La pellicola che normalmente adoperiamo è un complesso sistema di sali d'argento, bromuro d'argento e gelatina. La particolarità del film è quella di essere fotosensibile, cioè di farsi impressionare dalla luce. E' bene chiarire che ogni pellicola ha una sua specifica reattività alla luce, ma che la caratteristica comune a tutte è quella di avere in sé, dopo l'esposizione, la cosiddetta immagine latente. E' piuttosto complesso spiegare cosa sia l'immagine latente senza dover far ricorso alla meccanica quantistica: ci limiteremo perciò a dire che la luce provoca una alterazione nelle orbite degli elettroni più esterni dei cristalli dei sali sensibili. Questa immagine latente è quindi il potenziale di una immagine visibile che si rivela dopo il trattamento chimico di sviluppo. L'immagine reale, visibile, è costituita da particelle di argento ridotto (cioè che hanno subito un processo di ossido riduzione), le quali hanno la capacità di assorbire la luce che le colpisce. Nelle aree in cui vi è più argento ridotto viene assorbita più luce, quindi il film è più scuro; va da sé che, invece, nelle parti in cui vi è poco argento, la luce passa più facilmente attraverso il negativo. Sui nostri negativi e sulle stampe relative vi è un lasso di densità differente, variabile. Se sui negativi le varie densità sono viste in funzione della luce "trasmessa", cioè di quella che attraversa la pellicola, sulle stampe invece ci troviamo di fronte ad una serie di densità generate dalla luce "riflessa" dalla stampa stessa Queste differenti densità sono i toni di grigio dell'immagine; i toni variano da una massima quantità di argento riducibile presente nell'emulsione, detto massimo annerimento, sino ad una minima quantità che lascia intatto il bianco del supporto della carta visto attraverso la gelatina. Questi sono i due toni limite, in mezzo ai quali vi è un'infinità di grigi intermedi che formano, appunto, la scala zonale continua. È proprio per il fatto che la scala tonale è continua, quindi composta da infiniti grigi fra il bianco e il nero, abbiamo delle difficoltà nel doverla controllare. è infatti ben più facile controllare un valore "discreto" e definito di cose (quindi di toni), facilmente riconoscibili, anziché una quantità non determinata. Visto che lo scopo del Sistema Zonale è proprio quello di poter sempre ottenere il risultato voluto, quindi controllare i toni, per rendere tutto più semplice si è arrivati ad una divisione della scala tonale. Essa è stata infatti divisa in più parti, delle "Zone", che vanno dal bianco puro al nero assoluto, e ciascuna di queste zone rappresenta un determinato tono di grigio. Questa suddivisione della scala continua in più gradini permette un più facile riconoscimento dei valori tonali, fermo restando il fatto che la suddivisione è meramente teorica, perché nonostante tutto la pellicola continuerà a registrare in ogni caso una scala tonale continua. La suddivisione in Zone è solo un fatto di comodità, che serve, appunto, a renderle più riconoscibili. Le zone vanno dalla "0" (zero) alla "X" (dieci) e, più esattamente, la Zona "0" rappresenta il nero assoluto, la Zona "V" il grigio medio Kodak con riflettenza del 18% e la Zona "X" il bianco puro. E' importantissimo ricordare che fra una Zona e la sua adiacente vi è solo uno stop di differenza. Questo significa che tra una Zona "V" e una Zona "VI" vi è un diaframma di distanza che sarà più aperto, se andiamo dalla "V" alla "V", più chiuso se viceversa; infatti la Zona "VI" è più chiara della "V" in quanto è più vicina alla "X", il bianco puro, e sappiamo bene che per schiarire un'immagine bisogna aprire il diaframma. Il mezzo fotografico, come tutte le cose del nostro mondo, è soggetto purtroppo alla schiavitù della materia che gli impone dei limiti invalicabili. è molto importante conoscere tali limiti per cercare di operare al meglio, usando al massimo le possibilità della fotografia. Uno dei limiti più grossi, anche se non completamente evidenti, è che le immagini stampate non possono rendere esattamente la realtà che esse rappresentano. Un complicato meccanismo di psicologia della percezione fa sì che il nostro cervello accetti tali foto, ma in realtà la stampa è ben lungi dall'essere una fedele riproduzione. Uno dei concetti chiave, per arrivare alla comprensione dei limiti di riproduzione fotografica, è quello relativo allo scarto di brillanza. Per spiegare cosa sia lo scarto di brillanza bisogna partire da semplici osservazioni, quasi lapalissiane: tutti sappiamo che se la luce investe un corpo è necessario che questo la rifletta affinché sia visibile ai nostri occhi e, quindi, alla pellicola fotografica. Qualunque soggetto riflette una certa quantità di luce, alcuni molta, alcuni poca; se immaginiamo una serie di cose illuminate dalla stessa quantità di luce incidente, cioè colpite dallo stesso "numero di raggi" di luce, possiamo rilevare che ognuna di esse rifletterà una certa parte di tali raggi incidenti: i corpi che li riflettono quasi tutti appariranno chiari al nostro occhio, bianchi; quelli che invece ne riflettono molto pochi sembreranno scuri, neri. In una scena reale vi sono molti corpi e molte condizioni di luce contemporaneamente, quindi è facile che vi siano oggetti con alto potere di riflessione (chiari) molto illuminati ed allo stesso tempo corpi scuri poco illuminati. Lo scarto di brillanza è il rapporto dì "capacità di riflessione" fra la cosa più scura e la cosa più chiara che compongono la nostra inquadratura. D'ora in poi chiameremo le cose scure "ombre", anche se magari sono dei maglioni neri al sole, e le cose chiare "alte luci", poco importa se si tratti di fogli bianchi in ombra: ciò che conta è la loro brillanza nella scena inquadrata. Lo scarto di brillanza è quindi il rapporto che esiste tra il punto più scuro ed il punto più chiaro dell'inquadratura. Considerando 1 il punto più scuro avviene che il punto più chiaro è "tot volte" il più scuro. Facendo un esempio pratico immaginiamo di fotografare in pieno sole una ragazza con una camicetta bianca ed accanto a lei, in ombra, un gattino nero: se il gattino riflette una quantità di luce pari ad 1 (di una unità di misura arbitraria a nostra scelta) è assai probabile che la camicetta bianca rifletta invece 10.000. E' chiaro che tale scena ha uno scarto di brillanza pari a 1:10.000. Spesso ciò che intendiamo riprendere arriva a scarti simili, anche se non così elevati. Uno dei limiti più grossi della fotografia è quello di poter rendere scarti di brillanza che, nelle stampe di alta qualità, arrivano solo da 1 a 100. Questa particolarità provoca di fatto una compressione dei toni della scena reale e, come già accennato, un complesso processo di psicologia percettiva. Infatti tale processo fa sì che il cervello, mediante una reinterpretazione, accetti per vera l'immagine stampata, sebbene non lo sia affatto. Cosa si intende dicendo che lo scarto di brillanza riproducibile in una stampa arriva solo dA 1 a 100? Per rispondere alla domanda è necessario fare una distinzione fra le condizioni di ripresa e quelle di visione della foto. Al momento dello scatto, la maggior parte delle scene reali (specie se di grandi dimensioni, come i panorami) presentano una illuminazione piuttosto vivace, che appunto genera l'alto scarto di brillanza. Al momento della visione della fotografia stampata ci si trova, al 90% delle volte, in condizioni tali da illuminare in maniera uniforme la foto. Questa illuminazione prova un effetto ben preciso. Immaginiamo che "100" raggi di luce colpiscano la stampa: le aree che rappresentano le ombre più scure, perciò quelle che hanno raggiunto il massimo annerimento, rifletteranno verso il nostro occhio solo "1" raggio; invece, quelle zone della fotografia che hanno raggiunto il colore bianco supporto (e che quindi raffigurano le alte luci più brillanti), li rifletteranno tutti e "100". Questa incapacità di maggiore annerimento delle parti scure, o di maggiore candore delle zone chiare, è la ragione principale del perché in una stampa fotografica lo scarto di brillanza ottenibile, pertanto riproducibile, arriva solo ad 1 a 100, comportando così la compressione della scala tonale della scena reale ripresa. Ma in quali parti della scala avviene questa compressione? Naturalmente in quelle aree dove si andrà fuori " range" di riproducibilità Questo significa che tutto ciò che sarà più scuro di "1" e più chiaro di "100" sarà reso come "1" o come "100". Pertanto i bianchi più brillanti ed i neri più scuri sono proprio le parti che subiranno maggiormente la compressione tonale, mentre i grigi dei mezzi toni non ne risentiranno quasi per niente.
Contrasto e
resa tonale
Prima di entrare nel vivo dell'argomento, è bene specificare che
nella prima parte di questo paragrafo si farà un uso non corretto del termine
"contrasto". Il contrasto è in realtà una grandezza sensitometrica
relativa alla coppia pellicola - rivelatore, grandezza che non ha nulla a che
fare con la scena ripresa. Sino a che non introdurremo lo scarto di luminosità,
intenderemo per "contrasto" quest'ultimo. Spesse volte, leggendo su
qualche libro o sulle riviste di settore, si saranno notate espressioni del
tipo. "per compensare il contrasto della scena" oppure "il
contrasto fra i muri bianchi di fuori" e all'interno delle case era molto
alto", ecc. Cosa si intende con tali frasi e che cosa comportano in termini
di resa tonale? Il giro di parole col termine "contrasto" (e
ripetiamo che è usato impropriamente) serve solo ad indicare in termini più "maneggiabili" lo scarto di brillanza. Infatti
l'unità di misura
più comoda in fotografia è lo stop o diaframma; è più comodo dire che c'è una
differenza di 6 stop fra il punto A e il punto B che verificare uno scarto di
brillanza da 1 a 64. Che rapporto esiste tra lo scarto di brillanza e il
"contrasto"? Poniamo che in un panorama lo scarto di brillanza sia di
1 a 1024. Questo, ormai sappiamo bene, significa che la parte più chiara rifletterà
1024 volte di più di quella più scura. Attenzione però che ciò non vuol dire che la zona chiara
rifletterà 1024 stop in più! Infatti fra uno stop
ed il successivo più aperto (ad esempio fra f /8 e f/5,6) si verifica un
raddoppio della luminosità. Pertanto se un punto A ci dà una lettura
esposimetrica con 100 ISOdi 1/125" a f/8 ed il punto B ci dà invece
1/125" a f/5.6, lo scarto di brillanza tra A e B è di 1 a 2, poiché, leggendo B,
è necessario far entrare nell'obiettivo il doppio della
luce (aprire uno stop) per avere la corretta esposizione. Tornando al nostro
esempio precedente, lo scarto di brillanza da 1 a 1024 comporta una differenza
di: log2 1024=9 stop. Quindi il contrasto della scena, o meglio, la differenza
in stop, è uguale al logaritmo in base 2 del numero più alto dello scarto di
brillanza (nell'esempio è 1024). A questo punto è bene abbandonare
immediatamente il nome contrasto e chiamare la grandezza appena definita col suo
nome: Scarto di Luminosità. Nel paragrafo precedente abbiamo detto che il
massimo scarto di brillanza riproducibile su una stampa, e ribadiamo di alta qualità, arriva solo a circa i a 100, il che
vuol dire anche che su una foto
stampata possiamo ottenere uno scarto di luminosità di soli 7 stop circa. Cosa
accade quindi se la scena che vogliamo fotografare ha invece uno scarto di luminosità
di 10 stop? Semplicemente ne vengono riprodotti solo 7, il resto no.
Il punto saliente è quali 7 stop sono riottenibili in stampa e quali invece no,
cosa si perde e in che termini. Allora supponiamo che intendiamo riprendere una
facciata di un edificio chiaro, illuminato direttamente dal sole: all'interno di
una finestra aperta c'è un'amica che vorremmo far apparire nella foto finale.
Lo scarto di luminosità fra il volto di lei e la facciata è appunto di 10
stop, cioè l'esposimetro ci dà sul suo viso 1/8" a f/2.8 mentre sulla
parete dell'edificio legge 1/100" a f/8. Se impressioniamo la pellicola per
la facciata la nostra amica verrà completamente nera; mentre se esponiamo
correttamente il viso della donna, tutta la costruzione diventerà bianco
supporto e, in stampa, dovrebbe essere riprodotta con un bianco più chiaro del
bianco supporto. Questo non è possibile né chimicamente né fisicamente, in
quanto il bianco supporto è il tono più chiaro ottenibile dalla carta
fotografica, così chiaro proprio perché sono stati eliminati tutti gli
alogenuri di argento, lasciando libero il bianco della carta di supporto.
D'altra parte se l'esposizione avesse privilegiato l'edificio, la situazione non
sarebbe migliorata: consideriamo che la facciata sia riprodotta in stampa con
"quasi" il bianco supporto. A questo punto per avere una resa
letterale della realtà, la nostra ragazza dovrebbe essere riprodotta più scura
di 10 stop, tanti ve ne erano tra lei e il muro esterno; ma purtroppo il massimo
annerimento ottenibile in stampa può arrivare solo a 7 stop in meno del bianco
supporto. Questo cosa provoca? Che tutto ciò che nella scena reale era più scuro di 7 stop
verrà inesorabilmente riprodotto col massimo annerimento di cui è capace la carta.
Perciò la ragazza sarà di un tono scuro non corrispondente
alla realtà, poiché per avere una resa corretta sarebbe dovuta essere più scura del massimo annerimento. Ma anche in questo caso
ciò non è fattibile, in
quanto l'annerimento massimo è tale proprio perché sono stati ridotti tutti
gli alogenuri d'argento della carta da stampa. Questo facile esempio ci fa
capire come si comporta il sistema fotografico: è una sorta di finestra larga 7
stop che si muove lungo la scala reale, riproducendo bene solo ciò che rientra
all'interno di essa. Tutto ciò che è fuori viene reso come il bordo della
finestra, ossia con il bianco supporto o col massimo annerimento,
indipendentemente dal fatto che ciò che è "fuori dalla finestra" è "molto fuori o poco". in altre parole se lo scarto di
luminosità è di 8 stop oppure di 18 stop la resa definitiva sulla stampa, se fatta senza gli
accorgimenti dello Zone System, sarà la medesima: dal bianco al nero. Un
importante fattore che determina lo scarto di luminosità, e pertanto la riproducibilità
di una scena reale, è la quantità di luce incidente su quello
che vogliamo fotografare. Il modo migliore per far capire questo ulteriore
fattore è un altro esempio pratico: intendiamo riprendere una scena ove vi è un oggetto scuro ed uno chiaro; diciamo che l'oggetto scuro ha la
capacità di
riflettere il 10% della luce che lo colpisce, mentre il chiaro ne riflette il
90%. Se su tale scena, di sera, arrivano 10 lumen di luce ambiente (il lumen è una
unità di misura dell'intensità della luce, che al momento non è necessario conoscere per le sue applicazioni nello Zone System), l'oggetto scuro
ne rifletterà 1, mentre il chiaro 9; la differenza tra le due riflessioni è di
9-1=8 lumen. Immaginiamo adesso la medesima scena di giorno, e consideriamo che
essa è colpita da 100 lumen: il nostro oggetto scuro rifletterà adesso 10
lumen, mentre il chiaro 90. La differenza è giunta ora a ben 80 lumen, un
incremento notevole rispetto all'ipotesi precedente, specie considerando che gli
oggetti sono i medesimi. Da ciò si arguisce che lo scarto di luminosità non è
una grandezza (o valore) costante, ma bensì relativa all'intensità generale
della luce che colpisce la scena: lo scarto di luminosità di una stessa scena,
quindi, varia dal valore letto in un giorno di sole a quello letto in uno di
cielo coperto o quando la luce è attenuata dal crepuscolo.