Recensione del libro


(dalla Prefazione di Nico Orengo)

Ligabue se n'è venuto su, a fianco degli spaesati di Tondelli, degli stralunati di Cavazzoni, di quei camminatori di pianura di Celati, imboccando la Via Emilia, metafora on the road possibile, fra trattori, ciliege di Vignola, piastrelle di Sassuolo, sentendo alle spalle il vivace laboratorio emiliano e bolognese, una modernità in elastico fra tradizione rurale e avanguardia di modelli amministrativi e culturali.
Cognome che hai nell'orecchio, evocativo di colori forti, rombo di moto, di naiveté, "Ligabue" è un passepartout persuasivo che sembra dichiarare subito le proprie intenzioni di spirito anarchico dolce, di libertà di movimento, di maledettismo temperato, il rifiuto dell'autolesionismo per un "salviamoci la pelle | che è quello che ci resta". Perché è dalla pelle che tutto comincia, la pelle del paese, dalla quale non conviene strapparsi per non perdere l'identità e perché l'altrove, ma sì, anche New York, potrebbe dare quello che si ha qui, in quel di Correggio: i campi, il bar, gli amici, la banda del paese, il cinema e una casa con affetti e libri e dischi. Una realtà piena e semplificata per uno come Ligabue che si considera innanzitutto un musicista, scrittore di canzoni e poi, cantante. E dove il palco e la recita del personaggio sono solo un momento di quella che è la sua vita e la sua attività di compositore.
Ma l'energia è tanta e la canzone è stretta e per quanto Ligabue cerchi di trasformarla in racconto il tempo di un disco è quello che è. Allora ecco allargarsi sulla pagina con i racconti di Fuori e dentro il borgo o passare alla regia con Radiofreccia. La canzone diventa un canovaccio per il racconto, il racconto diventa traccia per un film. E tutto per parlare dei ragazzi, dei loro sogni, a metà degli anni '70 e dei successivi decenni. Quella è la pelle di Luciano Ligabue. C'è Tondelli, c'è Bukowski, c'è l'amico Guccini, ci sono i Rolling, Dylan, Keith Richards, le prime radio libere con Jessica, Black Market, Sweet Home Alabama, o Rebel Rebel di David Bowie, a cui, nel tempo ha risposto con tanti dischi, da Ligabue a Lambrusco, da A che ora è la fine del mondo a Buon compleanno Elvis, Radiofreccia, Nome e cognome. Ci sono i suoi registi, che vanno da Truffaut a Kubrik e Fellini, da Scorsese a Wenders. C'è, fra cinema e letteratura, l'immaginario di un qualcuno che è nato anche prima degli anni '60, anno in cui è nato Ligabue, e dunque di un qualcuno che è vorace, curioso, che non guarda solo intorno e in avanti. E che soprattutto si prova e si trova nella scrittura, luogo d'attrazione della sua esperienza. Luogo di comunicazione con gli altri e luogo di "messa a fuoco" con se stesso. Così sembra, quando, come in questo Lettere d'amore nel frigo, Ligabue sceglie il verso che è della poesia. "E' uno come tanti | che ha le sue | lettere d'amore | nel frigo | e nello scomparto frutta...", scrive, abbassando il tono, mimetizzandosi, tornando non solo metaforicamente a Correggio, lontano da amplificatori e luci e folla. Cercando di recuperare il nocciolo di quanto verrà dopo, la scintilla del compositore, dell'autore di canzoni. Qui, la poesia vuol dire intimità, scheggia di riflessione e racconto, un brogliaccio di emozioni sostenute da un filtro di ironia: "un amore che comincia d'estate | è un amore in salute...". Versi su spaesati, abbandoni, delitti, rapine, su "ogni giorno (è) buono | per il lancio | della prima pietra", versi d'abbandono. Ma versi senza musica, che non sia quella della parola, del ritmo, dell'a capo. E' come se LIgabue scrivesse controcorrente, la sua abituale corrente, quella che affida la parola alla musica. Qui, in questa raccolta, c'è la totale assenza di canzone, è inutile provare ad appicicargliela, magari ricorrendo ad un suo "motivo" o ricalcando il suo "tema". No, qui c'è Ligabue che scrive poesie, aspre o in rima, secche e sincopate. C'è una nudità di pelle poetica, un mostrare l'urgenza del concetto, il lampo e la sintesi di un antilirismo dichiarato. Qui, corpi e oggetti brillano di una luce cruda e si intrecciano in storie di quotidianità e sentimento aspro, a difesa di sentimentalismi facili, scontati.
Materiali poetici che verranno diluiti, filtrati in canzoni? O un percorso da gambero? Come se Ligabue avesse cercato la libertà di tornare indietro, partendo dalla sua ultima canzone per arrivare alla prima scritta, seguendo sottopelle i nervi e le vene del suo esprimersi, l'incandescenza dell'esprimersi. Là dove c'è "la vita da vivere, vivere".


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