- SUL DIVANO -
Vivo di emozioni
Ero un irrequieto cronico.
Adesso sono in pace con me stesso.
Dopo due anni e mezzo di silenzio, una rentrée spettacolare a Reggio
Emilia e un album intimista che parla d'amore e di lutti, Luciano
Ligabue, artista poliedrico e maestro di pensiero per milioni di
giovani, traccia con noi la mappa della sua anima pacificata.
(di Lucia RAPPAZZO)
"Nome e cognome": come mai questo titolo per il tuo nuovo
album?
Esprime il fastidio che provo rispetto alle generalizzazioni, ai
termini come "generazione", che appiattiscono le persone, togliendo
attenzione alle differenze tra individuo e individuo. Io, invece, ci
tengo a ricordare che l'unicità degli individui è una ricchezza da
preservare. Ognuno di noi è la somma di tutti i momenti della sua
vita. Di tutte le esperienze che ha vissuto...
L'album mostra un Ligabue più intimista. E' così?
(Ride) Alla fine, nella musica si butta dentro quello che
si vive. Si scrive delle emozioni che in qualche modo ti sopraffanno.
In questo momento sto bene, mi sento più libero. Più sereno e
pacificato.
Più pacificato con chi?
Soprattutto con me stesso. Ero un inquieto cronico. Avevo sempre
la sensazione di non avere fatto abbastanza, di non vivere mai
abbastanza. Libri, film, concerti: c'è di che essere soddisfatti...
E invece non lo ero mai completamente.
Da dove veniva l'irrequietezza?
Credo dal bisogno di dimostrare a me stesso delle cose. Adesso è
come se mi conoscessi e mi riconoscessi di più. Una consapevolezza che
mi fa vivere le emozioni in modo più pacificato. Ma sono pacificato
anche perché nel miio quotidiano oggi c'è meno tensione. Prima ero in
conflitto con me stesso. Mi giudicavo continuamente. Ora mi perdono
più cose che in passato.
Ti sei alleggerito anche dei sensi di colpa con i quali hai
dichiarato di convivere ogni giorno?
Sono stato sia cattolico sia comunista: due dottrine inzuppate di
senso di colpa e senso del dovere. Ne ho ancora diversi chili addosso,
anche se nel tempo credo di averci lavorato sopra e di essermi un po'
alleggerito.
Che cosa ti ha pacificato?
Forse l'essere uscito fuori da un periodo difficile. Ho vissuto tre
anni molto intensi: lutti, separazioni, nascite, nuovi legami.
Anzitutto la scomparsa di mio padre. Poi la morte, l'anno scorso, di un
cugino che era come un fratello: stessa scuola, stessi sogni, stesse
ragazze. Terzo: sono uscito da una separazione dopo una storia durata
15 anni. I dolori ti fanno pacificare, ma anche le gioie: ho un nuovo
legame (Barbara, che lo seguiva come massaggiatrice nei concerti, ndr)
e da undici mesi ho una bambina, Linda, che adoro, dopo Lorenzo Lenny
(di sette anni, avuto dal primo matrimonio con Donatella, ndr).
Il dolore aiuta a crescere?
Il dolore ti mette a nudo, ti toglie la pelle. Ci hanno inculcato,
con l'educazione cattolica, che il dolore sia necessario e fondamentale
per poter raggiungere il Paradiso. E' difficile togliersi dai piedi del
tutto questa tesi. Io ne faccio volentieri a meno, però è un dato di
fatto che il dolore più grande che ho vissuto, la morte di mio padre,
mi ha fatto molto maturare.
E l'amore?
Penso che l'amore ci metta di fronte a noi stessi e ci permetta di
conoscerci meglio. Io credo che la ricerca del nostro io più profondo
funzioni meglio quando siamo innamorati. Prendiamo una vacanza
dall'inquietudine e ci mettiamo in condizione di ritrovarci attraverso
gli occhi dell'altro.
Si dice che sei innamorato pazzo...
L'amore ti arriva alle spalle, non c'è modo di evitarlo. Né di
beccarlo quando vorresti tu...
Dicono che da ragazzo eri timidissimo. Ne soffrivi?
Sono stato un timido cronico, ma con la mia timidezza ci convivevo.
Anche se mi sembrava sempre di vivere col freno a mano tirato. Sapevo
i limiti che questo comportava, ma in compenso vedevo crescere e
arricchirsi il mio mondo interiore. Perché se sei timido non sei
capace di condividere il tuo mondo con gli altri, così ti concentri
sul tuo, lo fai crescere, lo carichi dei tuoi sentimenti, delle tue
emozioni. Alla fine ho sentito il bisogno di raccontarmi, di raccontare
il mio mondo con la scrittura, con le canzoni e con tutte le altre cose
che ho fatto. Poi ho scoperto che su un palco la timidezza che avevo
scompariva. E' una cosa che mi ha sorpreso fin dalla prima volta che
ho fatto un concerto e non voglio nemmeno capire da cosa dipenda...
Hai dedicato a tuo padre la laurea honoris causa che hai
ricevuto... Che rapporto avevi con lui?
Non facile. Mio padre era un testosteronico, e credo vivesse a
fatica la mia timidezza perché gli sembrava che io mi perdessi qualcosa
nella vita. Mio padre gestiva una balera e ripeteva in casa che i
musicisti sono tutti dei morti di fame. Però poi è stato lui a
regalarmi la prima chitarra, una Clarissa, una specie di sottomarca,
quando avevo sedici anni, perché sapeva che ero patito della musica.
Era il suo modo di farmi capire quanto ci tenesse al fatto che io
stessi bene. Ma allora, per me non era così evidente. Appena diplomato
ragioniere, avrei voluto iscrivermi all'università, Lettere e filosofia.
Mio padre era disoccupato, avevamo problemi economici e ho preferito,
come si dice, portare a casa la pagnotta. Mio padre si arrabbiò moltissimo:
non perché lui voleva che io fossi laureato, ma perché sentiva che mi
sarebbe piaciuto farlo... Credo ci abbia messo un po' di tempo per
accettare alcune mie caratteristiche. Anche io ci ho messo un po' di
tempo per sentirmi in qualche modo approvato nelle mie scelte. Adesso
sono in pace con lui.
E tua madre? Vuoi parlarne?
E' una persona molto semplice, molto solare. Esprime la grande
naturalezza dell'essere felice della propria vita.
Chi è oggi Luciano Ligabue?
E' difficile definirmi e ne sono contento. Sono sempre un po'
infastidito dagli aggettivi che definiscono una persona: non ci sono
santi e non ci sono assassini. Ognuno di noi è la somma di tutti i
momenti della sua vita. Non siamo qui a prendere e a dare voti. Il
giudizio degli altri è un freno per la nostra realizzazione. E' più
importante chiedersi, credo, se le cose che stiamo facendo le
desideriamo davvero. Ognuno di noi è nato con delle potenzialità, con
un qualcosa che se non la esprime e non la realizza non è felice.
Ecco, per me l'intensità della vita è strettamente collegata con
l'emozione con cui la riempio.
Quello che conta per te è vivere l'emozione?
Sì. Sono emotivo. Nessun altro modo di esprimermi si avvicina
neanche lontanamente a quello che mi dà fare musica, suonarla e
cantarla dal vivo. La massa emotiva che viene mossa quando sono sul
palco è qualcosa di indescrivibile. Sono uno che si emoziona. E ci
tengo molto a produrre emozioni in chi si avvicina a me. Mi piace chi
si concede emotivamente. Credo che abbia a che fare con la mia idea di
comunicazione. Per me la comunicazione tra esseri umani è "sentimentale",
cioè del sentimento, dell'emozione. (Riflette). Sono centrato
molto sull'emozione. A volte ne sono anche vittima. Ma la vivo fino in
fondo. E' difficile per me tenerla sotto controllo e non sono neanche
sicuro di volerlo fare. E questo, forse, è un po' un limite. Perché la
mia emozione è sempre evidentissima, deve uscire per forza in
quell'attimo preciso. Come se in qualche modo la sua urgenza fosse
più vera, autentica della ragione. E questo vuol dire anche essere
meno vulnerabili, perché vuol dire esporre la tua polpa...
Hai definito il tuo album femmino-centrico. Qual è il tuo
lato femminile?
Credo che abbia a che fare con una sensibilità accentuata. Sento
tutto a pelle, interiorizzo. E' una risorsa e una condanna. Risorsa
perché mi permette di vedere con più colori, più sfumature, le cose.
E mi regala una capacità di attenzione agli altri che è una delle cose
che mi piace di me. Una condanna perché mi fa tenere il freno a mano
tirato, perché ho paura di ferire i sentimenti degli altri.
Hai 45 anni. Paura di invecchiare?
Pensavo che i quaranta fossero più sfigati, invece mi piacciono.
Mi piace ancora stare sull'albero, però consapevole di essere capace
di scegliere tra quello che mi porta via il tempo e quello che mi dà
passione.
Rimpianti?
Preferisco vivere le opportunità che la vita mi dà senza
domandarmi a che punto sarei se avessi fatto qualcosa di diverso. Non
mi piacciono i bilanci esistenziali, le pippe di quello che avremmo
potuto fare e non abbiamo fatto. Cerco di vivere ogni momento come
fosse l'unico.
Ci sei sempre riuscito?
Ci provo. E' difficile, anzi impossibile, facendo questo mestiere,
non fare dei progetti. Il farli implica in qualche modo che si passino
dei tempi in cui anziché vivere veramente, progetti la vita che pensi
ti stia aspettando e che poi non coincide mai con quello che stavi
progettando, come diceva John Lennon. E da qui nascono nervosismi e
insoddisfazioni che ti fregano la festa del presente. Ecco, oggi credo
di avere meno ansia rispetto al futuro. Senza però rinunciare ad avere
sogni, desideri grandi, importanti.
Una parola da non dimenticare mai?
Speranza. Quando fai un genere come il rock, è facile raccontare
dell'insensatezza del mondo. Io, non è che sia un ottimista e possa
permettermi di raccontare palle, del tipo che la vita è una festa come
ci avevano promesso da bambini, non ti preoccupare che tutto andrà
bene ma, comunque, ho messo tra le mie priorità quella di suggerire un
senso di speranza. E' faticoso stanarlo, infonderlo. Però rientra nelle
cose che voglio fare e in cui credo.