- MUSICA -

Rock & Goal
Luciano Ligabue: io confesso

Intervista/partita in due tempi, più i supplementari, senza rigori, prima che il Liga entri nello stadio


(di Massimo POGGINI)


PRIMO TEMPO - Per questo servizio il Liga l’ho incontrato due volte, prima e dopo Parma-Inter, ultima giornata di campionato: l’umore era, ovviamente, diverso. Il tour estivo comincerà con due concerti a San Siro, e dunque è inevitabile partire della squadra del cuore: «sono tifoso fin da bambino-ino-ino, avrò avuto quattro o cinque anni. Era la “grande Inter”, quella di Suarez, Mazzola e Corso, il campione dei campioni. Impossibile non tifare per loro». Quell’Inter vinceva sempre, quella di oggi è tornata a vincere dopo anni di magra. «Per l’Inter ho fatto cose assurde. Io, ad esempio, nella vita non sono scaramantico. Bene, quest’anno non ho mai guardato in tv le partite “decisive”: Liverpool, il derby, il Siena. Non avevo visto nemmeno quella partitaccia del 5 maggio. Poi, ho visto Parma-Inter. E visto com’è andata, ho deciso che forse è meglio se le guardo… La passione per il calcio ti fa mettere da parte la razionalità, non ti fa essere lucidio, a volte ti fa fare cose stupide».

SECONDO TEMPO - Uno può dire di averle capite davvero, le canzoni del Liga, solo dopo essere stato a Correggio. Correggio è un paese di 20 mila abitanti nel cuore della provincia reggiana, profondamente laica, ma con un forte legame con la spiritualità contadina. Una spiritualità intrisa di superstizioni e pregiudizi che derivano dal cattolicesimo. Anche Luciano ha frequentato per un po’ l’oratorio: ecco spiegati quei sensi di colpa che lo prendono ogni tanto. Girando per le vie di Correggio, ti rendi conto che da queste parti si vive bene: a ogni angolo una banca e, siccome c’è un buon equilibrio tra tradizione e innovazione, capita di trovare distinti impiegati che sotto l’abito “da ufficio” calzano stivali da cowboy. Qui, non è un caso, matti e geni sono statisticamente più numerosi della media nazionale. «Tempo fa», spiega il Liga, «la Asl fece un’indagine da cui risultò che il numero dei malati mentali era più alto che altrove. Riguardo i geni, non saprei rispondere». Poi aggiunge: «Le prime cose che mi vengono in mente di Correggio sono le facce, i miei affetti. E poi l’architettura: non puoi non fare i conti con l’acciottolato, con i portici. Fu Pier Vittorio Tondelli a farmi capire l’importanza dell’ambiente in cui vivi, lui scriveva di Correggio da Correggio. Le sue pagine mi hanno fatto apprezzare ancora di più certi angoli, certi scorci. Così ho capito che cosa vuol dire scrivere: restituire al mondo quel che tu vedi nel mondo. Ciò mi ha spinto a raccontare soprattutto cose che conosco bene». Temi ricorrenti sono la fuga, la strada, il sesso. I protagonisti delle sue canzoni sono spesso piccoli eroi di provincia. O meglio, antieroi: il suo primo album doveva intitolarsi "E non è obbligatorio essere eroi". Due paroline magiche che ripete spesso sono “dignità e orgoglio”: non a caso ha intitolato un suo album Sopravvissuti e sopravviventi: «Pensavo a una sorta di resistenza umana. Resistenza al cattivo gusto, alla volgarità, alla mancanza di valori. Per me dignità e orgoglio sono fondamentali, e sono un retaggio culturale più che caratteriale. Sono cresciuto in una famiglia molto semplice, che mi ha però trasmesso valori forti. Anche se l’orgoglio non è sempre positivo: a volte ti costringe a rinunce importanti». In ogni caso, lui sta sempre con quelli “fuorimoda, fuoriposto, insomma sempre fuori”. Spesso ha raccontato di persone che vogliono fuggire: «C’è una fase nella vita in cui ognuno di noi è convinto di vivere un disagio profondo. Soprattutto tra i 13 e i 20 anni rifiutiamo tutto, pensiamo che gli altri non abbiano capito niente, a cominciare dai genitori. Anch’io ho vissuto questa fase e l’ho cantata spesso. Ma il protagonista di Radiofreccia dice: “Chi vuole scappare da un paese di 20 mila abitanti alla fine non va da nessuna parte, perché da te stesso non scappi”. E alla fine quello che racconti è sempre un viaggio dentro di te: credo ci sia pochissima realtà oggettiva attorno a noi, c’è semplicemente quello che vediamo di volta in volta». Il Liga parla spesso di donne, e di sesso. Anzi, dell’odore del sesso: « Mi piace che a volte trionfi l’aspetto primitivo». Per lui la sessualità è un fatto istintivo: fa chiare allusioni anche nei concerti, sul palco ammicca e quando canta “Toccami qui, proprio sul cuore” (da Cerca nel cuore), allude sì a un organo che pulsa, ma non è il cuore. Le donne di cui scrive a volte sembrano rassegnate e un po’ sottomesse, in realtà sono complici: «Anzi, spesso la situazione è ribaltata, sono loro ad avere qualcosa in più. In Le donne lo sanno lo dico chiaramente.». Fino a poco tempo fa gli costava fatica parlare d’amore. «Ma negli ultimi anni questa parola è diventata molto più frequente nei miei testi: in Nome e cognome compare addirittura nel titolo di due canzoni, L’amore conta e Sono qui per l’amore. E il nuovo singolo, Il centro del mondo, è chiaramente una canzone d’amore. Per me è una conquista: adesso riesco a parlare tranquillamente dei miei sentimenti, e il sentimento più diffuso è indubbiamente l’amore. Il fatto è che noi maschietti di solito ne parliamo molto poco, per noi è più facile parlare di sesso. Ma a volte la distanza tra sesso e amore è più breve di quanto di creda. Prendi Balliamo sul mondo: chiaramente è una canzone impostata sul sesso, ma l’idea che c’è dietro è romantica: quell’incontro sessuale è una specie di operazione salvifica». Resta da dire dell’America: il Liga ne ha sempre masticata tanta. Questo ha influito sulla sua cifra stilistica. Lui non nega, però chiarisce: «Per me l’America non è New York, è quella dei grandi spazi, dal punto di vista geografico e umano». E aggiunge: «Ti sembra possibile dire che la nostra vita sarebbe stata uguale senza il rock, il blues, il soul, il jazz? Senza Hollywood e i western? Senza Hemingway, Faulkner, Kerouac, Chandler, Bukowski? Poi hanno esportato anche tonnellate di merda culturale, l’importante è saper filtrare». Dalle sue parti sono stati bravi a scegliere, tenendosi il meglio: i dischi di Elvis, Dylan e del “Boss”, le facce di James Dean e Marilyn, i discorsi di Kennedy e di Martin Luther King. Ecco perché è difficile contraddirlo quando dice: «La mia America forse non esiste più. È un sogno, punto e basta».

TEMPI SUPPLEMENTARI - Un minuto prima di salire sul palco il Liga e la sua banda si abbracceranno formando un anello e, come si fa nel rugby, lanceranno un urlo propiziatorio. È un rito che si ripete da sempre. Dice Luciano: «Non vivo nessuna forma di panico prima dei concerti, nemmeno quando mi esibisco negli stadi. È una fortuna: so di persone che in quegli attimi sono letteralmente terrorizzate. Lo era Fabrizio De André. Il fatto è che lui ogni sera doveva dimostrare di essere De André, cioè il migliore. Io forse sono un po’ incosciente, o forse non è così pesante dover dimostrare di essere Ligabue». Ecco perché se gli chiedi che cosa vuol dire essere una rockstar, lui risponde serafico: «Questa domanda è meglio se la fai a un altro». Non svicola invece quando gli fai notare che sì, è uno che vende un sacco di dischi, riempie gli stadi, ha scritto libri e firmato la regia di film di successo. Eppure c’è sempre qualcuno che fa spallucce, che parlando di lui aggiunge sempre un “sì, però…”: «Una volta mi dava fastidio, ora non più. A un certo punto capisci che non puoi piacere a tutti, e ti rilassi». Domanda finale: riesci a spiegare in poche parole chi è Luciano Ligabue? «Uno che fa musica, ma non la possiede. Il testo di In pieno rock’n’roll dice: la musica fa sempre il suo dovere, la prendi un momento, si lascia trombare. Poi va con un altro, però te la godi pensando che ci tornerai… Questo è il rock’n’roll, scusa se è poco!».


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