12 giugno 2007
The Who

Era davvero tanta la voglia che avevo di vedere gli Who dal vivo.
Se non ho capito male avevano suonato in Italia quando avevo otto anni.
Francamente un po' presto per poterli apprezzare.
Ma ora, finalmente, l'occasione era arrivata: per la prima volta li avrei visti in azione e, oltretutto, in uno scenario fantastico come quello dell'Arena di Verona.
La mattina a Correggio il sole splende.
Un'occhiata alle previsioni del tempo.
Su Verona segnalano temporale.
Ahi!
Alle noveemmezza i nostri salgono sul palco senza troppi fronzoli.
Salutano, attaccano le spine.
Partono:
"I cant'explain"
"The seeker"
"Substitute"
"Fragments" (dall'ultimo Endless wire)
"Who are you" (quest'ultima appena tornata al grande successo come sigla di C.S.I.)
Così.
Avete capito?
Così.
Si sono presentati "così", con questa sequenza mozzafiato.
Quattro di quelle cinque canzoni permetterebbero a qualsiasi gruppo di campare di rendita vita natural durante.
Per loro è solo una parte di un incredibile repertorio.
E "loro" sono lì, Townshend a menare sulle sue Stratocaster e Daltrey a faticare un po' nel canto ma a fare la sua parte.
E se è vero che Keith Moon e John Entwistle resteranno per sempre insostituibili per la loro unicità, è anche vero che Zarkey Starr (il figlio di Ringo) e Pino Palladino sono lì per garantire solidità e l'impalcatura tiene.
Eccome.
Townshend ha molta voglia.
Ha cominciato a roteare il braccio, nel suo gesto più famoso, già dal primo pezzo.
Suona di brutto.
E' così carico che fa spesso battute con il pubblico.
L'ultima che lancia però, forse, porta un po' sfiga..
Dice: "E' sempre capitato che piovesse su di me. Questa sera tocca a voi."
Dopo queste parole, ironia della sorte, il concerto viene sospeso.
Cerchiamo un po' di riparo dove si può mentre viene giù a secchi.
C'era già chi si voleva fare bastare quei cinque memorabili pezzi come, comunque, qualcosa di storico.
Io, francamente, non ne volevo sapere.
Proprio perché quei venti minuti erano stati fantastici ne volevo ancora, volevo tutto il resto.
Nel backstage è tutto un tiramolla fra tecnici e organizzazione mentre il vento piega la pioggia che ora ha inzuppato tutta la strumentazione.
Si fa davvero brutta.
Dopo circa tre quarti d'ora risalgono.
Ricominciano con "Behind blue eyes".
Appena il tempo di esaltarmi (parlo di trenta, quaranta secondi) che a Daltrey si rompe la voce.
Dice che non ce la fa.
Townshend gli si avvicina e prova a convincerlo a tenere duro.
Ma il suo partner non se la sente e scende dal palco.
Un incubo.
Adesso non vi sto a fare la cronistoria di tutto il carosello ancora capitato da lì in poi ma vi dico che finalmente, dopo un'altra mezz'ora di sofferenza, gli Who hanno ripreso il "loro" concerto.
Daltrey non ce la faceva ma voleva esserci per cui a volte suonava l'acustica, a volte il tamburello.
Quando proprio non riusciva a trattenersi, provava a cantare.
Ma non aveva motivo di preoccuparsi.
Perché di fianco a lui c'era un fenomeno.
E quel fenomeno aveva un nome e un cognome.
E quel nome era Pete e quel cognome era Townshend.
Era lì a suonare.
Era lì a cantare.
Era lì a giganteggiare.
Io nel frattempo mi ero ritrovato al mixer.
Da lì ho potuto vedere in quali condizioni assurde era costretto a lavorare il fonico.
Ma come, comunque, il sound fosse fantastico.
Non c'era più una scaletta.
Era Townshend a decidere pezzo per pezzo come sarebbero andati avanti.
Non solo.
Improvvisava.
Scriveva nuove parole su nuove musiche.
Cambiava gli arrangiamenti.
Costringeva tutto il gruppo a seguirlo mentre ci regalava la sua perizia e la sua creatività.
"The kids are alright"
"The real me"
"My generation" (allungata quasi a suite)
"Magic bus"
"Pinball wizard"
"Baba 'o Riley" (che fatica acquistarne i diritti per usarla in apertura di "Da Zero a dieci" eh, Procacci?)
"Won't get fooled again"
Ecco il rock.
Ecco chi ha raccontato la propria inquietudine.
La propria rabbia.
L'incertezza del proprio futuro.
La sensazione di non venire capito fino in fondo.
O di essere scambiato per qualcuno che non sei.
La voglia di segnare il proprio passaggio.
Di costringere il mondo a fare i conti anche con te.
Perché ci sei.
Perché esisti.
Perché non possono fare finta di niente.
Tornando a casa mi coccolavo quel senso di appagamento e di esaltazione che due ultrasessantenni (va be': uno in modo particolare) sono riusciti a infondermi.
Mi sentivo grato perché una musica così bella e importante non solo era stata creata e mi ha fatto compagnia fino a oggi ma, dal vivo, sa ancora pulsare di emozione e di verità.
Non posso sapere se "in cielo passano gli Who".
So che sul pianeta terra gli Who passano ancora.
Eccome.