Cantando sul mondo
di Luciano Ligabue
I miei quindici anni li ho avuti nella metà degli anni Settanta. Vale a dire
un momento in cui si attraversava una fase sociale inquieta, conflittuale
ma innegabilmente intensa. Da un punto di vista musicale, succedevano cose
per me fondamentali:
1. Nascevano le radio libere (il primo gennaio '75);
2. I cantautori erano nel pieno della loro espressione;
3. Mio padre mi regalò una chitarra.
Se si mettono insieme queste tre cose si capisce che era difficile "non"
cominciare a scrivere canzoni: mettete un adolescente di fronte alla
possibilità di accedere a così tanta musica buona attraverso le radio;
mettetelo, in un momento così formativo, a sentire parole nuove, argomenti
nuovi, profondità nuove grazie ai cantautori; mettetegli una chitarra in mano...
Venivo dalla passione per il rock progressivo, ma era pressoché impossibile
riprodurre sulla chitarra (specie se eri agli inizi) Genesis o Pfm o
Banco del Mutuo Soccorso.
Invece la "forma canzone" usata dai cantautori così incisiva e "compatta",
basata su pochi accordi, incoraggiava a darsi da fare. Il giro armonico
più semplice, quello che veniva chiamato "del barbiere" era la base per
tante canzonette pop, ma anche quello su cui vennero scritti classici
come "Stand By Me" o "Il cielo in una stanza".
Sullo stesso giro Guccini raccontava che Dio era morto. Con altri giri
semplici Venditti raccontava una storia di tossicodipendenza con la sua
"Lilly", De Gregori immortalava la "dolce venere di Rimmel", De André
parlava dell'ombra sotto la quale si era assopito il "pescatore".
La vitalità della scrittura dei nostri migliori autori di sempre era
contagiosa. Ti intimoriva o ti spingeva a dire la tua. Io cominciai
piano piano a passare dalla "riproduzione" alla "produzione" di canzoni.
La prima, piuttosto brutta e moralista, si chiamava "Cento lampioni" e
raccontava di una puttana che, a fine canzone, ambisce a un proprio riscatto.
Ne ho scritte tantissime di discreta bruttezza.
Ma avevano solo la funzione di "dare la stura" a un bisogno espressivo che
doveva rimanere per me. Infatti non le facevo sentire a nessuno.
Forse ero già consapevole del rispetto che alla canzone si deve portare.
Perché questa forma di comunicazione che parte dall'assunto retorico di
"musicare" le parole, che deve essere leggera, che nasce per essere "popolare",
che ti costringe a poche parole e quasi mai a quelle che volevi ma spesso
a quelle a cui sei costretto perché "suonano", che sempre meno può essere
nuova (vista la quantità di canzoni già scritte) e sempre più sarà "grassa"
se sarà "personale"...
questa forma di comunicazione, dicevo, ha poteri davvero difficili da
descrivere e individuare ma sono tali e tanti da, per esempio, infilarsi
nella cabina della doccia di chiunque, finalmente senza distinzioni di ceto
né di altro tipo, dove al buio e al chiuso resto del mondo, anche l'intellettuale
che confessa solo passioni per il jazz e la classica si lascia andare alla
melodia della canzonetta che gli risuonerà in testa per tutta la giornata.
L'Europeo mi chiede del festival di Sanremo, ma io non è che ne possa parlare
approfonditamente: non ci sono mai stato.
Posso dire che preferirei che l'attività culturale del Paese non si arrestasse
puntualmente per "quella settimana". Preferirei non incontrare così tanta
gente che ogni volta mi viene a dire che il festival gli ha fatto schifo
ma intanto l'ha guardato tutte le sere. Per me Sanremo ha due limiti
fondamentali: il primo, intollerabile, è la gara.
I cantanti non sono cavalli. Trovo avvilente l'idea che un pezzo sia
misurabile - non si sa come, con quali criteri se non l'esercizio del gusto
personale - da una giuria. Una canzone è il risultato dell'incontro tra
la voce di chi canta e l'orecchio di chi ascolta. Come si stabiliscono le
gerarchie di voce e di un orecchio? Posso dire che una canzone è bella?
Sì, ma per me.
Il secondo limite è l'esasperazione cui è giunto il festival. E' sbagliata
l'idea che non hai scelta, che quella sia l'unica, insostituibile vetrina
per emergere, per affermarti, per uscire dall'anonimato. Dunque per
esistere, almeno come cantante.
Trovo terribile una simile condizione. E' una possibilità da ridimensionare,
ne va sgonfiata l'ansia. I nuovi (ma non solo) cantanti devono capire che
non è una questione di vita o di morte.
Tuttavia il festival ha presentato grandi pagine di musica.
Con gli ospiti stranieri - per esempio Louis Armstrong, Wilsono Pickett,
Stevie Wonder - oppure con canzoni molto belle come (sono le prime che
mi vengono in mente) "Un'avventura" di Lucio Battisti, "Una vita spericolata"
di Vasco Rossi (una delle più belle mai scritte in Italia), "Tu nell'universo"
di Mia Martini. Per non parlare di Domenico Modugno.
Il rock ha avuto e ha ruoli e funzioni diverse. Nell'America codina e
bigotta degli anni Cinquanta il rock'n'roll ha avuto una funzione eversiva.
Gli interpreti furono tanti e straordinari, ma Elvis Presley era l'alfiere
perfetto (bello, sexy, bravo, bianco - e questo servì per il successo con
il pubblico bianco - e con una band eccezionale) di un fenomeno di liberazione,
perché il rock univa musica e sesso, liberando appunto quest'ultimo da tenebre
oscurantiste e "celebrando la vita".
Poi vennero i Beatles e Bob Dylan e la società cambiò con loro: allora,
per la musica era possibile farlo.
Magici gli anni dal '67 al '72: gli anni, a mio parere, in cui sono stati
prodotti i dischi più belli.
Jimi Hendrix, i Doors, Dylan, i Rolling Stones, gli Who erano tutti al
loro meglio.
Un momento in cui il rock è diventato possibilità per chi voleva cambiare
le cose, percezione libera dell'artista, esperimento creativo. Oggi ha
un'altra funzione, e soprattutto, voglio sottolineare, non può diventare
il contenitore di cose affatto diverse tra loro. Non mi piacciono le
generalizzazioni (e alla fine devo dire che non mi piace tanto la parola
"rock"): non si può mettere nello stesso contenitore Madonna e Frank Zappa.
Una delle poche generalizzazioni possibili è in realtà una coincidenza
drammatica: le grandi icone del rock, le vittime morte giovani e belle,
vale a dire Jim Morrison, Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Brian Jones, Janis
Joplin se ne sono tutti andati a ventisette anni. Età in cui il sottoscritto
(sempre piuttosto lontanto dalla categoria "enfant prodige") ha tenuto
il suo primo concerto.
Il rock italiano, dagli anni Sessanta, ha vissuto di riflesso le sollecitazioni
(anche commerciali) che venivano dall'America e dall'Inghilterra, ha seguito
una analoga divaricazione tra il "rock maledetto" da una parte - che tendeva
a rappresentare una inquietudine difficile da narcotizzare, fino ai limiti
dell'autodistruzione - e dall'altra il rock inteso come celebrazione della
vita. Il termine rock'n'roll, nello slang dei neri d'America, significava
"fare all'amore", dunque un legame diretto tra sesso e musica. E il rock
italiano degli anni Sessanta a suo modo è stato gioioso e scandaloso, per
l'Italia di quegli anni.
La storia della canzone italiana è stata fatta soprattutto da cantanti e
autori fuori dal rock. Domenico Modugno ha portato davvero qualcosa di
nuovo, dentro e oltre Sanremo.
Mina, anche per me la più grande interprete della nostra musica, ha avuto
a disposizione il lavoro di autori eccellenti (Paoli e Battisti per esempio).
Adriano Celentano (che, pure, il rock l'ha bazzicato) è un personaggio
anomalo. Grande animale da spettacolo si è affermato con se stesso forse
più ancora che con le sue canzoni. Le sue battute sono innate, le sue pause
non sono studiate ma sono davvero misura dei suoi tempi.
Il fenomeno di Fred Buscaglione (morto peraltro quando io sono nato) è più
difficile da decifrare. E' stato un cantautore sui generis, che ha
azzeccato una serie di belle canzoni. Ma, come dire?, "portava avanti
un personaggio".
Di solito preferisco chi si espone più personalmente. In questo Vasco Rossi
è probabilmente il più grande. Uno che ha dato colpi d'ariete al bigottismo
del nostro Paese con la rappresentazione di se stesso. Con onestà e generosità.
Enzo Jannacci, un geniaccio autore di testi surreali, capace di suscitare
emozioni forti, come è forte la sua richiesta: mi dovete seguire come sono
fatto io. La sua "Quelli che..." rimane una delle fotografie più nitide di
come siamo fatti. Gaber, impressionante coerenza, solo teatro per trent'anni
per portare avanti il discorso doloroso di chi non vuole "lasciarsi stare".
Lucio Dalla, primo il creativo sodalizio con Roversi, poi tre album bellissimi
("Com'è profondo il mare", "Dalla", "Lucio Dalla") segnati da un'energia
creativa speciale.
Paolo Conte, Ivano Fossati, Pino Daniele, Vecchioni, Branduardi ognuno ha
lasciato, c'è bisogno di dirlo?, il proprio segno.
Ma è Lucio Battisti
che più di tutti per me incarna la "canzone popolare di qualità". Era una
voce vera, che esprimeva benissimo quello che dicevano i testi non suoi.
E poche volte ci si ricorda che la nostra voce è un dato unico, irripetibile,
ancor più delle impronte digitali. Non è solo "forma" della nostra comunicazione.
Spesso è già sostanza. Inoltre è stata quello che ha cambiato molto la
scrittura musicale della canzone popolare: come i Beatles, ha saputo far
sembrare facili armonie altrimenti considerate difficili o impraticabili.
Gli arrangiamenti dei suoi pezzi hanno cambiato il modo di concepire il
disco in studio. Il mio essere di sinistra non mi ha mai impedito di
amare Battisti, nonostante una stupida vulgata ideologica che lo
"scomunicava". In realtà finiva, destra o sinistra o centro, nelle chitarre
che si portavano sulle corriere, in spiaggia, sui gradini di qualche monumento.
Per me è importante pensare che ci possa essere qualcuno che porta avanti
un'idea di canzone così, che diventi così tanto di "proprietà" di altri
da costringerli a suonarla e renderla ancora di più propria.
Un giorno Guccini mi disse di non avere mai scritto canzoni politiche, ma
esistenzialiste. Quella frase mi aveva fatto riflettere sul fatto che mentre
il resto del mondo si affannava a trovare aggettivi con cui catalogare
il loro scrivere, lui, De André e De Gregori molto più semplicemente si
occupavano a raccontarci la complessità, la profondità, la bellezza e,
a volte, l'apparente assurdità del nostro vivere.
Lo facevano con quel piccolo strumento di pochi minuti che è la canzone.
Strumento talmente piccolo da riuscire a infilarsi nella vita di tutti.
Con il peso ma anche con la leggerezza che ha. Con la responsabilità ma
anche con la capacità di fregarsene che ha. La canzone parla di come siamo
fatti, non tanto (o non solo) attraverso la voce di chi la canta, quanto
attraverso l'orecchio di chi l'ascolta. Perché le canzoni che hanno successo
in questo Paese continuano a raccontare, nel bene e nel male, come e chi siamo.