Mt. 7,21-23).

  3. L’impegno di Gesù è stato quello di condurre progressivamente l’uomo a una osservanza che, dalla sola esteriorità, arrivasse al cuore, cioè all’interiorità dell’uomo, là dove egli decide il bene o il male e sceglie Dio o il peccato (Mc.7,1-23). Nel Nuovo Testamento sono soprattutto Giovanni e Paolo a parlare dei comandamenti. Nelle sue Lettere, Giovanni presenta l’osservanza dei comandamenti come la prova migliore dell’amore che l’uomo ha per Dio (1Gv 2,3—6). San Paolo alle volte si rifà alla morale naturale e all’insegnamento dei filosofi che consigliavano una  vita austera e retta, ma la motivazione che egli offre per l’osservanza dei comandamenti è solo l’amore per la persona di Gesù (“compiere tutto in Cristo” o “come si conviene nel Signore” Col. 3,12-24; Ef. 5,3-21. 6,1-9 ecc.).

Un esempio

 

I comandi di Dio non sono un peso, ma un aiuto.

Un missionario, per risparmiare ad un negro la fatica di trasportare a spalle un sacco di patate, aveva provveduto una carriola, che avrebbe facilitato il trasporto del sacco di patate. Quando il negro venne invitato a mettere sulla carriola sacco per portarlo a destinazione il missionario, con sorpresa, si sentì dire: “Ma Padre, non hai cuore è già molto pesante il sacco e tu vuoi che porti anche la carretta”? E furono inutili tutte le spiegazioni del missionari o per fargli capire che con la carretta il sacco poteva trasportarsi con minore fatica. Così molti hanno difficoltà a capire che i comandamenti di Dio non sono un peso, ma un aiuto per l’uomo.

 

  

UNA GUIDA NEL CUORE DELL’UOMO

Quando un aeroplano vola al buio o nella nebbia ha strumenti che aiutano il pilota ad orientarsi.

Dio per aiutarci ha posto nel nostro cuore la coscienza. La voce della coscienza è una voce amica che vigila dentro, pere se non vi si presta attenzione, poco per volta, non la si sente più. Essa come “guida” indica all’uomo già che è bene e come giudice” dà il giudizio su ogni pensiero e su ogni azione che egli compie. Dio ha dato all’uomo delle leggi, che valgono per tutti i tempi e per tutti i luoghi. La coscienza aiuta l’uomo ad applicarle ai casi singoli. Lo stesso avviene della coscienza. Se non accogli i suoi ammonimenti, dopo un po’ di tempo non la sentirai più. Non già che essa cessi di ammonirti, ma sei tu che sei diventato sordo alla sua voce ed ai suoi ammonimenti.

 

 

UN RACCONTO E UNA RIFLESSIONE DI A. PRONZATO

I vecchi, a Malamocco, la ricordano ancora. Veniva chiamata da tutti “Maria della sveglia Parecchi anni fa era la sola, nel paese, a possedere una sveglia. Si guadagnava da vivere con quell’insolito strumento di lavoro. La sera faceva il giro a raccogliere le prenotazioni dei pescatori. Quindi, al mattino, si recava puntualmente alle varie porte. Chi andava svegliato alle tre, chi alle tre e un quarto, chi alle tre e mezzo. Alle quattro quelli che dovevano partire per il mercato. E così via. Per interi decenni la Maria di Malamocco, tutte le mattine, inesorabile, dava la sveglia al paese. Mi sembra che la figura di quella donna possa essere assunta a simbolo della nostra coscienza; essa si prende la responsabilità di suonare la sveglia, si assume l’incarico di scuotere dal sonno, si impegna a rimettere in movimento la vita. Dice a tutti che è un altro giorno. Che non bisogna addormentarsi sul passato. Che occorre sbrigarsi, c’è tanto da fare oggi. Che è ora di mettersi in piedi, ci sono degli appuntamenti da rispettare, delle attese da non deludere. Che non è consentito attardarsi al tepore dei ricordi, dal momento che quotidianamente c’è da imparare l’arduo e affascinante mestiere di essere vivi.

 

 

Primo comandamento

 

NON AVRAI ALTRO DIO DI FRONTE A ME

 

 

 

Come viene formulato Il primo comandamento

La prima, decisiva risposta dell’uomo a Dio è la fede ed è raccolta nel primo “comandamento”. Di esso la Bibbia offre tre formulazioni che sono come sfaccettature diverse d’un a stessa pietra preziosa (Es.20,3-5).

 

La formulazione teologica: “Non avrai altri dèi di fronte a me”. E’ la solenne dichiarazione del monoteismo. “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo!” recita ancora l’ebreo credente.

 

La formulazione pastorale: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”. Israele è un popolo senza arti pittoriche o plastiche. Se vuoi cercare l’immagine più splendida e più somigliante a Dio sulla terra dice la Bibbia non devi ricorrere a una statua fredda o a un vitello d’oro, simbolo della forza e della fecondità (Es. 32), devi invece guardare il volto di un uomo, del tuo fratello, perché “Dio creò l’uomo  a sua immagine, a immagine di Dio lo creò” (Genesi 1,27).

 

La formulazione liturgica: “Non ti prostrerai davanti agli. idoli, né li servirai”. “Prostrarsi” è l’atto orientale dell’adorazione. Come nel giorno glorioso dell’ingresso nella Palestina, la terra della libertà, Israele deve sempre ripetere la sua professione di fede: “Noi vogliamo servire  il Signore, perché Egli è il nostro Dio!” (Gs. 24,18). Ora Israele sta identificando la fisionomia del volto di Dio. La Bibbia la disegna con due tratti espressi col pittoresco linguaggio orientale (E. 20,5-6).

 

Il nostro è un Dio “geloso?

Il Deuteronomio 4,24 dice: “Il Signore tuo Dio è un fuoco  divoratore, un Dio geloso”. Dio è geloso che la sua creatura si perda dietro ad altre cose senza valore (gli idoli), ma in questa gelosia c’è anche una sfumatura di tenerezza: Osea, un profeta dal matrimonio in crisi, la intuirà e la annunzierà. Israele è una sposa che ha abbandonato suo marito. Ma il Signore tradito continua ad attenderla presso  il focolare abbandonato. Il suo dolore non offusca la speranza del ritorno: “Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò ancora al suo cuore” (Os. 2,16). Ora possiamo comprendere il vero senso del primo comandamento. Esso ci dice: Abbandonati a me e non a qualcosa d’altro che non meriti la tua fiducia! Io, infatti, che sono il tuo Dio, possiedo “emozioni umane”, io soltanto posso ascoltarti, comprenderti, sostenerti, guidarti, amarti. O in altre parole: devi credere in me, ma: lo puoi. E ciò vuol dire molte cose. Il vivere e il morire dell’uomo E sono in buone mani. Là dove non agisce in alcun modo, ma piuttosto subisce l’azione di altri: quando viene al mondo e quando muore, l’uomo sa di non essere debitore di un caso strano e neppure di una malignità diabolica, ma dell’amore di Dio stesso. La sua vita è dono di Dio, del Dio che è egli stesso la vita. Poiché conosciamo questo  Dio, noi non dobbiamo più temere. Poiché Dio esiste, nulla è inutile nella nostra vita. “Non avrai altro Dio all’infuori di me” significa: Lascia che Dio sia e faccia tutto ciò che Dio è e fa: fonte e fondamento di ogni vita.

 

Ma ci sono ancora gli idoli?

Un idolo è, nel mondo, tutto ciò da cui ci si attende la vita, ma che la vita non può dare. Certo i nostri idoli non sono più delle statue d’argento e d’oro. Ma da quante altre cose noi ci attendiamo la vita e la pienezza della vita! L’uno l’attende dalla carriera professionale, l’altro dall'accresciuto conto in banca, un terzo dai figli, che devono raggiungere quello che i genitori non hanno potuto realizzare.

 

Il primo comandamento è un atto di accusa contro la moderna idolatria  i cui feticci si chiamano potere, denaro, lavoro disumano, sesso, sfruttamento. Dio ci ricorda che  questi “refeticci” che adoriamo sono vuoto, nulla, cose che durano come la scia d’una nave nel mare o come nuvola che si dissolve al calore del sole (Sap. 5,10-14).

 

Il primo comandamento è un atto d’accusa contro l’indifferenza in cui vive la società del benessere: Dio non è combattuto o cancellato, ma semplicemente dimenticato e ignorato. E’ il trionfo d’un ateismo comodo che rifiuta i grandi orizzonti, che fa abbandonare l’ansia della ricerca, l’inquietudine della coscienza per curvarsi solo su interessi limitati, per affidarsi solo a piccole e pallide lampade anziché lasciarsi guidare dallo sfolgorare del sole, come diceva S. Agostino.

 

Ma, o Dio, chi sei?

Fin da bambini ci siamo fatti delle immagini di Dio e il più delle volte immagini anche teologicamente errate, come quella di un Dio vecchio, con la barba bianca e lunga. Ora è certamente vero che anche la Bibbia si è espressa una volta in questo modo per affermare la sapienza e superiorità infinita di Dio (Dn. 7,9), ma non possiamo poi dimenticare che il resto della Bibbia ci presenta un Dio eternamente vivente, quindi eternamente giovane (Salmo  90,2-4; Ebrei 1,12).

 

Ma ci sono anche forme molto indirette di allontanamento da Dio, nelle quali pure dobbiamo preoccuparci di osservare il primo comandamento. Spesso, pur proclamandoci cristiani, viviamo come dei veri pagani che non conoscono Dio e, comunque, non contano su di Lui. Ad esempio, quando ci comportiamo come se l’intera vita fosse priva di un senso più profondo. Quando viviamo  alla giornata e facciamo anche le cose più semplici con una segreta disperazione: mangiare, bere, dormire, litigare con i vicini per delle cose da nulla, impartire ordini  ai figli, senza realmente interessarsi ai loro problemi, mettere noi stessi in buona luce e non ammettere di aver torto, ritenere il meschino spettacolo televisivo della serata il vertice quotidiano della nostra vita.  Possiamo poi parlare realmente di felicità se ci sorprende l’interrogativo: E’ ancora vita questa? Oppure se un a duro colpo del destino, come la morte di una persona cara o un incidente dalle gravi conseguenze, ci pone brutalmente di fronte alle domande: Vale la pena, in fondo, vivere questa vita che può terminare soltanto con la morte? Esiste una realtà che apporti luce, senso e felicità anche nel grigio tran—tran quotidiano e persino nei rovesci del destino? Osservare il primo comandamento significa: vivere sapendo che la nostra vita è, nonostante tutto, qualcosa di molto buono anche se qualche volta non ci si presenta affatto come tale. Che Dio ci accende una luce anche nella morte e nelle sventure, o meglio: egli stesso è questa luce — là dove tutte le altre luci si spengono. Una sottospecie di questo tipo di allontanamento da Dio si ha quando ci dimostriamo ingrati. Possiamo noi osservare il primo comandamento se un pessimismo irritato e una nera tristezza costituiscono il sentimento fondamentale? Se in tutte le cose scopriamo sempre soltanto il lato oscuro e, in tutti gli uomini, vediamo soltanto gli aspetti peggiori e le manchevolezze? Se neppure quanto vi è di più bello e di meglio riesce a confortarci, ma piuttosto, nel migliore dei casi, ci si presenta soltanto come eccezione che conferma la triste regola? Osservare il primo comandamento significa: vedere fondamentalmente il lato buono delle persone e delle cose perché dietro la nostra vita c’è Dio e, quindi, è ben fondata la fiducia, fino a quando manifesti abusi umani non esigano prevenzione e diffidenza. Osservare il primo comandamento significa: lasciare che la tristezza sia se stessa, cioè una stato d’animo depressivo, che a volte ci tormenta come una malattia, ma che noi non possiamo prendere sul serio come la gioia, cui ci abilita la fede in Dio. Osservare il primo comandamento significa: avere occhi per gli innumerevoli doni, che ogni giorno tiene in serbo per noi, ma che noi assai spesso trascuriamo, perché con i paraocchi della pusillanimità inciampiamo, sia nei giorni di lavoro che in quelli di festa. Osservare il primo comandamento significa: essere riconoscenti.

Un po’ di domande:

 

Come mai, se Dio proibisce le immagini, i cristiani  le hanno?          
Se l’immagine diventa idolo essa è da buttare, se diventa richiamo alla preghiera, segno seppur umile può aiutare a incontrare Dio.    

 

Voler leggere il futuro dalle stelle e dalle carte è idolatria?

Forse più che idolatria è superstizione, cioè attribuire  a cose create qualità misteriose che Dio non ha dato loro.

 

Come mai i cristiani venerano i santi? Avere le loro  immagini, le loro reliquie non è una forma di idolatria?

Nell’anno 156 i cristiani di Smirne riferiscono in una lettera enciclica sul martirio del loro vescovo  S. Policarpo. Scrivono: “Adoriamo Cristo perché egli è il Figlio di Dio. Ma amiamo i Martiri come discepoli e seguaci del Signore per la loro insuperabile dedizione  al loro Re e Maestro. Potessimo anche noi diventare loro  compagni e condiscepoli!” Dei resti mortali del loro vescovo martire scrivono: “Essi ci sono più cari delle pietre preziose e preferibili all’oro. Noi li abbiamo posti in un luogo adatto. Là ci riuniremo in lieto giubilo e festeggeremo l’anniversario del suo martirio”. I santi sono in modo particolare amici di Dio. Sono capolavori della Sua grazia. Essi hanno amato Dio sopra  ogni cosa e lo hanno servito eroicamente. Dio li glorifica in cielo e li ha onorati spesso con i miracoli.  Per questo noi amiamo e veneriamo i santi. Naturalmente bisogna fare molta attenzione e non attribuire poteri a oggetti che hanno solo la funzione di richiamarci agli esempi di Maria e dei santi e di invitarci alla santità.

 

L’adorazione di Dio diventa preghiera                                                    

E’ veramente giusto renderti grazie, è bello cantare la tua gloria, Padre santo, unico Dio vivo e vero: prima del tempo e in eterno tu sei, Tu solo sei buono e fonte della vita, nel tuo regno di luce infinita. e hai dato origine all’universo,per effondere il tuo amore su tutte le creature e allietarle con gli splendori della tua luce Noi ti lodiamo, Padre santo, per la tua grandezza: tu hai fatto ogni cosa con sapienza A tua immagine hai formato l’uomo alle sue mani operose hai affidato l’universo perché nell’obbedienza a te, suo creatore, esercitasse il dominio su tutto il creato. E quando, per la sua disobbedienza, l’uomo perse la tua amicizia, tu non l’hai abbandonato in potere della morte, ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro, perché coloro che ti cercano ti possano trovare. Schiere innumerevoli di angeli stanno davanti a te per servirti, contemplano la gloria dei tuo volto, e giorno e notte cantano la tua lode. Insieme con loro anche noi, fatti voce di ogni creatura, esultanti cantiamo: Santo, Santo, Santo il Signore, Dio dell’universo...

 

Secondo comandamento

 

NON PRONUNZIARE INVANO IL NOME DEL SIGNORE TUO DIO

 

 

TESTI BIBLICI

"Non ti servirai del nome di Jahwè per giurare il falso” (Dt. 5,11; Lev. 19,12).

“Il Signore non lascerà impunito che pronunzia il suo nome invano”(Es. 20,7).

 

IL NOME DI DIO

La mentalità ebraica a riguardo del nome era questa: conoscere il nome di una persona o di una cosa, significa possederla, dominarla, farne l’uso che si voleva. Il dominio dell’uomo, di Adamo, sulla creazione incomincia dal momento in cui egli dà un nome alle creature (Gen. 2,19-20). Ma nelle religioni dell’ambiente biblico questa convinzione non si arrestava neppure di fronte agli dèi. Se si conosceva il nome di un Dio si poteva anche “scongiurare” quest’ultimo, cioè renderlo docile ai propri desideri. Il più grande motivo di orgoglio per Israele consisteva proprio nella conoscenza del nome del suo Dio: “Jahwè”. Ora questo nome “Jahwè” non è una qualsiasi capricciosa combina­zione di lettere, ma una parola ebraica, o più esattamente un intera proposizione: "Io sono colui che sono” che si può anche indicativamente tradurre in questi 4 modi.

Questo spiega perché il popolo d’Israele veneri la rivelazione del nome di Dio come un dono prezioso. Il rispetto per il nome di Dio, l’attenzione a non usarlo con leggerezza e quindi ad abusarne sono talmente grandi che si scrive il suo nome rivelato nei testi biblici, ma per il resto lo si sostituisce con altre espressioni sia scrivendo, sia parlando. “Al posto del nome di Dio subentrano nomi come: il Santo, sia egli lodato; il Misericordioso; il Nome benedetto; semplicemente “il Luogo” (perché Dio è il luogo del mondo e  non il mondo il luogo di Dio)”. Il divieto di abusare del nome di Dio è diretto in primo luogo, nel suo significato originario, contro la magia, allora molto diffusa in Oriente. Nell’impiego delle formule magiche si riteneva che la cosa più importante consistesse nel conoscere il vero nome della divinità, onde porla, appunto con la pronuncia del nome, al proprio servizio. Inoltre il divieto è rivolto in modo speciale a coloro che invocano Dio come testimone della verità di un’affermazione falsa. i Gesù ci insegnerà il nome di Dio con un appellativo che ci riguarda da vicino: il nome di “ABBA’” cioè Padre. Il rispetto del nome di Dio non crea quindi necessariamente una distanza nei suoi confronti ma anzi un atteggiamento confidenzialmente rispettoso.

 

Che cosa dobbiamo fare?                                                                                

Se vogliamo che la forza della fede, che ispira l’agire morale, balzi pienamente in luce nel caso di questo comandamento, dobbiamo mostrare che esso è diretto nello spirito di libertà contro una falsa invocazione del nome di Dio. L’uso sbagliato del nome di Dio  cerca di insidiare in nome di Dio la vita e la libertà dell’uomo, cosa che può avvenire in molteplici modi. Nel nome di Dio si sono condotte guerre terrificanti e pronunciate sentenze spaventose. Si pensi solo alle crociate, ai roghi delle streghe e ai pogrom contro gli ebrei. In tal modo il nome di Dio è stato infangato moltissime volte nel corso della storia. Si è abusato del nome di Dio tutte le volte che lo si è usato come copertura dei propri interessi poco pii. Così ci  si è appellati a Lui per difendere come volute da Dio le differenze esistenti, ad esempio, tra schiavi e liberi o tra   ricchi e poveri. Neppure la Chiesa è al riparo dall’abuso del nome di Dio, anzi è particolarmente proclive ad abusarne! Troppo facilmente essa tende “a identificare se stessa e il proprio agire e comportamento nella storia e nel presente con la volontà divina” e far passare la propria parola come parola di Dio. I cristiani abusano variamente del nome di Dio anche nel loro comportamento individuale verso di Lui. La tendenza ad abusare di Dio come del realizzatore dei propri desideri è un fenomeno quotidiano, non ultimo nella prassi della preghiera. Nella misura in cui le mie suppliche e i miei desideri diventano dei “comandi”, io indulgo a tendenze magiche. Il non soddisfacimento dei desideri diventa per molti un mo­tivo di licenziare Dio. Essi si comportano come il primitivo, “che picchia o getta via il proprio feticcio quando non si verifica quel che si è atteso e aspettato da Lui”. Usare nel modo giusto il nome di Dio significa: impegnarsi nel suo nome e in virtù del suo nome a promuovere la dignità dell’uomo, sua immagine. Richiamarsi al nome di Dio  significa: richiamarsi a Lui come al garante della vita della libertà. Santifica il nome di Dio colui che, in questa prospettiva, cerca di conoscere e di fare la volontà divina. Non per nulla le due domande del “Padre nostro”: “Sia santificato il tuo nome; sia fatta la tua volontà” vanno strettamente unite.

 

Una domanda

 

I Testimoni di Geova continuano a dire che i cristiani non dicono il vero nome di Dio che sarebbe Geova.

Dov’è la verità? Come si può rispondere a questa obiezione? 

l Testimoni di Geova iniziano spesso con questa domanda: “Lei sa qual è il nome di Dio?”. L’intervistato risponde: “Mi pare facile! Dio si chiama... Dio”. Ma essi ribattono: “Non è così! Dio è il nome comune. Il nome proprio di Dio rivelato nella Bibbia è Geova! I vostri preti non vi dicono la verità! Noi vi insegnamo la parola di Dio come è contenuta nella Bibbia!”. Ma la verità non è affatto quella affermata dai Testimoni di Geova. La Bibbia attribuisce a Dio diversi nomi: nell’Antico Testamento ne troviamo almeno cinque: Adonài che significa Signore; Saddài, l’Onnipotente; Elohim, che significa divinità; Elion, l’altissimo. Ma il nome che ricorre di più è Jahwé, il nome che Dio stesso ha rivelato a Mosè nel roveto ardente, sulle alture del monte Sinai. Nella Bibbia non si dice affatto che sia obbligatorio usare questo nome a preferenza degli altri. Anzi gli Ebrei, per sommo rispetto, non osavano neppure pronunciare questo nome; nella Bibbia lo indicavano con le quattro consonanti I H V H e lo sostituivano con i nomi di Adonài e Elohim. Furono i Masoreti, glossatori ebrei, che verso il 1.000 dopo Cristo pensarono di ristabilire il testo originale inserendo nel tetragramma le vocali di Adonài e Elohim. Ne derivò una trascrizione errata del nome divino: IEHOWAH da cui la pronuncia inglese Geova. I dirigenti dei Testimoni di Geova sanno che l’appellativo “Geova” non è biblico, ma risale ad un errore di scrittura: ma continuano ad usarlo avendo dato ad esso un valore così fondamentale. Da pochi anni di fronte alla dimostrazione fatta da tutti gli studiosi della Bibbia che il vero appellativo biblico è Jahwé, i Testimoni di Geova replicano: “Pronunziare Geova o Jahwé, o qualche altra espressione, finché la pronuncia è comune nella lingua usata, non è sbagliato; è sbagliato in­vece non usare questo nome”. (“La verità che conduce alla vita eterna”). Ad ogni modo ribadiscono che chi non usa questo nome non può appartenere al popolo di Dio. Ma anche questa affermazione è falsa e non si trova affatto scritta nella Bibbia. Addirittura constatiamo che in tutto il Nuovo Testamento no c’è mai il nome di iahwé. Non importa. Testimoni di Geova correggono la Bibbia e nel Nuovo Testamento della loro Bibbia hanno scritto “Geova” dove invece gli autori sacri usano la parola Kyrios (Signore).

 

E’ lecito o no fare dei giuramenti sul nome del Signore e fare dei voti?

Cristo non ha proibito il giuramento: Egli stesso dinanzi al Sinedrio ha parlato sotto giuramento (Mt. 26,59-64). In alcuni casi gravi come il giuramento in tribunale si può chiama re Dio a testimone della verità detta o anche quando si promette qualcosa di importante si può chiamare Dio a testimonio di voler mantenere la promessa. Gesù però vuole che ci intendiamo vicendevolmente senza giuramenti. Egli dice: “Non giurare. Il vostro parlare sia Sì, sì; No, no; quel che viene di più appartiene al male.(Mt.5,34-37). Il voto fatto a Dio è promettergli un’opera buona con l’intenzione di rendergli in particolare onore. Il voto è presente fin dalle prime pagine della Bibbia, vedi ad esempio Giacobbe (Gen. 28,16-22). Prima di fare un voto è bene però riflettere molto perché i voti vanno mantenuti (Eccles. 5,3-4).

 

 

 

Terzo comandamento

 

RICORDATI DI SANTIFICARE LE FESTE

 

 

Parla la Bibbia

Due testi in particolare danno le motivazioni di questo comandamento che certamente, almeno nel suo aspetto di riposo settimanale era già presente presso molti popoli anche prima della Bibbia. Come il Creatore si riposò il settimo giorno, così deve fare l’uomo (Gen. 2,2): “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro” (Es. 20,8—11). Ben diversamente il terzo comandamento è motivato nel libro del Deuteronomio. Il Signore ha liberato il suo  popolo dalla prigionia, di conseguenza tutti i membri del popolo, anche gli schiavi e gli stranieri al suo servizio, debbono riposare in giorno di sabato come uomini liberi: “Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il  Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato” (Dt. 5,12—15). Quindi il riposo e la festività sabbatica avrebbero lo scopo di riconoscere che Dio e Signore, che è liberatore e che quindi la vita dell’uomo deve essere liberata. Il terzo comandamento mira molto chiaramente a una importante esperienza della libertà. Eppure nessun altro comandamento è stato forse utilizzato come questo per comprimere l’uomo tanto nella realtà del sabato giudaico quanto in quella della domenica cristiana. Al tempo di Gesù il giudaismo cercava di regolare minuziosamente il sabato con prescrizioni complicate. Gesù si ribella intenzionalmente contro questo fatto, viola ostentatamente il precetto del sabato e afferma: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc. 2,27). Le sue affermazioni sul sabato vengono giustamente  considerate ardite e provocanti, perché rappresentano una chiara ribellione contro le idee religiose dominanti in quel momento. Tale ribellione era però necessaria, perché l’interpretazione legalistica era arrivata al punto di stravolgere completamente il senso originario del sabato.

 

Il  riposo

Il terzo comandamento ci ricorda il valore del lavoro e del riposo fondandoli entrambi su Dio, si lavora per collaborare alla creazione ma si riposa perché si sa che il Signore è Lui stesso a portare a compimento la sua opera. Il riposo ci insegna anche a guardare con oggettività a quelli che sono i nostri limiti e le nostre esigenze; è un invito ad un’esistenza semplice, non finalizzata unicamente al profitto. E’ anche una prefigurazione della festa eterna che Dio prepara per i suoi, quando donerà all’uomo la piena salvezza. Siamo noi ancora in grado di riprendere fiato, di essere allegri, dì giocare, di fare festa? Se si va per le nostre strade di domenica pomeriggio, si ha spesso l’impressione che, al posto del servizio religioso, sia subentrato uno strano sostituto: il servizio automobilistico, la venerazione di una specie moderna di idolo, soprattutto mediante il rito del lavaggio. Spesso di domenica, nelle famiglie, vengono sbrigate cose per le quali durante la settimana non si trova il tempo.

La stessa partecipazione al servizio religioso, quando ha luogo, viene spesso collocata nei punti più comodi e che disturbano meno lo svolgimento della domenica. Insomma spesso la domenica finisce per essere una giornata lavorativa molto tesa, anche se non trascorsa in fabbrica, in ufficio o a scuola. Come fare a riacquistare il senso della festa e del riposo? Ora la vita di ogni persona e di ogni famiglia è troppo diversa perché si possano liquidare questi problemi con un paio di “ricette”. Ecco però alcune domande o consigli su cui confrontarci per riappropriarci del senso della domenica.

Celebrare la festa

Il riposo settimanale del cristiano non è solo un fermarsi mal il “dare tempo” per glorificare e celebrare il Dio della vita. Ecco allora per i cristiani il “giorno del Signore” come momento glorioso e gioioso di celebrazione dell’evento  centrale della nostra fede: la risurrezione di Gesù. Li Cristo risorto ci raduna per farci sentire un sol popolo che celebra la bontà e la magnificenza della Parola, della misericordia di Dio, che comunica alla sua divinità nell’attesa del compimento delle sue promesse. Non dovrebbe dunque aver senso parlare ancora di “precetto  festivo”, di “validità della Messa”, se “presa” dall’offertorio in avanti. L’Eucaristia dovrebbe essere gioia dei cristiani che sentono l’esigenza di celebrare, lodare ringraziare, gioire, chiedere, incontrarsi, aiutarsi: fare comunità e comunione, camminare insieme...

 

Una domanda

 

Nella Bibbia si dice di santificare il sabato: perché la domenica come giorno di riposo e di festa?

Noi sappiamo che il sabato come giorno di riposo è antichissimo e che particolarmente il popolo ebraico lo ha sentito e sente ancora oggi. Ecco come ne parla un midrash.

Un raccontino:

  

Non rubare a Dio

Un operaio derideva un suo compagno, buon cristiano, perché la domenica non prendeva impegni di lavoro. Questo per far capire il motivo che lo guidava  diceva all’operaio così: Supponi che io abbia settemila lire in tasca, incontro un poveraccio, che mi chiede un aiuto. Io gli regalo seimila lire. Che diresti?  Che sei generoso, rispose l’operaio. Il poveraccio, invece di essermi grato, mi salta addosso  e cerca di rubarmi anche le altre mille. Che diresti tu? Direi che fa molto male. Amico mio, questa è la tua storia. Il Signore ci ha dato sei giorni per lavorare e si è riservato il settimo e tu gli rubi anche quello L’amico non seppe più replicare.

                                                                                                                             

 

Quarto comandamento

 

ONORA TUO PADRE E TUA MADRE

 

 

Bisogna anzitutto situare questo comandamento all’interno del decalogo: esso apre la serie dei comandamenti che fondati sull’amore di Dio regolano i nostri rapporti con il prossimo: e il nostro primo prossimo è proprio la famiglia. Il vero destinatario di questo comandamento (come di tutti gli altri) è l’israelita adulto e libero. A lui viene ricordato il dovere di provvedere ai genitori anziani, di provvedere cioè alla generazione non più capace di lavorare. Il comandamento non è quindi diretto in primo luogo ai più deboli, affinché obbediscano ai potenti, ma è diretto piuttosto ai potenti, affinché non mettano da parte i genitori anziani e malfermi. Esso non mira all’obbedienza verso i genitori, ma al rispetto dei genitori, esige che si abbia fiducia in loro, ma non chiede affatto di rilasciare ai portatori dell’ordinamento tradizionale un assegno in bianco di sottomissione ai loro voleri. Anche testi successivi dell’Antico Testamento sottolineano in questo senso il dovere dei figli e delle figlie adulte verso i genitori. Così leggiamo, per esempio, nel libro del Siracide: “Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore” (Sir. 3,12 5; cf. 3,1—16; Pr. 16,20). Pure  Gesù, quando parla del quarto comandamento, ha chiaramente davanti agli occhi il comportamento di figli adulti verso i loro genitori (cf. Mt. 15,4—6).

 

VARIAZIONI SUCCESSIVE

Nel corso della storia della Chiesa il quarto comandamento  fu continuamente utilizzato scostandosi dal suo significato originario per sostenere le autorità costituite, oltre che i genitori. Lo si riferì tranquillamente a ogni governante e padrone, al sovrano del paese come al capo ufficio  nella vita professionale. I manuali di teologia morale e catechismi trattarono nella cornice di questo comandamento perfino questioni del giusto salario e del contratto di lavoro, perché il datore di lavoro è appunto il padrone e l’autorità che bisogna rispettare e a cui si deve obbedire. In tal modo il quarto comandamento contribuì in misura  essenziale al consolidamento d’un modello sociale patriarcale e favorì non pochi abusi di potere. Al riguardo bisogna dire: la tendenza a garantire mediante il quarto comandamento tutte le autorità esistenti è contraddetta dalla preoccupazione, chiaramente visibile nella Bibbia, di ostacolare a fondo il culto delle persone di qualsiasi specie. La Bibbia oppone a tutte le autorità,  che pretendono di essere autonome, queste parole critiche :E “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At.5,29) Ma la Bibbia di per sé non sostiene la famiglia patriarcale.  L’unica cosa che possiamo giustamente desumere dal quarto  comandamento in un senso ampio, che va al di là del rapporto con i genitori, è un chiaro apprezzamento delle tradizioni collaudate. Chi le respinge e le considera solo un ostacolo alla propria auto realizzazione, respinge delle esperienze che sono indispensabili per una più profonda comprensione di se stessi.  La nostra società moderna ha superato quella patriarcale,  tuttavia sembra che oggi il IV comandamento sia diventato più urgente di prima. Non si tratta in fondo di un aut—aut: chi ha la preminenza, la giovinezza o la vecchiaia? Non si tratta neppure di salvare o, in caso di necessità, di restaurare un “sistema patriarcale” di società. E neppure ci dimentichiamo che Gesù può benissimo immaginarsi situazioni in cui il quarto comandamento non può più avere la preminenza. Là dove, ad esempio, i genitori influenzano i loro figli nei confronti suoi e del Regno di Dio, egli proclama: “Sono venuto a mettere divisione: l’uomo contro suo padre e la figlia contro sua madre.. (Mt. 10,35). Di che si tratta allora? Da parte dei giovani come degli anziani, questo comandamento come atto di fede. Soltanto la fede può vedere nel prossimo in generale e nei genitori in particolare il segno e la testimonianza dei doni di Dio. Non illudiamoci: chi non parte dalla fede può anche non apprezzare la propria vita e quindi trovare difficoltà ad essere riconoscente. Essere riconoscenti verso i genitori, “onorare” i più anziani e le persone sperimentate nella vita, “considerarli importanti”, come dice letteralmente il testo antico, è possibile soltanto se prima si considera la vita e la realtà come qualcosa di buono, e cioè vi si riconosce la presenza del Dio, che, attraverso il padre e la madre, ci fa dono di questa vita buona, ci concede la possibilità di dispiegarla in questo mondo e in mezzo agli altri uomini, ponendola così sulla via del suo inimmaginabile compimento.

 

COME VIVERE QUESTO COMANDAMENTO?

E’ chiaro che il primo dovere che scaturisce dal quarto comandamento è quello di provvedere ai genitori e alle persone anziane in generale. Ora, nei nostri Stati moderni, normalmente ciò avviene in maniera quasi automatica”, quanto con le tasse il datore di lavoro trattiene anche i contributi sociali da versare all’assicurazione, con quali viene provveduto ai nostri pensionati. Ciononostante di come noi dobbiamo provvedere ai nostri genitori non si rivela superfluo. Evidentemente la sicurezza finanziaria da sola non è tutto. Un metro che dovrebbe guidarci nel “come” trattare gli anziani potrebbe essere la domanda: “Come vorrei io essere trattato dai miei figli quando sarò vecchio?”.

                                                                                                                            

AIUTO E CONTATTO                                                                              

Un campo importante dell’ “onore” riservato ai genitori è costituito dall’aiuto pratico quotidiano. Esso deve essere naturale là dove ci troviamo di fronte a degli anziani abbandonati, indifesi. Un esempio è costituito dal rapporto E con le autorità, che spesso trovano difficile persino le persone ancora attive nella produzione. Ci sono molti anziani che subiscono passivamente tutti gli interventi  delle autorità amministrative le cui stesse lettere, con il loro linguaggio tecnico rappresentano una difficoltà non piccola solo perché non hanno più la forza di sopportargli strapazzi di una discussione con la pignoleria burocratica. Qui devono farsi avanti i giovani per preservare gli anziani dall’impressione che li si tratti senza riguardo e ingiustamente. Un aiuto prestato con tatto è anche il contatto. Se comprendiamo che la cosa più dolorosa, quando si invecchia è costituita dal vedersi strappare una dopo l’altra,  persone con le quali si è vissuti: i genitori, i fratelli, il coniuge, le buone antiche conoscenze; se si può intuire come nella crescente solitudine proietti la sua ombra l’essere soli di fronte alla morte, allora si comprende anche E che gli stessi regali più generosi sono ben poca cosa in confronto al tempo che noi dedichiamo al colloquio con gli anziani. Con ciò si intende sia il contatto attraverso  il dialogo che intratteniamo con essi, sia i contatti con persone della loro età, che noi ci preoccupiamo di procurare loro, magari con qualche astuzia. In realtà, può essere  osservanza del quarto comandamento se, una volta all’anno, il figlio e la nuora insieme ai nipotini si recano in auto alla casa di riposo per fare una visita d’obbligo al  padre o alla madre, portano un grande mazzo di fiori o un  regalo, raccontano le ultime imprese dei bambini e, dopo un quarto d’ora, guardano l’orologio e dicono: “Mamma, a (papà), oggi abbiamo molta fretta, purtroppo dobbiamo  andarcene”?

 

OBBEDIENZA O NO? COME?                                                                       

Un problema particolare nel rapporto dei figli con i genitori è naturalmente rappresentato dall’ “obbedienza” Al riguardo svilupperemo, brevissimamente, un paio di principi molto semplici. I figli adulti non sono in alcun caso tenuti a “obbedire” ai loro genitori. I genitori non hanno alcun motivo e alcun diritto di lamentarsi della “disobbedienza” dei figli 0quando questi desiderano percorrere la loro strada in piena responsabilità e non hanno piacere che i loro genitori si immischino soprattutto nelle questioni più delicate (scelta del coniuge, scelta della professione, ecc.). I figli minorenni sono naturalmente tenuti a obbedire ai loro genitori. Ma anche qui i genitori dovranno ben guardarsi da un’applicazione schematica di “comando” ”obbedienza”. Le acquisizioni della psicologia infantile e giovanile, cui abbiamo già accennato, ci insegnano chiaramente che l’esigenza del bambino ad una propria vita automaticamente responsabile non sta, per così dire, fino ai diciotto anni sotto riserva. Si sa che oggi un giovane al più tardi a dodici anni incomincia a sviluppare una propria coscienza e un proprio rapporto peculiare con le esigenze della vita, per cui non può più limitarsi alla semplice imitazione di quello che i genitori fanno davanti a lui. Se quindi i genitori, invece di promuovere e aiutare prudentemente questa evoluzione (spesso per essi molto dolorosa), la reprimono con violenza, è possibile che sul momento essi ottengano un successo esterno, insieme però rischiano che il loro figlio diventi una persona che negli anni decisivi non ha imparato ad assumersi la responsabilità della vita. Rischiano inoltre che, più tardi, il figlio, segretamente o apertamente, odi i propri genitori. Questi ultimi perciò dovrebbero presentare la loro richiesta di obbedienza ai figli che è cosa assolutamente necessaria in modo che nel bambino non si inculchi l’impressione che la sua volontà venga sistematicamente violata dai genitori. Essi dovrebbe piuttosto tenere presente che il bambino obbedisce ai genitori perché li ama (e non perché ha paura di essi), e che il bambino cresciuto e, infine, il giovane obbedisce ai genitori in seguito a una sempre più profonda ponderazione della cosa o anche semplicemente per riguardo ai ragionevoli diritti e alle comprensibili preoccupazioni dei genitori, anche quando queste non siano condivise.

                                                                                                                                    

COMANDAMENTO PER I GENITORI                                                          

Certamente il quarto comandamento si rivolge anzitutto ai bambini e ai giovani. Ma non devono anche i genitori e le persone più anziane rendersi conto della parte di responsabilità che spetta loro nell’adempimento di questo comandamento? Non devono preoccuparsi pure essi affinché il rispetto dei genitori da parte dei figli non finisca per diventare una cosa impossibile? Se i figli si comportano E in maniera fredda o addirittura ostile nei confronti dei genitori, spesso ciò non è che la risposta al comportamento sbagliato e persino, privo di affetto dei genitori nei confronti dei loro figli. Il peggiore delitto di cui i genitori possono macchiarsi a riguardo del quarto comandamento è di non permettere ai figli di vivere la loro propria vita. Ciò non significa affatto che i figli debbano crescere selvaticamente, senza alcuna direzione e assistenza ragionevole, senza E il consiglio dell’esperienza dei loro genitori. Ciò non  è possibile già per il fatto che il peso di doversela cavare da soli nella vita, contando soltanto sulla propria esperienza, dovrebbe schiacciare qualsiasi uomo, ma soprattutto un giovane. Tuttavia il fine dell’educazione non può mai essere quello di formare i bambini a immagine e somiglianza dei    genitori, ma piuttosto quello di lasciare che essi trovino e percorrano la loro propria strada, aiutandoli se è il  caso, ma disinteressatamente anche se questa strada non dovesse corrispondere alle aspettative dei genitori.                    

 

“Superiori” e “sudditi” 

Fin dai tempi della nostra istruzione per la confessione  siamo abituati a interrogarci, a proposito del quarto comandamento, anche sul nostro comportamento verso i “superiori”. Evidentemente si tratta di un rapporto del tutto diverso da quello con i genitori naturali. Nessun “superiore” è legato alla nostra vita come lo sono nostro padre e nostra madre. E ciò vale anche per i superiori ecclesiastici, anche se a volte il linguaggio liturgico chiama la Chiesa nostra “madre” e le autorità ecclesiastiche (papa, vescovo, sacerdote) “padre”. Da nessuno di essi noi abbiamo ricevuto la vita che ci ha fatto venire al mondo, e nessuno di essi ci è preposto direttamente “dalla grazia di Dio”. Piuttosto la loro posizione nei nostri confronti è indiretta, fondata su una autorità umana, e noi stessi, direttamente o quanto meno indirettamente, abbiamo scelto questa autorità. Ciononostante il quarto comandamento ha a che fare con il    nostro rapporto con i superiori e di questi con noi. Ma dove convivono degli uomini deve regnare l’ordine che questa parola oggi piaccia o non piaccia. E l’ordine nella convivenza richiede regole e leggi e persone il cui compito consiste nel pensare, promulgare e far osservare queste regole e leggi. E tutto ciò esse fanno non per se stesse ma per noi, in altre parole: i superiori, e anche le autorità ecclesiastiche, esistono per noi, e non viceversa. La loro responsabilità, nonché la loro legittima “autorità”, e un servizio, e non l’esercizio di un potere a proprio piacimento. Noi li “onoriamo” e ne eseguiamo le giuste disposizioni. Ma i superiori si guarderanno bene dall’attendersi dai loro sudditi un tipo diverso di osservanza delle loro disposizioni, e in nessun caso abuseranno del loro potere all’unico fine di imporsi. Ma se, in cose piccole o grandi, i superiori commettono ogni sorta di soprusi? In questo caso cessa radicalmente il dovere di lealtà sul quarto comandamento. E il cristiano può in tutta libertà d’animo quindi con libertà e coraggio dichiarare ai suoi superiori che egli non intende farsi privare della “libertà dei figli di Dio”; che non è disposto a ‘obbedire” soltanto per permettere ai superiori il piacere del comando; ma al contrario farà tutto il possibile per amareggiare loro questo piacere.

 

UN SIMPATICO RACCONTINO

 

Una mamma dimostra il suo amore al figlio

Un bambino, di nome Valentino, una mattina si recò a scuola, tenendo il pugno della mano sinistra sempre chiuso. Quando veniva interrogato teneva il pugno sinistro chiuso; se scriveva teneva il pugno chiuso. La maestra, anche per soddisfare la curiosità dei compagni, domandò a Valentino il perché. Subito il ragazzo si schermiva, ma poi si decise a svelare il segreto. Il motivo per cui tengo chiuso il pugno della mano sinistra è molto semplice. Questa mattina, quando partiti da casa per venire a scuola, mia madre mi stampò sulla palma della mano sinistra un forte bacio, mi chiuse la mano con molta dolcezza e mi disse: “Valentino, figlio mio, tieni sempre ben chiuso nella tua mano il profumo del bacio di tua madre!”. “Ecco perché io tengo la mano chiusa con il suo prezioso  tesoro”

                                                                                                                             

 

 

Quinto comandamento

 

NON UCCIDERE

 

 

Il comandamento sembra il più ovvio di tutti. Invece è un comandamento difficile, che ha fatto, anche all’interno della Sacra Scrittura, un lungo cammino e che ancora oggi ci lascia grandi interrogativi e ci interpella.

 

NELLA  BIBBIA

Il senso originario di questo comandamento e: non assassinare”, cioè “non farti giustizia da solo”. La vita è di Dio, chi uccide profana la dignità del prossimo protetta da Dio, del prossimo che è immagine di Dio. E si arriva all’estremo di dire: chi uccide in questo modo sarà ucciso (Gen. 9,6). Inizialmente in Israele la vendetta di sangue era tollerata. in caso di omicidio, per esempio, i parenti dell’ucciso sono autorizzati a vendicare l’assassinio (cf. Nm. 27,10s; Gdc. 8,18-21; 2Sam. 14,7—11). Ma per impedire le esagerazioni, la vendetta del sangue venne limitata col principio successivamente spesso frainteso: “Occhio per occhio, dente per dente”(Es. 21 ,24; cf. nel Nuovo Testamento Mt. 5,38-42)e niente di più! Queste parole bibliche, che oggi vengono volentieri citate come segno d’una particolare sete di vendetta, sono in realtà, secondo la loro vera intenzione,  un’arma protettiva molto efficace contro una escalation degli atti di vendetta.

 

Variazioni successive

Con il passar del tempo, in Israele venne limitato lo spazio lasciato alla vendetta di sangue, e, dopo la formazione di un ordinamento giuridico, esso venne sottoposto al controllo dell’autorità (cf. Es. 21,18—25; Dt. 19,15—21). Si riconobbe all’assassino la possibilità di rifugiarsi presso l’altare (Es. 21,14) o in città asilo (Nm. 35,25). Un altro passo in avanti è rappresentato dalla prescrizione (Dt. 24,16), secondo la quale la vendetta di sangue può colpire solo il colpevole e non anche i membri della sua famiglia. Più avanti ancora leggiamo: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Lv. 19,18). “Mia sarà la vendetta” (Dt. 32,35  cf. Rm. 12,19; Eb. 10,30). Il principio che fin dall'inizio regola tutto questo può essere così formulato: “Siccome Dio è il creatore di ogni vita, ogni vita ha diritto alla protezione da parte della comunità del popolo”. Per i profeti l’uccisione, oltre al suo significato originario, può anche avere questi sensi: sfruttare economicamente un individuo in maniera grave, opprimerlo socialmente e giuridicamente, tarparne le possibilità. I profeti definiscono continuamente un simile comportamento con il vocabolo duro e accusatorio di “assassinio” (Os. 4,2; Is. 1,15.17 ecc.). Michea descrive questo tipo di uccisione in maniera particolarmente drastica, tacciando i ricchi, che sfruttano i poveri, di cannibalismo: “Divorano la carne del mio popolo e gli strappano la pelle di dosso, ne rompono le ossa e lo fanno a pezzi come carne in una pentola” (Mi. 3,3;  cf. tutto il capitolo 3).  Infine il Nuovo Testamento approfondisce ancora una volta il quinto comandamento. Gesù osserva che la manifestazione esterna di ostilità molto spesso è solo l’ultima esplosione di un odio a lungo covato: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: Chiunque si adira col proprio  fratello, sarà sottoposto a giudizio” (Mt. 5,22). Pure la tradizione ecclesiastica ha continuato ad approfondirlo, come testimoniano numerose affermazioni dei Padri. Lo stesso Lutero si inscrive in questa linea, quando dice: “Se lasci andare via un nudo, che potresti vestire, lo hai fatto morire di freddo”; se non dai da mangiare a un affamato, lo uccidi.

 

COME ATTUALIZZARE OGGI IL  5° COMANDAMENTO 

L’attualizzazione di questo comandamento ha riferimento a situazioni e problemi quanto mai vari come tortura, pena di morte, guerra, obiezione di coscienza, suicidio, aborto, eutanasia, energia atomica, inquinamento dell’ambiente, danni alla salute procurati da droga, dall’alcool, dal fumo, conflitti Nord-Sud, concorrenza spietata, salvaguardia del buon nome... Certamente non si possono trattare con delle risposte decisive ed esaustive tutti questi argomenti.

 

Pena di morte

Che cosa si deve pensare della pena di morte che viene invocata ogni volta che ci si trova di fronte a un delitto particolarmente efferato? La lettera del quinto comandamento non la vieta. Non la permettono invece il motivo e il senso del comandamento. Su questo punto noi possiamo e dobbiamo andare oltre la mentalità dell’antico Israele. E precisamente per lo stesso motivo per il quale la si prescriveva in Israele per i casi di omicidio: perché l’uomo è immagine di Dio. E ciò non vale soltanto per l’assassinato, ma anche per l’assassino persino per il terrorista che uccide a sangue freddo. Lo Stato li deve impedire nelle loro azioni e deve difendere da essi la comunità. Ma nessun uomo può leggere nella coscienza di tali persone e giudicare come esse stiano davanti a Dio. Perciò soltanto a Dio deve essere riservato il giudizio definitivo; gli uomini non possono irrogare loro delle pene che non sia più possibile ritrattare. Perciò noi non possiamo giustiziare neppure nel nostro pensiero o sfogare contro di esse i nostri sentimenti di vendetta, Infatti, noi, cui grazie a Dio non viene in mente di compiere tali tremende azioni, sappiamo quali fatali malattie psichiche o quale inconscia disperazione hanno spinto l’assassino?

 

Aborto                                         

Il cristiano non potrà mai ammettere l’interruzione della gravidanza (aborto) eccetto nel caso limite in cui in seguito a complicazioni mediche, si deve interrompere la gravidanza per salvare la vita della madre. Per poter ammettere l’illiceità dell’aborto il cristiano non ha nem­meno bisogno di rispondere prima all'interrogativo, cui probabilmente non si potrà mai dare una risposta: se cioè il feto nel seno materno sia già “un uomo”, in modo che l’aborto diventerebbe addirittura “omicidio”. Basta sapere che il divenire del bambino nel seno materno è un  processo ordinato fin dall’inizio a una vita umana, il quale raggiunge per natura il suo scopo, se non viene turbato. Se l’uomo non può disporre arbitrariamente della vita umana, egli non può neppure intervenire in questo  processo orientato alla vita. Però si può non tener conto di tutta una serie di problemi. psicologici della madre che ad esempio non accetta la sua maternità, che è stata violentata materialmente o moralmente da essa? Si può non tener conto della vita materiale o morale a cui andranno incontro certi bambini? E se da un esame medico risulta che un bambino verrà al E mondo con gravi malformazioni fisiche o con gravi lesioni cerebrali? Bisogna rappresentarsi con molta chiarezza questa situazione: Una donna, una coppia sa mesi prima che il. suo bambino non potrà mai condurre una vita realmente umana. Chi potrebbe rimanere insensibile alla disperazione di questi genitori? E se essi decidono di interrompere la gravidanza chi potrebbe gettare la prima pietra? Eppure le obiettive ragioni contrarie sono chiare, e pesano di più: Se un tale figlio non posso ucciderlo dopo la sua nascita, perché dovrei poterlo fare prima, qualora rimangano validi i principi menzionati sopra? Chi inoltre stabilisce quali siano le malformazioni e le lesioni cerebrali gravi? Chi ci garantisce che alla fine non sia ancor allo Stato a decidere quale sia la vita degna di vivere e quale no? Possiamo inoltre essere interamente sicuri che in una tale decisione non si inseriscano anche non dichiarati motivi personali e la durezza di cuore della società, desiderosa di scrollarsi di dosso il “peso” di tali persone bisognose di assistenza durante l’intera loro vita? Possiamo noi, come cristiani, dire che una vita potrebbe non divenire “umana” quando sappiamo che Dio ha chiamato ogni uomo per nome e lo ama come suo figlio, indipendentemente dalle sue capacità? Migliaia di cristiani e non cristiani non ci mostrano ogni giorno, pieni di fede e senza lamentarsi contro Dio, come si accettano tali figli con amore e li si accompagna nella loro difficile vita?

 

Eutanasia

Se un ammalato grave chiedesse al suo medico di fargli una puntura mortale e di liberarlo dal suo tormento, il cristiano, pur con tutta la comprensione e compassione possibile, non potrebbe che rispondere: questa “eutanasìa” attiva e diretta equivale a disporre della vita di un uomo, quando sappiamo che soltanto Dio è il padrone della vita ed ella morte. Ma a un paziente mortalmente ammalato e pieno di dolori può un medico somministrare dei calmanti anche se sa che così ne accelera un po’ la monte? Lo può certamente, poiché in questo modo egli non “dispone” della vita e della morte, ma al contrario aiuta il paziente a disporsi meglio e più sereno alla morte. Ma il problema principale nella discussione sull’eutanasia è un altro. La ricerca e la tecnica medica hanno fatto nel nostro tempo progressi tali che è divenuto possibile prolungare per un tempo considerevole la vita di un paziente mortalmente ammalato, anche se non ci sono speranze di farlo guarire. Ora può un medico rinunciare all’uso di tali  possibilità, e il paziente può richiedere questa rinuncia? Molti medici si sentono qui vincolati dal loro giuramento professionale, che prescrive di mantenere la vita in tutte le circostanze e con tutti i mezzi. E questo atteggiamento non può mai essere abbastanza lodato. Senza dire che il medico può anche temere che i parenti di un deceduto lo citino in tribunale se non avrà fatto tutto il possibile per conservare la vita dell’ammalato. Oggi invece tra i cristiani sta incominciando ad imporsi un nuovo modo di vedere le cose in questo campo. Non  esiste, infatti, soltanto il dovere del medico di conservare la vita fisica finché è possibile, ma anche il diritto  della persona dell’ammalato grave di morire la sua propria morte. Il morire dell’uomo non è come il crepare dell’animale. Per il cristiano la morte è l’ultimo atto della sua fede, con il quale egli si abbandona interamente tra le braccia di Dio. Se le cose stanno così e la morte E è certa, questo diritto, anzi questo dovere del cristiano di trasformare il suo morire nell’ultimo atto di non può non avere la preminenza rispetto a un prolungamento puramente fisico della vita, che spesso viene vissuto sol tanto in uno stato crepuscolare, quando non addirittura di incoscienza. Ma, questo naturalmente è il pensiero del moralista. Penso, che in ultima analisi sia la coscienza di ogni individuo che si trova in queste situazioni a dover dire l’ultima parola, tenendo conto dei ragionamenti, della  natura e soprattutto della misericordia di Dio.

 

Lesioni corporali

Non dobbiamo certamente discutere a lungo sul fatto che il quinto comandamento vieta anche i danni arrecati all’incolumità e alla sanità, quindi le lesioni fisiche intenzionali, le quali, se anche non uccidono la vita, in ogni caso la diminuiscono e possono spesso accelerare la morte. E sappiamo anche che il quinto comandamento ci invita a porre la massima attenzione a tutto ciò che, conseguenza di un nostro agire o di un nostro non agire, potrebbe causare danni o morte ad altri, come una guida spericolata,  una non cura di stabili, una latitanza davanti ai propri  doveri che possa causare danni o morte di altri. Più problematiche sono invece alcune forme indirette e preterintenzionali di lesione fisica che, per esser e divenute così frequenti nel nostro tempo, richiedono una più attenta riflessione. E’ lecito, ad esempio, il cosiddetto trapianto di organi, e precisamente non soltanto il trasferimento di un organo ancora sano (ad esempio di un rene) da una persona appena morta ad un ammalato, ma anche il trapianto di organi di una persona sana in un ammalato? Si potrà dire che un trapianto di organi di un vivente è permesso quando non procura la morte del donatore. Si può certamente mettere in pericolo la propria vita per salvarne un’altra, ma non si può uccidere un uomo, neppure  per salvarne un altro. Si può provare addirittura spavento a sentire quali possibilità già oggi possieda la medicina per influenzare i patrimonio ereditario di un uomo. Si parla già di “manipolazione genetica”. Ora, si può attuarla per procurare una salute migliore o maggiori capacità intellettuali ai bambini che stanno per nascere? In un primo momento si potrebbe francamente rispondere in maniera affermativa. Ma se si incomincia a riflettere più a fondo sorgono subito i dubbi. Dove deve arrestarsi la “manipolazione” Chi stabilisce il criterio per decidere chi sia un uomo “sano”? Come impedire che, alla fine, ognuno che sia sospettato di non trasmettere un buon patrimonio genetico, possa venire costretto dallo Stato, “per il bene della sanità nazionale”, a permettere che il suo patrimonio genetico venga manipolato? O viceversa: chi impedisce che a tali persone venga proibito di avere figli? Insomma, chi impedisce che, alla fine, gli uomini nascano dai laboratori medici? Non abbiamo raggiunto qui un punto in cui si impone l’interrogativo, se l’uomo possa ancora “disporre”? Se egli possa fare tutto quello che è nelle sue possibilità? Problemi tremendi! Si deve inoltre prendere molto sul serio il fatto che alcuni scienziati cristiani siano già assillati dall’interrogativo, se il quinto comandamento, a un certo punto, non possa esigere anche la cosiddetta “rinuncia alla ricerca”, e cioè la rinuncia, fondata moral­mente, a voler conoscere con ancora maggiore esattezza e, quindi, disporre di determinati fatti riguardanti l’uomo. Ma passiamo da questi angoscianti problemi di frontiera a una forma di lesione fisica di tutti i giorni, che interessa (quasi) tutti noi: Fino a che punto noi danneggiamo nostro proprio corpo con un continuato comportamento antigienico. Si apre qui un vasto campo su cui esaminare la nostra coscienza, a cominciare da una nutrizione per niente sana e troppo abbondante (“periodo di grande bisogno di cibarie”), per finire con l’uso irrazionale e incontrollato dei medicinali, passando attraverso l’indiscriminato consumo di alcool e di nicotina. De resto la stessa “pillola”, e quindi la regolazione delle nascite mediante preparati chimici, è più un problema del quinto che del sesto comandamento, in quanto il problema degli effetti secondari a lunga scadenza, di un ininterrotto intervento sul ciclo della donna viene affrontato dall’opinione pubblica naturale con un ottimismo troppo poco giustificabile. Si capisce che in questo campo ogni procedimento schematico, fondato sul calcolo, è fuori luogo. Non si dovrebbe però dimenticare che qui è in gioco il quinto comandamento, e precisamente in maniera salutare.           

 

MORS TUA VITA MEA (Come vivere sulla morte altrui)

Forse il problema fondamentale della nostra società mondiale suona oggi cosi: la nostra economia mondiale tende seriamente a favorire le possibilità di vita di tutti gli uomini? Oppure è comandata dall’avidità delle nazioni  ricche, che vivono a spese dei popoli poveri e riducono sistematicamente le loro possibilità di vita mediante l’“ordinamento economico mondiale”? Se quest’ultima ipotesi fosse vera, non saremmo nella prospettiva dei profeti degli assassini. Tale dura parola non è purtroppo mitigabile. Anzi, sarebbe seriamente auspicabile che la nostra Chiesa ritornasse, ove necessario, alla forza  del linguaggio profetico! Essa parla un linguaggio troppo addomesticato, che non scuote né incita. Tutto ciò che sottrae all’altro le possibilità di esistenza è, in fondo, equivalente a un’uccisione, anche se ciò viene fatto senza cattiva intenzione, senza pensarci, ma in realtà in maniera pregiudizievole per l’altro. Per esempio, il nostro consumo  di carne sale continuamente. Per allevare il bestiame dobbiamo importare molti mangimi. L’organizzazione per la protezione dell’infanzia “Terre des homme” mostra quanto pregiudizievole sia questo comportamento per la vita di altri:

Tuttavia, per una giusta valutazione, bisogna aggiungere:

  1. Non esiste solo il contrasto tra società industriali  ricche e paesi poveri in via di sviluppo; quasi tutti i paesi sottosviluppati sono anche oppressi da una piccola  classe dominante. Ciò non costituisce certo una scusante per noi, tuttavia va tenuto presente.

  2. Ricorrendo a un linguaggio sferzante (“assassini”) si corre il pericolo di ingenerare un senso di colpa, senza indicarne? Io stesso tempo soluzioni possibili. Ciò può avere un effetto frustrante e paralizzante su tante coscienze oneste.

  3. La mortale riduzione delle possibilità di vita degli altri non si riscontra     solo     nel rapporto tra primo e Terzo Mondo; anche nella nostra società, che reagisce con sufficiente attenzione a diverse forme di indigenza con una vasta politica sociale, esiste una concorrenza spietata e assassina, che oggi si fa strada già nella scuola e produce alla fine dei “gruppi marginali”.

FORME MASCHERATE DI UCCISIONE

Il  quinto comandamento non proibisce solo l’uccisione e propria, ma anche le “forme mascherate di uccisio­ne”. in ciò rientra, per esempio, la distruzione della buona fama di un individuo (“calunnia grave”) o anche una critica pungente, che lo rende insicuro di sé. Anche il nostro linguaggio quotidiano tradisce in certe “espressioni assassine”, che adoperiamo nei rapporti con  gli altri, l’effetto distruttone della nostra società efficiente :  “Quello lo spiano”, “quello è bell’e sistemato”...                     
Sotto  il profilo pedagogico morale quest’ultimo punto è importante, perché non possiamo aspirare a una vita senza conflitti. La vita richiede inevitabilmente la disponibilità e la capacità di sopportare i conflitti Allo stesso modo è importante esercitarsi, per esempio, nell’esprimere la critica in maniera tale che gli altri possano accettarla. E’ importante preoccuparsi di creare  un clima umano nel proprio ambiente. Perciò possiamo consigliare anche ai giovani: quanto ti prepari a un duro confronto, prega prima intensamente per il tuo avversario e possibilmente anche durante la stessa discussione Allora aumenta la possibilità di augurargli cordialmente solo del bene; allora puoi anche dire con tutta franchezza  quel che ritieni giusto dirgli.  Non si tratta quindi di evitare completamente i conflitti cosa impossibile. Si tratta di umanizzarli, di coltivare  la capacità di sostenerli.

 

VITA SANA

Ci limiteremo a ricordare qui alcuni problemi, che senza  dubbio hanno a che fare con il quinto comandamento. Essi infatti sono troppo difficili e gravidi di conseguenze perché possiamo tentare di risolverli con un paio di proposizioni. Come giudicherà il cristiano la guerra e come si comporterà quando sarà chiamato a fare il servizio militare? Come si potrà il cristiano di fronte all’inquinamento e alla devastazione del nostro ambiente  e come deve comportarsi di fronte a certi progetti pericolosi per l’ambiente (centrali nucleari, devastazione del paesaggio)?  Come giudicherà il cristiano il progresso tecnico sempre crescente, soprattutto quando esso costa molto denaro senza arrecare un reale miglioramento alla vita di tutti?  in questi problemi non si tratta più, come finora, di un diretto attacco alla vita, bensì, viceversa, del modo in cui la vita può diventare e rimanere sana. Entra qui in causa la promessa del quinto comandamento: Dio non  vuole che la vita sia mortale, bensì che diventi simile alla sua, la quale non conosce la morte. Ogni pace che possiamo raggiungere sulla terra, ogni ambiente che rende felice la vita, una giusta partecipazione ai beni di questo mondo per tutti, uno sfruttamento delle energie e possibilità umane a servizio e non a spese degli uomini tutto ciò che è una piccola vittoria sulla morte, tutto ciò è, per volontà di Dio, preludio e inizio del giorno in cui Dio verrà a risvegliare i morti a una vita che non conosce tramonto.

 

 

Terminiamo questa serie di riflessioni con un racconto tratto da “MILLE E UNA RAGIONE PER VIVERE” di A. Pronzato.

 

IL CORAGGIO DI SCALARE UNA PIANTA DI CILIEGIE

 

 

Quando voglio capire cos’è il coraggio, penso a lui. La famiglia, una scuola e, nel tempo libero, la montagna. Un rocciatore più che discreto. Accarezza un sogno proibito: gli ottomila. Ma non si fa illusioni. Gli mancano i mezzi finanziari, non certo le capacità. Un giorno la sua vita compie una tragica capriola. Una banale caduta da un ciliegio. Lo schianto improvviso di un ramo e l’impatto balordo col terreno. La schiena che si spezza, una vertebra che si sbriciola. Interminabili mesi di immobilità. Costretto a servirsi di uno specchio per riuscire a infilare il cucchiaio in bocca. I medici gli spazzano via impietosamente ogni illusione. Dal bacino in giù è morto. Traguardo massimo, la carrozzella. Lui accetta la carrozzella, ma coltiva qualche speranza pazza. I medici fanno il loro mestiere di medici, e lui fa il suo mestiere di uomo che non si arrende di fronte all’impossibile. La schiena è frantumata, ma la volontà si irrobustisce giorno dopo giorno. Gli spazi esterni si sono ridotti paurosamente, ma lui dilata, esplora, approfondisce un territorio segreto che si porta dentro. Tutti lo compiangono, ma lui non riesce a capire perché. Le parti più ripide, ora, sono quelle orizzontali. Ma l’importante è trovare gli appigli, come in montagna. Lui, comunque, non cede. Pretende le stampelle. I medici scuotono il capo. Gli passerà presto la voglia. Al primo capitombolo. Lui prova, non ce la fa, ritenta. Ruzzoloni in serie. Guai se qualcuno gli porge la mano Ringrazia, ma deve imparare a rimettersi in piedi da solo. Nonostante le gambe non lo reggano, lui si ostina a essere “un uomo in piedi”. Un’ora per fare venti metri. Conquista lo spazio, centimetro per centimetro, fazzoletto dopo fazzoletto, con una pazienza interminabile.  L’altro giorno sono andato a trovano. Era nell’orto. E Ho visto la carrozzella parcheggiata sotto una pianta le stampelle appoggiate al tronco. Ma anche una piccola scala appoggiata all’albero. Lui era sopra, a potare i rami. Stava realizzando il suo sogno proibito: gli ottomila. Quell’albero di tre metri erano i suoi trionfali ottomila. Dimenticavo. La pianta era un ciliegio.

 

 

 

Sesto comandamento

 

NON COMMETTERE ATTI IMPURI

 

 

Il sesto comandamento tende di natura sua a proteggere il bene del matrimonio e, quindi, della famiglia. Tutta la Bibbia è contraddistinta da una profonda stima del matrimonio. Un motivo di questo sta nel fatto che, attraverso l’istituzione del matrimonio, gli uomini vengono inseriti in complessi umani più grandi. Il comandamento conferma perciò che l’uomo è un essere sociale. Però esso non guarda solo alla comunione personale dei due coniugi. Perlomeno altrettanto rilevante è l’importanza della famiglia per i figli, cosa che la psicologia e la pedagogia oggi sottolineano con forza. I bambini, per crescere e svilupparsi come uomini liberi, hanno bisogno di molti stimoli, che vengono loro forniti soprattutto in un intreccio molteplice di relazioni personali. Per espandersi essi hanno bisogno di protezione e di amore, da un lato, e di molteplici  calde  relazioni, dall'altro. La Bibbia ripropone continuamente  il matrimonio come il simbolo più adeguato dell’alleanza  tra Dio e il suo popolo (cf. Os. 1-3; Ger. 2,1s;  3, 1ss; Ez.16; 23; Is.50,1). Contemporaneamente accomuna l’infedeltà d’Israele verso il Signore all’infedeltà matrimoniale, i profeti rimproverano senza stancarsi alla “vergine” Israele di darsi a “tutti quelli che incontrerai per strada e di essere così diventata una prostituta (cf. Ger. 2,1-3.13; Ez. 16,1-63; 23,1-49). Viceversa viene esaltata la fedeltà permanente di Dio verso il suo popolo (cf. Sal. 117,2; Rm. 3,3). L’esperienza della fedeltà di Dio all’alleanza spinge a sua volta a essere fedeli, solidali e uniti nella società umana. Nella sua redazione originaria il sesto comandamento stabiliva regole diverse per l’uomo e per la donna. All’uomo era vietato solo violare un altro matrimonio già costituito. Le sue relazioni sessuali con una donna non sposata o con una prostituta non erano ritenute un adulterio. Invece la donna sposata era adultera anche quando l’uomo, con cui intratteneva relazioni sessuali al di fuori del matrimonio, non era sposato. Gesù reagisce contro questo atteggiamento differenziato e ristabilisce integro il comandamento. “Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli a causa della vostra durezza di cuore, ma al principio non fu così. Ma io vi dico: chiunque rimanda la propria donna.., e ne sposa un’altra commette adulterio; a chi sposa una ripudiata commette adulterio” (Mt. 19,8-9). E’ vero ch’egli salva  l’adultera dalla lapidazione, ma è anche vero che non lascia alcun dubbio sulla peccaminosità del suo comportamento, tant’ è vero che l’esorta a non  comportarsi più in quel modo (Gv. 8,1-11).

 

ODIERNA ATTUALIZZAZIONE :

 

VALORE POSITIVO DELLA SESSUALITA’ UMANA

In quale modo concreto la morale cristiana intende favorire la promozione delle persone, regolandone la vita sessuale? Bisogna iniziare il discorso, partendo dallo scopo a cui è destinata la sessualità. La sessualità è diffusa in tutto l’io umano, così che (ad esempio) ognuno a motivo della sua sessualità si caratterizza in modo inconfondibile da un altro; soprattutto, tutto l’essere dal lato bio-psichico-spirituale si differenzia come maschio o femmina. Perché la sessualità introduce queste differenziazioni fra le persone? Le rende differenti per poterle spingere ad aprirsi, a comunicarsi e ad integrarsi fra loro; per indurle a convivere e a realizzarsi insieme come prossimo; per strapparle ognuna dall’isolamento egoistico. Per sospingere verso l’altro, la sessualità soprattutto ha diffuso un piacere travolgente nei rapporti sessuali. Il piacere funziona da forte spinta ad uscire da se stessi e ad unirsi ad un’altra persona. Ogni qual volta l’io gode del piacere sessuale senza aprirsi in autentica comunione altrui o senza saper strappare l’altro dal suo isolamento, commette peccato di egoismo. La pratica sessuale appare peccaminosa quando è un egoismo o volontà di asservire l’ altro ad un proprio tornaconto o esprima una noncuranza verso le esigenze di convivenza comunitaria. La sessualità è stata offerta all’ uomo come terreno fecondo, su cui deve fiorire l’amore oblativo, l’amabilità servizievole, l’autentico affetto altruistico. La sessualità si mostra umana, quando s’apre in amore, in accoglienza dell’altro come persona, nell’intento di strapparlo dalla solitudine, e di fargli sentire come vivendo insieme si raggiunga una felice esistenza spirituale. La sessualità introduce l’io al senso comunitario E ma in maniera progressiva: lo abilita ad esperienze di colloqui sempre più profondi; gli apre capacità sempre più ampie nel saper stare in ascolto e nell’accogliere l’altro; lo inizia a rapporti interpersonali prima impensati. La sessualità nell’età adolescenziale va risvegliando alla gioiosa esperienza di intime fantasie erotiche, dei primi legami affettivi, delle amicizie appassionate, delle conoscenze circa l’altro, delle confidenze riservate. Al tempo in cui gli amori sembrano essere alquanto sviluppati, la sessualità sospinge lentamente a intrecciare un legame affettivo stabile con un altro, annodandovi un fidanzamento. Il fidanzamento è come un noviziato per immettersi e maturare verso una successiva vita coniugale. Non si creda che, giunti allo stato adulto matrimoniale, l’amore rimanga ormai staticamente fissato. La sessualità rimane sempre avventura la creazione. L’amore coniugale, se non è vissuta in un progressivo divenire così da far gustar e la comunione in esperienze nuove, è come un albero che manca di acqua: si essicca. Lo stesso rapporto coniugale deve essere vissuto come u momento che rafforza ed approfondisce la serena comunione matrimoniale; deve poter apparire una  situazione privilegiata, in cui si comprende e si gusta la bellezza del proprio vivere comunitario interpersonale nel matrimonio. Cerchiamo di ricordare qualche azione sessuale, E che la morale dichiara peccaminosa, per vedere se veramente essa venga vietata perché contrastante e impeditiva di una comunione di vita gioiosa con l’altro. La masturbazione è peccaminosa in quanto riversa l’io su se stesso; gli fa ricercare un godimento sessuale esclusivamente per se stesso; lo strappa dall’attenzione e dall’accoglienza dell’altro. Quando la masturbazione accade limitatamente durante il periodo adolescenziale, si vuol ritenere un disordine non colpevole,  poiché è cagionata da uno stato personale immaturo. L’adolescente, dal lato biopsichico, è ancora inadatto a comunicare con l’altro, a vivere in colloquio interpersonale, a situarsi come dono di se stesso al prossimo, a caratterizzarsi come socio per una vita di relazione.  Egli è come una persona che se ne sta allo specchio, gingillandosi con se stesso: per lo più è incapace di esprimersi affettivamente al di fuori del vizio solitario. La masturbazione del  pubescente è più un difetto di immaturità affettive, che una colpa di malizia, Il ragazzo ha bisogno di venire tolto dal suo isolamento solitario  affettivo. Il sesto comandamento ammonisce: “Non fornicare”. Fornicazione (cioè, relazione sessuale illecita) è detto ogni rapporto sessuale fra persone non unite fra loro in matrimonio, anche se si sentono maturate in reciproco amore oblativo. Perché mai solamente il vincolo matrimoniale rende lecita la relazione sessuale? Con il matrimonio i due, anche pubblicamente, si situano stabilmente l’uno per l’altro: si possono comunicare nella propria intimità, giacché di fronte alla stessa società si sono affidati in tutto se stessi in modo vicendevole. Il matrimonio rende possibile offrirsi all’altro senza timore di sentirsi poi abbandonato: assicura un amore confermato per sempre di fronte a qualsiasi altro pretendente. Nello stesso tempo nel matrimonio la sessualità è perfezionata nel suo senso   comunitario,  in quanto impegna due coniugi ad essere uniti ed intrecciati per l’intera propria esistenza nella procreazione ed educazione della prole. il matrimonio conferisce una singolare profondità comunitaria e politica all’amore sessuale e alla procreazione. Se assente il vincolo matrimoniale, la disponibilità dell’uno verso l’altro appare incompleta; non risulta confermata dal lato civico ed ecclesiale; ci si offre all’altro solo mediante un individuale impegno privato, che si può sempre sconfessare e rompere. Quando i fidanzati sono ormai maturati nella confidenza affettiva e prossimi al matrimonio, possono abbandonarsi alle intimità sessuali coniugali? In simile ipotesi i fidanzati  non potrebbero ritenere di aver già assicurati i valori comunitari richiesti dall’amore coniugale e dalla procreazione responsabile? Fino a quando non è stato celebrato il matrimonio appare difettoso il fondamentale   aspetto  comunitario presupposto all’esercizio della sessualità. Con il fidanzamento i due non si sono impegnati al dono intimo esclusivo fra essi di fronte alla comunità civica ed ecclesiale. La sessualità, per essere legittima, richiede di essere esercitata fra due uniti in una unica vita inscindibile, approvata e sancita in un impegno pubblico. Sta quindi il principio morale: si ha peccato ogni qual volta si eserciti la sessualità al di fuori dell’amore riverente verso l’altro, o senza che i due abbiamo unito le loro persone con pubblici legami matrimoniali. La sessualità sa realizzarsi unicamente all’interno di una comunità d’amore altruistico procreativo. Necessariamente sconfessa come inammissibile (ad esempio) ogni pratica omosessuale. La vita intima coniugale degli sposati rimane liberalizzata in modo completo o ancora giace sotto regolamenti morali? Rettamente è lasciata  alla coscienza dei coniugi la determinazione del come vivere la loro intimità sessuale.  La morale fa loro dovere di cercare in proprie libere decisioni di favorire il comune amore vicendevole e un impegno procreativo responsabile Manca all’amore verso il coniuge io sposato chi vivesse un’intimità sessuale con un estranee (adulterio); manca al suo compito sessuale procreativo, se evitasse la prole  per ingiustificato egoismo o se accettasse una  numerosa prole senza valutare responsabilmente le possibilità educative della propria famiglia. In conclusione, il cristiano è esemplare non in  quanto si assoggetta a divieti morali, ma in quanto mostra di comprendere e vivere i valori presenti nella sessualità e testimonia coni  sia un arricchimento personale e comunitario il dimorare entro le norme etiche cristiane. (Tullo Goffi)

 

In questo articolo il moralista Tullo Goffi ci ha presentato l’ideale su cui posa il comandamento e l’ideale della sua attualizzazione, ma nella realtà, purtroppo, ci sono tanti casi e situazioni difficili. Che cosa fare? Dobbiamo richiamare anzitutto il detto fondamenta le di Gesù: “Chi tra voi è senza peccato, scagli la prima pietra!” (Gv. 8,7). Quante volte noi pure, nei nostri pensieri, desideri e tentazioni, abbiamo peccato contro questo comandamento E quante volte abbiamo segretamente desiderato che questo comandamento non esista? Quante volte dalla fede in Dio che ci ha creati come immagine del suo amore non abbiamo attinto il coraggio di ritenerci capaci di un amore irrevocabile? Quante volte, invece, abbiamo urlato con i lupi e affermato che i coniugi dovrebbero avere, almeno al vertice della vita, la possibilità di separarsi e di incominciare daccapo con un nuovo partner. Almeno in questo senso, anche nei matrimoni vissuti nella fede, c’è molto dell’ “adulterio”. Se ammettiamo ciò onestamente, non possiamo avere il coraggio di condannare là dove dei matrimoni falliscono. in questi casi per noi cristiani c’è soltanto questa possibilità: dimostrare una giusta compassione verso questi fratelli, sia che si tratti di cristiani o meno; essere sensibili alla storia di passione di questi matrimoni e rimanere consapevoli che soltanto Dio legge nei cuori e può giudicare. Tiriamo subito una conseguenza da queste affermazioni: anche se fondamentalmente non ci lasciamo scuotere a proposito del sesto comandamento e, magari, siamo d’accordo con il duro atteggiamento della chiesa, che non permette che un divorzio possa contrarre valido matrimonio, fino a quando è vivo l’altro coniuge, non possiamo rifiutare la solidarietà della comunità  alle coppie separate e ai loro figli. In fondo, come abbiamo già dichiarato, non si tratta  altro che di una solidarietà tra peccatori.

 

COME IRROBUSTIRE IL VALORE DELLA FEDELTA’ CONIUGALE

Alcuni semplici consigli.

Certamente fa parte delle più belle esperienze di un matrimonio il fatto che gli sposi pensino spontaneamente soltanto con il “noi” a tutte le cose essenziali che spesso, ad esempio in presenza di altri, un breve sguardo supplisca un’intera discussione e stabilisca subito l’accordo su quello che si vuole dire o fare. Viceversa, qualche posteriore divergenza ha avuto inizio con il tatto che un coniuge ha imposto all’altro i propri hobby, senza peraltro riuscire a tollerare i suoi;’ Con il fatto che egli ha incominciato a sospettare delle assenze della comparte causate dal lavoro, l’ha incominciata ad opprimere con questi sospetti e l’ha resa insicura nel lavoro; con il fatto che i coniugi non si permettono più l’un l’altro di fare certe esperienze se non possono parteciparvi  insieme. Un marito, ad esempio, deve rinunciare al suo interesse per lo sport (e per le trasmissioni sportive alla televisione), perché la moglie non ne è interessata? Qui si potrebbero elencare migliaia di piccoli problemi di tutti i giorni, dai quali si può vedere se i coniugi si accettano vicendevolmente in piena libertà. E Un altro punto molto importante è questo: che si procuri con la massima attenzione di avere abbastanza tempo l’uno per l’altro. E con ciò non si intende soltanto, ma certamente anche lo  stare assieme intimo. Spesso l’incontro erotico e sessuale della coppia, diventa sfruttamento proprio perché avviene rapidamente, di corsa, come un punto del programma giornaliero che si deve spuntare, invece di essere inserito in un generoso tempo libero comune che ci si riserva l’uno per l’altro. E’ chiaro che non disponiamo sempre di tutte le possibilità di sottrarci a piacimento alle costrizioni del lavoro e degli altri impegni. Anche qui il diavolo non sta nel principio, ma nel dettaglio. Ma per la coppia il problema di un tempo sufficientemente ricco da riservare l’uno per l’altro deve costituire anche il saggio criterio di organizzazione del lavoro    quotidiano. Non tutto quello che in questo campo spesso si adduce come scusa, e cioè E le esigenze del lavoro, con le quali si fa sperare al partner, se le cose vanno bene, nel prossimo fine settimana, oppure, se vanno male, nelle prossime ferie, è una vera costrizione evitabile. Spesso si tratta di costrizioni che noi stessi, inavvertitamente e intenzionalmente, ci procuriamo. Per cui non ci si può né meravigliare né lamentarsi delle conseguenze. Menzioniamo ancora un ultimo punto che per mancanza di spazio non possiamo    trattare: il valore del perdono.

                                                                                                                           

 

Settimo comandamento

 

NON RUBARE

 

 

NELLA BIBBIA

 

Il termine rubare come lo traduciamo noi aveva nel significato biblico due intenzioni:

  1. Il divieto di ratto di persone. Così Es. 21,16 dice: “Colui che rapisce un uomo e lo vende sarà messo a morte”. E in maniera molto simile Dt. 24,7: Quando si troverà un uomo che abbia rapito qualcuno dei suoi fratelli tra gli Israeliti, l’abbia sfruttato come schiavo o l’abbia venduto, quel ladro sarà messo a morte; cosi estirperai il male da te Il comandamento tutela quindi in primo luogo “la libertà del prossimo”.

  2. Il divieto di furto. Non solo come protezione dei ricchi ma come presupposto per una sana espansione personale per ognuno. Racconta la Bibbia che Tobia, un ebreo deportato in Babilonia, benché colpito dalla disgrazia della cecità, aveva un timore istintivo del furto, dell’appropriarsi la roba altrui, anche in piccola quantità. Un giorno sua moglie Anna, recatasi come di consueto al suo lavoro di tessitrice, ritornò a casa con un capretto, regalatole, oltre alla paga, dai suoi signori, forse per mostrarle quanto gradivano la sua laboriosità Non appena l’animale cominciò a belare, Tobia, accortosene, se ne sentì turbato. “Donde viene il capretto? disse alla moglie. Non è roba rubata? Restituiscilo ai signori, poiché non è lecito mangiare roba rubata” (Tob. 2,13). La moglie lo rassicurò. Stesse tranquillo: si trattava di un dono. L’episodio è commovente. Nella sua semplicità indica quanto il pio israelita volesse essere fedele al comandamento “non ruberai” dato da Dio a Mosè, e ricordato anche da Gesù nel. suo colloquio col giovane ricco. S. Paolo poi pone il furto  tra i peccati che escludono dal regno di Dio. La ragione del comandamento di Dio va riposta nel diritto di ogni uomo a mantenere la propria vita e quella delle persone che hai a carico, e quindi a possedere i mezzi per assicurarla nel  presente e nel futuro. Si tratta di un diritto naturale almeno dopo il peccato, essenziale per godere della dignità  e della libertà cui ognuno aspira. Per questo Dio ha ordinato, con uno speciale comandamento, di praticare la giustizia, rispettando i diritti del prossimo, cioè i suoi beni. Tra questi diritti c’è non soltanto quello ai beni materia li, ma anche quello alla vita (quinto Comandamento) e al buon nome (ottavo Comandamento). Così, per fare degli esempi, un padrone è obbligato a corrispondere il giusto salario all’operaio; l’operaio a compiere coscienziosamente il suo lavoro; un commerciante a vendere senza ingannare clienti sul peso e la qualità della merce; il debitor a saldare il suo debito; chi ha trovato un oggetto a restituirlo, se può, al legittimo proprietario. L’uomo può entrare in possesso dei propri beni col lavoro o comprandoli, o ereditandoli, o anche ricevendoli in dono o come legato. Può anche avvenire che lo Stato, disponendo di beni pubblici troppo grandi, ne ceda la proprietà a cittadini bisognosi perché li usino per la propria utilità, Il settimo Comandamento obbliga ancora a non alienare i beni del prossimo, E a non danneggiarli o distruggerli. Lo stesso discorso vale  per i beni della collettività. Questi appartengono a tutti: tutti quindi sono tenuti a rispettarli perché non si deteriorino o vadano in rovina, perdendo la loro funzione  specifica di servire al bene comune. La vita moderna, con lo sviluppo della tecnica e della società che ne è seguito, ha portato a nuove applicazioni della giustizia. Così, per fare un esempio, i grandi complessi produttivi non possono dimenticare l’ambiente in cui operano. Rientra nell’ambito del settimo Comandamento non rendere nociva l’aria che si respira, non danneggiare con metodi poco razionali i boschi così necessari all’equilibrio idrologico e climatico di un territorio, non contaminare l’acqua dei fiumi o del mare. Essi forniscono i  mezzi di sostentamento a tante persone, e nessuno può loro toglierli, scaricando, per esempio, nei fiumi le scorie delle industrie chimiche, che uccidono i pesci e privano i pescatori di una fonte di vita, recando danno alla stessa salute fisica. Il medesimo Comandamento proibisce ancora di abusare delle cose pubbliche per i propri interessi personali, come avviene, per recare degli esempi, truccando le aste indette dallo Stato per un appalto di lavori, gonfiando artificialmente il valore dei titoli di borsa per poi deprezzarli guadagnandoci cifre enormi, non pagando le tasse secondo le proprie possibilità, esportando capitali all’estero col pericolo di far perdere il lavoro agli operai, comprando con “bustarelle” i funzionari pubblici per averne dei vantaggi. Un altro modo tipicamente attuale di andare contro il settimo Comandamento è l’assenteismo ingiustificato di chi percepisce lo stipendio non rispettando il contratto di lavoro, o che nel lavoro non rende ciò che dovrebbe per malavoglia o altre ragioni prive di valore. Questi abusi a lungo andare danneggiano gravemente la vita sociale, producendo il depauperamento della nazione col conseguente abbassamento del tenore di vita, specialmente delle classi più povere. Come si vede, il settimo Comandamento ammette il principio della proprietà privata, un’espressione che suona male alle  nostre orecchie, abituate a sentir parlare di socializzazione.

La proprietà privata però nella Bibbia sottosta a molti altri valori.

I profeti veterotestamentari usano parole roventi contro l’accumulazione della ricchezza da parte dei ricchi a spese dei poveri. La loro critica sociale mette in chiaro una cosa: si abusa della proprietà là dove essa non è più un mezzo per la propria sicurezza e il proprio sviluppo, ma diventa strumento di potere per dominare gli altri. Ove i potenti sfruttano l’indigenza dei poveri, lì è in pericolo quella libertà che Dio ha donato al suo popolo e che questi deve continuamente realizzare in concreto. Il libro del Siracide dice in maniera lapidaria: “Uccide il  prossimo chi gli toglie il nutrimento” (34,22). La Bibbia sottolinea con grande energia i doveri sociali della proprietà. Il diritto di proprietà dei padroni e I  loro rivendicazioni trovano il loro chiaro confine là dove entrano in gioco le necessità elementari di altri. Pertanto leggiamo nel libro del Deuteronomio (capitolo 24): Quando presti qualcosa a un altro e ne ricevi un pegno, “se  quell’uomo è povero, non andrai a dormire col suo pegno. Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole, perché egli possa dormire col suo mantello e benedirti; questo ti sarà contato come una cosa giusta agli E occhi del Signore tuo Dio” (v. 12s); “non prenderai in pegno la veste della vedova” (v. 17); “nessuno prenderà in. pegno né le due pietre della macina domestica, né la pietra superiore della macina, perché sarebbe come prendere in pegno la vita” (v. 6). I doveri sociali della proprietà vengono alla luce anche nella prescrizione di non raccogliere accuratamente tutto nei campi, nelle vigne e negli uliveti, ma di lasciare la possibilità ai poveri di racimolare quel che resta (cf.  Dt. 24,19-21; Lv. 19,9s; 23,22). La motivazione d’un simile  comportamento suona: “Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto; perciò ti comando di fare questa cosa” (Dt. 24,22). La Bibbia menziona all’israelita credente tre motivi, per cui non può disporre della sua proprietà a piacimento e in maniera arbitraria:

 

  1. Dio è il creatore e il sostentatore di tutte le cose, per cui ne è anche il primo proprietario; l’uomo è sol l’amministratore dei beni terreni. Questi gli sono stati dati in prestito, ed egli dovrà render conto a Dio di come li ha usati. Dio fa dire con estrema chiarezza: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini” (Lv. 25,23). Prima dell’entrata nella terra promessa l’israelita si sente fare questa raccomandazione: “Quando il Signore tuo Dio  ti farà entrare in questo paese fertile... guardati dal pensare: la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno conquistato queste ricchezze. Ricordati invece del Signore tuo Dio, perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere.., l’alleanza” (Dt. 8,7.17s; cf. 9,4).

  2. In linea di principio i beni della terra sono destinati a tutti gli uomini. Ciò risulta, per esempio, dal fatto che in caso di estrema necessità tutto è comune. Nell’Antico Testa mento questo principio rimane comprensibilmente limitato a Israele. Dio non ha dato la terra promessa al singolo, ma d Israele come comunità. Di conseguenza in questo paese deve essere posto  per tutti. I profeti pronunciano parole molto dure contro coloro che speculano sui terreni e sulle case, contravvenendo a questa direttiva (cf. Mic. 2,1-3; Is. 5,8 ecc.). Il re stesso cade sotto questo verdet­to, quando non si comporta bene (cf. Ger. 22,13-19).

  3. Non possiamo dire che la proprietà degli altri non ci interessa, perché ne siamo corresponsabili. Di conseguenza dobbiamo stare attenti a non procurare danni al prossimo. Così leggiamo nel Deuteronomio (22,1-3; Cf. Es. 23,4): “Se vedi smarriti un bue o una pecora di tuo fratello, non devi fingere di non averli scorti, ma avrai cura di ricondurli a  tuo fratello. Lo stesso farai del suo asino, lo stesso della sua veste, lo stesso di qualunque altro oggetto che tuo fratello abbia perduto e che tu trovi; tu non fingerai di non averli scorti”.

La Chiesa ha cercato anche se con molti errori di seguire le indicazioni bibliche per cui ancora oggi si può dire cosi:

Ognuno, per conseguenza, deve avere la possibilità di acquistarne e possederne, per provvedere ai suoi bisogni. Ciò significa che nessuno ha il diritto di appropriarsi di quei beni, i quali, non essendo necessari per lui, vengono a mancare della funzione sociale ad essi inerente. Questa funzione sociale consiste nella destinazione, voluta da Dio, dei beni della terra a vantaggio di tutta la comunità umana,  mediante un possesso ragionevole e non egoistico da parte di coloro che li detengono. Così un ricco non può far fruttificare i suoi beni, quando la società è in difficoltà e tanti non trovano un lavoro. In tal caso egli ha il dovere d’impiegarli per il bene comune. Perché ciò avvenga lo Stato hai i diritto di espropriare quei beni che ritiene necessari alla collettività. In questa prospettiva si è realizzata in alcune nazioni la riforma agraria. La giustizia esige anche  che le “azioni” delle grandi società industriali siano acquistate da quante più persone è possibile, per consentire alla ricchezza di circolare in mani sempre più numerose. i Nei suoi documenti la Chiesa ha dato sagge direttive perché  i rapporti tra datori di lavoro e operai siano improntati a quella giustizia sociale e a quella solidarietà tra padroni e lavoratori che tenga conto dell’interesse di tutti. In un’impresa infatti nella quale ognuno lavora per il propri o profitto, senza tener conto degli altri, non ci può essere né giustizia né prosperità, ma solo sfruttamento.  Quanto abbiamo detto del rapporto tra padroni ed operai vale anche, in qualche modo, per il rapporto tra nazioni più ricche e nazioni più povere. Le ricchezze del mondo, come abbiamo notato, sono di tutti e debbono essere accessibili E a tutti. Nelle relazioni tra i popoli ognuno deve dare quello che può. Alcuni possono dare le materie prime, altri la tecnologia, altri ancora le forze del lavoro. Lo scambio di questi beni fa parte di quella giustizia tra le nazioni di cui hanno parlato Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Quanto abbiamo detto finora fa parte della legge naturale E che il settimo comandamento esprime dicendo “non rubare”. Ma Gesù ci esorta a superare questa legge con la carità. Egli vuole che i rapporti tra le persone e tra i popoli siano ispirati dall’amore. Per questo ci ha indicato come usare nel modo migliore dei beni della terra. “Non potete”, egli dice, “servire a due padroni... Dio e il denaro” (Lc.16,13). Chi ha Dio come unica norma della sua vita saprà usare delle ricchezze per il. proprio sostentamento e non come mezzo di potere e di oppressione dei più deboli. S. Paolo è ancora più esplicito. “Raccomanda ai ricchi”, scrive a Timoteo, “di  non cedere all’orgoglio, di non mettere la loro speranza nelle ricchezze incerte, ma in Dio che ci dona in abbondanza  perché ne godiamo” (1Tim. 6,17). Chi, pur possedendo il denaro, mette tutta la sua fiducia in Dio, può essere certo di non peccare contro il settimo Comandamento. Egli seguirà un altro consiglio di S. Paolo, secondo il quale dobbiamo usare dei beni della terra come se non li usassimo, col distacco cioè naturale in chi sa che essi hanno un valore soltanto relativo.

 

Anche questo comandamento apre molti interrogativi; ecco alcuni con dei tentativi di risposta.

Ottavo comandamento

 

NON PRONUNZIARE FALSA TESTIMONIANZA

 

 

Il senso letterale originario di questo comandamento riguarda una situazione ben precisa: la testimonianza in tribunale. In Israele, date le limitate possibilità che la giustizia aveva a sua disposizione, le corrette affermazioni dei testimoni avevano un’importanza particolarmente grande. A volte la falsa testimonianza di due testimoni davanti al giudice poteva provocare addirittura la condanna a morte di un individuo. La Bibbia ricorda numerosi esempi al riguardo, come quello di Susanna condannata a morte sulla parola di due falsi testi e salvata per intervento divino e di Daniele (cf. Dn. 13,1-64). In un Salmo un uomo tribolato si lamenta davanti a Dio: “Non espormi alla brama dei miei avversari; contro di me sono insorti falsi testimoni che spirano violenza” (Sal. 27,12; cf. Sal. 35,11). Nello stesso processo di Gesù i falsi testimoni svolgono un ruolo decisivo (cf. Mc. 14,55ss). Dati pericoli che una falsa testimonianza può comportare per il prossimo, ogni israelita viene invitato a guardarsi da essa o da una testimonianza velenosa, dettata dall’odio: “Non testimoniare alla leggera contro il tuo prossimo e non ingannare con le labbra. Non dire: Come ha fatto a me così io farò a lui.. .“(Pr. 24,2Bss). Ma il Comandamento, fondandosi sulla verità di Dio stesso condanna anche la menzogna in generale. Ecco cosa dice il profeta Zaccaria. “Parlate con sincerità ciascuno col suo prossimo; veraci e sereni siano i giudizi che terrete alle porte delle vostre città. Nessuno trami nel cuore il male contro il proprio fratello; non amate il giuramento falso, perché io detesto tutto questo” (Zc. 8,16-17). Gesù porterà a compimento questo insegnamento quando affermerà: “La verità vi farà liberi” (Gv. 8,32) o quando dirà: “Il vostro linguaggio sia: “sì” se è sì, “no” se è no: quel che si dice in più viene dal maligno” (Mt. 5,37). E alla parola di Gesù, come pure all’ottavo comandamento, fa eco in maniera perfetta l’Apostolo: “Deposta la menzogna, parlate ognuno al vostro prossimo secondo verità, poiché siamo membri gli uni degli altri” (Ef. 4,25; cfr. Col. 3,9). Al cristiano pertanto è vietata ogni falsa testimonianza i tribunale, ma anche la falsità nei confronti di uno che abbia diritto alla verità. Le conseguenze pratiche elementari sono del tutto chiare: nessuno spergiuro, nessuna calunnia, nessuna bugia, neppure quando non danneggia un altro, ma anche nessuna verità per colui che se ne vorrebbe servire per fare il male. Quando la verità non genera fiducia e pace, ma confusione e turbamento, anche se è certamente vero quello che noi diciamo, non si può dire tutto ciò che è vero. Un esempio: quando un bambino piccolo chiede da dove egli provenga, sarebbe una menzogna rispondergli con la storia della cicogna. Ma potrebbe essere brutale dirgli tutto per filo e per segno o addirittura fargli vedere senza alcun riguardo per la sua età e per la sua capacità di comprendere. Chi agisce così, cerca più il proprio soddisfacimento che il bene del bambino. Qui il senso dell’ottavo Comandamento esige una descrizione “aperta” e, in certi casi, immaginifica, che più tardi possa venire completata e ampliata, ma non ritrattata come la storia della cicogna. Fortunatamente oggi ci sono molti libri che possono aiutare molto bene i genitori su questo punto.

 

Al letto di un ammalato si deve dire sempre la verità?

Chi ha compreso l’ottavo Comandamento, in questo caso, non si affiderà né alla rude franchezza né al silenzio più completo. Se c’è una speranza di guarigione, non sembra il caso di paralizzare la volontà di vivere dell’ammalato dicendogli la piena verità. Ma se ogni ammalato grave, come abbiamo visto a proposito del quinto Comandamento, ha un diritto alla sua morte, non è giusto tenere una persona all’oscuro della sua vera situazione e, quindi lasciarla morire nell’incoscienza. E ciò tanto meno se essa stessa ha chiesto che le si dica tutta la verità. Se il giudizio medico della situazione è chiaro, non sarà così difficile per la vera carità e per la reale veracità trovare un comportamento più corretto di quello che spesso fa le sue prove in casi del genere. C’è piuttosto il sospetto che con le scuse addotte ci si voglia sottrarre alla richiesta di verità e carità. Prendere seriamente l’ottavo comandamento significa per i credenti: impegnarsi per un ordinamento e un’ amministrazione corretta della giustizia, un ordinamento e un’ amministrazione che “pongano la ricerca della verità al di sopra di ogni altro interesse e cerchino di impedire e, nel limite del possibile, di escludere ogni manipolazione del diritto”.

 

La verità distruttiva

La verità non soltanto può essere priva di amore, ma può anche annientare e, quindi, produrre il contrario di ciò che vuole l’ottavo Comandamento. E’ quanto accade in quella che abitualmente chiamiamo “diffamazione” una parola che oggi suona troppo ingenua. Stando al motto: “Ciò che è vero, si può pubblicare”, le persone in vista nella vita pubblica oggi sono praticamente dei fuorilegge. Non soltanto si “può” infangare la loro vita privata, ma, per “colpirle”, si “può” anche continuare a rinfacciare loro gli errori del passato, anche se forse se ne sono liberati da molto tempo. E ciò, assai spesso, con una rappresentazione gravemente tendenziosa che avvicina la “diffamazione” alla calunnia. Ora può essere del tutto necessario e persino esigito dall’ottavo Comandamento che, attraverso la scoperta di fatti sconosciuti di una personalità pubblica, che agisce in maniera delinquenziale, le si strappi dalla faccia la maschera dell’onorabilità. E affinché ciò sia sempre possibile, bisogna che non venga tollerata alcuna limitazione alla libertà di stampa. Un’altra questione è se possa essere giusto impiegare il mezzo della diffamazione per annientare una persona per il solo motivo che essa è un avversario politico ma non un delinquente! Qui i cristiani dovrebbero imporsi spontaneamente un limite E interiore nella “libertà di stampa”, limite che nessuna legge esteriore può fissare. “Chi tra voi è senza peccato, scagli la prima pietra” ciò non vale solo per l’adulterio! Se dimostrano chiarezza di coscienza su questo punto, i cristiani possono contribuire a che la vita pubblica si liberi dell’epidemia della diffamazione e lo spirito del tempo venga superato dal Comandamento di Dio.

 

  

Nono comandamento

 

NON DESIDERARE  LA DONNA D’ALTRI

 

 

Il nono Comandamento si trova in ambedue le redazioni del Decalogo che abbiamo nell’Antico Testamento: Esodo 20,17 e Deuteronomio 5,21 unito e fuso con quello che noi chiamiamo il decimo. Nella redazione dell’Esodo suona così: “Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la donna del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo”. La redazione del Deuteronomio è quasi identica, a parte l’inversione dell’ordine delle cose che non si devono desidera re: “Non desiderare la moglie del tuo prossimo e non bramare né la casa... né cosa alcuna che sia sua”. Per quanto riguarda la morale sessuale, dunque, ciò che questa “parola” del Signore proibisce è il desiderare la moglie del prossimo, dal momento che questa è una “cosa” che appartiene a lui. Si tratta cioè del caso di un uomo che avrebbe l’intenzione di compiere un atto d’ingiustizia contro un altro uomo derubandolo della sua moglie o di altre cose sue. Questo stesso desiderio è già un peccato, dice il  Comandamerto. Perciò il discorso è incentrato sui diritti di proprietà di ogni padrone di casa, non sul valore della castità in se stessa. In realtà l’idea della  castità del cuore che emerge nel Decalogo originale i ancora molto primitiva, com’è pure primitiva l’idea della donna, proprietà dell’uomo, che esso presuppone. Ricordiamo però che la proibizione mosaica dei desideri cattivi fu rivolta a un popolo ancora “duro di cuore”, come dice  Cristo nel Vangelo di Matteo (19,6), ed esigeva da loro solo quel minimo della castità che era ritenuto necessario. per disciplinare la libidine maschile nei confronti di donne sposate.

 

LA MORALE EBRAICA POSTERIORE

La predicazione dei grandi profeti e la graduale maturazione  della vita socio-religiosa degli ebrei li portarono più tardi a un apprezzamento molto più profondo e personal  della castità sia esterna che interiore. Così nel libro di  Giobbe, che è del quarto secolo a.C., questi, “uomo perfetto, integro, timorato e alieno dal male” (1,1), dice di se stesso: “Un patto avevo stretto con i miei occhi,  di non fissare vergine alcuna” (31,1). Qui viene fuori il senso della castità del cuore come valore morale e religioso autonomo, cioè non più come esigenza del diritto del padrone di casa al possesso esclusivo della propria moglie. E Qualsiasi desiderio lascivo è considerato peccato. Una simile morale sessuale si trova nel Libro dell’Ecclesiastico. (circa 190 a.C.): “Non fissare una vergine, per non esseri pulito assieme a lei” (9,5). La castità dei desideri è accettata come una virtù di ogni persona “timorata d’Iddio e aliena dal male”.

 

IL DISCORSO DELLA MONTAGNA

Il valore morale della castità interiore è puntualizzato ancora di più da Gesù nel passo del Discorso della Montagna che tratta dell’adulterio. “Avete udito che fu detto “Non commettere adulterio”. Ma io vi dico che chiunque avrà. guardato una donna, desiderandola, ha già commesso adulteri  con lei, nel suo cuore” (Matteo 5,27-28). Volendo spiegare la Nuova Legge in contrapposizione a quella “degli antichi” Gesù si limita ad alcuni aspetti specifici dell’argomento  della castità del cuore. In primo luogo e questo e una novità la lascivia interiore è equiparata adesso a quella dell’agire: l’adulterio si può commettere anche “nel cuore”. In secondo luogo, l’insegnamento di Gesù sulla castità interiore, come tutti gli altri insegnamenti che egli propone nel Discorso della Montagna, è proposto come un aspetto particolare di un terna religioso e morale di portata totale e universale, la ricerca del Regno di Dio, una ricerca operativa, concreta e impegnativa in tutti i settori della vita, cominciando con quello interiore. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (5,8).

 

CHE COSA CI INDICA QUESTO COMANDAMENTO

L’amore tra l’uomo e la donna nel matrimonio deve e può rendere visibile l’amore di Dio per gli uomini. Esso diventa così una vivente testimonianza di fede. Chi vuole avere la donna del suo prossimo, non solo rifiuta di accettare nella propria vita l’immagine dell’amore di Dio, ma addirittura la distrugge là dove essa riesce ad imprimersi, minacciando un altro matrimonio. Il nono Comandamento perciò approfondisce il sesto. Noi abbiamo la responsabilità che anche i matrimoni degli altri uomini possano diventare, con la loro riuscita, una testimonianza in favore dell’amore di Dio. Non possiamo, quindi, insidiare un altro matrimonio né con l’azione concreta né con l’ “aspirazione”.

 

IL DESIDERIO

Per comprendere bene il significato del nono e anche del decimo Comandamento è bene riflettere un momento sul significato del desiderio. Il desiderio è un fenomeno umano fondamentale, che fa e dell’istinto di conservazione. E’ normale che l’uomo il cibo, la bevanda, l’indumento che scalda  desideri belli, nonché la casa che rappresenta un rifugio. Un’esistenza umana sana ha una sete profonda e quasi insaziabile di vita, e gli individui che si dicono prematuramente contenti di quel che sono, hanno rinunciato in pratica ad espandersi. Il desiderio di amore e il desiderio di una congrua proprietà sono di importanza fondamentale per la maturazione umana, così come il desiderio di successo e di prestigio. Può compiere cose grandi solo chi desidera appassionatamente. Temere in partenza una cosa del genere può avere effetti deleteri per l’uomo, perché può spingerlo troppo facilmente ad essere rinunciatario. La Bibbia parla in termini molto positivi e del desiderio  degli uomini e del desiderio di Dio. Di quest’ultimo dice per esempio in Is. 42,13: “Il Signore come un guerriero eccita il suo ardore”, quando interviene per il suo popolo  e contro gli oppressori. Negli stessi termini l’Antico Testamento descrive uomini con forti passioni, e lo stesso Nuovo Testamento non manifesta alcuna simpatia per gli individui insensibili e freddi. Ricordiamo le parole dell’Apocalisse di Giovanni (3,15s): “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo. Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”. Gesù esorta espressamente a desiderare: “Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc. 11,24; similmente 1Gv. 5,14).  Quanto più grandi sono i nostri desideri, tanto più sicuramente la cosa desiderata viene concessa. Viceversa gli uomini che hanno scarsa fiducia in Dio vengono biasimati (cf. Mt. 7,7-11; 21,22; Gv. 14,13s; 15,7). Riconoscere che l’uomo deve desiderare, bramare e aspirare in una misura adeguata per potersi sviluppare in maniera piena non significa ovviamente che egli debba accondiscendere a qualsiasi specie di desiderio, infatti il desiderio disordinato sotto forma di avidità, ambizione, gelosia e sete di piaceri ha effetti sinistri e deleteri. Dobbiamo perciò mettere in conto un’ambivalenza dei desideri; essi sono benefici e nello stesso distruttivi. La Bibbia tiene oggettivamente presente questo loro secondo aspetto. Secondo il racconto della Genesi il peccato originale dell’uomo fu provocato dalla sua insoddisfazione e dal conseguente desiderio disordinato. Gesù stesso ricorda che non le cattive azioni contaminano  l’uomo, ma il desiderio disordinato nascosto che sta alla loro base. Contro i suoi avversari egli afferma che non la trasgressione di una prescrizione macchia l’uomo, bensì quel che promana dal suo cuore, “le intenzioni cattive, le  prostituzioni, i furti” ecc. (cf. Mc. 7,18.20-23). La lettera di Giacomo indica con chiarezza la capacità deleteria del desiderio disordinato: “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra?” (Gc. 4,1).  il desiderio disordinato sembra in un primo momento dirigersi verso un qualcosa di positivo, cioè verso un’ auto realizzazione sempre più intensa non solo per il momento, ma a lungo termine. Non si accettano i limiti che la situazione  presente impone (nel matrimonio, nella famiglia, nella posizione sociale). “Si ritiene di dover andare al di là di essi e realizzare altri lati finora non sviluppati nel proprio essere”. Un uomo sposato, che scopre “la donna dei suoi sogni”, crede e spera di trovare finalmente con questa creatura l’ampliamento dei suoi orizzonti, a lungo sospirato. L’allettante possibilità che suscita il desiderio, sembra come la “promessa di una nuova terra, di una nuova possibilità, di una nuova espansione”. il desiderio di una più intensa auto realizzazione e auto espansione può diventare allora tanto forte che uno è pronto a superare molti ostacoli, anche a calpestare il diritto e la felicità altrui. Occorre prevenire certi processi, che tendono a diventare incontrollabili, e canalizzare le passioni in maniera tale ch’esse rimangano produttive e non divengano deleterie. Una cosa deve essere perciò chiara: non si tratta di reprimere ma di purificare  desideri, non di rimuoverli ma di educarli. I due Comandamenti non mirano a soffocare tutti i moti del desiderio, dell’aspirazione, degli appetiti, delle passioni. Dio è interessato all’ordine interiore dell’uomo, e i due comandamenti invitano perciò a lavorare in questo senso. Dove non ci si preoccupa di questa purificazione, lì spuntano uomini senza scrupoli che pur di raggiungere l’oggetto dei loro desideri passano letteralmente “sui cadaveri”. E’ spaventoso vedere quanto in fretta, oggi, tanti uomini ricorrano alla violenza, perché qualcosa ostacola il loro cammino. Quando i testi biblici parlano del “cuore puro” (cf. per es. Mt. 5,7; Sai. 24,3s), non intendono un cuore che non conosce ancor nulla della concupiscenza sessuale, ma pensano a un cuore purificato, che è diventato chiaro e trasparente davanti a Dio, a un cuore più orientato verso la volontà di Dio che verso i propri desideri egocentrici, a un cuore che ha fatto proprio il “desiderio” scesi necessaria alla purificazione del “cuore” serve cosa di cui è facile far prendere coscienza al potenziamento dell’Io. Chi ha imparato a resistere a stimoli disordinati sperimenta un potenziamento della propria autocoscienza, perché può dirsi: non ho bisogno di questo e di quello. Un’adeguata educazione in questo senso è quanto mai preziosa. Essa è preziosa per i singoli individui e il loro ambiente immediato ed è preziosa per la nostra società libera e democratica, perché ne va della sua sussistenza.  Proprio una società in alto grado libera ha bisogno di uomini sovrani, che sanno fare un determinato uso della loro libertà.  Dovrebbe esser chiaro che l’ascesi cui qui pensiamo non è l’auto negazione masochistica e misantropa di biechi zeloti, ma un autocontrollo sereno, elastico e veramente libero. Teniamo presente ch’esso non si costruisce da solo e che per raggiungerlo bisogna non di rado sostenere una lotta impegnativa. Dovrebbe esser chiaro a questo punto che non è il desiderio in se stesso ad esser proibito. Il Comandamento mette piuttosto in guardia contro la distruzione egoistica del matrimonio di un altro. Non può essere volontà di Dio che un uomo credente, per amore della sua fede, si sforzi spasmodicamente di non trovare bella e desiderabile una bella donna. Però è importante ch’egli lasci  volentieri che un altro si goda la propria donna, non perché ne sia proprietario, ma perché è parte di lui stesso, forse, addirittura la sua “miglior metà” nel senso letterale dell’espressione. L’Antico Testamento contiene due lunghi racconti sugli effetti disastrosi d’una passione disordinata, provocati ambedue le volte proprio da capi del popolo d’Israele che alla fine passano, o sono decisi a passare su due cadaveri. Il primo racconto parla dell’adulterio del re Davide con la moglie dell’Hittita Una, un mercenario straniero, e sottolinea con particolare energia il fatto che l’azione di Davide è tanto più riprovevole in quanto perpetrata da un potente nei confronti di un uomo debole  (cf. 2Sam. 11,1-12,15). Il profeta Natan si presenta impavido davanti al re e gli propone la parabola dell’uomo ricco e del povero  “Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero; ma il povero non aveva nulla se non una sola pecorella”, che gli era molto cara. Un ospite di passaggio arrivò dall’uomo ricco, e questi privò il povero della sua pecorella per preparare da mangiare all’ospite. A questo racconto il re Davide “si scatenò contro quell’uomo e disse: “Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte...”. Allora Natan disse a Davide: “Tu sei quell’uomo!”. Quindi il racconto prosegue ricordando come Davide si pentì, fece penitenza e fu perdonato. Il secondo racconto racconta di una donna sposata, della quale si invaghiscono ancora una volta alcuni capi del popolo, questa volta giudici. Solo perché Dio rende il profeta Daniele capace di smascherare la loro ingiustizia, Susanna la vittima innocente, viene salvata da morte (cf. Dn. 13,1-64). Questo mostra come il profondo rispetto del matrimonio richiesto da Gesù nel discorso della montagna (cf. Mt. 5,28) sia presente anche nella tradizione ebraica. Per quanto riguarda l’attualizzazione odierna del Comandamento, viene spontaneo sottolineare soprattutto tre aspetti:

  1. In discussione non è solo il desiderio dell’uomo,ma anche quello della donna. Il Comandamento vale per ambedue i sessi, un’affermazione quasi banale ma che non è inutile: “Non desiderare l’uomo d’altre!”.

  2. Il senso del Comandamento può essere esteso fino a vanificare ciò che esso proibisce di sequestrare l’altro in misura tale da impedirgli di essere o diventare se stesso. La tentazione di aggiogare gli altri davanti al proprio carro per amore della propria presunta auto realizzazione è grande. Allora ci si interroga solo più sul proprio utile, sul valore che gli altri hanno per noi e li si inquadra nei propri piani. “Il pericolo d’una simile strumentalizzazione del prossimo costante e generale in tutte le relazioni umane , fin nella sfera del matrimonio”. Qui sta il vero pericolo: nell'auto affermazione egocentrica, che distrugge e rende impossibile l’amore.

  3. Dobbiamo renderci oggettivamente conto che non è facile attuare l’educazione del desiderio per quanto riguarda le reciproche relazioni fra i sessi. La negazione diretta di un desiderio emergente ne aumenta a volte semplicemente il fascino. “Nè la lotta puramente volontaristica né la soppressione, né la rimozione sono la via migliore o anche solo efficace per superarlo. La cosa qui più utile, accanto alla confessione della propria tendenza  è quella di tentare una rinuncia franca e matura, una E rinuncia che non si esaurisce in una pura negazione, ma e accompagnata da un’assunzione rinnovata e più decisa di compiti e impegni e che è sorretta dalla convinzione che, accettando dei limiti, non perdiamo ma salvaguardiamo la vita”. Infine l’uomo può sempre affidare il proprio appetito disordinato all’amore salvante e ordinante di Dio, che lo conosce meglio di quanto l’uomo conosca se stesso.

Pozzanghere

Un giorno due monaci camminavano per una strada di campagna mentre pioveva a dirotto. Ad una svolta della via, videro a un tratto una ragazza, giovane e bella, che esitava nel superare una vasta pozzanghera. T’aiuto io, ragazza, disse uno dei due monaci, e senza esitare la prese fra le braccia e la depose dall’altro lato del pantano. L’altro monaco non disse nulla. Ripresero la strada fino a che, a sera, non giunsero in un tempio a pregare. Terminata l’orazione, finalmente sbottò:  Fratello, sai bene che noi monaci non dobbiamo avere familiarità con donne: le soprattutto con quelle giovani e graziose. Perché dunque lo hai fatto? L’altro rispose:  lo quella ragazza l’ho lasciata laggiù. Non ti accorgi che tu la stai ancora portando con te?.

(Fiaba cinese)

 

 

decimo comandamento

 

NON DESIDERARE LA ROBA D’ALTRI

 

 

Il decimo comandamento condanna l’avidità, la volontà disordinata di avere, nonché l’invidia per quel che gli altri hanno. Per invidia non bisogna intendere il desiderio di aver qualcosa di più bello o l’indignazione per il fatto che un altro viene preferito ingiustamente. Questi sono moti naturali, la cui condanna sarebbe dannosa. E’ naturale che un uomo si confronti con il suo ambiente e abbia un occhio più acuto nel cogliere quel che l’altro ha di più piuttosto che quel che ha di meno. Il comandamento vieta solo il desiderio di modificare la situazione in modo tale che d’ora in poi gli altri siano poveri e io sia ricco. Israele era favorevole alla proprietà e, naturalmente guardava con diffidenza ai troppi grandi mutamenti nei rapporti di proprietà. Ma con ciò si connetteva anche l’esigenza di un distacco interiore dal possesso, di un rapporto con esso fondato sul comandamento di Dio, il vero “proprietario” e soprattutto: l’esigenza di difendere il diritto dei poveri. La cosa qui vietata è non solo e non in primo luogo il desiderio “dal basso verso l’alto”, bensì in primo luogo il desiderio deleterio o insaziabile dei proprietari e dei ricchi. Il comandamento non riguarda coloro che hanno troppo poco intende vietare la lotta per la giustizia sociale, ma ha chiaramente per oggetto in primo luogo coloro che non hanno mai abbastanza. Anche il Nuovo Testamento parla un linguaggio assai chiaro circa questo appetito disordinato. In relazione al possesso di beni materiali leggiamo, per esempio, nella prima lettera a Timoteo (6,10): “L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali”. L’attualizzazione in ordine alla situazione odierna è evidente. Nella misura in cui i singoli, i gruppi e anche, per esempio, le imprese economiche mettono in primo piano la volontà disordinata di avere, ostacolano la libera espansione degli uomini, delle immagini di Dio. E’ importante al riguardo tener presente che non è solo l’azione cattiva, ma già lo sbagliato atteggiamento interiore a minare le relazioni umane, a cominciare dalla stanza dei bambini fino alla comunità dei popoli. Il decimo comandamento non protegge solo l’altro dai miei appetiti disordinati, ma protegge anche me dall’avidità fa melica e dall’invidia che rode e consuma fino a distruggere L’una e l’altra cosa spesso fanno più male a se stessi che agli altri.

 

COME SI ATTUALIZZA QUESTO COMANDAMENTO

Ma ritorniamo alla vita di tutti i giorni. Dobbiamo noi allora reprimere il desiderio di avere una bella casa al mare? Perché non dobbiamo poter desiderare una bella casa in un bel paesaggio? Un tale desiderio non è contrario al decimo comandamento come il trovare bella una donna bella non contrario al nono. La modestia può essere cosa saggia e buona ma non costituisce il nucleo del decimo comandamento. E Siamo quindi liberi di accumulare il più possibile? Si può anche dirlo, purché ciò non avvenga a spese del diritto degli altri  del diritto reale, e non soltanto del diritto dei paragrafi, fonte qualche volta delle più gravi ingiustizie. L’invito di Gesù a vendere tutto e darne il ricavato ai poveri (Mc. 10,21) il che evidentemente presuppone che ci siano sempre dei ricchi disposti a comperare! oggi potrebbe, ad esempio, presentarsi come invito a investire le ricchezze guadagnate, e non soltanto dal punto di vista economico, ma anche da quello sociale e umano, in vista, ad esempio, dell’ “umanizzazione” del mondo del lavoro. Ma che cos’è l’invidia in questo caso? Non il desiderio di stare meglio, non la lotta per la giustizia sociale, non il disappunto per la preferenza data in giustamente ad altri ma soltanto il desiderio di cambiar la situazione in modo che gli altri diventino poveri ed i abbia la loro ricchezza.

 

SOCIETA’ CONSUMISMO PUBBLICITA’

La nostra industria consumistica punta decisamente sugli appetiti naturali dell’uomo e li stimola intenzionalmente con la pubblicità, per trovare uno sbocco di mercato ai beni prodotti. A questo scopo sollecita tutti i desideri possibili facendo non di rado in forte misura appello alla concupiscenza sessuale. Basta scorrere le pagine delle riviste illustrate e guardare la televisione per convincersene! Degno di particolare attenzione sotto il profilo pedagogico morale è qui il cinismo della nostra società, che si manifesta nella pubblicità: gli stessi strumenti della comunicazione sociale, che stimolano sistematicamente con i loro proclami gli appetiti degli uomini, si rivolgono anche a individui che non sono in grado di canalizzare i loro desideri nel modo prescritto dalla società. Che può fare un nullatenente, con scarsa capacità di autocontrollo, quando lo si pone continuamente di fronte a una vasta gamma di beni di consumo e lo si martella: “Non sarai felice, se non hai questo!”? Molti delinquenti, per non dire la maggior parte, non sono vittime di quella campagna di seduzione sistematicamente condotta, che noi chiamiamo pubblicità? Il cerchio si chiude quando poi si girano film e si pubblicano libri, che descrivono con voluttà o con ostentata indi­gnazione morale queste tragedie umane e le rimettono così sul mercato. Qui tocchiamo con mano alcuni tratti profondamente inumani della nostra società, che stigmatizza poi in maniera sorprendente solo le vittime della seduzione e non  i seduttori. Si metta questo comportamento a confronto con le parole di Gesù: “Guai al mondo per gli scandali!... Guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo”. “Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da un asino e fosse gettato negli abissi del mare” (Mt. 18,7.6). Oltre ai delinquenti, vittime della nostra società, dobbiamo constatare che quasi tutti siamo diventati vittime di una mentalità del bisogno sistematicamente alimentata.

 

PER VINCERE L’INVIDIA E I DESIDERI CATTIVI

Già per i bambini è cosa importante imparare che non tutti i loro desideri possono venir soddisfatti. Bisogna insegnar loro a rinunciare a qualcosa, altrimenti sì “educano” individui smaniosi di soddisfare seduta stante tutti i loro capricci, e questo atteggiamento distrugge a lungo andare la loro e l’altrui vita. Viceversa “se un bambino impara a condividere le proprie cose con gli altri, anche più tardi sopporterà più facilmente le frustrazioni della vita”. Nello stesso tempo bisogna educare le sue “brame”. Esse non devono avvizzire e trasformarsi in una falsa modestia, ma diventare una forte aspirazione a una vita piena e intensa (cf. Gv. 10,10: “lo sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”). Il miglior rimedio contro l’invidia e altre pulsioni disordinate è ancor sempre la generosità. Tuttavia non bisognerebbe contentarsi della rinuncia imposta e coatta. La rinuncia liberamente scelta, la concessione senza invidia rive stono un particolare valore per lo sviluppo della libertà  umana interiore. Chi ha superato l’angoscia di non farcela è diventato un uomo interiormente libero. Nell’educazione alla generosità non bisogna d’altra parte esagerare. Non è bene educare i bambini solo a dare; bisogna anche avviarli a saper disporre dei loro beni nel proprio interesse. Ma l’importanza del decimo comandamento è ancora un a  volta più profonda. Esso si riallaccia in modo particolare al primo. il desiderio di possedere può infatti diventare così violento da trasformarsi in idolo, da occupare il primo posto nel cuore e da contendere tale posizione a Dio. La libertà e la vita esistono in ultima analisi solo presso Dio, che è più grande di tutto quello che possiamo raggiungere sulla via dell’avere. Gli ultimi comandamenti, in fondo, ci dicono quindi che non dobbiamo lasciarci avvincere in maniera assoluta da alcuna realtà mondana. Dio soltanto può avanzare pretese assolute.

 

UNA PICCOLA CONCLUSIONE

Vivere insieme nella libertà di Dio! Chi si pone da questo  punto di vista, gratificato da Dio e deciso a cooperare al suo dono, comprende sempre meglio perché il popolo d’Israele parla senza stancarsi della preziosità dei comandamenti. divini, sia quando prega sia quando professa la sua fede  loda iì Signore. Alcune espressioni del Salmo 119 lo testimoniano con chiarezza: “Aprimi gli occhi perché io veda le meraviglie della tua legge” (v. 18). “Corro per la  via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore” (v. 32). “Mia eredità per sempre sono i tuoi insegnamenti, sono essi la gioia del mio cuore” (v. 111). “Scaturisca dalle mie labbra la tua lode, poiché mi insegni i tuoi voleri” (V. 171). La misura in cui oggi noi, ebrei e cristiani, diventiamo capaci di operare un’attualizzazione anche sotto questo aspetto, non dipende solo dalla buona volontà, ma in primo luogo della nostra apertura all’amore vivificante di Dio nei nostri riguardi.

     
     
 

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