- SPETTACOLI -
L I G A B U E
Il mio piccolo mondo antico
Scritto per noi.
Dopo essere stato in club e palazzetti, il rocker emiliano si misura con gli stadi: 13,
dal 19 maggio al 6 agosto. E il contrasto fra piccolo e grande lo porta a ragionare sulle dimensioni della
vita. Reali e interiori.
(di Luciano LIGABUE)
Grande è grande.
Certo, quando a 10 anni entravi nella chiesa di S. Quirino, ti sembrava proprio di varcare la sogli di Dio. Le
volte, lassù, facevano a gara col Cusna. E c'erano tutti quei rosoni a tenerti di qua dal cielo, mentre loro,
i rosoni, appunto, parevano saperne qualcosa. Il sacerdote, e guai a chiamarlo prete, si stagliava epocale là dietro
l'altare e nemmeno quel ciuffo che se ne fregava della brillantina né quell'accento persino più pesante del nostro
scalfivano il suo gigantismo. Quanto lavoravano i suoi silenzi.
Le raffigurazioni tutt'intorno ti costringevano ad abbassare gli occhi per poi, ogni tanto, sbirciare. E in genere
trovavi che stavano continuando a fissare te. Grande il dolore rappresentato. Grande l'inarrivabilità di chi era
ritratto. Grande la nostra pochezza.
E poi era grande la prostrazione, grande la tua colpa qualunque essa fosse, grande la melodrammaticità della
funzione, grande il subbuglio emotivo, grande l'euforia da espiazione. Grande il sollievo quando riguadagnavi la
luce del giorno e tutta una settimana da "pulito" o quasi.
Ora la chiesa di S. Quirino è la chiesa di S. Quirino.
Mi si è alzato il punto di vista
di 40-50 centimetri, ho visto qualche duomo, ho elaborato un bel po' di informazioni su religioni, spiritualità,
ecc. e col prete (ovvio, non più lo stesso) ci si può parlare. Il nostro senso delle proporzioni raramente ha a
che fare con l'oggettività. I miei mostri, per esempio, si sono sviluppati per mole e minacciosità in tre profondi
stadi nel giro di pochissimi anni.
Sono partito ovviamente con le favole che, come ben si sa, sono per natura cruentissime. Il lieto fine bisogna
saperselo guadagnare. Quelle che ti raccontano sono sempre le due-tre che i tuoi si ricordano di più. O le più
brevi. A me è toccata spesso quella della bambina col cappuccio troppo vistoso che insieme alla nonnina viene
sbranata dal lupi (grandi gli occhi, grande la bocca...). COn una buonanotte così, nel sonno c'era da fare i
conti con un bestia non solo furba e maligna ma, soprattutto, così ingorda da succhiarti in un boccone. POi, per
stare meglio, dovevi immaginare il cacciatore che faceva fuori l'animale (impallinandolo in faccia, immaginavo, per
non rovinare cappuccetto e nonna lì dentro) e poi, a belva morta, lo squartava con un coltello da caccia estraendo
le due tipe grondanti di sangue e viscere. E più avanti, quanto avrei visto Carrie nel film di Brian De Palma
infradiciata da un secchio di sangue di maiale, mi sarebbe venuto facile abbinare l'immagine.
Lo step successivo del mio rapporto con l'enormità dei mostri era dovuto a un fatto geografico.
A Correggio abbiamo avuto il pessimo onore di ospitare la prima serial killer italiana. La Cianciulli, Leonarda di
nome, faceva fuori le donne prescelte e, leggenda dice, ne ricavava saponette facendone bollire i resti nella
soda caustica. Chi si è spinto ancora più in là ha fatto circolare notizia che parte delle ossa polverizzate la
usasse per impastare i biscotti da offrire alle amiche. Facile immaginare quanto grande e terrificante fosse
l'immagine del suo pentolone e delle sue schiume nelle nostre teste di cinni.
Nessuno di noi andava mai a raccogliere il pallone se dai giardinetti, colpa del solito incapace, finiva a meno di
100 metri dalla sua abitazione. Anche se lei era morta da un po'. E nel frattempo ci veniva detto di stare buoni
"che altrimenti arriva la Cianciulli".
Ma tutto questo non era niente rispetto alla faccenda di Ermanno Lavorini. Anche se i tg dell'epoca se ne
occuparono parecchio e a lungo, non ricordo come avessi visto la notizia né in che modo i miei avessero provato a
spiegarmela. Ricordo molto bene gli effetti. Un ragazzino di solo 4-5 anni più di me era stato rapito e poi ucciso.
Funzionava così? Esisteva gente che faceva roba del genere?
In realtà la storia avrebbe portato a galla ben altre torbidezze, ma per me era fatta: l'uomo nero esisteva ed
era fra noi. Monumentale nella sua malvagità. L'ombra e la minaccia piantate per bene. Biancaneve che fa ciao ciao
e i rumori nella cameretta che mi tengono sveglio. Ermanno Lavorini che diventa il mio compagno indesiderato.
E poi il giorno in cui, mentre andavo in edicola per Tiramolla o Pappagone (sì, ne avevano ricavato
anche un fumetto), un signore mi ferma e con una mano sulla spalla mi chiede "come stai" e io che mi divincolo e
schizzo (che Pietro Mennea avrebbe detto "però...") nel negozio dei miei e mi piazzo di fianco a mio padre che
dice va' va' a giocare, ma io l'avrei marcato a uomo, papà, controllando sempre la porta per vedere se c'aveva il
fegato quel rapitore, adesso. E non li avrei mollati mai i miei, nei giorni a venire. Fino a vedere una mattina,
a scuola, che il rapitore accompagnava un mio compagno di classe, gli allungava la merenda e gli dava un bacio in
testa. Questi rapitori che diventano padri dei miei amici, mah! Per inciso non è stata l'ultima delle mie figure
di merda.
I mostri, oggi, sono capaci di fare fuori anche bambini di un anno e mezzo. Di grande c'è lo sgomento che sanno
produrre.
Personalmente sono di quelli che l'infanzia l'hanno passata più davanti allo schermo di un cinema che di quello
televisivo. Non serve un geometra per stabilire che il primo, in termini di dimensioni reali, fa un discreto
mazzo al secondo. E' stato un bene o un male? Boh! E' andata così.
Ed è andata così perché al cinema cambiavano film tutte le sere, mio padre ci andava sempre e un paio di volte
a settimana mi ci portava. Poi la domenica c'era il film con Maciste o Ercole o chi per loro all'oratorio e il
lunedì pomeriggio i cartoni animati al Politeama. Tutto questo mentre in televisione c'erano solo due canali che
trasmettevano per poche ore al giorno.
Per la maggior parte al cinema erano western. Sostituivano un po' le favole.
Anche lì ci sarebbe stato un immancabile lieto fine, ma prima di quello il buono avrebbe dovuto penare, sanguinare,
vederla quasi persa. E i cattivi si facevano vedere al loro peggio specialmente nei western italiani. Il regista
ci facilitava il compito: i belli, vestiti di chiaro, sarebbero stati quelli per cui fare il tifo. Quelli con i
denti cariati no. E Giuliano Gemma da questo punto di vista non sbagliava un colpo. Ti faceva andare sul sicuro.
Resta il fatto che, anche se girato in Ciociaria, il western era enorme, i protagonisti inarrivaibili. Un mondo
molto più grosso di quello di tutti i giorni.
E' di una certa inutilità e grossolaneria provare a dire se era più grande il cinema di allora o quello di oggi.
Già Gloria Swanson in un film di più cinquant'anni fa dichiarava "il cinema è diventato piccolo" rispetto a quello
degli inizi del secolo scorso.
Come sempre le misure le fanno il nostro modo di vedere e il lavoro che deve fare il tempo.
Nel frattempo un attore con un po' d'esperienza lo sa che davanti alla macchina
da presa deve togliere, togliere e togliere. Non solo perché l'inarcamento di un suo sopracciglio, se in primo
piano, sullo schermo può diventare uno smottamento di 5-6 metri, ma anche e soprattutto perché meno sottolinea
i passaggi con la sua recitazione, più permette allo spettatore di incuneare la propria interpretazione. E quando
vince il non detto aumento le misure.
Qualcuno, guardando un film in lingua originale, avrà notato che gli americani recitano con un filo di voce. Lo
fanno per tre motivi: 1, risultano più sexy; 2, devono recitare di meno; 3, se non fanno capire qualche battuta a
volte è meglio, aumentano le possibilità interpretative in platea. E ho detto gli americani. Quelli che "bigger
than life" nonè un motto o un commento ma il risultato minimo a cui si autocostringono.
Dario Argento nei suoi film è molto esplicito e gli omicidi te li mostra nella loro parte splatter. E' una
scelta stilistica. Ma probabilmente la cosa più potente nei suoi lavori (Alfred Hitchcock docet) è l'attesa.
Argento non gira in presa diretta, quindi i film li doppia tutti. E quel silenzio, così tremendo, funziona tanto
proprio perché innaturale. E' il silenzio assoluto di una sala di doppiaggio, non assomiglia a quelli che
conosciamo.
Quando andavamo a vedere Peppone e Don Camillo, mio padre diceva sempre che ci toccava perché non c'era
nient'altro. Ripeteva che no gli piaceva portarmi a vedere un film in cui un sindaco comunista era maneggione,
stupidotto e perdeva sempre, mentre il prete era furbo e faceva tifare per lui. Però in quelle due ore mio padre
si sganasciava. Tranne riprendere l'aria di finto scoglionamento nel ritorno a casa e borbottare contro le
baggianate che ci propinavano.
Nelle strade verso casa pensavo che Peppone e Don Camillo erno lì attorno e stavano probabilmente dormendo.
Tenevano il mondo diviso in due e cercavano di difendere o allargare la propria metà. Gli sgambetti che facevano
erano quasi garbati. O forse erano molte le cose che non sapevo. Inevitabilmente, comunque, mi sembravano più
grandi quelli visti al cinema.
Oggi non so se sono ancora in giro Peppone e Don Camillo. Ma, se ci sono, di certo si guardano bene dal farsi
chiamare con nomi così poco cool e sono molto più attenti alla propria immagine pubblica. Forse, a volte, sono allo
stesso tavolo, forse continuano ad alzare il livello dello scontro, forse spostano i propri confini e le proprie
intenzioni a seconda del risultato dell'ultimo sondaggio. Se ci sono verranno misurati pure loro.
Restano in attesa del verdetto della storia, o almeno della cronaca, o almeno del giornale locale, o almeno della
loro famiglia.
Le dimensioni contano.
Altroché.
Con il metro che ci si porta in tasca.