- SPETTACOLI -

Parlami d'amore, Liga
Il cantautore emiliano debutta come poeta

Settantasette composizioni molto libere , scritte in un momento doloroso della sua vita. Eppure, dice lui, «nei miei testi lascio sempre uno spiraglio alla speranza».


(di Giulia CERQUETI)


Ricapitoliamo. Cantautore, scrittore, regista, adesso poeta... «No, mettiamola così: solo essere umano». Sorride, Luciano Ligabue, con quel suo modo di fare un po’ ruvido e schivo. «Mi piace non essere facilmente definibile, mi diverte essere un’anomalia, dare un po’ più da fare a voi giornalisti nel cercare qualche aggettivo in aggiunta per parlare di me».

Lui che, da sempre, rifiuta di essere ingabbiato nella rigidità delle categorie, a partire dal suo genere musicale, rock che sconfina nel pop, senza riconoscersi del tutto in nessuno dei due. «Credo sia giusto non chiamarmi regista anche se ho diretto due film, non chiamarmi scrittore anche se ho scritto due libri». E, allora, non chiamatelo neppure poeta. Anche se ora sugli scaffali delle librerie ci sarà una raccolta di versi scritti di suo pugno, 77 storie, tra aforismi, epigrammi e lunghe ballate. «Se qualcuno mi definisse poeta dovrei vedere se mi prende in giro».

Questo è il "Liga". Abbastanza presuntuoso, dice lui, da essere un inguaribile sperimentatore; abbastanza umile da accostarsi ai vari mondi un po’ «come un elefante in una cristalleria».

A poco tempo dal suo prossimo tour nei teatri italiani, Ligabue racconta la sua nuova avventura, "Lettere d’amore nel frigo" (Einaudi).

Puoi spiegare come nasce questa raccolta di poesie?
Era già pronta tre anni fa, poi l’ho lasciata lì e l’ho ripresa in mano solo da poco per pubblicarla. Sono poesie nate in un momento molto particolare della mia vita: da poco mi ero separato da mia moglie, da poco era morto mio padre. Stavo vivendo un totale sconquasso emotivo e facevo i conti con la mia vita. Avevo voglia di buttare fuori i sentimenti che provavo verso il mondo, di non conservare le mie emozioni compresse, perché sono una persona emotiva. Nel frigo, perché penso che queste nostre proiezioni debbano essere preservate. Sono 77, perché il 7 è il numero che ritorna sempre nella mia vita. Le ho scritte di getto, in poco tempo.

Ci tieni a precisare che scrivere poesie e scrivere canzoni non è proprio la stessa cosa...
Lo sostengo da sempre. Credo di avere una sana forma di incoscienza che mi permette di fare delle cose un po’ rischiose. L’ho già fatto con il cinema, il rischio più grosso che ho affrontato artisticamente. Anche questo libro lo sarà. Alcuni lo vedranno con sufficienza, perché la parola poesia evoca un’idea molto elevata, aulica dell’espressione. Ma ho creduto giusto chiamare questi testi poesie perché sono parole che hanno la forza e la delicatezza di esprimere un sentimento, lasciandole in libertà.

Talmente in libertà che sono completamente prive di punteggiatura...
È stata una scelta precisa. Mi piaceva l’idea che questi testi, anche nel loro ritmo, non fossero facilmente interpretabili. Mentre per me è fondamentale che una canzone sia chiara per tutti, totalmente comunicativa, popolare, nella poesia mi piaceva l’idea di seguire il mio ritmo, i miei bisogni espressivi, senza dover essere necessariamente chiaro, concedendomi più libertà.

Il processo artistico e mentale che genera una poesia, dunque, è diverso da quello alla base di una canzone...
Sì. Quando scrivo una canzone prima compongo la musica, le parole arrivano dopo. Per questo, spesso, vengono sacrificate alla musica, perché vanno adattate alle note e al ritmo. Nella poesia, a meno che non scrivi in rima e secondo schemi precisi, l’eccesso di libertà può addirittura spaventarti.

Sembri accostarti alla poesia con una forma di umiltà...
Il fatto è che nella mia idea la poesia non deve essere destinata a pochi eletti. Per la maggior parte delle persone è qualcosa di irraggiungibile, di nicchia. Io ho una concezione più proletaria, sono uno che rifugge dal concetto di élite e dallo snobismo.

Nei versi di "Il guscio rotto" racconti la morte di tuo padre. Sia nella musica sia nella poesia ritorna la sua figura. Puoi parlare del tuo rapporto con lui?
Mio padre gestiva una balera e tutte le domeniche a pranzo mi diceva che i musicisti sono tutti morti di fame, sentendo quanto io mi stessi appassionando alla musica. Poi però, un giorno, si presentò a casa con una chitarra per il mio compleanno. Mio padre non era capace di esprimere i suoi sentimenti, ma li provava in maniera molto forte. Bisognava saperli leggere, interpretare, perché lui faceva parte di una generazione in cui era difficile pensare che padre e figlio si abbracciassero.

In "Ce lo vedi Mick Jagger morire a ventisette anni?", nomini come in un elenco una serie di personaggi famosi, da Marilyn Monroe a James Dean, a Jim Morrison. Come mai?
È un elenco tragico di persone che sono morte o per suicidio o per morti comunque violente, come la droga. È una riflessione sulla disperazione, sul fatto che non ci sono disperazioni di serie A e di serie B, solo perché alcune sono più famose e diventano leggendarie, mentre la morte di una persona qualsiasi non fa notizia.

Molti dei tuoi testi si sviluppano come piccole storie, racconti di eventi cronachistici, come la vicenda dell’orologiaio che spara ai rapinatori...
Sono molto affascinato dalla poesia narrativa americana, quella di Charles Bukowski e quella di Raymond Carver, che hanno un intento quasi più narrativo che poetico. E ho una passione per Wislawa Szymborska, una poetessa del tutto diversa dai due precedenti. Mi piaceva che in qualche modo nella mia poesia ritornassero elementi degli autori che amo. So che, come cantautore, la mia espressione è molto maschile. Ma nella poesia mi piaceva che facesse capolino quella parte femminile, pura, che so di avere, anche se tendo un po’ a nasconderla, e che influisce molto sulla mia creatività.

Sei molto legato alla figura dello scrittore Charles Bukowski...
In Bukowski mi piace l’idea di poetica rude, la possibilità di esprimere un sentimento con un vocabolario non allargato e un linguaggio quasi parlato, solido nell’espressione.

Anche la tua poesia è spesso aspra, dura, rude...
Le mie poesie hanno una patina di asprezza, ma in fondo anche una forte tenerezza. La chiusa di "Post it" recita: "nel frattempo accettare meraviglia". Mi ostino a fare sempre un invito alla speranza, a me stesso e agli altri, che non è cosa semplice. La negazione è molto più facile, il cinismo è più cool, di tendenza. Non ho mai voluto indorare la pillola o dettare regole di felicità che valgano per tutti. Ma nei miei versi, come nelle mie canzoni, lascio sempre uno spiraglio alla speranza.


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