-COVER STORY-

LIGA
[La mia vita a mente fredda]

Il senso di Luciano per la neve.

Gressoney, Sabato 10 gennaio 2004: Ligabue è il primo musicista italiano ad apparire sulla cover di "Rolling Stone".


(di Carlo ANTONELLI)


Siamo metà di mille per l'intervista e le foto a Luciano Ligabue. 18 persone, una cosa del genere. Sei per Liga, che non ha mai visto tanta gente intorno per una roba così, e se la ride stupito. Poi fotografi assistenti, e noi. Un troiaio. Tutti in montagna, a Gressoney, Val d'Aosta, un po' pensando a L'ultimo dei Mohicani, Zanna Bianca, Fargo, quelle robe lì. Un po' anche per un tributo a una vecchia copertina di Rolling Stone di 20 e più anni fa, con Jack Nicholson nella neve, per l'uscita di Shining. Il nostro Overlook Hotel si chiama Villa Tedaldi ed è una bella pensione familiare in legno, situazione cosy assoluta, senza manco le gemelline nei corridoi.

Ligabue è in ritardo per il tappo in tangenziale a Milano durante i giorni dello sciopero a oltranza dei tranvieri. Le chiacchiere finisce che le facciamo di sera, a tavola, in una baita (la Capanna Carla, si chiama), in mezzo a tutti che magnano e bevono, e pure noi. Da settimane il live dello show nei teatri dell'anno scorso, Giro d'Italia, è primo in classifica e questo potrebbe pure bastare per cercare di scovare cosa ci sia dietro a un consenso così popolare rock (non c'è verso, bisogna chiamarlo così) che dura da quasi 15 anni. Finisce che si parla come al solito di tutto. E viene fuori soprattutto l'Italia, come era, com'è diventata e come questa e quella Italia lì stia dentro tutte le storie cantate, scritte e girate da Ligabue. Che piaccia o meno, è inutile starne fuori. Conviene cercare di capirci qualcosa.

Da quanto tempo vi conoscete voi due (Luciano Ligabue e il manager Claudio Maioli, ndr)?
(Ligabue) - Maio dillo tu dai.
(Maioli) - Sì, nel 1987, quegli anni lì. Lavoravamo insieme alla radio. Perché poi, chi fa il cantante adesso, bene o male ha lavorato nella radio.
(Ligabue) - Be', Vasco ha fatto così. Allora io era sempre puntato su Punto Radio, la più bella radio che abbia mai sentito, quella dove c'era lui che faceva due programmi, uno di soul e dance e un altro... la sera che si chiamava Studio Aperto, no scusa, Spazio Aperto, e lì sentivi che aveva molte cose da dire.
(Maioli) - Diciamo che è andata così: ci siamo conosciuti in una, o meglio, in diverso radio sfigatissime, diverse perché ognuna nasceva e moriva dopo pochissimo tempo.

Succedeva sempre così all'epoca.
(Ligabue - d'ora in poi tutte le risposte sono sue, ndr) - Noi due c'eravamo sempre in tutte, perché ci invitavano, ci andavamo, lo facevamo volentieri.

Ti ricordi i nomi delle radio?
Dunque la primissima era Radio King, poi ci fu Centro Radio, Radio Attiva e l'ultima era Studio Sei. Ci fu un momento di silenzio tra Radio Attiva e Studio Sei. Per un po' di tempo non si fecero radio a Correggio. E nonostante questo, non contento della lezione precedente (praticamente adavano tutte fallite), uno ci riprovò più avanti e fece questa Studio Sei in cui ci siamo ritrovati. A quel punto io scrivevo delle canzoni. Erano le canzoncine che io stavo scrivendo per i cazzi miei, diciamo così, perché mi facevano un po' da diario. Tutto sommato la canzone scritta per te, diciamocelo, è la seghetta che ti fai in camera. Non c'è niente di male a farti una seghettina in camera, però... Forse non è giusto che sia sempre così. Ogni tanto bisogna anche fare sesso con un'altra persona. Io mi vergognavo tantissimo di quello che stavo facendo, sentivo questa cosa non ancora bene. Le ho fatte sentire a Claudio e lui è partito in tromba; a quel punto ha cominciato, presentandosi come il manager di chissà chi, a far sentire in giro le cassettine che io registravo, con arrangiamenti tremendi, su un quattro piste in una cantina, in uno spazio mio. E lì mi ero fatto questo demo, suonando tutto io e si sentiva, perché faceva abbastanza schifo. Da quei nastri sono partiti una serie di incontri che poi, bene o male, sono sfociati nella registrazione del primo album.

Facciamo un passo inditero alla cameretta, alle seghe. Com'era la cameretta? Poster?
Ah, poster... Io sono uno che non ha mai iconizzato. Tuttora sono uno che ha delle passioni forti, ma trovo un po' pericoloso che un'immagine campeggi sulla tua testa. Il rischio è quello o di volere assomigliare a quell'artista lì o di sentirne una sorta di soggezione. Quindi i poster no. Era una cameretta fatta - penso - di niente. All'epoca ancora vivevo con i miei, quindi...

Quanti anni avevi e in che casa abitavi?
Attorno ai 25. Abitavo in un appartamento molto umile; vengo da una famiglia molto umile.

Cosa facevano i tuoi?
Mio padre ha fatto molti mestieri diversi, soprattutto però il commerciante. Ha avuto anche lunghi periodi di non lavoro, che comportavano ovviamente momenti di maggiori difficoltà in casa. Mia madre è sempre stata casalinga. Questa è la mia provenienza. Vivevamo in un condominio, con solo quattro appartamenti. Il nostro era al secondo piano e la mia cameretta era adeguata al resto della casa. Però era una cameretta, nel senso che almeno, avendo 25 anni, potevo ancora farmi i cazzi miei. No, le tipe in casa mia non le ho mai portate, perché comunque c'era un alone di perbenismo, che non era instaurato dai miei, avevo io una sensazione di disagio. Poi la mia cameretta aveva la sfiga di avere la porta a vetri, c'era il vetro satinato ma comunque si percepiva, quindi non era il caso.

Erano canzoni per chitarra e voce?
No, ci mettevo la batteria elettronica, il basso, cercavo di far capire un mondo, diciamo così. Però il problema è che erano anche suonate abbastanza male. Non so se aiutavano a capire meglio le canzoni oppure no. Ma comunque abbiamo cominciato così. Secondo me all'epoca la mia intenzione sugli arrangiamenti era un po' più new wave che rock. C'era un'idea più ombrosa, più scura e cupa.

Roba che ascoltavi all'epoca.
Si vede che mi sentivo un po' così. Non è che mi sentissi rappresentato da quella musica, è che gli arrangiamenti venivano così, forse a livello inconscio. Con Maioli abbiamo fatto una sorta di patto di sangue e ci siamo detti: "Andiamo avanti e cerchiamo di fare qualcosa". Poi da lì l'incontro con Angelo Carrara (noto manager, sue le scoperte di Battiato, Alice e molti altri, ndr), le cassette a Bertoli e altre cose.

Bertoli lo vedevi in giro?
Sì. Secondo me il primo album di Bertoli è un signor album. Io in lui ho visto una forza vitale, personale e di carattere che ho sempre molto ammirato. E all'epoca era anche il cantautore geograficamente più vicino a casa nostra, quindi semplicemente lui (Maioli, ndr) un giorno ha chiamato, c'era il nome sull'elenco telefonico, e gli ha detto: "Senti, vorrei farti sentire il materiale di uno che secondo me è bravo". E lui, con grandissima disponibilità ha detto: "Ok, venite". Da lì è nata un'amicizia. Sono andato là, dove, vergognandomi come un cane, ho fatto alcune canzoni chitarra e voce, e lì sono partiti una serie di incontri e un'amicizia, appunto.

E Guccini lo andavi a vedere?
Sì. Anagraficamente, essendo nato nel 1960 ed essendo un amante della "canzonetta"...

Cosa intendi per "canzonetta"?
La canzone che ha una sorta di predisposizione soprattutto popolare; non è un mistero la mia passione per Battisti, che ritengo tuttora un genio, per un discorso ben preciso e molto chiaro. E' un lavoro che qualcuno deve pur fare. Nel senso che che è facile fare gli snob rispetto alla canzone che ha l'intento di piacere alla gente, ma quella canzone ha un'utilità importantissima, enorme. Ero e sono strafan di Battisti. Musicalmente credo che a oggi nessuno abbia fatto di meglio, dal punto di vista arrangiativo e produttivo, di Battisti in Italia. Nel senso che l'opera di svecchiamento e sperimentazione nell'ambito della canzone popolare in studio che ha fatto lui tutt'oggi è valida, e comunque ha creato tantissime possibilità per altri che poi hanno copiato.
Poi c'erano tutto il resto. Tieni presente che nei miei 12-13 anni c'era da un lato l'esplosione del rock progressivo - e i Genesis venivano a Reggio Emilia, ma, cazzo, io avevo 12 anni e non ero pronto - dall'altro, in Italia, c'era l'esplosione della canzone nuova che pur restando con intenti popolari diceva cose diverse rispetto al tema dell'amore nelle varie interpretazioni. Grazie a queste canzoni ho vissuto una fase di formazione importantissima. Voglio dire, sentire che qualcuno poteva fare dei testi fantastici... Potevi sentire che De André stava dicendo delle cose pazzesche, come De Gregori. Comunque la prima botta è stata Theorius Campus, io ancora ero "lì", mi sembra sia uscito nel '72, avevo 12 anni; sentire a 12 anni un disco che diceva quelle cose, c'erano Venditti e De Gregori, fu una botta. In quel momento fui affascinato dal fatto che ci fosse un mondo molto complesso da un punto di vista realizzativo e musicale che era proprio il rock progressivo, e un molto complesso da un punto di vista lirico che era quello dei cantautori. Forse non mi sono mai sentito benissimo in nessuno dei due mondi, nel senso che non è un caso poi che mi sia innamorato di un rock di un altro tipo, guarda caso quello americano, che contemplava tutte e due le cose. Ma io ho avuto bisogno di alcuni passaggi per arrivarci; per esempio, a Bob Dylan ci sono arrivato relativamente tardi. Solo recentemente ho realizzato che Dylan nel suo modo di essere e di suonare è stato fortissimamente rock in una buona parte della sua carriera. Ho fatto prima a innamorarmi di Springsteen che di lui. Immaginate uno che a 15 anni sente alla radio questo che è considerato il nuovo Bob Dylan e il dj ti legge la traduzione del pezzo che sta per partire, e poi parte Jungleland. E chi cazzo sapeva chi era questo personaggio dal cognome anche altamente impronunciabile? E quella è stata un'altra botta.

Com'è che sei tornato a quel periodo (1975-1980) in tutti e due i tuoi film?
Tutti e due sono ambientati ai giorni nostri, ma devono raccontare quel periodo là. Da zero a dieci, per esempio. Non è un caso che il protagonista del film ti guarda negli occhi per 40 lunghissimi secondi di silenzio alla fine. Io lì ho voluto veramente cercare di individuare una sorta di linea d'ombra, che in parte è un po' anche la mia, in parte è anche quella che hanno vissuto questi ragazzi, e l'hanno vissuta senza volerlo. Questi sono ragazzi che scavalcano questa linea d'ombra brutalmente, diventano all'improvviso uomini, con cattiveria. Il flashback del film è ambientato nel 1980. C'è la più grossa strage in termini numerici della storia del nostro paese, la strage di Bologna, una strage che io, non per fare nessun tipo di melodramma, ho evitato con un po' di fortuna... Ero a militare, ed ero proprio in licenza in quei giorni lì. Mi sono trovato con un paio di amici e ci siamo detti: "Be', proviamo ad andare a trombare". Ed è lì che vai a trombare.

A Rimini intendi...
Sì, Rimini o Riccione. Ti puoi immaginare, facevo il militare a Belluno, una città con più militari che abitanti, per cui le ragazze erano corazzatissime. Ti presentavi con la sfumatura alta fino a qua e non avevi chance. Pura disperazione sessuale. Decidiamo di andare lì a Rimini, e abbiamo deciso fortunatamente di usare la macchina, ma stavamo per prendere il treno; un treno che sabato mattina sarebbe stato lì a Bologna, non so, è successo alle 10:25, quindi potevamo essere lì. E' chiaro che quella roba lì mi ha fatto pensare moltissimo nel tempo, anche sul discorso della casualità, se esiste o meno. Però è chiaro che quella è stata una strage così efferrata, potente e anche così micidiale nella sua macchinazione. Cioè, gente che decide di mettere una bomba il 2 di agosto, un sabato mattina, su un treno su cui vanno le famiglie che vanno in vacanza, è chiaro, dicevo, che vuole colpire il grosso, e lo ha colpito. E quindi questa cosa qua veramente è stata la fine di un'epoca, cioè non è un caso che sia successa nel 1980. Non è che io posso capire i movimenti grossi, anzi generalmente mi stanno un po' sui coglioni perché sono più attento all'individuo e quindi odio sempre parlare in termini di generazione, pubblico, decenni. Uno però pensa agli anni 80, non è illogico pensare che quel tipo di reazione sia stata una reazione a tutti gli anni 70, compresa la violenza che c'è stata.

Non ti sei fatto dei problemi nel decidere di fare cinema?
Credo veramente a una cosa: a uno che fa il cantante e non gli va malaccio, non c'è nessuno medico che gli prescrive di fare una cosa così pericolosa come un film, credimi. Pericolosa e anche così impegnativa, e con soddisfazioni così diverse. Perché, credimi, andare su un palco e vedere un tot di persone che urlano le tue canzoni ti produce una sollecitazione fisica. Da un punto di vista personale è molto diverso dal sapere che, dopo un anno e mezzo di lavoro estenuante, ogni tanto qualcuno ti viene a dire: "Mi è piaciuto il tuo film!". Io c'ho messo tre mesi per decidere se girare Radiofreccia. Alla fine, dopo tre mesi di pensieri, ho ceduto, ho detto di sì e, l'ho detto più volte e lo ripeto per l'ennesima volta, nel fare Radiofreccia ho sicuramente vissuto la più grande fatica mentale della mia vita.

Andavi al cinema da piccolo, e con chi?
Andavo al cinema tutti i giorni con mio padre. Tutti i giorni. Negli anni 60 si andava sempre al cinema, tutte le sere, la tv non era così forte. Erano quasi sempre boiate western, su cui mi sono formato anche, e che infatti ho anche citato in Radiofreccia. Era ed è una mia enorme passione, da sempre. Penso di non dire una stronzata enorme: credo di avere tuttora una media di quasi un film al giorno. In Radiofreccia c'è un tipo che dice: "I film ti fregano, perché non sono come la vita. La vite è piena di tempi morti. Nei film non ci possono essere tempi morti, perché i film sono pensati". E questa roba qua ti frega, perché alla fine se tu vivi moltissimo con quell'idea, anche incosciamente, cerchi di riportare la tua vita a quell'intensità lì, che è impossibile onestamente. Secondo me a volte sono stato condizionato davvero dal cinema. A volte, credo, mi sono sorpreso del fatto che non partissero mai i violini mentre stavo trombando. Com'è quella roba lì?

Sicuramente leggevi fumetti.
Quella è un'altra passione assoluta. Una delle più grandi delusioni della mia vita è stato un furto di fumetti che ho subito, quando ancora per me era un patrimonio. Da un gruppo di cinni che si sono organizzati benissimo: sono finiti nel mio solaio dove avevo una gabbia per i polli e tenevo tutti i miei fumetti; avevo il Comandante Mark, Zagor... C'avevo i Tex, i Diabolik, c'avevo i Kriminal, e li avevo tutti lì. Era un patrimonio perché poi allora li scambiavi, e a un certo prezzo. Come capo della banda c'era un piccolo criminale, che mi aveva venduto, mi ricordo, un numero, uno dei primi, del Comandante Mark, a una stronzata. Però aveva visto come era la situazione nel solaio. Mentre io e i miei genitori eravamo in ferie, questo arrivò lì e con una carrucola si è fatto fuori la mia collezione. Da allora sono rimasto traumatizzato...

Niente super-eroi dopo?
Dopo, super-eroi a palla; quando mi è arrivato per la prima volta un numero di L'Uomo Ragno in mano sono impazzito. Credo che fosse il numero 8 o 9, che aveva un mio amico, anche se penso che il super-eroe che ho più comprato sia stato Devil, credo. Alla fine questi qua non scherzavano; cioè, alla fine sia Devil che L'Uomo Ragno non stavano mai bene. Quella dose lì di insoddisfazione personale c'era un po' sempre. Grandi poteri, grandi problemi, oppure c'era anche la logica che da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Fino a quel momento non ci avevano ancora pensato.

Parti sempre da storie personali?
Sì. Se prendi qualsiasi cosa che io abbia prodotto fino a questo momento, troverai una caratteristica comune, che è allo stesso tempo un pregio e un limite: un mondo, preciso e chiaro, che è il mondo che conosco io.
I film che ho fatto parlano di realtà che conosco benissimo, il libro che ho fatto è praticamente autobiografico, le canzoni che ho fatto raccontano realtà che conosco benissimo. Credo che mentre negli anni 60 la musica aveva ancora la possibilità di produrre cambiamenti sociali, adesso fa molta più fatica. Adesso ha altre funzioni, che sono un po' difficili da indovinare. Fra queste c'è sicuramente il fatto di comunicare un mondo e per quanto possibile farti star bene, farti ballare oppure farti fare una riflessione o commuoverti o produrti una sensazione di fastidio. Però le funzioni più o meno sono quelle lì, è difficile ragionare in termini grandi. Tu racconti le tue cose. E uno pensa: "Chi cazzo se ne frega delle storie del bar Mario, delle storie di Ligabue?". Ed è giustificabilissimo, legittimo. Io sono partito a raccontare la realtà che conosco, Reggio Emilia, per arrivare a Correggio, per arrivare al mio condominio, per arrivare al mio appartamento, per arrivare finalmente a parlare di me. Mi sa che lì ci sono già arrivato, perché comunque Miss Mondo e Fuori come va? raccontavano soprattutto di cazzi miei.

E ora?
E ora non lo so; sicuramente il romanzo che sta per uscire, secondo me, per come mi sono sempre espresso, è un salto; mi sa che comunque è un romanzo di fantasia, non c'è niente di autobiografico e non ha a che fare con la realtà che conosco. E' venuto come sempre da un bisogno, da un'idea percorribile che poi diventava pian pianino un'intelaiatura di storia, e poi da lì è partito il resto.
Il titolo è La neve se ne frega, esce a maggio per Feltrinelli, e quello che ti posso dire, l'unica cose che ti dirò, è che c'entra il migliore dei mondi possibili, c'entrano Stanlio e Ollio, Bizet, Picasso, Dante, Qui Quo Qua e Paperina, c'entra il calcio a otto, le cose che non succedono, c'entrano i dettagli che dettagli non sono mai, c'entrano curiose disfunzioni ormonali, poi ovviamente c'entra tantissima neve e c'entra anche il senso unico e il senso contrario nella vita. Diciamo che il freddo ha la capacità di conservare. La neve, invece, ha una funzione molteplice, che quella di conservare, di coprire, di ammorbidire gli spigoli e, soprattutto, di dare una sensazione di candore che è anomala rispetto alle cose che vediamo noi di solito. Per questo produce anche una sensazione di stupore quando la vedi. Quando leggerai il libro, capirai che in modo particolare la neve, in questo romanzo, ha una funzione specifica, perché produce un effetto molto importante per il protagonista, ma ti ho detto già troppo. La neve è una sorta di "pareggiatrice", arriva e veramente se ne frega. Se si appoggia, chi c'è c'è. Non ci sono distinzioni di ceti, di situaizoni. E ammorbidisce la realtà, la rende più riappacificata. Sai cos'è questa sensazione qua, no? Io arrivando qua questa sera ho avuto questa sensazione. E c'è un'altra cosa a cui ti costringe la neve: la lentezza. Non puoi andare forte con la neve.

Ti interessa rallentare in questo momento?
E qui, vai, faccio anche il filosofo da 50 centesimi: la velocità è una necessità in una fase della tua vita e, se la prolunghi innaturalmente, rischi di trovarti fuori da una situazione reale. Nel senso che la velocità è attraente, ti mette comunque in una condizione di potenza, perché ti fa pensare comunque che nessuno ti fermi. La lentezza ti mette nella condizione di vivere delle esperienze in maniera più approfondita; e lì è tutta una questione di scelta, hai capito? Alla fine ci sono due modalità di vita, tu devi decidere quale vivere. Io penso di essere una persona profondamente attratta dalla velocità: lavoro velocemente, scrivo velocemente, penso velocemente, realizzo velocemente. E' come il famosissimo discorso, annoso e di vecchia data, legato al rock. Il rock non può non essere veloce. E iomi sento attratto da quella cosa lì. Ho bisogno di fare dei pezzi con 160 di bpm. Balliamo sul mondo se ti metti lì fa paura. Marlon Brando è sempre lui ha una velocità punk. Il rock è un po' come il sesso, con troppi pensieri non vieni mai bene. Ha bisogno di un moto fisico, che non passi troppo attraverso eccessivi filtri mentali... Ma nella realtà so benissimo che il godimento più grosso ce l'ho quando invece, respirando lentamente, mi accorgo di tutto.

C'è questa calma nell'ultimo album live?
Era già uscito un live nel 1997/1998 che era Su e giù da un palco, elettrico, veloce. Adesso ci piaceva fare uscire la fotografia di una parte che era divera. L'anno scorso abbiamo fatto un tour di 99 concerti, di cui 35/40 fatti a teatro; se avessi dovuto suonare nei teatri e basta diventavo matto, perché non ce la faccio a fare un concerto di due ore, due ore e mezza seduto e poi non avere uno sfogo; ma fare un concerto di due ore e mezza e poi, la sera dopo, fare rock&roll mi era possibile. Lo spazio ci aveva portato a un lavoro diverso, che era un lavoro "costretto" dall'ambiente dei teatri. Il teatro va rispettato, ma non deve essere per quello che tu devi cambiare la tua natura; per cui alla fine, se tu senti, il disco non è acustico ma è semi-acustico, c'è molta elettricità e c'è, ovviamente, quello che esce dal suonare seduti. Se io canto da seduto è ovvio che sono più attento all'interpretazione, è ovvio che chiedo agli altri di suonare a una velocità inferiore, e chiedo anche di avere una tonalità più bassa, più rilassata.

Cosa vuol dire secondo te essere adulti?
Non solo no lo so, ma non me ne frega neanche niente. Credo che sia obiettivo di ognuno vivere la miglior vita possibile. Il fatto di vivere questa roba alla tua maniera ti mette nella condizione di avere due possibilità: o lo fai non danneggiando nessuno o lo fai danneggiando qualcuno perché non te ne frega un cazzo. Il tipo di responsabilità che nasce da questa scelta è al di là di qualsiasi discorso anagrafico, vale per i tuoi 12 anni come per i tuoi 60. Quindi essere adulti non so cosa voglia dire; so cosa vuol dire per me e per la mia educazione del cazzo, che comunque è un'educazione opprimente, perché sono stato sia cattolico che comunista... Fortunatamente non sono più cattolico praticante, ho un forte desiderio spirituale ma non sono cattolico, e non sono comunista nel senso che mi allaccio a un'idea di equilibirio tra le persone dal punto di vista economico e solidale, ma sicuramente non mi posso più definire comunista. Però vivo di tutti i sensi di colpa che queste dottrine ti inculcano e sono una rottura di coglioni infinita. Non sono ottimista di natura, ma sono uno che ce la fa a pensare che comunque, tutto sommato, grazie alla buona volontà di alcune persone ci sia la possibilità di lavorare ancora nel futuro. Il fatto di vedere che quell'idea politica non era e non è così facilmente percorribile, ti mette nella condizione di fare dei conti su di te. E quando fai dei conti su di te, la cosa terrorizzante è pensare che il tuo passato su questo mondo non abbia lasciato nessun segno. Tu arrivi, vivi, nessuno ti caga, vai e nessuno ti ricorda. Tutti cercano un qualche modo per andare contro quell'idea lì, di venire troppo facilmente scambiati per esseri invisibili. Credo che ci sia in Almeno credo, una mia canzone, una delle basi del mio pensiero. "Qua nessuno c'ho il libretto d'istruzioni", e quindi tanto meno io. Ti posso solo dire come la penso io: A) fottitene dei consigli, e curiosamente è già un consiglio, quindi pensa la contraddizione; B) sappi che comunque, per quanto la giri, la qualità della vita che vivi è strettamente connessa a una tua responsabilità, cioè lì fuori non c'è nessuno che si impegni per fare in modo che la tua vita sia come tu la vorresti. C'è gente in giro che può fare delle cose che te la possono un po' migliorare, attraverso la musica o i film, ma gente che si impegni in prima persona in modo che la tua vita sia come la desideri non c'è. E' terribile, ma in realtà è anche sanamente terribile, perché almeno ne prendi atto, dopodiché fai il cazzo che vuoi.
Non che non sia stato o non sia affascinato dal maledettismo della rockstar che muore giovane. Quando penso che Jimi Hendrix, cazzo, fa tutte le cose del mondo, fa tutte le esperienze del mondo, si crea dei nuovi limiti e poi li sorpassa, c'ha uno dei cazzi più grossi che si siano mai visti, deve vivere, e però muore a 27 anni... Questa è la realtà, questa è la conclusione. Poi per carità forse sono stati 27 anni fantastici, però bisognerebbe chiedere a lui se non gli sarebbe piaciuto vivere fino a 70. Questo non lo potremo mai sapere. Ti posso dire che anch'io sono stato affascinatissimo da quei modelli. Perché la cosa che più funziona del rock è dire: "Scusate ragazzi, fa tutto cagare". Se io vado su un palco e dico: "Volevo dire una cosa, fa tutto cagare", l'applauso è garantito. Quel nichilismo lì è un po' troppo fine a se stesso, perché è facile anche pensare che fa tutto cagare. Ci sono dei giorni che lo penso. Non è molto utile però per come vedo io le cose. Quindi non voglio indorare a nessuno la pillola, io dico: "Ragazzi, è dura". Però parliamo di un po' di speranza, parliamo di come possiamo rimboccarci le maniche, e questo passa attraverso un lavoro individuale, dove ognuno riesce a migliorare se stesso. E migliorando se stesso, attraverso il confronto con gli altri, qualcosa nasce.

Ti ha cambiato in questo avere un figlio?
Avere un figlio cambia qualsiasi persona. Però non sono capace di dire in che mondo si troverà lui quando sarà grande, che cazzo ne so io. A me dà molto fastidio l'idea di quelli che mi dicono: "Cazzo era tutto più bello una volta!". Non è così, anche se delle volte anche io la penso così. Perché comunque quando parlo degli anni 70, con il mio coinvolgimento, è più facile parlarne in termini mitici di quanto non fosse veramente la situazione. Credo che ognuno nella sua epoca abbia o no un suo modo di fronteggiare il resto del mondo, di confrontarsi con quello e di cavarsela. Io non son preoccupato del futuro mondiale per mio figlio, semplicemente voglio sperare che lui sia in grado di cavarsela individualmente, indipendentemente da come sarà il mondo.

Usciamo, Liga rimane a tavola. Fuori dalla baita, almeno stanotte, il mondo è immobile. E' un mondo blu, di rocce e neve ghiaccata. Stiamo lì fermi a guardarlo per un po', belli zitti. Poi ci richiamano dentro. Sono arrivate le grolle. Aiuto.


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