PICCOLE STORIE DIARI MINIMI
Vito Bruno: l’ultimo dei carristi di El
Alamein
“O Uomo,
favilla di Dio, se hai l'animo ingombro di sonno o di paura seguirmi non
potrai: perché il mio colore è sempre di guerra e la mia canzone è sempre
disperata”
*Intervista raccolta
da Matteo Cornelius Sullivan pittore, scultore e insegnante, dal 2003
Fondatore e Reggente del "Partito della Alternativa Monarchica con
collaborazioni giornalistiche e storiche a testate varie. |
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Vito Bruno è un arzillo ottantaquattrenne di Mazara del Vallo,
che porta nel suo cuore une delle esperienze più significative della seconda
guerra mondiale: la battaglia di El Alamein. A quell’epoca lui era nel 4°
battaglione Carri del 133° Reggimento Littorio, unico Battaglione Carri ad aver
partecipato alla seconda guerra mondiale combattendo su tutti i fronti (Russia
esclusa) ove operarono i carristi italiani. La famosa battaglia, che si svolse
tra il 23 ottobre e il 6 novembre del 1942, fu la prima vittoria terrestre per
l’Impero inglese e la fine dell’Impero italiano. Fu una grandissima battaglia di
carri armati che, per numero di mezzi impiegati, è seconda solo a Kursk. Quella
era l’epoca delle grandi vittorie e delle grandi sconfitte e Vito Bruno, in
quell’epoca per molti remota, ma non per lui, era un carrista pilota del Regio
Esercito. Per lui, che è anche l’autore del volume “El Alamein il deserto di
gloria”, parlare di quei tragici giorni significa “il ricordo di 20.000 ragazzi
sotto la sabbia”, così mi dice* appena mi conferma di accettare l’intervista e
inizia a raccontarmi della sua interessantissima esperienza.
“mi ha salvato fare il pilota” perché la posizione era più
protetta, ogni giorno c’erano morti e feriti nei carri colpiti. “Il 25 ottobre
1942 si è fermata una blindo vicino al mio carro” mi racconta dopo poco “era
Rommel, il nostro comandante, lei lo sa, dice solo feuer (fuoco!) e un ufficiale
dei suoi ci ha dato una mezza bottiglia di acqua minerale, era l’acqua più buona
che bevevo da molto tempo perché l’acqua era trasportata nelle taniche del
carburante…
- Signor Bruno, cosa ricorda più nitidamente della battaglia di El Alamein?
Tra i ricordi cerco di ricordare i fatti d’arme di El Alamein, con deferenza
verso tanti amici, ho rivisto nella memoria tutti i carristi che agli ordini del
Maresciallo Rommel hanno perso la vita. Si è stabilita tra me e i pochi
sopravvissuti una fraternità che non ha termine. A noi che disgraziatamente
l’abbiamo vissuta, ci ha fatto male tornare e vedere dei manifesti che
inneggiavano alla sconfitta di El Alamein… bisognerebbe prendere qualcuno di
quelli che hanno scritto quei manifesti e metterlo dentro a un nostro carro da
13 tonnellate e farlo combattere contro uno da 28 tonnellate!
- Ma della battaglia, cosa ricorda più fulgidamente?
Il 2 novembre fummo attaccati da due carri nemici, il nostro cannone, quello
dell’M13 era piccolo, un 47/32, fummo colpiti alla torretta, io, ferito, saltai
fuori per vedere cosa era successo ma fui colpito alla coscia sinistra da una
raffica di mitragliatrice. Quando rinvenni, gli inglesi se ne erano già andati
credendomi morto, guardai nel mio carro e gli altri erano un mucchietto di
cenere, come carbonizzati perché il carro aveva preso fuoco per un altro
proiettile incendiario di nuovo tipo.
- Come era la battaglia?
Noi lasciavamo i carri con l’acceleratore acceso, così, quando erano colpiti
e in fiamme continuavano a marciare verso gl’inglesi, non sapevano se erano
fantasmi o cosa… e alle volte venivano speronati! Il nostro non era eroismo, era
voglia di farla finita; Quando mi hanno fatto prigioniero, ho sentito che mi
avevano messo un ferro dietro la schiena e mi dissero “mani in alto”, in
inglese, ma io non le alzai, allora mi girò e mi strinse la mano. Dopo due anni
di prima linea: quattro di prigionia.
- Cosa significò, secondo lei, per il soldato italiano la battaglia di El
Alamein?
Soltanto ubbidienza alla Patria.
È vero che i tedeschi requisirono tutti i camion italiani per ritirarsi,
lasciando gli italiani appiedati?
Ma, guardi io a quelle scene non ho assistito, non lo so.
- I carri armati italiani erano molto inferiori a quelli avversari?
I carri inglesi non erano superiori, solo quelli americani (in dotazione alle
truppe brittanniche n.d.r.) ma noi andavamo fino a quattro metri dal carro e lo
colpivamo! Quelli inglesi erano suppergiù come i nostri.
- Quindi il divario tra i mezzi italiani e quelli del Commonwealth si
accentuò solo con l’arrivo dei mezzi americani?
Sì, li ricevevano tramite il Canale di Suez, il nostro sbaglio è stato di non
occupare Malta.
- La divisione Ariete fece uso di carri armati catturati?
No, no, solo carburanti, munizioni eccetera catturate a Tobruch ma le
munizioni non erano adatte ai nostri pezzi.
- Per cosa si battevano gli italiani? Per il Re, la Patria, l’Impero, il Duce,
la conquista, l’avventura o cosa?
Già subito dopo che era finita la guerra, il vecchio Re (in esilio ad
Alessandria) si era recato attraverso quelle sabbie desolanti a cercare quel
posto dove ci eravamo battuti. Il vecchio Re percorse la tragica sabbia e sostò
davanti ai relitti squarciati dei carri, non so cosa pensasse, so che fu il
primo italiano che si recò volontariamente su quel campo di battaglia. Fu certo
per i nostri morti un solitario, onorevole colloquio; Il Re era un soldato,
poteva comprendere. Le altre storie, quelle politiche, non interessavano il Re,
quei morti e noi, noi che disgraziatamente fummo costretti a sopravvivere alle
cantonate dei manifesti che inneggiavano alla sconfitta di El Alamein, la nostra
coscienza è in ordine, quella degli altri ci importa poco. Dopo parecchi anni ci
sono tornato, tra le squallide sabbie del deserto egiziano, dove il cuore di un
soldato ha pensato di raccogliere i nostri morti, alcuni dei nostri soldati
avevano già iniziato un modesto lavoro, voglio ringraziare Paolo Caccia Domini
che, poco a Nord di quota 33 della battaglia di El Alamein, l’amore di Caccia
Domini, ha costruito un sacrario nel ricordo di quella gioventù che si sacrificò
per la Patria. Lentamente dal suo amore, altre fiamme gli sorgono intorno: sono
i carristi, i fanti, i bersaglieri, i paracadutisti, i genieri inglesi,
italiani, tedeschi, americani, tutti (tra cui anche australiani, nuovozelandesi,
sudafricani, libici, indiani, sudanesi, ebrei e altri n.d.r.). nel cimitero di
quota 33 riposano oltre tremila soldati italiani. Il deserto non restituisce i
dodicimila che mancano, queste poche parole non pretendono di dare un aspetto
tecnico della battaglia ma solo il sentimento.
Perché è giusto ricordare questa e altre battaglie?
Perché questo ha deciso le sorti della guerra, perché se vincevamo quella
battaglia, noi vincevamo. È stata la più sanguinosa battaglia della guerra, si è
decisa lì la guerra.
- Lei scrisse una frase sul suo carro armato:
“O Uomo, favilla di Dio, se hai l'animo
ingombro di sonno o di paura seguirmi non potrai: perché il mio colore è sempre
di guerra e la mia canzone è sempre disperata”
… non l’ho scritta io ma l’equipaggio, proprio appena arrivati
in Africa, sulla prora del carro.
- Dove c’è la targa? Sì ma dentro il carro. - Cosa ci può raccontare
d’altro su questi suoi importanti momenti di vita?
Un
paracadutista ha scritto: “intorno a noi sono tante tombe, tutti noi che siamo
gli unici vivi, non abbiamo più nulla da opporre e dal nulla laggiù,
all’orizzonte di El Alamein, si affaccia il sole. Non diteci che tutto è stato
inutile, voi che potete, piangete per noi. Nei nostri corpi riarsi, non c’è più
linfa, per farlo a quota 33, ora il silenzio, solo lo spirito degli eroi è
presente. I beduini affermano di aver visto ad El Alamein il fantasma di un
soldato vestito di tela, con un cappello di ferro con tante piume che sventolano
da una parte” e io aggiungo, forse un eroico bersagliere. La Divisione Folgore
(i paracadutisti n.d.r.), sinonimo di eroismo, e questa definizione è del
Generale inglese Alexander: “che testimonia fedelmente che sono parole dette
talaltro, dal nemico, la forza di volontà, l’entusiasmo, lo stoicismo della
Divisione che ha segnato una pagina indimenticabile, forse la più bella di una
guerra dura e massacrante. Gli atti eroici dei paracadutisti, dei bersaglieri,
fanti, artiglieri eccetera… ma la più commovente fase che si è verificata è
quella di El Alamein, una battaglia che ha deciso le sorti del fronte Africano,
una battaglia perduta da tutti, non certo dal soldato italiano, che ne risulta
moralmente il vincitore. I ragazzi, così chiamati perché tutti giovani, seppero
resistere all’artiglieria e agli attacchi di aerei, mezzi corazzati equivalenti
al tipo di quelli dei nostri soldati (…) i ragazzi italiani presidiarono El
Alamein nonostante la scarsità di armi e mezzi, d’acqua e le condizioni fisiche
del soldato erano per la maggior parte minate da febbri anemiche; Come
dimenticare queste cose, come non ascoltarle?
Matteo Cornelius Sullivan
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