Il tempo dell'emozione
lezione dottorale di Luciano Ligabue
Non so se riuscirò a trasmettervi adeguatamente la soddisfazione per l’onore che mi
fate.
Mentre ho la sensazione che il mio imbarazzo avrà vita più facile.
Comunque in qualche modo dovrò pur cominciare e allora perdonatemi se lo faccio
con un’ovvietà: ho sempre pensato che qualsiasi forma di comunicazione, per
essere efficace, debba rispettare o, ancora meglio, rispecchiare il bisogno che la
produce.
Un bisogno che, quanto a impellenza, non può non essere catalogato fra i primari.
Questo sostanzialmente perché ha a che fare con un’altra necessità vitale
ingombrante quanto preziosa: l’emozione. Per il mittente come per il destinatario.
E qualsiasi modalità d’espressione, artistica o no, se è figlia vera di un bisogno così
essenziale, è per forza legata all’emozione.
A proposito del termine “emozione” vi chiedo già da ora di perdonarmi per
l’abuso che ne farò nei prossimi minuti ma poiché proprio di questo vi parlerò, la
parola “emozione” resta la più esatta e nessun sinonimo la può sostituire
degnamente.
Pier Vittorio Tondelli, che oltre a essere l’autore che è stato era anche mio
concittadino, sosteneva che l’unica scrittura possibile era la cosiddetta “scrittura
emotiva”. L’esempio di un tipo di espressione che non può permettersi il pudore
della propria emozione. Deve anzi consentire all’urgenza che la provoca di
superare per importanza la qualità tecnica della frase, del lessico scelto, della
punteggiatura relativa.
Kerouac stesso è stato un esempio evidente di quella ricerca di purezza emotiva
nella propria scrittura. Credo non sia stato un caso che il suo stile venisse accusato
da più parti di ridursi a essere un semplice battere a macchina. Un’accusa così forte
è la testimonianza di una forte emozione provata anche quando negativa. Quindi la
testimonianza che l’intenzione di Kerouac era comunque realizzata, e la sua
scrittura era riuscita.
Thomas De Quincey sosteneva che la letteratura emotiva è una letteratura di
potenza. E poi divideva la letteratura stessa in due grandi gruppi: letteratura di
conoscenza e letteratura di potenza. Concludendo poi che mentre la prima
invecchia e sparisce senza lasciare tracce, la seconda esiste finché dura la lingua.
Louis-Ferdinand Céline diceva «il mio metro emotivo prende su tutto. I miei
libri prendono su tutto». Aggiungendo poi che il suo obiettivo era restituire tutta
l’emozione del linguaggio parlato attraverso il linguaggio scritto.
Tornando a Tondelli, per finire finalmente con le citazioni, chiudeva un suo
breve testo sulla scrittura con queste parole: «il testo emotivo fotte l’inconsolabile
solitudine di essere al mondo».
Una conclusione forse eccessivamente romantica e che addirittura può sembrare
paradossale, visto che leggere e scrivere sono attività notoriamente solitarie, ma
nella realtà una conclusione che ci riporta al punto di partenza, cioè alla necessità
di una forte circolazione delle emozioni, come autori e come lettori. Come esseri
umani.
La mia personale esperienza mi ha fatto maturare una tesi, ovviamente altrettanto
personale: la canzone ha l’ambizione di perseguire lo stesso modello di purezza
emotiva.
Immaginerete quanto io mi senta debitore verso questo strumento di comunicazione
popolare, ma tengo a precisare che le considerazioni che farò mi vedranno forse più
nelle vesti del fruitore che in quelle dell’autore.
Innanzitutto permettetemi di soffermarmi su un elenco di difetti, o presunti tali,
che la canzone in tanti anni di vita non è mai riuscita a correggere a se stessa.
Intanto un problema di spazio: la canzone, per la sua brevità e per le costrizioni cui
la obbliga la musica che la compone, forza l’autore a un uso limitato di cento-duecento-
trecento parole.
Quindi lo costringe a un’operazione di sintesi.
Inoltre l’autore è spesso obbligato a usare non tanto le parole che vorrebbe
quanto quelle che assolvono una loro funzione ritmica o di rispetto metrico o
addirittura di rima. Insomma, soprattutto parole che “suonano”.
Un’altra limitazione è quella di una struttura che si ripropone da sempre fedele a
se stessa: strofa-ritornello-strofa-ritornello. In molti casi diventa strofa-ponte-ritornello
e in un minor numero di casi c’è una divagazione, altrimenti detta c o
speciale che di solito si usa dopo il secondo ritornello. In ogni caso siamo sempre e
comunque di fronte allo stesso tipo di “gabbia”. Una struttura consolidata che, nel
tempo, ha dimostrato di essere l’unica, quasi fosse un codice non modificabile, in
grado di far mantenere alla canzone quelle caratteristiche di riconoscibilità e
accesso così vitali per il suo essere strumento popolare.
Altro problema è il famoso vecchio discorso delle note che sono soltanto sette
(in realtà sono dodici) e quindi le combinazioni derivanti sarebbero sempre e solo
quelle che sono. Senza considerare che, nel frattempo, le canzoni già scritte (e
quindi le combinazioni già usate) sono milioni.
Ma siamo veramente sicuri che quelli che ho appena elencato siano veramente, o
siano soltanto difetti?
Personalmente credo di no.
Rivediamoli uno per uno.
Lo spazio esiguo e la necessità di sintesi conseguente, se da un lato sono una
limitazione, dall’altro costringono l’autore a lavorare fino a quando non si imbatte
nell’emozione necessaria. Necessaria e “raccolta”, perché nella canzone non ci può
essere dispersione.
Soprattutto, quando dovrà fare a meno di termini o di immagini letterarie che gli
piacciono ma che non si adeguano al suono della canzone (io, per inciso, rinuncio
di frequente ai congiuntivi quando sento che si oppongono a una sensazione di
parlato che in certi casi mi sembra necessaria), l’autore, nel costringersi a parole
che “suonano” per forza, si troverà a doversi accertare che l’emozione resti viva
parola per parola, suono per suono. Con tutto il sollievo che proverà di fronte a un
ritornello che comunica finalmente ciò che voleva, con la leggerezza necessaria,
con la sensazione di precisione che testimonierà l’emozione che ha vissuto a
scriverlo e con la musicalità delle parole fluida come serve. Sempre che,
ovviamente, il ritornello arrivi.
E a proposito di refrain, l’obbligo alla struttura consolidata, e quasi inevitabile, di
strofa-ponte-ritornello porterà naturalmente l’autore a livelli d’intensità emotiva
diversa in base alla “parte” che sta scrivendo. Ben sapendo che la temperatura del
ritornello dovrà essere la più calda, quella della strofa offrirà maggiori possibilità in
fatto di sfumature e quella del ponte svolgerà la funzione implicita nel nome stesso,
cioè farà da ponte.
Detta così, sembra che ci si possa servire di una specie di “tecnica dell’emozione”
mentre, in realtà, l’autore arriva solo a una sorta di consapevolezza che lo allerta
sul fatto che, secondo quel termometro emotivo, certe parti non funzioneranno fin
quando non saranno figliate dall’emozione adeguata.
Per quanto riguarda la parte musicale, è vero che le note sono dodici e che le
canzoni scritte sono tante ma anche questi dati di fatto obbligano chi ne scrive una
nuova a battere strade che siano il più possibile personali come personale deve
essere l’emozione che confluirà in una melodia ariosa o, in qualche modo,
significativa.
A questo proposito, possiamo fare l’esempio del blues che si serve sempre e solo di
tre accordi (che alla fine sono sempre gli stessi) e di un numero di note anche
minore rispetto agli altri generi musicali (la scala del blues è pentatonica e quindi
composta da sole cinque note-base). Il risultato è che l’emozione trasmessa da
chiunque metta così tanto sentimento in poche note, suonate per di più così
lentamente, sia decisamente maggiore che non quella sparata da qualsiasi chitarrista
preoccupato soprattutto di mostrare la propria abilità tecnica e la propria velocità
d’esecuzione.
In conclusione, sono proprio i “limiti” della canzone a fare da garanti per la
presenza dell’emozione.
Quella adeguata, quella che ne dovrebbe giustificare la scrittura e la circolazione.
Nel tempo ho verificato che le mie canzoni più riuscite sono quelle che ho scritto
di getto, in meno di un’ora. Mi è capitato ovviamente di verificare che, con un
lavoro più attento e preciso, in qualche modo più rigoroso, uscissero immagini più
raffinate, passaggi più ambiziosi, sulla carta qualitativamente migliori, però la loro
combinazione con la musica dava un risultato che aveva, in qualche modo, poca
forza rispetto alla (chiamiamola) “incoscienza” della scrittura d’impulso.
Qui non vorrei scomodare il concetto romantico e un po’ troppo elitario di
“ispirazione” quanto piuttosto quello del “tempo dell’emozione”. Un tempo che
matura in modo diverso a seconda delle tappe personali di vita dell’autore.
Un tempo che non è mai possibile provocare o indurre. Ma la curiosità,
l’indignazione, la propria vulnerabilità o fragilità, l’entusiasmo di una fase della
vita possono sicuramente favorirlo.
Molti autori sostengono che scrivere tutti i giorni provochi l’arrivo di quel tempo.
Personalmente mi è capitato di utilizzare quel metodo. Ma, a prescindere dal fatto
che possa funzionare e dalla qualità che riesce a produrre, continua a sembrare un
modo per assediare l’emozione, per espugnarla, invece di lasciarla ai suoi tempi
naturali.
In attesa di quelli, i tempi del bisogno di raccontare, ci sono solo alcuni trucchi di
gestione e progettazione.
Rispetto alle altre forme d’espressione a cui sono ricorso ad oggi, in ognuna di esse
può cambiare un po’ il bilanciamento fra gestione e necessità emotiva ma resta
sempre predominante la seconda.
La scrittura di un racconto, in cui la struttura può essere piuttosto elastica e libera
da schemi, è per me molto simile, in termini emotivi, a quella della canzone: è in
qualche modo “febbrile” perché strettamente legata all’intensità dell’emozione
generatrice.
La scrittura di un romanzo prevede una fase più progettuale per quello che
riguarda proprio la struttura. E sicuramente c’è la necessità di una certa freddezza
nella composizione, nell’analisi e nella valutazione della scaletta. Però, anche in
quel caso, per la realizzazione dello scheletro si può agire solo sull’onda di
un’emozione capace di produrne le varie parti. Da lì in poi, una volta passati ai
capitoli, vale il discorso di racconti e canzoni.
Per la scrittura di sceneggiature la fase gestionale diventa ancora più presente.
Bisogna progettarne la struttura nelle varie fasi che di solito la compongono:
presentazione, crisi, risoluzione e finale. Ma soprattutto bisogna fare i conti con
l’effettiva realizzabilità economica ma anche visiva di ogni scena. Però, tornando a
me, questo tipo di verifica l’ho fatta solo dopo avere scritto le scene (ancora una
volta) dietro impulso emotivo.
La regia, infine, si basa su ciò che può sembrare un ossimoro: la progettazione
dell’emozione. Si tratta di un confronto costante con tutti i collaboratori per la
realizzazione di tanti piccoli pezzi di film di pochi secondi che, tra l’altro, non
vengono mai girati in sequenza. Quindi con l’ulteriore complicazione di non
procedere seguendo un flusso emotivo ma realizzandone parti che andranno
pensate in testa ad alcune già girate oppure in coda ad altre ancora da filmare. Ma
anche in quel caso, una volta terminati i tempi di allestimento, ogni minima
sequenza funzionerà solo se in quei pochi secondi ci sarà tutta l’emozione apportata
dal direttore della fotografia con le sue luci, i filtri e gli obiettivi, dallo scenografo
che ha realizzato il set, dal costumista che aiuta la caratterizzazione dei personaggi
con stili e cromatismi, dagli operatori e macchinisti che riprendono e fanno girare i
carrelli e i dolly e, ovviamente, dagli attori.
Tornando alla canzone, a proposito di gestire e progettare, anche qui ci sono
alcune tecniche, chiamiamole piccole malizie o trucchi di bottega, di cui di solito
un autore o un compositore un po’ esperto fa uso nell’illusione di domarla.
Intanto la concisione. Una canzone dovrebbe stare dentro i cinque minuti, meglio
se quattro o anche tre.
D’altro canto non si può dire che, per esempio, “La locomotiva” di Francesco
Guccini, che di minuti ne dura nove, non sia una canzone popolare.
In genere scrivere in tonalità minore aiuta a comunicare meglio malinconia, o
tristezza o introspezione mentre scrivere in tonalità maggiore predispone a
comunicare sentimenti più netti, aperti, leggeri.
Eppure, “Ancora tu” di Lucio Battisti, scritta in tonalità minore, racconta l’allegria
di un re-incontro sentimentale.
Al contrario “La donna cannone” di Francesco De Gregori e “Com’è profondo il
mare” di Lucio Dalla sono in maggiore. Bellissime ma con tutte le caratteristiche
che si trovano di solito nelle canzoni in tonalità minore.
In genere viene consigliato di evitare di descrivere fatti di attualità con la
motivazione che la canzone, così, invecchierebbe presto.
Ma la storia della musica è piena di canzoni che sono la fotografia di un momento
preciso e che, in qualche modo, si riattualizzano negli anni.
Perché questo è un altro dei grossi poteri della canzone, quello di farsi trovare
“diversa” nel tempo grazie a nuove interpretazioni (guardacaso) emotive di un
ascoltatore che via via viene cambiato dalla vita.
Poi si sa che usando un tempo in tre/quarti o in sei/ottavi si otterrà in genere un
risultato ondulatorio, fluido, con possibilità melodiche di notevole apertura.
Ancora si sa che l’uso delle frequenze basse mette più rapidamente in
comunicazione con la parte più primitiva e fisica, si dice anche sessuale,
dell’ascoltatore.
E poi che utilizzando giri armonici familiari all’orecchio dell’ascoltatore risulti più
immediato il contatto con lui.
Ancora oggi trovo quasi miracoloso che canzoni così diverse con dentro
intenzioni, contenuti e atmosfere così diverse come, per esempio, “Stand by me”,
“Il cielo in una stanza” e “Dio è morto” abbiano in comune la stessa sequenza di
accordi.
Ma per quanti trucchi possa conoscere un autore, risulta abbastanza facile dire che,
da soli, produrranno poco e che, soprattutto, non gli basteranno mai per “domare”
una canzone.
Perché, altrimenti, ognuna di esse sarebbe un successo.
E qui arriviamo a una delle maggiori qualità della canzone: la sua inafferrabilità.
François Truffaut sosteneva che le canzoni che ha amato di più probabilmente
erano le più stupide.
Io sono convinto che l’intellettuale più integerrimo che dichiara solo passioni per il
jazz o per la classica o certa musica cosiddetta “alta”, nel buio della cabina (non
elettorale ma) della propria doccia, canticchia parecchie melodie pop che non
confesserà mai ma che gli restano in testa tutto il giorno.
Inafferrabile, imprevedibile e potente, la canzone.
Talmente potente da non curarsi di nessun tipo di distinzione sociale, etnica,
anagrafica, religiosa o di sesso. Per lei tutte le orecchie sono buone.
Quante volte avrete sentito che certi generi che le dovrebbero contenere, uno per
tutti il rock, sono morti?
Quante volte avrete letto o sentito raccontare di nuove ondate di mode o
tendenze entro cui piazzarne qualcuna?
Quante volte vi sarà capitato di imbattervi in un aggettivo che maldestramente
provava a specificarne l’identità? Canzone d’amore o sociale o psicanalitica o
politica o esistenzialista?
Quante volte, piuttosto, vi sarete accorti che la canzone se ne frega di tutti quegli
incasellamenti e si fa strada oppure o no a seconda di elementi misteriosi che
sicuramente esulano da certe “appartenenze”?
Hanno provato a farne un’analisi geometrica stabilendo che la melodia è la parte
orizzontale e l’armonia quella verticale.
Hanno provato a ridurla a una semplice somma algebrica. Ovvero la canzone
sarebbe “soltanto” l’emozione dell’autore delle parole più quella del compositore
delle musiche più quella dell’arrangiatore più quella del produttore più quella di chi
la suona e più naturalmente quella di chi canta.
Se le combinazioni delle note sono tante, immaginerete quante possano essere
quelle delle emozioni di chi ne contribuisce alla scrittura e alla realizzazione.
Senza considerare che la canzone è emozione in movimento, e quindi doppiamente
inafferrabile, perché l’esecuzione dal vivo la rinnova e modifica ogni volta in chi la
canta o suona o ascolta.
Perché, poi, alla somma di prima manca ancora un fattore determinante: l’emozione
di chi la sta ad ascoltare.
Una canzone è sempre il risultato dell’incontro fra la penna (o il piano o la
chitarra) di chi la scrive, la voce di chi la canta e l’orecchio di chi l’ascolta.
Questo non per continuare a rimestare nell’ovvietà né per lasciarsi andare a una
piccola constatazione anatomico-vibrazionale, quanto per ricordare la potenza del
sentimento di immedesimazione che un preciso connubio di melodia, armonia,
ritmo, parole e voce riesce a produrre in chi è emotivamente “sintonizzato” grazie a
un particolare momento della propria vita.
E se parlo di “preciso connubio” non è per caso. Perché un’altra caratteristica
fondamentale di questo strumento di comunicazione è la sua irripetibilità.
Francesco De Gregori sostiene che la canzone è come un paio di scarpe fatte da
un calzolaio. Un lavoro artigianale realizzato con gli strumenti che si possiedono in
quel momento: è unica.
Forse questa definizione minimale ha prodotto un’immagine un po’ ingenerosa
rispetto alla qualità che lui ha saputo produrre ma chiarisce il suo pensiero sul tema
della irripetibilità.
Fabrizio De Andrè ha detto: «non ho nessuna verità assoluta in cui credere, non
ho nessuna certezza in tasca e, quindi, non la posso regalare a nessuno e va già
molto bene se posso regalare qualche emozione».
E qui torniamo al punto di partenza.
Vi chiedo di perdonarmi se ho fatto così tante generalizzazioni sulla canzone
che, in realtà, come ben sapete e come ho fino a qui sottolineato, è composta di
tante piccole unità indipendenti e quindi non catalogabili.
Tutte le differenze fra intenzioni, tipo di coinvolgimento e qualità degli autori,
tutte quelle di forma, onde sonore, arrangiamenti, tutte quelle delle voci, insomma
tutte le numerosissime differenze fra ogni canzone non permettono un’analisi
d’insieme se non, a mio modesto parere, per la presenza dell’emozione che la deve
originare.
A me piace pensare che non si possa decidere oggettivamente se una canzone è
bella o brutta. Mi piace pensare che le valutazioni siano sempre fortemente
soggettive in base ai diversi effetti emotivi, molto difficilmente analizzabili, che
quella canzone ha avuto sulla persona che la giudica. E infine mi piace pensare che
le canzoni che più di altre sono finite nella vita di un grosso numero di persone
siano tutte frutto dell’emozione che le ha originate: scritte solo perché qualcuno
aveva bisogno di dire quelle cose.
Forse tutto questo non è nient’altro che una specie di autoconvincimento visto
che l’emozione è parte integrante e forse ingombrante se non addirittura
prevaricante della mia natura e in questo modo ho cercato di far passare per teoria
quello che era un punto di vista. E quello che vi ho appena esposto punto di vista lo
era in pieno.
Di una cosa però sono certo. Il bisogno espressivo derivante da quell’emozione
riesce a sconfiggere una forma di presunzione che io trovo molto fastidiosa: la
presunzione quasi intollerabile per cui si scrive una canzone pensando che ci sarà
sicuramente qualcuno che l’ascolterà.