- SPETTACOLI & CULTURA -
Il rock visto dal palco:
il pubblico è un'emozione in più
(di Gino CASTALDO)
Lui aveva riso, sornione, e aveva risposto «ma sì, perché no?», forse già pregustando la dolce vendetta del musicista sul giornalista. E poi, deve aver pensato, così capirai meglio. E infatti capisco. Anzi, la prima cosa che mi viene in mente è che uno come Ligabue deve essere molto saggio, molto equilibrato, per non perdere la testa davanti a queste folle plaudenti. Non c'è nulla che assomigli alla normalità in questo rito. Mi è bastato un solo pezzo per capire. Il resto del tempo l'ho passato a spiare da dietro, a pochi metri, travestito da backliner, tra chitarre e guardarobiere, immerso in questa ferrosa foresta rock che è il palco, un groviglio di tralicci e centinaia di fari, una macchina pazzesca che funziona come un orologio, con decine di invisibili mani che accordano chitarre, guidano i fari cercapersona, preparano accappatoi. Guardo Ligabue, cerco di incrociare il suo sguardo. Lui ha gli occhi spalancati, il volto raggiante, un sorriso felice. Si capisce che sta cercando di assorbire al massimo l'energia che arriva dall'Olimpico in festa, come se fosse l'unica occasione possibile. Vuole portarsi a casa questo tesoro di umanità.
Anche nel buio del retropalco, dove regna una calma surreale, come quella che dicono ci sia nell'occhio del
ciclone, il clamore della folla arriva come una vampata calda, una scossa di adrenalina che ti entra nelle ossa
e sale fino alla cima dei capelli. La pelle si arriccia di brividi. Ma Ligabue rimane sorprendentemente calmo,
a volte cammina lentamente, se la gode in pieno, gira lo sguardo intorno come se volesse cogliere quegli sguardi
a uno a uno e rispondere a ognuno. È sicuro, tranquillo, sa che questo è il suo miglior concerto di sempre,
anche perché sul palco si alternano due band, i ClanDestino, il gruppo degli inizi, e La Banda, quello degli
ultimi anni, a metà concerto si aggiunge l'esperienza prestigiosa di Mauro Pagani.
È lui a dirmi la battuta migliore della serata, quando gli chiedo come si trova in questo clima di puro
rock'n'roll: «Sono i fondamentali» dice, «come nel calcio: palleggio, stop e rinvio, ogni tanto bisogna
ripassarli, no?» e anche lui si getta nel bagno di folla, sulla pedana che arriva a metà del pratone, giusto
il tempo di accompagnare il Liga in "Ho messo via" e "Piccola stella senza cielo". La folla approfitta della
relativa calma per cantare tutte e due le canzoni, per intero, senza sbagliare una parola.
Il loro idolo è uno strano miscuglio di romanticismo e virilità: un rude cowboy emiliano, con un fisico da mediano, che sa parlare ai cuori di tutti questi ragazzi. Sotto il palco è un festival di striscioni. Il più forte è: "più della Figa amo solo il Liga", volgare ma efficace, c'è perfino una bandiera italiana con la scritta "sogno il rock'n'roll". Ma quello che impressiona di più sono le voci. Il coro dei sessantamila arriva sul palco come un insieme di voci bianche, il tono è alto, sottile, forse perché a cantare sono più le ragazze dei ragazzi, chissà, («le donne lo sanno» canta il protagonista) ma di sicuro il contrasto con la voce di Ligabue, bassa e operaia, una voce che non fa sconti, che gratta le scorze dei sentimenti con ferma passione, è piuttosto singolare. Urlano e cantano a squarciagola non appena il frastuono del palco si abbassa di qualche decimo: "L'odore del sesso", "Viva", "Il giorno di dolore che uno ha" e ovviamente "Certe notti" sono le più amate e le più propizie.
Vista dal palco la folla sembra un animale pulsante, una bestia enorme, e fortunatamente pacifica, che reagisce ai gesti del leader con riflessi scattanti. Basta un cenno delle mani che si muovono a tempo e tutti scattano a saltare all'unisono, succede spesso appena il ritmo si accelera in pezzi come "A che ora è la fine del mondo?", basta che Liga alzi la chitarra al cielo come fosse un'offerta votiva al dio della musica e tutti alzano le mani in alto per partecipare a questa preghiera profana. Quando il bravo Fede Pogipollini si lancia in solo sembra che le note elettriche siano scariche luminose che entrano nel ventre molle della platea e ritornano sul palco rigenerate. I più accesi sono gli ottocento fortunati che sono entrati nel piccolo anello sottostante il palco, li guardo negli occhi, sono felici, spiritati, è la festa che aspettavano, dagli striscioni si capisce che alcuni hanno fatto molti chilometri per esserci. A un certo punto un ragazzo brandisce in alto una stampella, come Enrico Toti. Sembra di vivere in uno spazio-tempo alterato. Visti dalla parte del pubblico i musicisti hanno l'alone degli eroi, visti da dietro, e questo è l'aspetto più strano, sembrano tutti normali ragazzi, («after all we're ordinary man» cantavano i Pink Floyd).
Quando prima dell'inizio l'Olimpico diventa buio e le voci del pubblico cominciano a salire, pregustando l'arrivo del gruppo, loro stanno dietro il palco e si abbracciano, si caricano, come una squadra di calcio, un gruppo di amici in gita sociale. È un palco pulito, senza trucchi, senza niente da nascondere, e anche per questo è stato possibile esserci. Ligabue stringe la mano a tutti: è un altro «giorno dei giorni» vissuto insieme a sessantamila spettatori. Alla fine scendo anche io con i musicisti che mi danno pacche sulle spalle. «Allora?» mi chiedono. Allora adesso ho capito meglio l'impagabile fortuna dei grandi musicisti. Queste emozioni sono merce rara, rarissima, il frutto dell'amore di sessantamila cuori che battono.