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I DISTRETTI CULTURALI

NUOVE OPPORTUNITA’ DI SVILUPPO DEL TERRITORIO

 

 

Studio del prof. Pietro Valentino

Docente di economia urbana

Università La Sapienza - Roma

 

 

 

LA DEFINIZIONE DI DISTRETTO CULTURALE

 

 

     Il termine distretto originariamente indicava il territorio sottoposto al dominio d'una città. In economia è stato riutilizzato con l’aggiunta dell’attributo “industriale” per indicare un territorio caratterizzato dal punto di vista produttivo dal “dominio” di uno specifico settore di produzione (distretto calzaturiero, del tessile, del mobile, ecc.) che, insieme alla struttura economica, qualifica anche le relazioni spaziali e sociali.

     Con l’attributo di culturale si vuole invece indicare un territorio che si contraddistingue sotto due aspetti:

-         da un lato, per una significativa presenza di un’industria che procede sia a valorizzare le risorse culturali che a “raffinare” i prodotti risultanti dal processo di valorizzazione. Un’industria che non deve essere per forza “dominante”, ma deve svolgere un ruolo significante nella definizione delle caratteristiche del modello di sviluppo economico e sociale di un’area urbana o territoriale;

-         dall’altro, per il fatto che il carattere del processo di valorizzazione delle risorse “marchia” anche la qualità delle infrastrutture e delle offerte esterne a questo processo ma ad esso congiunte. L’imprinting che queste ricevono dal partecipare più o meno direttamente al processo di valorizzazione dei beni culturali investe la loro tipicità e le loro proprietà per cui partecipano a pieno titolo alla definizione della “marca” distintiva di quel territorio.

     In altri termini, il distretto culturale è un sistema, territorialmente delimitato, di relazioni che integra il processo di valorizzazione delle dotazioni culturali, sia materiali che immateriali, con le infrastrutture e con gli altri settori produttivi che a quel processo sono connesse.

     Le risorse o dotazioni culturali che possono essere valorizzate nella forma di distretto hanno varia natura essendo costituite: dai beni e dalle istituzioni culturali; dal patrimonio demo-etno-antropologico; dallo spettacolo dal vivo; dalla produzione di arte contemporanea; dall’industria cinematografica; dall’industria televisiva; dall’industria editoriale; dall’industria multimediale; dai prodotti tipici locali; dall’industria della moda e del design; da eventi, ecc..

     La realizzazione di un distretto culturale ha l’obiettivo, da un lato, di rendere più efficiente ed efficace il processo di produzione di “cultura” e, dall’altro, di ottimizzare, a scala locale, i suoi impatti economici e sociali.

     Ogni area territoriale organizzerà il suo modello di distretto intorno alla sua dotazione (asset) più pregiata sia in termini di offerta sia in relazione alle domande potenziali che sarà possibile attrarre. Evidentemente, nella sua concreta applicazione il distretto culturale sarà strutturato in termini differenti a seconda dell’asset da valorizzare, ma tutto ciò non esclude che, indipendentemente dalle sue forme concrete, sia possibile definire un “modello generale” di riferimento.

 

     Nelle pagine che seguono sarà illustrato il modello generale di distretto, i suoi contenuti, le procedure e gli strumenti per tradurlo in realtà ed, infine, saranno esplicitate le ragioni che ne rendono conveniente la realizzazione.

     Per rendere più comprensibile il modello di distretto si farà riferimento ad alcune esemplificazioni nelle quali si assumerà che i beni culturali costituiscano la dotazione più pregiata da valorizzare. Si è scelto di fare riferimento a questa specifica risorsa in quanto, nel contesto italiano, i beni culturali costituiscono l’asset di maggior pregio per la gran parte dei territori, Comunque, i beni culturali saranno qui intesi in senso lato poiché in questo termine saranno comprese le istituzioni culturali ed i beni artistici, storici, architettonici del territorio. Ovvero, tra i beni culturali sono compresi: i musei, i parchi archeologici, le opere d’arte, i monumenti, i centri storici, le chiese, i palazzi, le piazze, la struttura urbana e così via.

     In riferimento a questo specifico comparto, il distretto culturale può essere più specificamente definito come un sistema reticolare, spazialmente delimitato, il cui nodo centrale è costituito dal processo di valorizzazione dell’asset territoriale rappresentato dai beni culturali e gli altri nodi sono rappresentati: dai processi di valorizzazione delle altre risorse del territorio (i beni ambientali, le manifestazioni culturali ed i prodotti della cultura materiale ed immateriale del territorio, ecc.); dalle infrastrutture territoriali (servizi di trasporto, per il tempo libero, ecc.); dai servizi di accoglienza e dall’insieme delle imprese la cui attività è direttamente collegata al processo di valorizzazione dei beni culturali.

     Ogni singolo nodo che appartiene al distretto deve, perciò, essere direttamente connesso al processo di valorizzazione dei beni culturali ma potrebbe essere connesso anche con uno o più degli altri nodi della rete. Evidentemente, maggiori sono le interconnessioni, ovvero più integrato è il distretto, e maggiori saranno gli impatti economici che sarà possibile generare. Le relazioni che connettono i singoli nodi con il processo di valorizzazione sono costituite da flussi che possono assumere varia natura.              

Lo scambio tra processo di valorizzazione e nodi può, infatti, riguardare: informazioni, valori, prodotti, materie prime, semilavorati, tecnologie, servizi lavorativi, ecc.

     Più specificamente, fanno parte del distretto culturale fondato sulla valorizzazione dei beni culturali:

a)      i beni culturali che, singolarmente o “a sistema”, sono oggetto del processo di valorizzazione;

b)      le altre risorse del territorio (dal patrimonio storico ed ambientale a tutte le espressioni della sua cultura) che possono sostenere l’offerta del processo di valorizzazione dei beni culturali e viceversa;

c)      le imprese che, indipendentemente dal settore di appartenenza, sono

c.1) fornitrici, a monte, degli input richiesti dal processo di valorizzazione (per esempio, le imprese utilizzate negli scavi di un sito archeologico, nel restauro di un quadro e di un monumento, per l’offerta di servizi di guida al visitatore);

c.2) fornitrici degli ulteriori servizi che possono essere necessari per poter fruire direttamente dei prodotti del processo di valorizzazione (per esempio, i servizi di accoglienza offerti dall’industria turistica al fruitore non residente);

c.3) utilizzatrici, a valle, nei loro processi produttivi degli output del processo di valorizzazione dei beni culturali (per esempio, le imprese multimediali che possono utilizzare come input i risultati di una campagna di scavo o di un restauro o di una mostra);

d)      le infrastrutture territoriali necessarie per attivare il processo di valorizzazione o per rendere fruibili al visitatore i prodotti di questo processo (servizi di accessibilità, servizi di rete, ecc.);

e)      le altre dotazioni territoriali (teatri, impianti sportivi, ecc.) i cui livelli di attività possono essere sostenuti da quelli del processo di valorizzazione dei beni culturali e viceversa.

 

     Il sistema integrato di relazioni che costituisce il distretto culturale può, a sua volta, essere ripartito in quattro sub sistemi:

1)      il primo è costituito dall’integrazione dei processi di valorizzazione dell’insieme delle risorse storiche, culturali ed ambientali presenti sul territorio. Indipendentemente dall’asset su cui è fondato il distretto, il primo obiettivo da perseguire riguarda l’integrazione tra il processo di valorizzazione di questo asset e quello relativo alle altre risorse disponibili. Per cui, come illustrato nella Fig. 1, intorno alla valorizzazione dell’asset più pregiato (per esempio, il comparto dei beni culturali) bisogna valorizzare, in modo tale che le offerte non siano tra di loro sostitutive: i beni ambientali del territorio (riserve e parchi naturali, giardini storici, ecc.); le espressioni della sua cultura materiale ed immateriale (feste, gastronomia, ecc.); i prodotti tipici della sua industria agroalimentare (vini, formaggi, ecc.) e la stessa produzione di eventi (festival, mostre, ecc.);

 

 

 

 

Fig. 1 Integrazione dei processi di valorizzazione

            delle risorse del territorio

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


2)      il secondo subsistema è costituito dai servizi di accessibilità e per il tempo libero. L’offerta di servizi di trasporto (sia a scala territoriale che extraterritoriale) deve essere coordinata con l’offerta di servizi per il tempo libero e per lo sport (cinema, teatri, piscine, campi da tennis, ecc.) e, contemporaneamente, queste offerte devono essere coerenti con la strategia di valorizzazione degli asset culturali. Per esempio l’offerta di trasporto (percorsi, frequenze, qualità dei mezzi, ecc.) deve essere coordinata con quella delle infrastrutture per il tempo libero (cinema, teatri, ecc.) e tutte queste offerte con quella dei musei o delle mostre;

3)      il terzo subsistema è costituito dai servizi di accoglienza: alberghi, bar, ristoranti, commercio, ecc.. In questo caso si tratta prima di tutto di integrare l’offerta in termini di standard qualitativi. Ovvero, questo subsistema deve produrre servizi di accoglienza che dal punto di vista non solo quantitativo ma soprattutto qualitativo siano adeguati alle esigenze delle domande che si vogliono attrarre attraverso l’attivazione del processo di valorizzazione delle risorse culturali;

4)      il quarto subsistema è rappresentato da quell’insieme di imprese già individuate in precedenza. Si tratta in questo caso di imprese appartenenti a diversi settori, come il settore dell’artigianato o quello agroalimentare o quello della comunicazione o quello del restauro, che devono essere in grado di produrre e vendere merci e servizi al processo di valorizzazione delle risorse culturali e ai suoi fruitori (diretti o remoti) che incorporino, in termini di tipicità o qualità, i segni distintivi delle risorse da valorizzare. In altri termini la qualità delle risorse deve rispecchiarsi anche nel carattere dei prodotti offerti dalle imprese connesse in modo tale che anche i prodotti siano distinguibili sulla base di un marchio che dovrà caratterizzare l’insieme dei prodotti del territorio.

 

     I singoli subsistemi devono essere integrati al loro interno e su base territoriale, ma la “qualità” dei processi di integrazione deve essere coerente con gli obiettivi più generali che con la realizzazione del distretto culturale si vogliono perseguire.

     Una rappresentazione diagrammatica dei nodi (e delle loro strutture di integrazione) che compongono un distretto culturale fondato sulla valorizzazione dei beni culturali è fornita nella Fig. 2 dove, con riferimento ad un dato ambito territoriale, sono rappresentati i singoli subsistemi e dove con le frecce più marcate sono indicate le relazioni fondanti.

 

     Sulla base di questa definizione di distretto culturale, al decisore, ma anche allo studioso ed al pianificatore, si pongono da subito due problemi:

1)      individuare se esiste una economia di distretto e determinarne la sua estensione;

2)      elaborare una procedura per la definizione di una strategia e dei piani operativi per lo sviluppo o la realizzazione di un distretto culturale.

     Per indagare sull’esistenza di un distretto culturale, o per progettare gli interventi necessari alla sua realizzazione o sviluppo, è necessario compiere una serie di indagini di campo che possono essere così specificate:

A)    indagini per rilevare struttura, organizzazione ed output del processo di valorizzazione;

B)     analisi per individuare la natura ed il grado di integrazione tra il processo di valorizzazione e le sue industrie sussidiarie;

C)    analisi delle potenzialità delle domande per gli output prodotti o producibili;

D)    individuazione dei principali attori che devono cooperare per la realizzazione di una economia di distretto;

E)     definizione di una procedura per la realizzazione di un’economia di distretto;

F)     individuazione degli strumenti che possono essere utilizzati per sostenere o creare un distretto culturale.

 

 

 

Fig. 2 Il sistema di relazioni del distretto per la valorizzazione dei beni culturali

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 Per definire i contenuti delle singole indagini, che sono tra di loro fortemente interrelate, si procederà nelle prossime pagine a meglio precisare, nell’ordine in cui sono state appena presentati, gli oggetti delle differenti analisi.

 

 

 

IL PROCESSO DI VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI

 

 

     Per rilevare la struttura, l’organizzazione e l’output del processo di valorizzazione bisogna procedere, in primo luogo, a definirne la natura.

 

     Il processo di valorizzazione delle dotazioni culturali è un processo di produzione di oggetti e servizi e, come tutti i processi produttivi, può essere rappresentato, in prima approssimazione, come una scatola nera (black box) in cui si introducono degli input e da cui escono degli output (vedi Fig. 3).

     Alcuni degli output che escono dal processo di valorizzazione possono, a loro volta, essere riutilizzati come input dal processo stesso per cui il processo è, in genere, circolare.

 

Fig. 3 Il processo di valorizzazione delle dotazioni culturali

 
 

 

 

 

 

 

 

 


   

 

 Le attività che vengono effettivamente esercitate nell’ambito di questo processo (i contenuti della black box) possono essere più o meno diversificate in quanto dipendono: dagli obiettivi che si vogliono perseguire; dalle risorse (umane e finanziarie) a disposizione e dal modo in cui il processo viene effettivamente gestito.

     Possiamo qui fornire una rappresentazione ideale del processo di valorizzazione, con riferimento al comparto dei beni culturali, che dia conto del processo nella sua complessità tenendo ben presente che i processi reali si discostano in modo più o meno ampio da questa rappresentazione.

     Lo specifico processo di valorizzazione dei beni culturali è, in generale, composto da una serie diversificata e composita di attività che possono essere utilmente riordinate in tre grandi insiemi:

1)      nel primo possono essere incluse le attività indispensabili per la tutela del bene, ovvero quelle necessarie per la sua salvaguardia e per metterlo al sicuro da manomissioni o distruzioni. Questa funzione, che caratterizza tutti i processi di valorizzazione, ha come principale obiettivo quello di rendere disponibile il bene per le generazioni future. L’attività di tutela nella realtà viene, in genere, assicurata imponendo vincoli all’operare dei singoli poiché si presuppone che gli automatismi di mercato non sono da soli in grado di soddisfare questa funzione. In altri termini, è richiesto l’intervento della “mano visibile” di un’autorità regolatrice in quanto nel settore culturale, e non solo nel comparto dei beni culturali, in genere si verificano, per un insieme di ragioni che non possono essere qui indagate, quei fenomeni noti nella letteratura economica come “fallimento del mercato”;

2)      nel secondo possono essere comprese le attività necessarie alla ordinaria gestione del bene, ovvero le funzioni attivate per la sua conservazione e manutenzione che possono essere necessarie anche se i beni non sono fruibili. Le attività espletate in questo ambito dipendono: dalla natura dei beni; dalle risorse disponibili e, poiché, non sono completamente indipendenti dagli usi effettivi, anche dalle modalità in cui il bene viene fruito;

3)      infine, nel terzo insieme possono essere inserite le attività che bisogna rendere operanti per produrre tutti quei servizi necessari per assicurare, migliorare ed accrescere la fruibilità del bene in senso sia culturale che fisico.

 

     Per mettere in esercizio tutte le differenti attività sono necessari differenti input (servizi, prodotti, tecnologie, ecc.) che provengono dall’esterno; ovvero, da  altri processi di produzione.

     Prendendo in considerazione i principali settori fornitori di input, congiuntamente alle attività che vengono direttamente praticate nel processo di valorizzazione dei beni culturali, è possibile definire un’altra importante categoria di analisi: quella di filiera produttiva.

 

 

 

 

LA STRUTTURA DEL PROCESSO DI VALORIZZAZIONE

DEI BENI CULTURALI: LA FILIERA PRODUTTIVA

 

 

     Un processo di valorizzazione dei beni culturali che sia in grado di attivare l’insieme di funzioni brevemente illustrate in precedenza ha, in genere, tra i suoi principali fornitori:

-         il settore della ricerca, per tutte quelle attività che vengono delegate all’esterno o condotte in collaborazione con università, istituzioni culturali, centri di ricerca, ecc.;

-         il settore dei servizi di progettazione quando, per vari motivi, si devono utilizzare strutture esterne nella progettazione degli interventi;

-         il settore delle costruzioni (restauro) per gli interventi più complessi che non possono essere realizzati, anche se disponibile, con il personale interno;

-         il settore della chimica che fornisce i prodotti necessari per differenti attività implementabili nell’ambito di questo processo (dal restauro alle riproduzioni);

-         il settore della meccanica di precisione che fornisce apparecchiature per la diagnostica, il controllo degli accessi o dei beni e altro ancora;

-         il settore informatico che fornisce apparecchiature e software per varie funzioni: dalla catalogazione alle riproduzioni; dai sistemi di controllo alla comunicazione, ecc.;

-         il settore dell’artigianato (riproduzioni) che può fornire prodotti a sostegno dei fruitori;

-         il settore dell’editoria, della comunicazione e della multimedialità che fornisce i supporti necessari al miglioramento ed alla crescita della fruizione sia diretta che remota dei beni culturali.

 

     Questo elenco individua e descrive brevemente i principali settori che, direttamente ed in modo significativo, partecipano al processo di valorizzazione dei beni culturali.

     Negli ultimi anni, tra i fornitori di input, si è accresciuto il peso dei settori innovativi - informatica, multimedialità, ecc. – in quanto l’applicazione di queste tecnologie, ampliando le potenzialità della riproducibilità tecnica dei beni culturali, permette sempre più di vendere a distanza a nuovi fruitori, che potremmo definire visitatori remoti, i  prodotti del processo di valorizzazione.

     Ricorrendo al concetto di filiera produttiva elaborata con riferimento alle produzioni industriali, potremmo individuare in questi settori, insieme alle attività direttamente espletate nel processo di valorizzazione, la filiera produttiva del processo di valorizzazione dei beni culturali (vedi Fig. 4).

     In definitiva, questa è composta dalle attività rese operanti nell’ambito del processo di valorizzazione e dai settori che partecipano in modo significativo alla fornitura degli input necessari alla realizzazione di queste attività.

 

     Evidentemente considerando il processo di valorizzazione di altre dotazioni culturali la filiera produttiva sarà costituita da altri settori fornitori di input. Per esempio, la filiera produttiva relativa alla produzione di opere liriche (comparto delle performing arts)  comprenderà, insieme al “capitale umano” rappresentato dagli artisti, il settore della fabbricazione di strumenti musicali, il settore del legno per la produzione di scenografie, l’industria della riproduzione audio e visiva e così via

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


      L’obiettivo, per questo contesto, di una strategia per la realizzazione  di un distretto culturale

 

Fig. 4 – La filiera produttiva del processo di valorizzazione dei beni culturali

 consiste nell’individuare l’insieme di azioni da mettere in atto per creare una sempre più forte integrazione tra i processi produttivi delle differenti imprese che compongono la filiera.

 

     La stessa filiera produttiva del processo di valorizzazione dei beni culturali coglie solo una parte dei settori e delle imprese che possono far parte del distretto culturale.

     Come si evince dalla definizione di distretto data in precedenza sono escluse da questa ricostruzione:

a)      le imprese, appartenenti a diversi settori produttivi, il cui fatturato è determinato, per una quota significativa, dalla domanda espressa dai fruitori dei servizi culturali offerti come, per esempio, le imprese del settore turistico;

b)      le imprese che utilizzano come input i risultati del processo di valorizzazione dei beni culturali come, per esempio, le imprese della comunicazione.

     Per individuare questo ulteriore insieme di imprese è necessario definire ed individuare gli output prodotti dal processo di valorizzazione.

 

 

 

GLI OUTPUT DEL PROCESSO DI VALORIZZAZIONE

DEI BENI CULTURALI

 

     Considerando sempre il comparto dei beni culturali, il suo processo di valorizzazione può congiuntamente realizzare una serie diversificata di output che possono essere in grado di soddisfare un insieme variegato di domande.

     L’output primario di questo processo è la conservazione della risorsa stessa che deve essere disponibile per le future generazioni. Poiché la risorsa deve essere fruibile sia culturalmente che fisicamente, l’altro output fondamentale del processo è la produzione di servizi culturali in senso proprio. Si tratta di quell’insieme di servizi che rendono fruibile nelle due accezioni appena indicate i beni o le istituzioni culturali. La fruizione fisica è, in realtà, ammessa soltanto nei casi in cui non metta in pericolo la conservazione dei beni stessi. 

     La caratteristica di questi servizi è che possono avere una duplice natura: da un lato, assumono la forma di servizi alla persona, dall’altro di servizi esportabili. I servizi alla persona sono quelli destinati al visitatore che li consuma direttamente visitando un museo o un monumento, mentre i servizi esportabili sono quelli che permettono un consumo a distanza come le riproduzioni su qualunque supporto, i siti Web, ecc..

     La produzione dei servizi culturali - che possono essere al loro volta ulteriormente disaggregati a seconda delle caratteristiche della domanda finale (servizi educativi, di ricerca, formativi, informativi, ecc.) – costituisce generalmente un obiettivo esplicito del processo di valorizzazione dei beni culturali che si associa a quello conservativo.

     In realtà, mentre si producono questi servizi vengono congiuntamente realizzati altri prodotti che, se non vengono riutilizzati e valorizzati, costituiscono una sorta di scarto del processo di produzione culturale.

     La lista di questi ulteriori output può, in prima approssimazione, essere così sintetizzata:

1)      produzione di qualità ambientale. La disponibilità e la crescita di qualità ambientale dipende, non solo e non tanto, dalla quantità e qualità di beni culturali posseduta da un territorio, quanto dalle modalità in cui viene gestito il loro processo di valorizzazione. Infatti, in un’area può essere localizzato un complesso significativo di beni culturali ma se questi beni non sono adeguatamente tutelati o se non sono fruibili - come succede, per esempio, nel caso di aree archeologiche soggette ad abusivismo o ad abbandono - la loro sola presenza può influenzare anche in modo negativo la qualità ambientale di quell’area;

2)      produzione di identità sociale. Il processo di produzione culturale produce non solo servizi e prodotti ma anche valori. Tra questi ultimi dovrebbe essere compreso la creazione e la crescita di quella coscienza sociale che trasforma il bene culturale in un bene collettivo che appartiene, indipendentemente dalla proprietà, alla collettività (locale, nazionale, sovranazionale). Questa consapevolezza, che nella legislazione contemporanea si presenta spesso come una sorta di diritto di appartenenza dei beni alla collettività, è un importante strumento per rendere quest’ultima maggiormente corresponsabile e compartecipe alle attività di conservazione e valorizzazione. Nelle situazioni in cui questi valori vengono realizzati e diffusi i cittadini, singolarmente o in forma associata, diventano degli importanti attori (stakeholder) del processo di valorizzazione come apportatori di risorse sia umane (volontariato) che finanziarie (donazioni). L’affermarsi e l’estendersi di questa coscienza a livello locale dipende dalla capacità del processo di valorizzazione di comunicare i valori prodotti tenendo conto della specificità dei differenti gruppi sociali che compongono la collettività: studenti, anziani, associazioni, ecc.;

3)      produzione di innovazione, ricerca e conoscenza. Le attività implementate nel processo di valorizzazione, soprattutto quelle rese operanti nel campo della tutela e dello sviluppo, provocano in genere una crescita di conoscenze che può investire non solo i beni oggetto del processo di valorizzazione. La produzione di ricerca e conoscenze può, inoltre, oggettivarsi in un insieme composito di prodotti: pubblicazioni, database, tecnologie, procedure, materiali e altro ancora;

4)      produzione di input per altri processi produttivi. Il processo di valorizzazione dei beni culturali costituisce, in generale, un campo di sperimentazione di materiali, di tecnologie, di forme di comunicazione e di rappresentazione che potrebbero essere utilizzati, come materia prima o semilavorato, per altri processi di produzione. Per esempio, la sperimentazione di nuove forme di comunicazione potrebbe essere riutilizzata come materia prima e semilavorato dai settori dell’editoria o del multimediale, le tecniche di restauro sperimentate potrebbero essere riutilizzate nel settore delle costruzione per interventi di recupero e manutenzione dell’edilizia storica, i sistemi di controllo potrebbero essere riutilizzati  per la protezione di luoghi o di oggetti fragili o preziosi e così via. In questa accezione, il processo di valorizzazione dei beni culturali può costituire un settore strategico i cui risultati potrebbe essere applicati, con le dovute mediazioni ed aggiustamenti, anche in altri processi.

     In definitiva, considerando l’insieme degli output prodotti dal processo di valorizzazione dei beni culturali ed impedendo la loro trasformazione in scarti, questo processo potrebbe svolgere in Paesi come l’Italia un ruolo strategico, analogo, se l’analogia non fosse considerata sacrilega, a quello che in altri paesi ha svolto e svolge il settore militare. Un settore, cioè, in cui data la particolarità degli oggetti è possibile sperimentare procedure di intervento reversibili, materiali e tecnologie non invasive ed altro ancora. I risultati di questa sperimentazione potrebbero, successivamente, essere applicati a quei settori che, data la tipologia dei loro prodotti, devono utilizzare procedure, materiali e tecnologie che abbiano le stesse caratteristiche.

     Il complesso degli output del processo di valorizzazione può, in definitiva, essere graficamente sintetizzato come nella Fig. 5.

     La ricchezza e la diversificazione degli output del processo dipende, ovviamente, dagli obiettivi che il processo di valorizzazione si pone, dalla quantità e qualità delle risorse (culturali, umane e finanziarie) impiegate, dalla rispondenza delle attività di gestione agli obiettivi del processo e, in modo non marginale, dalle modalità in cui il processo di valorizzazione è gestito.

     Composizione e livello degli output deve però e prima di tutto essere coerente con le domande potenziali che si vogliono soddisfare.

     Un’indagine sulla domanda potenziale in rapporto alle offerte realizzabili costituisce la prima esplorazione che dovrebbe essere effettuata per la creazione di un distretto.

     Uno dei principali ritardi che si registrano in Italia, con effetti limitanti sui potenziali sviluppi del settore culturale, derivano dal fatto che i responsabili della gestione dell’offerta culturale e dei servizi associati assumono, spesso, un ruolo passivo nei confronti della domanda. Ovvero, sia i soggetti pubblici che quelli privati, per ragioni diverse, tendono a sottovalutare questo aspetto.

     I soggetti pubblici, ed in particolare i responsabili della gestione delle risorse culturali, hanno dato finora scarsa rilevanza alle caratteristiche ed alle potenzialità della domanda attratta soprattutto per il fatto che attualmente non esiste alcun meccanismo premiale collegato al numero ed alla soddisfazione dei fruitori.

     I soggetti privati in quanto, a causa delle posizioni di rendita accumulata nel tempo, non hanno forti motivazioni ad individuare le nuove occasioni che il mercato potrebbe offrire.

Fig. 5 – Gli output del processo di valorizzazione

 

 
 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

      Il settore culturale italiano corre così il rischio di assistere, in un futuro non troppo

 

     Il settore culturale italiano corre così il rischio di assistere, in un futuro non troppo

lontano, ad una contrazione della sua “quota di mercato” poiché nel frattempo nuove offerte concorrenziali cominciano ad essere disponibili.

      Per eliminare o ridurre questo rischio una strategia per lo sviluppo del distretto culturale deve allora mettere in atto interventi in grado di accrescere l’integrazione dei prodotti dell’industria culturale nei processi produttivi di altre industrie.

 

 

 

 

IL RUOLO DEGLI OUTPUT DEL PROCESSO

DI VALORIZZAZIONE PER LO SVILUPPO LOCALE

 

 

     Il processo di valorizzazione delle risorse culturali origina, in modo congiunto, una serie diversificata di output che sono potenzialmente in grado di soddisfare un insieme variegato di domande.

     Le domande soddisfatte da questi output possono assumere sia la natura di domande collettive che di domande private. Le domande collettive sono quelle che vengono soddisfatte indipendentemente dal pagamento di una tariffa o di un corrispettivo anche se possono avere effetti positivi sul reddito di gruppi sociali più o meno ampi. Le domande private sono quelle che vengono soddisfatte attraverso il mercato, ovvero dietro il pagamento di un prezzo o di una tariffa. Spesso lo stesso output può soddisfare sia domande collettive che domande private.

     Facendo sempre riferimento allo specifico processo di valorizzazione dei beni culturali ed ai suoi output può meglio essere illustrata la natura delle domande potenziali che potrebbero essere soddisfatte.

     L’output primario di questo processo, la conservazione della risorsa, soddisfa in primo luogo una domanda collettiva - rendere disponibile le risorse per le future generazioni - ma nello stesso tempo poiché contribuisce a determinare la rendita di posizione di un’area ha effetti non marginali sul reddito delle industrie connesse come, per esempio, quella turistica. Questo output soddisfa quindi sia una domanda collettiva che una potenziale domanda privata che non si fa però carico del pagamento di alcun corrispettivo. In alcune città, come per esempio Parigi, la precedente amministrazione aveva proposto l’introduzione di una sorta di imposta di soggiorno che doveva essere destinata alle copertura dei costi di conservazione e sviluppo delle risorse culturali.

     Una parte consistente degli stessi servizi culturali va a soddisfare una domanda collettiva, quella di tipo educativo-formativo,  per cui la tariffa pagata non copre quasi mai gli stessi costi di produzione. In alcuni paesi proprio per accrescere questa domanda collettiva la visita a musei e monumenti è gratuita. Di recente in Inghilterra in seguito ad una campagna organizzata dallo storico dell’arte McMahon ben nove musei sono stati resi gratuiti. Il perseguimento di una finalità educativa spiega perché in Italia i più giovani hanno l’accesso gratuito ai musei statali ed a molti dei musei comunali.

     Se analizzati nei loro impatti immediati  anche gli altri output del processo di valorizzazione hanno natura prevalente di bene pubblico anche se, in modo più o meno mediato, possono produrre significativi impatti economici su altri settori produttivi.

     Le potenziali ricadute sulla domanda pagante possono essere concretizzate soltanto se viene messa in atto una strategia in grado di favorire una ulteriore trasformazione di questi prodotti.

     I beneficiari di questa ulteriore trasformazione sono diversi. Abbiamo già in precedenza mostrato i principali beneficiari di un processo di raffinazione che coinvolga i prodotti più immediatamente riutilizzabili dagli altri processi produttivi. Ma che gli altri output possono essere fonte di vantaggi competitivi a livello territoriale.

     Per esempio se l’offerta di servizi culturali fosse meglio e maggiormente utilizzata dall’industria turistica si potrebbe accrescere la qualità e quindi il valore del prodotto turistico locale. Esperienze in questa direzione sono già state realizzate, per esempio organizzando pacchetti specifici in occasioni di mostre o eventi.

     L’offerta di qualità ambientale e di identità sociale costituisce una esternalità che accresce i vantaggi competitivi dell’area e può sotto questa forma essere utilizzata sia dall’industria turistica che dalle altre industrie che potrebbero insediarsi nell’area.

     L’offerta di ricerca e conoscenza è un output che può essere riutilizzato da altri settori: In primo luogo, se ne avvantaggia il settore della ricerca che può utilizzare le nuove conoscenze per le ulteriori attività di ricerca. Ma anche altri settori possono avvantaggiarsi della crescita di conoscenza risultante dal processo di valorizzazione.     

 Questo è il caso del settore del restauro che, riutilizzando i risultati acquisiti, potrebbe accrescere la sua efficienza o del settore dell’editoria, tradizionale ed elettronica, che avrebbe a disposizione nuove contenuti o strumenti. 

      La fig. 6 illustra la natura delle domande potenziali degli output del processo di valorizzazione dei beni culturali e le relazioni con le domande private di altri settori dell’economia.

 

 

Fig. 6 Le domande potenziali degli output del processo di valorizzazione

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


     L’integrazione tra i processi produttivi, a monte, e l’integrazione nel riutilizzo dei prodotti, a valle, deve costituire il risultato di una strategia per la creazione e sviluppo di un distretto culturale.

     La qualità e la consistenza delle dotazioni del territorio – accessibilità, qualità ambientale e sociale, servizi di accoglienza – costituiscono sia dei pre-requisiti per la sviluppo di un distretto sia ulteriori variabili che la strategia deve essere in grado di modificare.

     L’obiettivo dell’integrazione dei processi e dei prodotti resta comunque l’obiettivo prioritario della strategia poiché, come illustrato nella Fig. 7, le attività non integrate non si appropriano di alcun vantaggio competitivo.

     E’ evidente che ogni qual volta che l’area importa input necessari al processo di valorizzazione subisce una perdita di potenziale di impatto; da qui la necessità di integrare i processi.

     Se invece l’area non sfrutta il potenziale vantaggio competitivo offerto dal processo di valorizzazione, assenza di integrazione nell’utilizzo dei prodotti, non solo l’economia locale spreca occasioni di sviluppo, ma, poiché molti dei prodotti sono utilizzabili anche al suo esterno, può paradossalmente offrire un vantaggio alle economie concorrenti.    

 

 

Fig. 7 L’integrazione delle attività

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

LE ESPERIENZE INTERNAZIONALI

 

     La scoperta del settore culturale come un potenziale settore trainante dello sviluppo economico locale può essere attribuita al Greater London Council che, negli anni ’70, elaborò la prima vera e propria strategia per lo sviluppo di questo settore realizzando, a partire da questa, un insieme di interventi infrastrutturali che, dalla realizzazione del South Bank Centre alla nuova sede della Tate Gallery, si sono sviluppati durante tutti questi decenni.

     Il settore culturale era inteso in una accezione ampia, che comprendeva: i beni culturali; lo spettacolo dal vivo; la produzione d’arte contemporanea; la fotografia; il cinema; l’industria televisiva; l’editoria; l’industria multimediale; la moda, il design, gli spazi pubblici urbani (parchi, piazze, ecc.) ed, in alcuni casi, anche lo sport.

     Una forte integrazione tra le attività del settore culturale e quelle dei settori connessi (turismo, in primo luogo, ma non solo) costituisce il cardine della strategia.

     Una sua specificità, che caratterizzerà poi tutte le sue concrete applicazioni, risiede nel fatto che l’integrazione viene perseguita attraverso una specializzazione territoriale: ovvero, parti della città diventano luogo privilegiato per l’insediamento di musei, di spazi espositivi, di teatri, di studi di artisti, di gallerie d’arte, di sale di concerto, ecc.

     La specializzazione territoriale è ritenuta necessaria per due ragioni. Da un lato avrebbe facilitato i processi di integrazione intersettoriale in quanto, per effetto della realizzazione di una “massa critica” nell’offerta di servizi, si sarebbero create economie esterne che avrebbero potuto  favorire l’insediamento delle attività sussidiare e di nuove attività culturali e potenziato, nello stesso tempo, gli impatti economici del processo di valorizzazione. Dall’altro, avrebbe favorito il perseguimento di un ulteriore obiettivo: la rifunzionalizzazione e la rivitalizzare di aree urbane degradate e in crisi.

     Le aree urbane, che si specializzano in quanto contengono la più alta concentrazione di attività e luoghi per l’arte e lo spettacolo, sono note nella letteratura come cultural district. Il distretto culturale è, quindi, una zona della città che diviene luogo privilegiato di insediamento di attività della filiera produttiva culturale intesa in senso ampio.

     L’idea della specializzazione territoriale, o del distretto culturale, è stata in realtà mutuata da alcune concrete esperienze: la rive gauche o l’area di Montmartre a Parigi; Soho e il West End a Londra; Greenwich Village e Soho a New York.

     La specializzazione territoriale è stata però in questi casi il risultato di un processo simbiotico che si è realizzato nel tempo e che ha dato la possibilità a queste aree di elaborare una loro propria storia in termini sia spaziali che socioeconomici e politici. La teoria del distretto culturale ritiene che queste situazioni, date alcune condizioni, siano riproducibili.

     La strategia del Greater London Council ha fatto scuola. Sia in Gran Bretagna sia in altre città dell’Europa e del Nord America sono state elaborate e sperimentate specifiche strategie per la nascita di distretti culturali a fini di sviluppo ma, soprattutto, con lo scopo di rivitalizzare le aree urbane in crisi o con un patrimonio edilizio sottoutilizzato.

     Alcuni esempi possono chiarire il contenuto e la portata di questa strategia.

 

     Una esemplare strategia di intervento nella direzione di una forte integrazione tra industria culturale ed industria turistica fu elaborata a Glasgow al principio degli anni ’80. Nel 1987, con il contributo finanziario sia del settore pubblico che di quello privato, ebbero inizio le prime realizzazioni. Su iniziativa del Glasgow District Council fu creata una società mista, la Glasgow Action, per dare attuazione ad una strategia che prevedeva una crescita dell’immagine della città e della sua industria turistica fondata su:

a)      il miglioramento ambientale del centro urbano;

b)      l’incremento dell’offerta culturale.

     Glasgow Action iniziò la sua attività creando un distretto culturale attraverso la rivitalizzazione di un’area centrale: la Merchant City. Altri interventi furono realizzati in altre parti della città storica in collaborazione con le istituzioni locali: in prima fila sempre il Glasgow District Council e il Greater Glasgow Tourist Board.

     Le istituzioni culturali di maggiore prestigio già operanti nella città (la Scottish Opera, Ballet and Orchestra, la BBC Symphony Orchestra e il Citizens Theatre) furono individuate come le risorse, gli assets patrimoniali, su cui basare questo diverso modello di sviluppo. Queste risorse furono incrementate negli anni successivi con l’apertura di nuove gallerie (la Burrell Collection) e con la creazione di un festival annuale (il Mayfest).

     Fu dato inizio a una vigorosa campagna di marketing urbano basata sulla promozione del patrimonio e delle attività culturali della città.

     Contemporaneamente fu realizzato un centro espositivo e per congressi di rilevanza nazionale e fu creata una fitta rete di rapporti con le “associazioni di artisti” per animare culturalmente, specialmente nei mesi estivi, la città. Insieme a queste associazioni furono realizzati festival internazionali di musica (dal jazz al folk), danza e teatro di strada. Tutte queste iniziative vennero realizzate sulla base di un programma triennale.    

Una società non profit creata negli anni ’70, la Workshop and Artists Studio Provision Scotland Ltd., ha contribuito allo sviluppo di questa centralità urbana offrendo agli artisti (pittori, scultori, designer) e agli artigiani specializzati (oreficeria artistica, lavori su vetro, ecc.) sia accomodation (studi e abitazioni a prezzi contenuti e con contratti temporanei) che servizi di supporto (marketing, commercializzazione, servizi espostivi, ecc.). Questa società è attualmente titolare di circa 500 gallerie sparse in tutta la Scozia comprese le zone rurali ed il suo supporto è fondamentale per l’affermarsi di giovani artisti.

     Sulla base di questo insieme coordinato di attività fu possibile rivitalizzare un’area urbana in declino e sviluppare una industria turistica in grado di accrescere in modo significativo il reddito e l’occupazione della città.

 

     La strategia di intervento, elaborata per Glasgow, costituisce, con le opportune modificazione, il “modello” di riferimento che verrà attivato in molte altre città, anche al di fuori dei confini del Regno Unito.

     Il “modello Glasgow” è stato successivamente applicato ad altri grandi città in crisi come Liverpool, Sheffield o Manchester.

     La strategia elaborata ed attuata a Manchester merita una breve illustrazione perché presenta alcune significative specificità. In primo luogo, attraverso la nascita di un’industria culturale si voleva compensare il declino dell’industria tessile locale che, alla fine degli anni ’80, dava ancora occupazione a circa 24.000 addetti. In secondo luogo, nella riconversione produttiva si attribuiva grande peso  all’industria televisiva.

     Anche in questa città si è operato attraverso un mix di strumenti: attrezzatura di spazi, facilities per gli artisti, sostegno ai produttori e creazione di una agenzia (Arts About Manchester) per la promozione delle attività culturali. Complessivamente, attraverso l’integrazione tra industria culturale e industria turistica, all’inizio degli anni ’90, sono stati creati circa 22.000 posti di lavoro: 10.000 nel settore culturale e 12.000 in quello turistico.

 

     Il modello dello sviluppo di un’industria culturale, spazialmente concentrata nella forma del distretto culturale, è stato perseguito anche in molte città del Nord America come Toronto, Boston o Baltimora.

     La creazione di un distretto culturale nella downtown di Boston presenta una ulteriore specificità. In questa città, per sostenere la creazione di un distretto culturale, si è fatto ricorso ad uno strumento di tipo urbanistico assimilabile al nostro piano di recupero. Nelle norme tecniche del piano si prevedeva, infatti, un “bonus” - in termini di indici di densità insediativa, di modificazioni di destinazioni d’uso, ecc. -  che era direttamente proporzionale alla quota di spazio che il privato destinava a “servizi collettivi” di natura culturale: spazi espositivi, botteghe per artisti e artigiani, ecc.. Il piano fu proceduto da un’analisi di impatto economico, nella cui redazione fu coinvolta la comunità locale, e da un piano di sviluppo culturale. Per la redazione di quest’ultimo piano fu creato un ufficio ad hoc: l’Office of the Arts and Humanities. La realizzazione del piano di recupero fu certamente favorita dal fatto che la gran parte delle proprietà dell’area faceva capo a poche società immobiliari, ma la creazione di un distretto culturale ha provocato nel tempo significativi benefici economici per i privati poiché, attraverso la crescita della domanda soprattutto di residenze, sono aumentati in modo consistente i valori immobiliari dell’area.

 

     Lo sviluppo locale sostenuto dall’industria culturale è stato sperimentato anche in differenti città dell’Europa continentale come Rotterdam o Bilbao. Il caso di Bilbao è abbastanza noto e dibattuto. Alla fine degli anni ’80, l’area metropolitana di Bilbao, che da sola produce circa la metà del  prodotto interno lordo (PIL) del Paese Basco, è una città industriale che presenta evidenti segni di declino. Per uscire dalla crisi il Governo basco e le autorità locali decidono, nel 1989, di procedere alla elaborazione di un Piano strategico per la rivitalizzazione dell’area metropolitana di Bilbao.

   

 Al Piano vengono attribuite differenti funzioni:

a)      individuare le potenzialità delle città;

b)      indicare le nuove centralità che possano rendere la città competitiva sul mercato globale;

c)      definire obiettivi e priorità;

d)      stabilire una procedura per la valutazione dei risultati.

     Il Piano individua otto aree critiche per lo sviluppo e definisce le caratteristiche degli interventi da realizzare: 1) l’area delle risorse umane; 2) l’area dei servizi urbani; 3) l’area della accessibilità e mobilità; 4) l’area della qualità ambientale; 5) l’area della qualità urbana; 6) l’area della centralità culturale; 7) l’area della gestione degli interventi complessi a scala metropolitana; 8) l’area della partecipazione sociale.

     A partire dal piano vengono elaborati i progetti che riguardano tutte queste aree critiche e la gran parte dei progetti elaborati è già stata realizzata o è in via di realizzazione.

     Le principali infrastrutture al servizio della cultura sono il Palazzo dei congressi e dei concerti (Euskalduna) e il Museo Guggenheim.

     Le infrastrutture culturali sono spazialmente e funzionalmente integrate con il business centre. Altri interventi sono stati realizzati o sono in corso di realizzazione: il Museo delle Belle Arti, il Museo marittimo, il Museo storico, archeologico e etnografico.

     La qualità architettonica degli interventi viene molto curata perché la città ha bisogno di superare l’immagine di città degradata che aveva fornito negli anni ‘80.

     Per accrescere la produzione artistica della città e per “democratizzare” il consumo culturale nella collettività locale sono in via di realizzazione alcuni centri per le attività artistiche.

     Le centralità culturali – che sono integrate con altre attività economiche - sono, quindi, il risultato un piano di ristrutturazione urbana complesso e costoso. Le specificità della città, la sua funzione di capitale e l’autonomia dello Stato basco hanno indubbiamente facilitato la raccolta di risorse e semplificato, anche dal punto di vista amministrativo, la realizzazione dei progetti.

     Le valutazioni degli impatti economici derivanti dalla specializzazione culturale della città sono concordi sulla direzione ma non sulla dimensione degli impatti. Le istituzioni culturali hanno avuto successo. Il Museo Guggenheim, a 12 mesi dall'apertura, è stato visitato da un milione e 360 mila persone mentre le previsioni del piano, elaborate nel 1996, non superavano le 450 mila unità.

     Da uno studio commissionato dal direttore della Fondazione Guggenheim risulta che il nuovo museo di arte moderna ha provocato un consistente incremento dei turisti (per il 25 per cento provenienti dall'estero) con un’alta “disponibilità a spendere”. La spesa aggiuntiva annua dei turisti culturali è stata valutata in circa 400 miliardi di lire. Le entrate fiscali aggiuntive generate da questa spesa, se i flussi si manterranno stabili, permetteranno al governo basco di recuperare in 4 anni il costo sostenuto per la realizzazione del Museo: circa 170 miliardi di lire.

     In termini occupazionali, sulla base delle proiezioni, il settore culturale-turistico dovrebbe creare circa 2.600 posti di lavoro e il reddito generato, nel primo anno di apertura del museo, ha prodotto un aumento dello 0,47% del PIL dell'intero Paese basco. Sulla base di altri studi gli impatti risultano più contenuti, ma è indubbio che l’intera economia della città è stata rivitalizzata dal processo di valorizzazione dei beni culturali e le aspettative sono che questi cambiamenti siano di tipo strutturale e non congiunturale.

 

     Dai casi appena considerati si ricava che:

1)      una strategia settoriale per essere efficace deve essere integrata in una più ampia strategia di riposizionamento della città o del territorio;

2)      ogni città o territorio deve fondare la sua industria culturale sulla dotazione patrimoniale più preziosa (la musica o l’industria televisiva, l’arte contemporanea o gli eventi), ma il processo di valorizzazione, con gli opportuni dosaggi e combinazioni, deve tendere ad utilizzare l’intero patrimonio disponibile;

3)      la città o il territorio deve dotarsi delle infrastrutture (fisiche, tecnologiche, ecc.) specificamente necessarie all’industria culturale sia per la produzione e vendita dei servizi alla persona (servizi di accoglienza, accessibilità, ecc.) sia per la produzione e vendita dei servizi esportabili (infrastrutture tecnologiche);

4)      gli strumenti utilizzabili per sostenere la nascita e lo sviluppo di un’industria culturale sono molteplici. Si tratta di scegliere ed attivare quelli più efficaci in relazione agli obiettivi assunti assicurando, però, che esistano forme e strutture di coordinamento;

5)      la specializzazione territoriale, che ha caratterizzato la gran parte delle esperienze realizzate negli anni ’80 e ’90 - la creazione, cioè, di un distretto culturale urbano – ha rappresentato un utile sostegno allo sviluppo di un’industria culturale ma ha soprattutto costituito una potente leva per la rivitalizzazione delle aree urbane degradate.

 

 

 

 

RUOLO E CONTENUTI DELLE STRATEGIE

PER IL SETTORE CULTURALE

 

 

     La letteratura sui contenuti, sul ruolo o sulle procedure per la definizione di una strategia per il settore culturale non è molto ampia poiché solo di recente il settore comincia ad essere più attentamente studiato nelle università e nei centri di ricerca e ad essere frequentato dalle società di consulenza.

     Questo maggiore interesse deriva dal fatto che la crisi dei settori tradizionali, il maggior peso nei paesi più industrializzati dei settori della comunicazione e la dimensione raggiunta dal fatturato generato dai flussi turistici a livello mondiale spingono governi nazionali ed istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale, a riconsiderare la funzione di questo settore nei processi di sviluppo economico non solo a scala urbana.

     A partire dai casi di studio e dalla più recente pratica applicativa, il successo dell’industria culturale di una città o di una nazione può, tuttavia, farsi dipendere da un insieme di forze che presentano forti analogie con quelle che per Michael Porter determinano il vantaggio competitivo degli altri settori produttivi e delle singole nazioni. Prendendo a prestito l’analisi di Porter, e ridefinendola, per assicurare un vantaggio competitivo all’industria culturale urbana, la strategia settoriale dovrebbe mettere in grado il sistema reticolare che sostanzia questa industria di:

1)      operare in un ambiente che assicuri un adeguato livello di cooperazione tra istituzioni (comprese le forze sociali) e imprese. La cooperazione non deve, però, trasformarsi in un cartello tale da costituire una “barriera” all’ingresso di nuovi soggetti. In altri termini, la strategia settoriale deve elaborare strumenti e procedure che garantiscano la “giusta” combinazione di cooperazione e concorrenza tra gli attori che partecipano al processo di valorizzazione poiché in questa situazione l’industria culturale potrebbe godere di una riduzione dei costi, di una crescita di produttività, di una costante innovazione di processo e di prodotto, ecc.;

2)      attrarre i segmenti di domanda desiderati: sia i fruitori diretti e remoti sia le imprese utilizzatrici dei suoi output. Ovvero, attraverso la qualità dei servizi offerti ed i prezzi praticati, l’industria culturale deve avere la forza di determinare la sua domanda piuttosto che essere soggetta a quello che Porter ha definito il “potere contrattuale degli acquirenti”. Evidentemente un’industria culturale che fosse in grado di attrarre i segmenti di domanda con più elevata capacità di spesa accrescerebbe i suoi impatti economici, la redditività delle imprese profit della rete e renderebbe il settore meno soggetto alla spesa pubblica;

3)      stabilire con i fornitori di input, ovvero con le istituzioni, gli enti, le imprese, i singoli professionisti, ecc. che fanno parte della filiera produttiva settoriale condizioni di scambio “eque”. Infatti, maggiore è il “potere contrattuale dei fornitori” e minore è la capacità dell’industria nel suo complesso di stabilire la composizione, la qualità ed i prezzi dei servizi offerti;

4)      creare rapporti di funzionalità reciproca con i processi di valorizzazione di altre risorse ed attività che sono localizzate nella città e che potrebbero produrre servizi in qualche modo sostitutivi. Queste ulteriori risorse rappresentano una “minaccia” per le imprese del settore culturale soltanto se venissero gestite in modo tale da “scoraggiare” la domanda di servizi culturali;

5)      spingere ad una specializzazione dell’offerta della città per difenderla dalla concorrenza rappresentata dalla valorizzazione di beni ed attività culturali di altre città che sono, o potrebbero essere, percepite dai consumatori come offerte sostitutive.

 

      Le strategie di successo sperimentate nel settore culturale negli ultimi venti anni a livello prevalentemente urbano rispondevano di fatto a questi requisiti; rappresentavano, in definitive, delle strategie di tipo porteriano.

     Negli ultimi anni queste strategie sono state sottoposte ad un profondo processo di revisione per molteplici ragioni.

     L’aggiornamento è dovuto principalmente al fatto che:

a)      le città si presentano sempre più come centri multiculturali e multietnici ed in questa situazione, tra gli output del settore culturale, il prodotto “identità sociale” acquista un peso maggiore. Questo prodotto, contribuendo a definire una nuova identità urbana, può far crescere, nel medio-lungo periodo, sia la produttività media della città sia la sua capacità di attrazione. E’ per questi motivi che il settore culturale viene sempre più visto come uno degli strumenti più efficaci per accrescere la coesione e la cooperazione sociale a scala urbana;

b)      l’introduzione delle tecnologie informatiche, da un lato, ha reso sempre meno vincolante la “forma distretto” per la realizzazione di sistemi integrati di produzione e, dall’altro, ha ampliato la gamma degli output settoriali.

     In definitiva, una strategia settoriale deve ora dotarsi di strumenti idonei per sostenere un processo di innovazione che deve investire sia i processi di integrazione a scala urbana  dei differenti nodi che compongono l’industria culturale sia i processi di diversificazione dei prodotti.

     Si prevede, infatti, che l’offerta di servizi culturali esportabili assumerà sempre maggiore importanza per cui il peso precedentemente assegnato agli impatti turistici tende ad essere in qualche modo ridimensionato. Ciò non toglie che la crescita del turismo non costituisca ancora oggi uno degli obiettivi prioritari dei piani strategici per il settore culturale. Del resto il turismo è tra le più grandi, se non la più grande industria a livello mondiale. Il World Travel and Tourism Council (WTTC) stima che, a livello mondiale, il settore turistico abbia sostenuto, nel 1999, 192 milioni di posti di lavoro ed abbia prodotto il 12% del PIL. Il WTTC ed altri organismi internazionali, come il World Tourism Organization (WTO), prevedono che il PIL del settore turistico crescerà, nel prossimo decennio, sempre a livello mondiale, ad un tasso medio annuo del 3% ed il segmento del turismo culturale è compreso tra i 5 segmenti chiavi di sviluppo del settore. Anche se le stime del settore turistico, specialmente quelle relative alla crescita delle singole domande, devono essere accolte con una certa cautela non si può non citare uno studio della Stanford University secondo il quale, negli anni ’90, il turismo culturale a livello mondiale è cresciuto ad un tasso medio annuo oscillante tra il 10 e il 15% e che ben 534 milioni di turisti hanno visitato, nel 1995, i soli siti archeologici censiti.

      Per illustrare struttura e contenuti dei nuovi piani strategici settoriali presenteremo brevemente l’esperienza britannica che costituisce indubbiamente la pratica applicativa più avanzata e di maggior interesse ai nostri scopi.

     La spinta ad una nuova pianificazione strategica del settore a livello urbano e territoriale proviene in questo Paese dal governo centrale poiché la struttura di governo del settore è fortemente centralizzata ed il potere di coordinamento, sia verticale che orizzontale, è attribuito al Department for Culture, Media and Sport (DCMS) le cui competenze sono state accresciute con la riorganizzazione del 1998. Inoltre, il governo centrale controlla, attraverso la National Lottery, la principale leva per il finanziamento degli investimenti e delle attività del settore.

     Nel 1999 su indicazione del DCMS sono stati costituiti in Inghilterra  8 consorzi (Regional Cultural Consortium) e, con gli stessi obiettivi e poteri, per l’area metropolitana di Londra il Cultural Strategy Group. Questi Consorzi, ai quali partecipano anche i privati (dalle imprese alle associazioni di volontariato) hanno il compito di elaborare una strategia per il settore culturale che includa anche il turismo e lo sport. Le aree territoriali di riferimento dei Consorzi non sono di tipo amministrativo, ma coincidono con quelle delle Agenzie regionali di sviluppo e con gli uffici regionali del Governo.

     Il DCMS ha anche elaborato una guida al progetto strategico (Local Cultural Strategies, Draft Guidance for Local Authorities in England) che, anche se non obbligatoria, costituisce un punto di riferimento per tutti i piani consortili.

     Secondo le indicazioni di questa guida l’approccio del piano deve:

1)      essere di tipo olistico coinvolgendo tutti gli attori e tutte le culture presenti sul territorio;

2)      considerare tutte le dimensioni del settore culturale: da quella materiale a quella immateriale, dall’offerta dei servizi alla crescita della partecipazione delle collettività locali, dagli aspetti quantitativi a quelli qualitativi;

3)      essere integrato verticalmente ed orizzontalmente. Verticalmente sia a monte, con i piani nazionali e regionali, sia a valle indirizzando i piani dei singoli comparti del settore (musei, biblioteche, ecc.). Orizzontalmente integrandosi con i piani urbanistici, con il piano di sviluppo economico, con il piano dei trasporti, con i piani che riguardano l’istruzione e così via;

4)      stabilire le regole per l’allocazione delle risorse;

5)      fissare standard, di costo e di qualità, per le singole attività (best value performance);

6)      definire strumenti e processi per il monitoraggio delle attività. 

 

     La guida stabilisce ancora che il piano strategico locale debba essere elaborato in 18 mesi, che abbia durata quinquennale anche se deve essere aggiornato dopo 2-3 anni e che, insieme al piano strategico, debba essere elaborato un piano operativo (Action plan) che abbia durata annuale.

 

     Ulteriori contributi per la definizione di strategie di sviluppo per il settore culturale provengono dalle istituzioni internazionali ed in particolare dalla Banca Mondiale che, di recente, ha iniziato a considerare il patrimonio culturale come un’importante risorsa per lo sviluppo economico. Date le caratteristiche delle aree privilegiate di intervento della Banca Mondiale, le indicazioni che provengono da questa istituzione non sono spesso utilizzabili nella definizione delle strategie di settore relative ai contesti urbani dei paesi più sviluppati.

     Nelle sue pubblicazioni, la Banca Mondiale ha:

1)      analizzato e definito i livelli di compatibilità tra gli obiettivi di tutela e conservazione del patrimonio culturale e quelli di sviluppo economico e turistico;

2)      individuato i fondamenti delle strategie di sviluppo perseguibili per questo specifico settore; strategie di sviluppo che, a causa del verificarsi del fenomeno del “fallimento di mercato”, devono essere guidate dalla “mano visibile” per perseguire risultati socialmente desiderabili;

3)      identificato e delineato, sulla base delle best practices – ovvero sulla base delle strategie e dei meccanismi che sono già stati sperimentati con successo -, una gamma di possibili forme di collaborazione tra settore pubblico e privato per lo sviluppo del turismo sostenibile fondato sulla valorizzazione dei beni culturali;

4)      definito il ruolo della cooperazione allo sviluppo in questi processi.

     Evidentemente, anche per la Banca Mondiale, lo sviluppo economico costituisce solo un aspetto del processo di valorizzazione dei beni culturali perché, come ha scritto il suo presidente: “culture can be justified for tourism, for industry, and for employment, but it must also be seen as an essential element in preserving and enhancing national pride and spirit.”. Esiste, in altri termini, un problema di valori, oltre che di valenze, che il piano strategico non può eludere.

 

     Anche se il ricorso alla pianificazione strategica è nel settore culturale ancora limitata e la riflessione teorica su queste tematiche sta muovendo ora i primi passi, dalla analisi dei materiali disponibili è possibile trarre alcune indicazioni, sia di contenuto che di tipo procedurale, che possono essere d’aiuto all’elaborazione di un piano strategico per il settore culturale.

     Tenendo conto delle esperienze già realizzate e della riflessione teorica che su questi temi si è finora sviluppata, una strategia per il settore culturale dovrà:

a)      coinvolgere tutti gli stakeholder sia nella redazione del piano che nella sua attuazione. Le indagini condotte presso alcuni testimoni privilegiati mostrano che i punti di accordo tra gli attori culturali e quelli economici sono, in realtà, maggiori di quelli che sembrano apparire dalla lettura della stampa. Sono molti infatti gli attori economici, appartenenti a diversi settori produttivi, che considerano il patrimonio culturale non come un vincolo, ma come un’importante risorsa per lo sviluppo.  Compito del piano strategico è di evidenziare e potenziare gli obiettivi condivisi coinvolgendo nella sua definizione i principali attori economici e sociali (sovrintendenti, associazioni di categoria, i responsabili delle principali imprese che operano nel campo della comunicazione, dell’editoria e dell’industria televisiva, le università ed i centri di ricerca, ecc.) e l’intera collettività attraverso le sue rappresentanze istituzionali e le sue forme associative. Ma il piano deve anche farsi carico di individuare strutture e strumenti per rendere permanente questa partecipazione che è importante sia dal punto di vista economico che per la stessa conservazione del patrimonio;

b)      saper cogliere la nuova ricchezza culturale delle città e dei territori. Sotto quest’ultimo aspetto il piano strategico deve individuare forme e strumenti per permettere a differenti culture di esprimersi organizzando, per esempio, eventi, festival, ecc. o sostenendo scuole ed accademie d’arte, laboratori teatrali ed altro ancora. L’allargamento e la diversificazione dell’offerta culturale, l’integrazione delle nuove culture con la cultura storica, sono tutti fattori che possono contribuire in modo significativo, da un lato, alla crescita della identità sociale delle città o dei territori e della loro capacità di attrazione e, dall’altro, alla localizzazione sul territorio  di nuove centralità che possono contribuire a ridefinire ed arricchire il posizionamento di un’area a livello nazionale e internazionale;

c)      essere in grado di integrare la valorizzazione della risorsa culturale con le altre risorse e con le attività economiche insediate nella città. In altri termini, la valorizzazione della risorsa archeologica deve essere realizzata in coerenza con la valorizzazione di quella architettonica, la valorizzazione dell’arte antica o moderna con la produzione di eventi (mostre, fiere, festival, ecc.), la produzione di eventi con la realizzazione di nuovi prodotti del settore della comunicazione e con l’offerta di nuovi pacchetti turistici e così via;

d)      essere coordinato con gli altri piani settoriali. La strategia di intervento nel settore culturale, la realizzazione o la messa in valore di nuove e vecchie infrastrutture culturali non può essere definita indipendente dalle strategie messe in atto nei settori più contigui, come quello turistico o dei trasporti, e nei settori che a prima vista possono sembrare più distanti, come quello dei servizi di rete;

e)      individuare le direzioni percorribili e stabilire un’agenda delle cose da fare. Il piano strategico deve, cioè, farsi carico sia di individuare le linee di sviluppo a più lungo periodo ma anche procedere a definire i parametri sulla cui base sia possibile gerarchizzare e temporalizzare gli interventi da realizzare: da quelli di più immediata realizzazione a quelli che possono essere procrastinati in un futuro più o meno prossimo;

f)        fornire criteri e metodi che siano in grado di aiutare il decisore nella scelta. Uno dei modi in cui il piano strategico può fornire un aiuto al decisore può essere rappresentato dal fatto che contenga anche un “thesaurus” delle best practices  e che definisca metodologie e procedure per il suo continuo aggiornamento.

 

 

 

LA STRATEGIA DI GESTIONE

 

     Una gestione efficace, cioè rispondente agli obiettivi, ed efficiente del processo è indispensabile per attivare e sostenere un’economia di distretto.

     La letteratura che si è sviluppata ed i parametri proposti per misurare l’efficacia e l’efficienza della struttura gestionale non tiene pienamente conto delle nuove problematiche che al management del processo di valorizzazione vengono poste nel momento in cui si deve perseguire anche l’obiettivo della realizzazione di un’economia di distretto.

     Daremo ora conto, anche se brevemente, del punto in cui è giunta la riflessione sugli aspetti gestionali del processo di valorizzazione ed illustreremo in che modo dovrebbe essere aggiornata per integrare il processo di valorizzazione con le strutture economiche e sociali e con le infrastrutture del territorio.

     Il responsabile della gestione del processo di valorizzazione nella definizione delle linee strategiche di intervento e nella loro traduzione in programmi operativi è condizionato da un insieme differenziato di attori. I principali stakeholder di questo processo sono: i rappresentanti del sistema istituzionale che hanno una competenza, diretta o indiretta, sul settore, le forze politiche che possono avere una loro visione sul ruolo e sui risultati del processo, i gruppi di pressione (associazioni, stampa, ecc.) che possono essere portatori di specifici interessi collettivi anche tra di loro contraddittori, il mondo della cultura (studiosi, università, ecc.) che hanno un loro specifico interesse sul modo o sulle attività da implementare o sugli obiettivi del processo, le forze sociali (sindacati) e le forze imprenditoriali  che possono nutrire attese e speranze, in termini di occupazione e reddito, sui risultati del processo (v. Fig. 8).

 

     Il decisore si trova quindi ad effettuare scelte che sono sempre scelte di compromesso poiché devono tenere conto delle spinte che provengono dai differenti gruppi di pressione e soprattutto da quelli che di volta in volta hanno più potere.

     Nel caso specifico dei beni culturali si deve anche considerare che in molti Paesi europei, tra i quali l’Italia, si verifica che:

1)      il potere di tutela è attribuito ad un soggetto terzo (un organo del Governo o una Authority);

2)      una quota consistente di questi beni è di proprietà pubblica (Stato o Enti territoriali).

     In queste situazioni, indipendentemente dalla forma proprietaria, si possono presentare dei fenomeni di dualismo decisionale in quanto nel processo di valorizzazione operano almeno due centri decisionali:

a)      il responsabile della tutela che, disponendo di un potere di veto, può sempre interferire con il sistema decisionale del management del processo vietando alcune attività e non rendendo perseguibili alcuni obiettivi;

b)      il responsabile della gestione (management) che può essere il proprietario dei beni o un suo delegato.

 

Fig. 8 Gli stakeholder del processo di valorizzazione

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


     Nel caso di proprietà collettiva dei beni sia essa pubblica o privata, il rappresentante della proprietà (il potere esecutivo o l’Assemblea dei soci) ha ruoli e funzioni nettamente diversi da quelli del responsabile della gestione. Nel caso di dotazioni di proprietà pubblica, il carattere elettivo del rappresentante della proprietà contribuisce a complicare ulteriormente il processo decisionale del gestore. Infatti, insieme al responsabile della tutela intervengono nel processo decisionale altri due soggetti:

a)      il decisore politico che, a seconda della proprietà dei beni,  può assumere la veste di un rappresentante del potere esecutivo centrale o locale. Questo decisore definisce gli obiettivi più generali del processo o esplicitamente o allocando le risorse (umane e finanziarie); 

b)      il decisore tecnico che è colui che deve farsi carico dell’effettiva gestione del processo di valorizzazione.

     Il decisore politico può essere visto come il rappresentante dell’azionista (shareholder) collettivo, mentre il decisore tecnico rappresenta il management in senso proprio e può essere visto come una sorta di Amministratore delegato del processo di valorizzazione. In questa sua veste, il decisore tecnico deve farsi carico del perseguimento degli obiettivi generali definiti dal decisore politico rendendo operanti solo quelle attività che siano compatibili con la tutela e la conservazione del patrimonio.    In Italia, il decisore tecnico si presenta nella veste del Sovrintendente (statale o comunale), o del Direttore generale (dell’Assessorato alla cultura o del Ministero ai beni culturali), o del Direttore di un museo, ecc..

     In generale, poiché il decisore tecnico non ha gli strumenti per accrescere in modo significativo le risorse umane e finanziarie a sua disposizione, le sue possibilità di scelta sono soggette a due vincoli:

-         il primo è rappresentato dagli obblighi di tutela per cui potrà scegliere solo tra l’insieme di attività che non siano in contrasto con la conservazione dei beni;

-         il secondo è rappresentato dalla quantità di risorse umane e finanziarie che sono state messe a sua disposizione.

     In definitiva, il decisore tecnico potrà rendere operanti solo le attività che, nello stesso tempo, siano sostenibili dai beni ed il cui costo di attivazione non ecceda la disponibilità di risorse.

     Come illustrato nella Fig. 9, le scelte che il decisore tecnico può compiere (scelte ammissibili) costituiscono un sotto insieme delle scelte che potrebbe o dovrebbe effettuare per raggiungere gli obiettivi del processo di valorizzazione. Quanto più stringenti saranno i due vincoli che devono essere rispettati dal decisore tecnico, tanto più piccolo sarà il sotto insieme delle scelte ammissibili e tanto più difficile sarà il perseguimento degli obiettivi del processo (e viceversa).

     Mentre i vincoli nelle risorse disponibili possono essere allentati dalle scelte del decisore politico, i vincoli di tutela hanno, in molte situazioni, un carattere oggettivo per cui sono difficilmente mitigabili. Questo è il motivo per cui spesso il responsabile della tutela viene visto come colui che riduce il grado di utilizzazione delle risorse culturali.     In realtà, anche questo vincolo può essere attenuato, senza mettere in discussione la conservazione del bene, intervenendo opportunamente, nella fase di progetto, sugli obiettivi e sugli output del processo di valorizzazione. Per esempio, il vincolo della tutela potrebbe imporre un limite al numero dei fruitori diretti, ma accrescendo, con una coerente offerta di servizi, il numero dei fruitori remoti gli impatti economici attesi potrebbero restare invariati.

 

 

Fig. 9 Il sotto insieme delle scelte ammissibili

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


     La pluralità di decisori (decision maker) che partecipa alla definizione del sistema decisionale del processo di valorizzazione dei beni culturali comporta che il sistema presenti un elevato grado di complessità. La complessità risulta accresciuta dal fatto che possono presentarsi potenziali conflitti anche se le funzioni dei singoli decisori sono diversificate per gerarchia e ruolo. Il conflitto, che riduce l’efficacia e l’efficienza del sistema decisionale,  può insorgere in quanto gli stakeholder che intervengono nei processi decisionali dei singoli decision maker possono essere diversi o perché può essere diverso il loro peso nei due processi. Per esempio, un gruppo di pressione che controlla un consistente pacchetto di voti avrà evidentemente più peso nel sistema decisionale del decisore politico che in quello del decisore tecnico.

     In generale, il verificarsi di forme di “fallimento del mercato” comporta che situazioni di dualismo decisionale si presentino in tutti i comparti del settore cultura indipendentemente dalle caratteristiche delle dotazioni valorizzare.

     Tutto ciò comporta che una strategia per la realizzazione di un distretto culturale potrà essere messa in atto soltanto se intorno a questo obiettivo si coagula un forte consenso coinvolgendo già nella fase di definizione e progettazione gli stakeholder più forti.

 

     Per poter attivare un processo di valorizzazione in grado di sorreggere una economia di distretto è necessario che questa sia compresa tra gli obiettivi generali del decisore politico e che le risorse associate a questo obiettivo siano congruenti.

     Il decisore tecnico, a sua volta, deve definire un insieme di strategie, anche in collaborazione con altri soggetti (come nel caso della ricerca), che possano  produrre gli output desiderati.

     In particolare, il decisore tecnico deve definire una strategia di ricerca, una strategia di conservazione, una strategia organizzativa, una strategia di comunicazione ed una strategia di sviluppo che sia coerente con gli obiettivi che il processo di valorizzazione deve perseguire.

     Nel caso in cui si voglia sostenere o dar vita ad un distretto culturale il contenuto di queste strategie deve essere anche reso coerente con quello delle strategie degli altri attori che partecipano allo sviluppo di un’economia di rete. In altri termini, le strategie devono essere più aperte all’esterno in forme e con modalità che saranno descritte brevemente nel prosieguo.

 

     La struttura ed i contenuti del sistema decisionale appena descritto può essere illustrata come nella Fig. 10. Evidentemente, per poter elaborare una strategia così articolata il decisore tecnico deve avere un’elevata autonomia gestionale compresa la possibilità di definire le più appropriate politiche di bilancio. E’ anche noto che nell’esperienza italiana la gran parte dei decisori tecnici non possiede il livello di autonomia sufficiente necessario per definire strategie che hanno per loro natura durata pluriennale.

 

     Gli obiettivi delle singole strategie sono differenti non solo per campo di intervento ma anche per la funzione che svolgono. Alcune, infatti, hanno soprattutto un obiettivo di efficienza - questo è il caso della strategia di conservazione o di quella organizzativa, entrambe devono tendere a ridurre i costi ed ottimizzare le risorse disponibili - altre, come quella di ricerca, o quella di comunicazione o di sviluppo, svolgono un ruolo essenziale anche per l’attivazione di una economia di distretto.

 

 

Fig. 10 – Il sistema decisionale

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 Nel caso di realizzazione del distretto queste strategie devono essere connesse con le altre strategie settoriali come nella Fig. 11.

 

 

Fig. 11 Il piano strategico per il settore culturale: le integrazioni

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


L’ECONOMIA DI DISTRETTO E IL PROCESSO

DI VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI

 

     L’obiettivo del piano strategico locale è di individuare e mettere in atto le azioni necessarie per specializzare l’industria culturale locale e renderla competitiva con le altre industrie culturali.

     La specializzazione territoriale ha, del resto, storicamente caratterizzato il processo di industrializzazione fin dalla sua origine. Imprese appartenenti a uno stesso settore produttivo, e imprese fornitrici di quel settore, tendevano, cioè, a localizzarsi in una stessa area.

     I processi di concentrazione di imprese, e la conseguente specializzazione territoriale, hanno attratto, già all’inizio di questo secolo, l’attenzione di numerosi studiosi, dal sociologo Max Weber all’economista Alfred Marshall, che procedevano a elaborare teorie o a fornire interpretazioni di questo fenomeno. Le spiegazioni di questo fenomeno, fornite da Alfred Marshall in un libro del 1920, sono ancora oggi alla base della cosiddetta “teoria del distretto industriale”. In sintesi, la convenienza economica alla concentrazione territoriale di imprese affini e di quelle fornitrici dipende, secondo Marshall, dal fatto che la concentrazione e la specializzazione territoriale, per ragioni non soltanto economiche, crea delle economie esterne poiché:

1)      si riducono i costi del lavoro per effetto sia di un decremento dei costi di formazione che di una crescita della produttività derivante dalla maggiore flessibilità nell’uso della forza lavoro;

2)      si riducono i costi di approvvigionamento degli input in seguito sia a un più diretto rapporto con i fornitori sia alla possibilità di ottenere economie di scala attraverso una scomposizione del ciclo produttivo;

3)      si diffonde più facilmente l’innovazione sia di processo che di prodotto..

     Le economie esterne nella forma di distretto possono giocare un ruolo importante anche nel processo di valorizzazione dei beni culturali.

     I servizi per la tutela, la conservazione e la fruizione hanno bisogno di una manodopera qualificata per cui questi servizi potranno essere realizzati più facilmente e con minor costo nelle aree in cui già esiste una forza lavoro con le qualifiche professionali richieste.

     La presenza nell’area di imprese editoriali, informatiche, artigiane e così via, oltre ad accrescere gli impatti economici del processo di valorizzazione, può ridurre i costi di acquisizione dei suoi input. Affinché questo processo si verifichi è necessario, però, che esista un certo livello di concorrenza tra le imprese che producono gli input. Un ambiente economico e sociale ricco di professionalità qualificate e caratterizzato da un significativo livello di concorrenzialità tra le imprese che forniscono merci e servizi di supporto favorisce, anche nel settore dei beni culturali, lo sviluppo e la diffusione dell’innovazione.

     La prossimità territoriale e la concorrenza fanno sì che con più rapidità il know how di un’impresa possa essere acquisito dai concorrenti, i quali, a loro volta, potrebbero ulteriormente perfezionarlo e  arricchirlo. Si potrebbe così innescare un processo cumulativo di innovazione con vantaggio dell’intero settore.

     Il processo di innovazione nella forma qui descritta è soddisfacente per le produzioni industriali “tradizionali”, ma ha bisogno, nel settore dei beni culturali, di ulteriori immissioni di know how che dovrebbero provenire dal settore della ricerca e, in primo luogo, dalle università. Da questo punto di vista il settore dei beni culturali ha molti punti in comune con i settori tecnologicamente avanzati.

 

     La diffusione delle innovazioni a tutte le imprese che partecipano al processo di valorizzazione, e la stessa possibilità da parte delle imprese di acquisire le economie esterne,  richiede che, insieme alla concorrenza, operi sempre, nell’ambito dei distretti culturali, anche un atteggiamento cooperativo. Un simile atteggiamento viene sostenuto dalla presenza di reti familiari, da un diffuso sentimento di identità locale, da rapporti di reciprocità e da un tessuto fiduciario e di solidarietà fra tutti i soggetti che devono sentirsi attori di un processo di sviluppo collettivo.

     Molto delle attività che caratterizzano il distretto culturale - le attività di tutela del paesaggio e dei centri storici, la manutenzione quotidiana del patrimonio culturale locale e la stessa qualità dei servizi di accoglienza - vanno prioritariamente assicurate dalle collettività locali e dipendono, in definitiva, dalla quantità e qualità di identità sociale che le collettività locali esprimono.

     Forme di micro-corporativismo, in grado di assicurare la necessaria flessibilità del lavoro, diventano ancora più importanti in un settore in cui molte attività, quelle più legate alla domanda turistica, presentano una forte stagionalità.

 

     Rispetto al distretto industriale, che è fortemente specializzato in termini merceologici (tessile, calzature, mobili, ecc.), il distretto culturale, che deve essere strutturato per fornire economie esterne al processo di valorizzazione dei beni culturali, non può presentarsi in quelle forme di specializzazione settoriale.

     Il distretto del settore culturale deve essere pluriprodotto per un insieme di ragioni e principalmente perché:

-         i “processi produttivi” del settore presentano una stagionalità ancora elevata;

-         il processo produttivo è settorialmente trasversale e rappresenta, per la gran parte dei fornitori di input, solo una quota di domanda;

-         la domanda dei beni culturali non è molto stabile nel tempo poiché i gusti dei consumatori possono variare anche molto rapidamente.

 

     Il processo di valorizzazione dei beni culturali ha, in definitiva, bisogno della presenza nel territorio di economie esterne realizzate nella forma di distretto che siano, però, sostenute non solo dalle domande attivate dal processo.

 

     Il livello di redditività delle singole imprese che partecipano alla valorizzazione dei beni culturali non dipende, perciò, soltanto dalla loro forza di mercato e dalla loro capacità organizzativa, ma è strettamente correlato al vantaggio competitivo di cui gode il distretto culturale poiché, la qualità e la quantità dei beni culturali protegge, solo in parte, il processo dalla concorrenza.

     Le regole della concorrenza che disciplinano il processo complessivo di valorizzazione dei beni culturali sono della stessa natura di quelle che M. Porter ha definito per il settore industriale e che sono già state illustrate.

 

     Nel distretto industriale, a differenza di quanto accade nella grande impresa, la partecipazione delle imprese - che costituiscono i singoli comparti della “impresa territoriale” - al perseguimento di obiettivi comuni non è assicurata da vincoli di tipo gerarchico. Il collante è rappresentato, in questo caso, proprio dalla specializzazione settoriale. La redditività delle singole imprese, e non solo di quelle sussidiarie, discende direttamente dalla capacità dell’intero comparto territoriale di essere competitivo sul mercato e i segnali inviati dal mercato sono in grado di fornire alle singole imprese informazioni significative sulla capacità dell’intero sistema di reagire alle forze competitive che lo “minacciano”. Anche se non sono più i tradizionali indicatori di performance aziendale a valutare l’efficienza delle singole fasi componenti il ciclo produttivo, gli indicatori che misurano le prestazioni individuali e collettive del distretto industriale hanno sempre natura economica: prezzi di vendita, quote di mercato, ammontare delle esportazioni, ecc..

 

     L’economia del distretto culturale si caratterizza, invece, per il fatto che i legami economici tra gli attori partecipanti al processo sono più flebili e i segnali di mercato possono essere distorti da valutazioni di altro ordine.

     Gli attori che partecipano al processo sono, infatti, molto differenziati e possono essere così individuati:

1)      il responsabile della tutela, manutenzione e fruizione dei beni culturali. L’efficacia, o l’efficienza, del comportamento di questo soggetto può essere misurata prendendo in considerazione variabili quantitative (per esempio, numero dei fruitori o capacità di autofinanziamento), ma, data la natura degli obiettivi, il suo operato può essere più propriamente misurato sulla base di criteri di natura qualitativa (qualità culturale e capacità formativa delle azioni intraprese e così via);

2)      gli Enti territoriali, le collettività locali e lo Stato sono attori che partecipano al processo di valorizzazione con una pluralità di obiettivi. Alcuni possono avere natura economica (per esempio, crescita dell’occupazione o del reddito locale) anche se, in genere, gli attori in questione non hanno obiettivi immediatamente finanziari (realizzazione di un profitto); altri hanno natura sociale (per esempio, accrescimento dell’identità collettiva) ed altri ancora hanno natura prettamente culturale (conservazione e fruizione dei beni posseduti);

3)      altri attori che partecipano al processo come fornitori di input possono avere obiettivi sia di natura economica e finanziaria (come le imprese dei differenti settori produttivi o i singoli esperti e professionisti) sia di natura non economica (come le università o i centri di ricerca).

 

     Nella Fig. 12, sulla base di quanto detto in precedenza, sono schematicamente  rappresentati gli attori che partecipano al processo

 

     Data la natura e gli obiettivi dei singoli attori, nel distretto che va ad essere creato intorno alla valorizzazione dei beni culturali si verificano due fenomeni:

a)      da un lato, non esiste una leadership, come nella grande impresa, che possa dirigere le attività di tutti gli altri attori, anche se agli Enti territoriali deve essere attribuito il ruolo di promotori dell’intero processo;

b)      dall’altro, non tutti gli attori sono recettori degli stessi segnali e, in particolare, i segnali di mercato, che possono dar conto della forza competitiva di questo processo, non influenzano i comportamenti di una parte degli attori.

     In questa situazione è, perciò, necessario che, attraverso un accordo diretto ed esplicito, i differenti soggetti che partecipano al processo di valorizzazione, fissino gli obiettivi comuni e gli strumenti in grado di determinare sia la capacità competitiva del processo attivato sia la qualità (culturale e sociale) dei suoi output.

 

Fig. 12 Gli attori

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


UNA POSSIBILE PROCEDURA PER LA REALIZZAZIONE

DEL DISTRETTO

 

     La necessaria connessione tra i comportamenti dei singoli richiede, in primo luogo, che tutti partecipino, con diverse responsabilità, alla definizione dell’obiettivo comune.

     A questo scopo dovrà essere creato un luogo in cui tutti i soggetti (i responsabili dei beni culturali, i centri della ricerca e della formazione, le istituzioni che operano sul territorio, le imprese e i soggetti sociali) si possano incontrare per la definizione dell’obiettivo comune.

     Ma la definizione dell’obiettivo da sola non basta. Bisogna definire le azioni (i progetti) che ogni soggetto deve realizzare, gli obblighi (economici e non) che le parti si assumono e  gli strumenti per  controllare che tutti stiano operando, pure inseguendo il proprio obiettivo specifico, per la realizzazione dell’obiettivo comune.

     Il patto territoriale può costituire il momento e il luogo in cui si definisce l’obiettivo comune, ma, a questa scelta, deve essere collegata una strategia di intervento che sia in grado di coordinare, monitorare e trovare momenti di unificazione tra le varie azioni (i progetti) che i singoli si impegnano a realizzare.

     Il programma d’interventi - integrato poiché deve coinvolgere soggetti e attività molto diversificate - non può essere definito una tantum, ma deve essere dinamico nel senso che deve comprendere anche gli strumenti per apportare le modificazioni proposte dalle attività di monitoraggio implementate.

     Per procedere alla definizione e attuazione di un programma integrato e dinamico, è necessaria una serie di passaggi. In prima approssimazione, la procedura per la programmazione e la gestione degli interventi potrebbe essere così strutturata:

A)    Gli Enti territoriali sono quelli più titolati a svolgere il ruolo di promotori e dovrebbero, perciò, farsi carico di identificare e coinvolgere gli attori principali del processo di valorizzazione da attivare. Nella definizione del programma bisognerà coinvolgere: anzitutto, il responsabile della tutela e conservazione dei beni culturali; gli altri soggetti pubblici interessati alla realizzazione del programma di sviluppo (per esempio, lo Stato, le istituzioni e gli enti - nazionali e comunitari - che hanno lo scopo di sostenere i processi di sviluppo, le università, ecc.); i soggetti privati (imprese, artigiani, banche, ecc.); i sindacati e i rappresentati della collettività locale (associazioni, imprese del “terzo settore”, ecc.).

B)     L’insieme dei soggetti interessati procede all’identificazione delle opportunità e vincoli del processo di valorizzazione. In altre parole, spetta agli attori principali del distretto culturale procedere a una prima “valutazione di opportunità” specificando: i segmenti di domanda da attrarre, le capacità di carico della risorsa culturale, il complesso dei servizi che potranno essere domandati e gli eventuali deficit di offerta, e così via.

C)    Sulla base dei risultati della valutazione di opportunità si può, da un lato, procedere alla definizione degli obiettivi di sviluppo che si vogliono perseguire e, dall’altro, alla costituzione di un’autorità, o di un ufficio per la definizione e gestione del programma. Questa autorità dovrebbe, in parte, svolgere le funzioni di “operatore di comunità” ma, soprattutto, dovrebbe avere il compito di procedere a:

-       una specifica definizione del programma da realizzare (azioni di intervento, soggetti responsabili delle singole attuazioni, forme di finanziamento, ecc.);

-       una valutazione ex ante delle azioni proposte e dell’intero programma;

-       un monitoraggio in media res sulla realizzazione degli impegni assunti da ogni soggetto e ex post sui risultati conseguiti.

 

     Il flow chart, sottostante al processo di programmazione brevemente descritto in precedenza,  può essere rappresentato come in Fig. 13.

 

     Da quanto finora detto si può notare come il processo di programmazione sia complesso, l’equilibrio tra i differenti interessi non sempre stabile, la redditività di alcuni interventi differita nel tempo per cui il risultato potrebbe risultare ad alto rischio.

     E’ legittimo, perciò, chiedersi se valga la pena impegnarsi in un processo di valorizzazione delle risorse culturali. La risposta è positiva per un insieme di ragioni che saranno, di seguito, brevemente analizzate.

 

 

IL VANTAGGIO COMPARATO DI UNO SVILUPPO LOCALE

FONDATO SUI BENI CULTURALI

 

   

 La convenienza ad attivare il processo di valorizzazione dei beni culturali va determinata tenendo conto dello scenario economico, nazionale e internazionale, che va configurandosi. L’allargamento del mercato, il cosiddetto processo di globalizzazione, provoca  una crescita di offerta concorrenziale soprattutto per i prodotti a minore contenuto di scienza e tecnologia ed uno spostamento di capitali a favore dei settori a più alta redditività.  Una delle opzioni strategiche a disposizione dei Paesi e delle imprese si fonda sulla differenziazione qualitativa dei prodotti.

     La creazione di un distretto culturale si muove in questa logica in quanto l’italia, e

l’intera Europa, potrebbe sfruttare l’expertise e la creatività che possono derivare dall’attuale differenziale, a suo favore, di scienza, cultura, design e innovazione. Si tratta di puntare ad un vantaggio competitivo basato sulla differenziazione provocata anche dalla specializzazione nella produzione di merci ad alto contenuto di “materia grigia” (brainware).

     Nelle politiche di differenziane dei prodotti, uno dei “cluster di successo” potrà essere rappresentato anche dalla valorizzazione dei beni culturali, se questo processo verrà realizzato in connessione con gli altri settori e, in particolare, con quello della ricerca.

     La differenziazione dei prodotti nel settore dei beni culturali è assicurata dal fatto che le caratteristiche di irriproducibilità dei beni culturali attribuisce all’area che possiede queste risorse una posizione di tipo monopolistico che la mette, in qualche modo, al riparo da quelle forme accentuate di competitività che si riscontrano, con l’allargamento dei mercati, negli altri settori; le caratteristiche della filiera culturale sono tali che i prodotti e i servizi offerti si caratterizzano per un alto contenuto di scienza e creatività. 

 

 

Fig. 13 – Procedure per l’implementazione della strategia

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


     Si tratta di prodotti e servizi che non solo sono più protetti dalla concorrenza, ma anche ad alto valore aggiunto.

     Il vantaggio competitivo di cui godono questi prodotti, che dipende dal contenuto di scienza e creatività, ed insieme dal fatto che il loro processo produttivo è di labour intensive può fornire occasioni di occupazione alle fasce di giovani disoccupati con i più alti livelli di istruzione, e costituire, coinvolgendo molti e diversificati settori produttivi, un importante start up per i processi di sviluppo economico soprattutto in quelle aree rimaste escluse dai processi di industrializzazione, o dove gli stessi processi sono oggi in fase di dismissione.

     Nell’ambito del mercato globale, un processo di specializzazione territoriale, che investa anche il settore culturale, è già in atto che investe in primo luogo le città e le grandi aree metropolitane. Alcune esperienze sono già state illustrate.

     Questo processo di specializzazione si deve fondare sulla duplice caratteristica dei servizi culturali e, cioè, sul fatto che essi possono assumere la forma sia di servizi alla persona (consumo diretto) sia di servizi esportabili (consumo a distanza) e deve tenere conto del fatto che entrambi i servizi sono in gran parte il risultato di uno stesso processo produttivo. Per questo motivo nelle aree in cui è elevata l’offerta di servizi culturali alla persona tendono a localizzarsi anche i servizi culturali esportabili.

     Tutto ciò comporta che le risorse culturali possono ancora essere considerate come un “fattore di produzione” non completamente mobile che fornisce un vantaggio competitivo che può e deve essere utilizzato soltanto da quelle aree territoriali che hanno a diretta disposizione le risorse.

 

 

LE INDAGINI

 

     In conclusione si possono brevemente illustrare le caratteristiche delle indagini di campo che dovrebbero essere condotte per rilevare l’esistenza di un distretto e per progettarne la realizzazione.

 

     In primo luogo, dovrebbe essere rilevata la dimensione e la qualità della filiera produttiva associata ad uno specifico processo di valorizzazione. Infatti, un’indagine che voglia procedere alla individuazione di un distretto culturale dovrà necessariamente procedere alla ricostruzione di questa filiera determinando nello stesso tempo, la sua importanza per il sistema economico oggetto di studio.

 

     Una ricostruzione della filiera produttiva del settore culturale, ovvero una individuazione della industria culturale operante su un territorio non può essere condotta con riferimento soltanto alle rilevazioni ufficiali. I dati analitici disponibili sono soprattutto quelli censuari che si limitano a dare una fotografia, non sempre di facile lettura, delle industrie che operano su un territorio. Le relazioni tra industrie, comprensiva di quella culturale, non appaiono da queste immagini. Del resto, per quanto riguarda i distretti industriali si procede con indagini ad hoc. E’ perciò necessario procedere ad integrare le rilevazioni ufficiali, con un’indagine diretta (interviste a testimoni privilegiati, somministrazioni di questionari, ecc.). La stessa dimensione territoriale dell’effettivo o del potenziale distretto culturale potrà essere definita soltanto come risultato di queste indagini.

     Per individuare la filiera produttiva del settore culturale e la sua distribuzione e dimensione spaziale l’indagine di campo dovrà procedere a rilevare:

a)       quali sono le attività che vengono effettivamente esercitate nell’ambito del processo di valorizzazione dei beni culturali;

b)      la ricchezza o i limiti di questo processo che, in molte situazioni, è appena abbozzato;

c)       i settori che contribuiscono alla realizzazione delle funzioni che sono attivate nell’ambito del processo di valorizzazione;

d)      il ruolo dell’economia locale e delle importazioni nelle assicurare gli input richiesti da questo processo;

e)       il grado di integrazione tra i settori dell’economia locale che forniscono gli input richiesti dal processo di valorizzazione dei beni culturali.

 

     Un’indagine di questo tipo non può essere statica, limitandosi, cioè, a fornire un’immagine del ruolo che, nella situazione attuale, il processo di valorizzazione dei beni culturali esercita nella economia locale. Infatti, per definire le potenzialità economiche del processo di valorizzazione dei beni culturali l’indagine dovrà farsi carico di analizzare le variazioni avvenute nel recente passato e le potenzialità della domanda non soddisfatta.

     L’analisi della domanda, attuale e potenziale, che svolge un ruolo strategico per la definizione delle prospettive del processo di valorizzazione, dovrà essere condotta mettendo in luce tutti i segmenti di domanda che una specifica offerta può attrarre.

 

     Inoltre, dovranno essere individuati tutti gli stakeholder che possono svolgere un ruolo chiave per la realizzazione del distretto, i loro interessi e le loro aspettative per trovare soluzioni di compromesso in grado di accrescere la loro partecipazione al processo complessivo di sviluppo.

 

     Infine, dovranno essere indagati anche gli aspetti gestionali per determinare la efficacia e l’efficienza delle attuali strutture di gestione e delle strategie messe in atto dal decisore tecnico.

 

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