Testimonianze di un vecchio U.PN (una vita da U. PN)
Prima Ermanno Licursi. Poi Filippo Raciti. Prima un dirigente di Terza categoria. Poi un ispettore capo di polizia. Entrambi morti. Uccisi da quella che è una “deviazione” del nostro calcio, che spinge ad ammazzare perché non si accetta la sconfitta. O chi non “crede” nella stessa fede calcistica. O addirittura chi sta facendo solo il proprio lavoro. Dalla Terza categoria alla Serie A, nel giro di una settimana il calcio (e ciò che gli ruota attorno) ha dato il peggio di sé, obbligando il commissario della Figc Luca Pancalli a bloccare il “grande circo”. The show must not go on, stavolta. E il calcio dilettanti, anch’esso fermatosi, non è certo esente da un mondo, quello del tifo organizzato, che a volte presenta frange estremiste, fatte di violenza e lotta. Anche se va sottolineata pure la parte sana di quel tifo, quella che crea le amicizie, rinsalda i legami, fa condividere un progetto. Due aspetti che spesso convivono, mescolandosi. A volte prevale il primo, altre il secondo. Con alterne conseguenze. Questo è il racconto di un ex ultrà del Pordenone calcio (che vuole restare anonimo), il quale ci ha aperto il cassetto dei ricordi, raccontandoci come, negli Anni ’90, in riva al Noncello venivano preparate le gare in casa, le trasferte, i cori, gli striscioni. Ma anche gli assalti alle tifoserie avversarie. Va doverosamente premesso che il tifoso in questione non ha mai commesso alcuna illegalità durante quel periodo e che l’attuale dirigenza o l’attuale tifoseria neroverde nulla hanno in questione con i fatti dell’epoca. Oggi l’ex ultrà, ora trentenne, ripensa con una certa nostalgia a quel periodo. «L’idea di un gruppo di tifosi appassionati al Pordenone – spiega facendo un salto all’indietro di quindici anni – è nata nel 1992, quando assieme a qualche amico di scuola fondammo la “Brigata Gomiero”. Eravamo pochi, tutti appassionati di calcio e vogliosi di fare un tifo sano e colorato per la squadra della nostra città. La prima partita che seguimmo fu Pordenone-Zoppola in Prima categoria. Nacque tutto come un gioco, ma in poco tempo, visto anche la scalata del Pordenone nelle varie serie, il gruppo ha assunto sempre maggiori dimensioni». Già perché i Ramarri, sostenuti dal caloroso incitamento passano in Promozione, poi in Eccellenza. E arriva lo spareggio per la D contro il Rovigo. E’ il 1996. Il Pordenone vince ai rigori. «Quel giorno vennero allo stadio molte persone che si unirono a noi. Non più solo ragazzi ma anche ragazze, adulti, anziani. Tutti a fare il tifo. Da lì alla fondazione degli “Ultras Pordenone” il passo fu breve. Non eravamo assolutamente politicizzati: c’era gente di Fronte delle gioventù e gente che frequentava i Centri sociali. Durante la settimana non si guardavano neanche in faccia, ma la domenica... cantavano tutti assieme. Neanche di fare a botte ci importava. Volevamo solo seguire la nostra squadra e sostenerla». Sono gli anni di Canzian, Capasa, Lovisa, bomber Pentore. E del presidente Setten. Gli Ultras seguono il Pordenone, oltre che in casa, in tutte le trasferte. Con un tifo caloroso e indiavolato, spesso “casinaro”, ma leale. Il simbolo scelto è Asterix, personaggio sbruffone ma positivo. «Durante la settimana preparavamo gli striscioni e le bandiere, tutto a spese nostre, frutto di grandi collette. Il nostro compito era anche quello di reclutare più tifosi possibili per la domenica, pescando nel mondo delle nostre conoscenze. Finché arrivammo ad essere almeno una trentina per le partite in casa. Stampavamo volantini e un giornalino. Avevamo un ottimo rapporto con i giocatori, che ad ogni gol venivano sotto la gradinata. La società ci sosteneva, perché capiva l’importanza del nostro tifo. Non economicamente, ma appoggiandoci con la logistica, passandoci le stoffe, aiutandoci a prenotare le corriere per le trasferte. Soprattutto con Gastone Espanoli, storico dirigente neroverde, avevamo instaurato un ottimo rapporto». Il gruppo Ultras cresce e forse si inserisce qualche “testa calda”. Assieme agli stendardi si preparano gli striscioni ironici e i cori sarcastici, che però a volte diventano offensivi. «Le prese in giro fanno parte del tifo – sottolinea l’ex ultrà –. Era anche un’espressione di creatività. Molte volte con le tifoserie avversarie ci si insultava per 90’, anche pesantemente, ma poi a fine gara si finiva a bere assieme». A Porto Viro, nel 1997, non finisce così. «Eravamo in quattro al seguito della squadra. L’altra tifoseria non era abituata ad avere “rivali”. Noi facevamo il nostro tifo, loro si misero a fare gli strafottenti. Ci trovammo il paese intero contro. Se non fosse intervenuta la polizia per noi sarebbe veramente finita male. Per la gara di ritorno abbiamo preparato la risposta. Abbiamo chiamato amici e amici di amici. Così a noi si è aggiunta molta gente. Qualcuno è venuto per difendere l’onore, altri per fare casino e basta. L’agguato lo avevamo preparato. Li aspettavamo con le aste delle bandiere, ma il contatto grosso fu evitato dalle forze dell’ordine. La partita era a forte rischio e si sapeva. Anche perché una rivista nazionale come “Supertifo” l’aveva etichettata col bollino rosso. Qualche tifoso del Porto Viro, però, sbagliò settore e capitò proprio dove eravamo noi. Uno è finito a farsi medicare al pronto soccorso. Gli altri li depredammo delle sciarpe, come bottino». Un bottino di “guerra”. Perché le mani vengono alzate e i principi del buon Asterix, nell’occasione, vengono ammainati. «Il tifo è fatto di “amici” e “nemici” – continua il supporter neroverde -. Con alcuni ultras andavamo d’accordo, con altri meno, con altri ancora c’era una specie di “odio”. Erano poche le squadre che avevano gli ultras. Nel 1997 oltre a noi e al Porto Viro c’erano il Mantova (rapporti tesi), l’Adriese (gemellati), la Sanvitese (amichevoli rapporti), il Rovigo (non ci amavamo). Dopo l’episodio del Porto Viro ci fu la gara col Mantova. Qualcuno aveva scritto sul muro un insulto a quella città. Loro cominciarono a brandire cinture e cinghie. Non ci fu un vero scontro, ma scappò una scazzottata tra tifosi. Al ritorno a Mantova c’erano 5 mila sostenitori: era il giorno della loro promozione. Noi arrivammo con una corriera da 50 persone. Due nostri tifosi fecero il gesto di staccare un loro striscione posizionato a ridosso del settore in cui eravamo, così per fare un dispetto. Gli ultras del Mantova fecero in giro dello stadio e ce li ritrovammo in curva. Se non fosse intervenuta la celere non sarei qui a raccontare quell’episodio». Storie di botte, ma anche di amicizie. Come quella con i supporter dell’Adriese. «Loro erano “nemici” di Porto Viro e Rovigo. L’antipatia era comune, ma legammo non tanto per questo, quanto perché fummo in sintonia a livello personale. Con alcuni di loro mantengo ancora ottimi rapporti». Ma il rivale giurato di quegli anni è il Porto Virus, come lo ribattezza un ironico striscione in piena campagna anti-Aids. «Nel 1998 all’andata arrivammo da loro e fermammo la corriera in piazza per cercare il contatto. Rubammo le sciarpe, ma la polizia ci tenne lontani. Al ritorno c’era uno schieramento incredibile di polizia. Un tifoso del Pordenone venne fermato perché scagliò una biglia contro il pullman della squadra avversaria». L’amicizia con l’Adriese, inoltre, genera un’altra giornata da incubo per i sostenitori del Ramarro. Teatro della contesa, ancora Porto Viro. E’ il marzo del 1998. «Andammo ad Adria in 5 già dal sabato. Per fare la serata con i nostri amici, non pensavamo ci fosse pericolo. Il giorno dopo sentimmo puzza d’agguato. A causa di un cancello aperto in molti del Porto Viro sono entrati nel nostro settore prendendoci alle spalle. Ci furono scontri pesanti. C’è gente che giura di avere visto qualcuno con il coltello e ci furono dei feriti. Un assessore locale venne picchiato. La partita fu sospesa per 10’. Le forze dell’ordine arrivarono con colpevole ritardo, quando già tutto era finito e sì che fuori lo schieramento di Polizia e Carabinieri era cospicuo. Qualcuno finì in Questura, senza ferimenti. Solo grazie all’intervento dell’allora sindaco di Adria, che aveva lamentato una non sufficiente gestione della sicurezza, evitammo la denuncia». Inevitabile, invece, per noi, chiedere come sia stato possibile il passaggio da gruppo di amici a ultras “calorosi”. «Il salto non c’è mai stato veramente – risponde il tifoso –. Più che altro giocavamo a fare gli “ultras violenti”. Gli scontri sono avvenuti praticamente solo con il Porto Viro, perché si era creato un circolo di vendette con quella tifoseria». Ma di scalmanati, con tutte le trasferte affrontate, gli Ultras Pordenone ne hanno incontrati. «Noi eravamo in genere ragazzi sotto i 30 anni, con al seguito anche ragazze e, ripeto, a parte alcuni casi, abbiamo sempre fatto un tifo sano. Ma in giro si trovavano ultras diversi. Magari gente di 40-50 anni che non si faceva problemi a menare le mani anche nei confronti di ragazzini minorenni. Ricordo che il Chioggia era una tifoseria molto calda, così come il Monselice. Nel giugno del ’98 per lo spareggio per la D contro la Sacilese, dopo la sconfitta da loro all’andata per 0-2 a tavolino, vennero sul Livenza, vinsero 3-0, ottennero la promozione e sfasciarono tutto. Erano in 100 armati di bastoni e cinture. Hanno provocato tutta le gara, scrivendo perfino sui muri “Friulani bast…”. Ci furono scontri violenti con la polizia». Il gruppo degli Ultras Pordenone, a cui nel frattempo si è affiancato uno sparuto drappello di Naonian Army (che dureranno un solo altro anno), regge fine fino alla stagione della C2 nel 2000. E poi? «Le strade della vita hanno portato quel gruppo di ragazzi che eravamo a scegliere vie diverse e pian piano a sciogliersi. Da allora qualcuno si è sposato, altri si sono trasferiti. Qualcuno non c’è più. E’ la vita che va avanti. Oggi seguo spesso la Nazionale in giro per l’Europa, ma frequento ancora il “Bottecchia”, come anche altri di noi, ma da normale tifoso. Quando osservo i ragazzi di “Guardia cittadina” il nuovo gruppo di supporter neroverdi, vedo me stesso dieci anni fa. Anche loro amano un tifo colorato, ma di base sano». Che idea ha dei fatti di Catania, chiediamo? «La parte culturalmente più ignorante si lascia trasportare – ci risponde –. Tra gli ultras ci sono dei delinquenti. Non c’è differenza con la normale criminalità. Il calcio è esasperato e il mondo del pallone rappresenta un microsistema della società. L’universo degli ultras può anche esser malato, ma non deve essere assolutamente fatto scomparire. Il calcio vive di colori e suoni. Vietare le trasferte o giocare a porte chiuse è assurdo. Non si può fare di questo sport un servizio delle Tv a pagamento». Ecco un altro punto dolente. Il calcio che, diventato business, non guarda più in faccia nessuno |