-L'OPINIONE-

Ognuno ha il suo Battisti


(rovad)


Si fa un gran parlare, su queste pagine, dell’ultimo disco di Ligabue. Meglio: di Ligabue, e del suo rapporto con questo giornale. La storia è nota. Fino a qualche anno fa, Ligabue e Mucchio si stimavano felicemente a vicenda. Mucchio era la rivista preferita da Liga, Mucchio era arrivato per primo su quel rocker in ascesa. Poi qualcosa si rompe, per motivi che solo Stéfani e Ligabue conoscono veramente bene. Ligabue dedica una bellissima canzone, "Per il giorno di dolore che uno ha", allo scomparso Stefano Ronzani, che di questa rivista è stato per anni vicedirettore, oltre che amico di Max e fine conoscitore di musica. Poi però Ligabue, né al megaconcerto di San Siro né in altre sedi, spiega chi fosse stato Ronzani, dove scrivesse e dove creasse. Quasi che, sostiene Stéfani, fosse una colpa ricordare - e con ciò fargli un favore - una rivista che tutti i giorni, per la linea editoriale che orgogliosamente tiene, lotta per rimanere in vita (e che sia viva da 25 anni è un miracolo certo più reale di quello di Fatima). Stéfani esorta Ligabue a citare ogni tanto la rivista, magari nel film (che male ci sarebbe stato? Perché Rolling Stone sì e Mucchio no?) e Ligabue non lo fa mai. I rapporti si incrinano. Stéfani spara le sue battute, soprattutto (ma non solo) contro "Il mio nome è mai più". Ligabue accusa il colpo, e addio amicizia.

Questi, in rapida sintesi, i fatti. Sulla scorta di tutto ciò, si sviluppa il dibattito sulla valenza artistica di "Fuori come va?". Stadi pieni, peana ovunque, tripudio. E il Mucchio? Incensa? Stronca? No, critica. Argomentando. Credo che Guglielmi sia il critico musicale dotato di maggior equilibrio, in sede di analisi. Lui dice di invidiarmi l’inventiva e (troppa grazia) il talento, io gli rispondo che gli invidio l’equilibrio e la competenza. Poi lui è più entusiasta e io più disfattista, ma che c’entra. La sua recensione di "Fuori come va?" non conteneva, e qui sono in totale disaccordo con chi ha scritto in tal senso su Open, alcun accenno di acredine preconcetta o cattiveria retrodatata. Anche perché, chiarisco, Guglielmi ha ottimi rapporti con Liga. Perlomeno, ne aveva prima della recensione. Parlando di persone intelligenti, credo che i rapporti siano rimasti tali (non è mica da una recensione, che si giudica una persona). Tra Liga e Max, è noto, la situazione è più burrascosa. Ma anche qui, non ho visto alcuna traccia di vendetta trasversale nei recenti corsivi di Stéfani. Corsivi che anzi ho trovato molto equilibrati e rispettosi (per dire, il rispetto che non credo Max abbia avuto con Sofri). Molto semplicemente, "Fuori come va?" non è piaciuto né all’uno, né all’altro. Sebbene la maggioranza, entità non di moda su queste pagine, pare aver decretato la maestosità dell’opera, a loro - e in larga parte al Mucchio - il disco non è piaciuto. Mi pare legittimo.

Vi direte, perché torno anch’io sull’argomento. La risposta è: Battisti. Che c’entra Battisti, direte ancora. C’entra che, se fossi nato venti anni prima, ai Beatles avrei sicuramente preferito altro: De André, gli Stones, Dylan, i Floyd più sghembi. Ma sarei cresciuto, intendendo il crescere con la "scansione del tempo attraverso una musica base", con Lucio Battisti. Accusando due decenni abbondanti di ritardo, i nomi sovracitati li ho scoperti rincorrendoli, in un percorso a rebours bellissimo, sì, ma comunque in differita.

La mia scansione del tempo, il mio Battisti, è stato Luciano Ligabue. Ci sono arrivato per primo, e me ne vanto ancora. Almeno nella mia classe fu così. Loro ancora andavano con Masini, figurarsi. Dico: Masini... ma in che razza di classe ero? Mah. A inizio Novanta, capita che ad Arezzo arrivi, ancora con la improponibile zazzera stile Bono alle Red Rocks e i jeans grigi alla Bruce de noantri, proprio lui, il Liga. Era appena uscito "Lambrusco". Del primo disco, conoscevo tutto, vita spartiti e citazione da Zagor, il grande Zagor-Te-Nay. Ligabue era ancora acerbo. Faceva pure scegliere le cover dal pubblico, come al karaoke. Di solito, il ventaglio andava - strano...- dagli U2 a Springsteen. Era acerbo, il Liga, ma bravo. Quella sera, in un concerto peraltro gratuito, in quella che era stata la prima sede di Arezzo Wave, nessuno si ricordò più di Masini.

Il tempo va avanti, e Ligabue fa quel che può. Canta alla sua maniera, spesso aggiungendo suffissi americanoidi tipo "Certe notti qui-vi", "state bene qui-vi". La Gialappa’s lo smaschera, lui accusa ma ha l’umiltà di correggersi, bravo. Indovina testi ora alla Born to run ora alla Darkness on the edge of town (nel genere Nebraska ha sempre denotato qualche limite, peccato). Diventa famoso. Io cresco, e a quel "vecchio" compagno di viaggio guardo come si fa sempre in questi casi, con fare via via più critico, ma sempre con affetto. L’affetto, sempre. Non puoi voler male al tuo Battisti, mai. Tollero "Lambrusco", sopporto "Sopravvissuti", mi piace "Buon compleanno Elvis", odio il debordante pubblico baglioniano di "Su e giù da un palco" (un grande animale da palcoscenico come lui meritava ben altro live). Da "Miss Mondo" in poi, lo perdo. Non so se per colpa mia o sua. Più semplicemente, non mi comunica più niente. Forse è il tempo che passa, per me come per lui, forse se avessi 16 anni andrei domani al Franchi a vederlo, forse ne avessi avuti 30 ai tempi di "Angelo della nebbia", tra me e Luciano non se ne faceva di nulla. Vai a sapere.

Quando lo scrivere è diventato un lavoro - almeno credo che ciò sia accaduto nel mio caso, ma attendo conferme da me stesso - ho avvertito un’urgenza: Ligabue, intendo l’uomo, chi è? Com’è? Allora gli ho scritto una e-mail. Lui, disponibile, mi ha telefonato. Ci siamo visti al "Ritz" di Roma. Stava per partecipare a una puntata-obitorio della Dandini, credo ne avrebbe fatto a meno. Era il gennaio del 2000. Durante quell’incontro, fidandosi a naso, Ligabue si raccontò come credo mai abbia fatto con uno sconosciuto, addirittura con un giornalista. Mi disse che ero bravo, ma a volte troppo stronzo. Non lo disse con cattiveria, ma da fratello maggiore. Almeno così mi parve. Mi disse che si fidava, che sentiva che non avrei mai scritto nulla di quell’incontro. Infatti. Non ho mai scritto e mai lo farò, anche se quello che mi disse, garantisco, basterebbe per una ottantina di scoop. Ma chi se ne frega degli scoop. Speravo che da quell’incontro sarebbe scaturito un avvicinamento tra lui e Mucchio. Per un po’ se ne parlò. Poi, niente. Quella volta, trovai un uomo incredibilmente timido, che a ricordare la rottura con Max ci stava male. Scoprii una bella persona, fulminata senza preavviso dal successo, che quando poteva si rifugiava ancora a Correggio. Sì, una bella persona.

Se qualcuno mi chiedesse cosa penso del Ligabue artista, risponderei come risposi a lui già un anno e mezzo fa. Che, dopo "Leggero", non ha più cantato nulla di veramente valido. Che quello attuale è un onesto artigianato musicale, abbastanza prescindibile. Ovviamente, il mio è un parere molto opinabile. Credo che il Ligabue da seguire non sia quello più noto, ma quello delle retrovie. Il Ligabue di "Fuori e dentro il borgo", libro bellissimo, per me la sua cosa migliore. Perché Ligabue non è un cantante. E’ un narratore, uno scrittore che canta. E’ un cantastorie ruspante, col respiro di Steinbeck e l’ironia di Benni, con quel pizzico di proibito (spesso ostentato) mutuato dal suo concittadino Tondelli. E’ un Guccini in diesis minore, meno ispirato, dotato di buoni guizzi se in vena, che dice di odiare l’istituzione del cantautore, ma che di fatto è un cantautore, anche se rock. I suoi non sono altro che racconti brevi, ridotti per forza di cose - e di mercato - a canzoni. Canzoni che oggi accusano il tempo. Quel tempo che, invece, aveva ispirato "Radiofreccia" e quel monologo fulminante, e quei salvifici errori dell’esordiente saturo di idee, e quella sensibilità malinconica del ragazzo che ricorda non per retorica, ma per vivere.

Ecco, per me, il Ligabue da applaudire è quello di "Fuori e dentro il borgo" e "Radiofreccia". Ho amato così tanto "Radiofreccia" da non voler vedere "Da zero a dieci". Me ne avevano parlato male, rischiavo il rinculo. Resterebbe da scrivere de "Il mio nome è mai più", ma c’è poco da dire: orrenda. A gennaio fummo franchi. Io gli chiesi come aveva fatto a partecipare a una schifezza simile, lui mi rispose che forse il pezzo non era un granché, ma che quando c’è da aiutare qualcuno, non è che puoi star lì a fare il purista. Mi parve una "rilettura benefit" del machiavellico fine che giustifica i mezzi. Dissi ancora che non condividevo, ma se quella canzonaccia ha salvato delle vite, ha ragione lui.

Anche su "Fuori come va?" ho poco da dire: bruttino. Mi preoccupa soprattutto il testo di "Tutti vogliono viaggiare in prima", perché ci vedo una sgraziata deriva della naturale autoreferenzialità di Ligabue. L’autoreferenzialità, è noto, per un po’ ti fa pure scrivere canzoni (o libri, o film) generazionali. Poi, una volta esaurita la spinta iniziale, ti fa solo scrivere cose ridicolmente solipsistiche.

Mi auguro che Luciano legga questo articolo. Forse lo strappo con Max è irrecuperabile, forse il suo manager, Maioli, riterrà inopportuno rilasciare interviste a siffatti iconoclasti. E forse l’idea di ospitare su Garrincha un altro interista, famoso e mariocorsiano, rimarrà una mia idea e basta. Peccato. Spero che né questo articolo, né le battute fatte sull’ultimo Diapason, battute rivolte al suo talento (calcistico) e al suo eclettismo (ora ispirato, ora no), siano causa di un’altra frattura. Sarebbe una frattura stupida, e Ligabue non è stupido. Anche se con certi stupidi, spesso microfonati, ora pelati ora villosi, ha lavorato.

L’altro giorno ho visto Ligabue intervistato da Mtv. Era a San Siro, prima del bagno di folla. Raccontava la sua vita. A volte, inconsapevolmente, pontificava. Gli capita. Però, gli occhi, erano quelli dell’"Hotel Ritz". Gli occhi di uno per niente stronzo, che appena può si rifugia nell’unico luogo dove si sente se stesso. Sono sicuro che, tra amici, Liga sa ancora cantare come quando era "il nostro Battisti". Ed è forse quel Liga che tutti noi, esigenti, vorremmo ascoltare ancora. Dimenticando che il tempo passa per tutti, tranne che per Kubrick e De André.


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