PICCOLE STORIE DIARI MINIMI
UGO
- “E le navi stanno in porto ad
aspettar”
di SANDRO SANTINI |
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Ugo era stanco della guerra; di quella, inutile, che non stava
combattendo.
Lui ed altri studenti universitari, forse da pochi esami, ma da molta
goliardia, l’avevano vissuta, all’inizio, un po’ come un momento di festa. Gli
annunci del duce sullo spazio vitale, sulle potenze demoplutocratiche corrotte
ed inette, sulla brevità del conflitto dall’esito immancabilmente favorevole,
li avevano galvanizzati. Si trovavano lui, Ermes, nome che solo a Parma e
nella Bassa trova comprensione, Bruno, Alberto ed altri, quasi tutti i giorni
a manifestare in Piazza Garibaldi (a Parma).
E’ vero che proprio a Parma i fascisti le avevano buscate sode dagli Arditi di
Picelli, ma la nuova generazione, legata a valori culturali diversi, non
discutibili, assoluti, non poteva non riconoscersi in quel grido:”vincere!!!”.
Potevano, in fondo, essere solo manifestazioni, con canti, bandiere, di
assoluta estemporaneità. Ma spesso la gioventù inganna; lo vedremo poi nel
’68, nel ‘77.
E allora perché perder tempo e non rifugiarsi nel comodo, elitario mondo degli
AUC, aspiranti ufficiali di complemento, al quale tutti gli universitari
avevano diritto; perché non mostrare a quegli inetti soldati alleati quanto
forte fosse il valore, l’impegno, dei discendenti di Roma!. Così, in piena
allegria, tutti ad arruolarsi volontari. In fondo, aveva detto il duce, pochi
mesi e poche migliaia di morti,….. perbacco, e loro, frutto della più pura
razza italica, potevano ignorare e non partecipare a questo banchetto che li
avrebbe consegnati alla storia?
Forse le famiglie, le madri in particolare, non erano d’accordo. Avevano già
donato l’oro alla patria, qualcuna il marito nella Grande Guerra; non
apprezzavano quello slancio patriottico non richiesto, quel fervore
incomprensibile. La macchina bellica si era ormai avviata; furono festeggiati
al GUF dal Federale, vezzeggiati dalle studentesse, che a Parma si sa, anche
allora, non erano solo le più belle.
Tante feste che li avrebbero accompagnati nei Balcani, in Russia, in Africa.
Tante illusioni che si sarebbero spezzate nel cozzo della morte.
Partirono per Roma; erano bersaglieri! Forse l’accoglienza della burocrazia
militare, con i riti della caserma di Trastevere, smorzò un po’ gli
entusiasmi. Gli imboscati, etnia sempre presente, irrinunciabile,
immodificabile, congiurava contro di loro; non riconosceva il giusto valore
del loro sacrificio. Anzi, come disse loro, un dì, un alto ufficiale,” nessuno
li aveva cercati; se la Patria avesse avuto bisogno li avrebbe chiamati.”
I letti della caserma erano sporchi, le latrine pure. Il tutto aggravato
dall’oscuramento; il buio non consente agli uomini una mira precisa!
Partirono, accompagnati da ali di folla, incoscientemente festante, per
recarsi in un porto del Sud: destinazione Albania e poi la Grecia, che non
riconoscendo le buone ragioni dell’Italia fascista, ci stava bastonando.
Certo, aveva avuto tutto il tempo per prepararsi alla guerra; i tentennamenti
di Mussolini, i reiterati proclami bellicosi, simili più all’abbaiare dei
cagnetti che al concetto della tedesca “guerra lampo”, avevano convinto i
greci che prima o poi l’Italia li avrebbe attaccati. L’impreparazione delle
truppe, della sussistenza e dei comandi aveva fatto il resto. Le alture del
Golico erano diventate l’inutile cimitero di tanta gioventù.
Ugo non lo sapeva; i bollettini di guerra parlavano di ripiegamenti tattici,
di controffensive imminenti e inneggiavano alla imminente vittoria; avremmo di
sicuro spezzato le reni alla Grecia!. Era Aprile. Il viaggio sulla motonave
che li avrebbe sbarcati a Valona fu tranquillo. Dissero loro di togliere le
scarpe; potevano essere silurati, ma non successe nulla. Sbarcarono e si
avviarono, utilizzando l’unico mezzo di trasporto che conoscevano e a cui li
avevano allenati, le gambe, verso la Grecia.
La guerra però, non li aveva aspettati; l’intervento delle truppe tedesche che
avevano occupato prima la Iugoslavia e poi erano scese in Ellade, aveva
costretto quest’ultima a chiedere l’armistizio. Future truppe combattenti, i
bersaglieri divennero truppe occupanti. Non è facile diventare poliziotti,
quando si è addestrati a combattere. La popolazione, stremata dalla guerra e
da un’atavica povertà, non nascondeva il disprezzo per quegli uomini che non
li avevano vinti. L’esercito greco aveva ripetuto sulle montagne greco
albanesi il miracolo delle Termopili; solo la macchina da guerra tedesca li
aveva piegati. Non mancavano i manifesti denigratori per il duce e per i
bersaglieri, ma la popolazione spesso per necessità, forniva viveri quali uva,
pesci, alle truppe italiane; qualche volta fu l’esercito ad inviare viveri
nelle loro zone più povere.
Il tempo passava ed Ugo sentiva il richiamo della guerra. Con lui, molti suoi
compagni, che però dall’incontro con civiltà diverse, non solo quella greca
che ricordavano dallo studio dei classici, trovavano motivo di discussione.
L’esercito, si sa, è un crogiuolo di razze; anche il nostro non faceva
eccezione. Era difficile capirsi, nell’inattività totale, fra contadini
meridionali analfabeti, spesso superstiziosi e giovani studenti parmigiani,
educati nell’atmosfera post illuministica della città granducale; era più
facile capire ed ammirare i tedeschi con il loro perfetto ed organizzato modo
di vivere e combattere.
Certo, loro erano un popolo diverso! Ugo si rendeva conto che mai saremmo
stati come loro, ma non ne soffriva; in fondo senza la civiltà romana
sarebbero vissuti ancora nelle capanne. Sentirsi “superiori” culturalmente fa
passare altre sensazioni in second’ordine.
E poi c’erano le donne, la cosa più importante. Ugo era uno tosto: bello,
elegante, fascinoso, senza essere gagà, viveva anche di quei valori; gli
piacevano le conquiste. Spesso, come capita in guerra, alcune o molte giovani
vanno ad esercitare il più antico mestiere; la fame, non certo il piacere,
costringono a cedimenti non solo morali. Ad Ugo, tutto ciò non interessava;
era per la conquista, per l’esaltazione del suo fascino. Lo chiamavano il
mandrillo.
Intanto l’avventura guerresca stagnava! La sirena
di Lutraki li teneva come Circe legati allo scoglio mentre le navi stavano in
porto ad aspettar.
Le giornate passavano nell’attesa di un fatto d’arme, di un’azione
degna di essere raccontata ai figli. Spes ultima dea, dicevano i romani; e la
speranza giunse una mattina quando un piccolo capitano, dall’aspetto poco
militaresco, annunciò che erano aperte le domande per entrare nei
paracadutisti. Molti si offrirono; la prospettiva di una possibile impiego in
azione risvegliò l’eccitazione di Ugo e dei suoi compagni. Paracadutisti, già
se ne parlava dopo il primo lancio su Creta e per la ventilata presa di Malta.
Era un sogno che tornava, la possibilità di essere finalmente soldati.
Certo la nascita della divisione paracadutisti era stata travagliata. Gli alti
comandi, che non diversamente dai loro colleghi francesi ed inglesi,
preferivano frequentare i salotti, anziché le manovre militari dei tedeschi e
dei giapponesi, non approvavano questo tipo di guerra. Colpire alle spalle
anziché affrontare di petto il nemico?! Non era cavalleria, non si esaltava il
coraggio del soldato. Eppure la lezione degli assalti frontali della prima
guerra, delle immense carneficine sui reticolati del Carso, doveva essere ben
viva. E allora meglio le eroiche cariche di cavalleria, al grido “Savoia” in
Russia, emule di quelle della cavalleria polacca contro i tanks tedeschi;
forse… “mal comune…”
Non era facile diventare paracadutisti; si era sottoposti ad una serie di test
ed esercizi, di visite mediche che scoraggiavano ed anche eliminavano molti
aspiranti. Gettarsi da un aereo, dipendendo da un ombrello di seta, che si
sapeva, qualche volta non voleva aprirsi, era considerato dai più un atto di
pazzia. I paracadutisti sono di due specie: appunto i pazzoidi, i temerari,
gli scavezzacolli, potremmo chiamarli, ed i romantici, quelli che sognano
l’avventura, il bel gesto eroico. E cosa c’è di più eroico che assalire il
nemico scendendo dal cielo, novelli Icaro!. Ugo, Ermes, Alberto ed altri
cinque commilitoni, furono ammessi al corso per essere brevettati.
Per chi era cresciuto in campagna il gettarsi dalla torre, superare gli
ostacoli e soprattutto correre non era un problema. Allora non si faceva sport
ma si cresceva diversamente. Ugo restava sempre un bersagliere; quel cappello
piumato, quel fez rosso in testa nella libera uscita li facevano distinguere
da tutti. Un alto ufficiale, incontrandoli assieme a delle ragazze
esclamò:”bravi bersaglieri, sempre con le più belle”. E poi non sempre la
divisa doveva essere quella di ordinanza; è vero avevano gli stivali e non le
fasce, ma magari i pantaloni a sbuffo della cavalleria erano più eleganti e
consentivano un approccio migliore.
Dopo pochi mesi fecero il primo lancio. Fu l’emozione di un attimo; poi lo
schiaffo del vento nella prima caduta, il colpo del paracadute che si apriva,
il corpo pronto ad eseguire il salto mortale per l’atterraggio, riportarono ad
Ugo la realtà di una conquista tanto attesa, ma alla fine, di una normalità
insperata. Era paracadutista; entrava senza saperlo nella leggenda
dell’esercito. Dopo diversi lanci, con armamento completo, i vari reparti
furono avviati verso il raduno di Lecce.
La Folgore, come fu poi da tutti chiamata, era stata addestrata per
partecipare all’invasione di Malta. L’avversione di molti alti comandi ne
aveva ritardato la preparazione; era stato difficile anche trovare un
comandante. Quasi tutti gli ufficiali interpellati non avevano mai volato e
nessuno era disposto a gettarsi col paracadute. Si offerse il generale
Frattini, cinquantenne, che seppe poi valorizzare al meglio lo spirito
guerresco della neonata divisione.
Tutti, al raduno, pensavano che la meta fosse Malta. Rommel, però, aveva
chiesto il massimo sforzo all’Asse per arrivare in breve tempo ad Alessandria
d’Egitto e tutte le risorse furono dirottate verso il fronte africano. Ugo si
stupì, perché gli ritirarono le mostrine; non erano più paracadutisti ma
Cacciatori d’Africa. Pronto a salire, assieme al suo reparto, sull’aereo, fu
dirottato su di una vecchia tradotta che partì per il nord. Con lui almeno
metà della Folgore.
Risalirono la penisola e scesero attraverso i Balcani in Grecia; infine vi era
ritornato. Rivide di sfuggita alcuni luoghi che aveva conosciuto l’anno prima,
sino ad Atene. Avevano rischiato per dieci giorni di essere assaliti dai
partigiani, bombardati dalla caccia nemica per poi, ad Atene, salire su di un
aereo ed essere inviati in Africa. Ugo pensò che forse non era un caso; che
quanto si diceva sull’ostilità dei Comandi verso la Folgore non era fantasia.
Lasciarono i paracadute e l’equipaggiamento da lancio in un magazzino a Derna,
Gli fu detto che lo avrebbero riavuto più tardi, al momento di entrare in
azione. I paracadute furono ritrovati poi in parte sabotati!
Come tutti i sottoufficiali disponeva di un armamento superiore ai suoi pari
grado degli altri corpi; aveva il mitra e la rivoltella, una Beretta, che col
moschetto 91 costituiva anche l’armamento della truppa. Era l’unica cosa di
cui potessero vantarsi; per il resto erano un armata già votata alla
distruzione. Non riusciva a capire perché mancassero anche della minima
dotazione di servizi; è vero che il loro era un impiego mordi e fuggi, un
lavoro diverso che non richiedeva quella organizzazione di sussistenza dei
reparti che combattevano a terra, ma trovarsi ad essere trasportati su camion
di altri corpi provocava mal celati dubbi.
A fine Agosto 1942, la divisione, ritornata al vecchio nome Folgore, era
schierata sul fianco destro della linea di El Alamein, a lato della
depressione di El Qattara. Già dalle prime scaramucce, nella zona di nessuno,
aveva dimostrato con colpi di mano, incursioni, di essere padrona del
territorio. Nei primi veri scontri aveva causato al nemico danni notevoli in
mezzi ed uomini. Ugo aveva visto morire i primi compagni, mai sulla difensiva,
ma sempre pronti a ripartire all’assalto dei più forti avversari. Il vero
problema, ed Ugo se ne rendeva conto, era che erano poveri: niente automezzi,
ambulanze, trasporti acqua, artiglieria pesante che poi fu prestata da altri
corpi, carri armati.
Insomma 5000/6000 uomini contro 50/60000 alleati ben addestrati, riforniti,
con 400 tanks, centinaia di cannoni e automezzi di sussistenza. I carri armati
non erano un problema; Ugo, e con lui i compagni , pensava che dentro c’erano
sempre degli uomini, che una bomba, una fiammata li avrebbe spaventati. Non
potevano costituire un pericolo. I problemi nascevano dalla mancanza d’acqua,
di cibo, dalla dissenteria che falcidiava i reparti.
Per giorni gli alleati preceduti da fuoco di artiglieria, appoggiati da
centinaia di carri, cercarono di sfondare nella zona della Folgore. Alcuni
centri di fuoco furono persi ma poi ripresi; ogni volta i paracadutisti, se è
giusto chiamarli ancora così, partivano al contrassalto, colpendo carri,
catturando prigionieri. Ugo vide un generale inglese, appena vinto, che
guardava ammirato quegli uomini, le sentinelle che con fare marziale,
scrutavano l’orizzonte. Lo udì chiedere al generale Frattini di che Corpo
fossero; “ la Folgore” rispose. L’ufficiale annuì, quasi avesse avuto una
conferma. Ad Ugo vennero i lucciconi; era già con i suoi compagni, nella
storia. Lo sapranno dopo vent’anni quando i tre battaglioni saranno decorati
con medaglia d’oro; il Corpo più decorato d’Italia per un singolo fatto
d’arme.
Dopo giorni di assalti gli inglesi cessarono gli attacchi. Quella sparuta
pattuglia, al battesimo del fuoco, aveva fermato, sconfitto, un’armata dieci
volte superiore. I paracadutisti non si fermarono; cominciarono a riattare,
rinforzare le difese. Da relitti di mezzi inglesi colpiti, avevano assemblato
un ambulanza, una decina di camion ed un auto per il comandante. Privi di
comunicazioni non sapevano che il nemico aveva attaccato e sfondato al centro;
erano isolati.
Era contento Ugo, la sua personalità si era rafforzata; nella lotta aspra, nel
dolore della perdita di tanti amici aveva compreso valori diversi. La vita non
era un gioco, ma una lotta nella quale la fortuna serve, ma spesso gioca
sporco. Arrivò, con 24 ore di ritardo, l’ordine di ripiegamento. Erano 25 km a
piedi, diventati poi 80, in pieno deserto, trascinando gli anticarro 47/32 e
le munizioni. Lasciarono alcuni uomini di retroguardia, per ingannare gli
inglesi, che per un giorno non si avvidero della scomparsa del nemico. Ugo
comandava ormai un plotone ridotto, incitava gli uomini, ma la penuria
d’acqua, la stanchezza, assottigliavano le file. Gli inglesi, automontati, con
i carri armati erano partiti all’inseguimento.
Li raggiunsero presto, ma si tenevano a rispettosa distanza; troppo fresco era
il ricordo dei colpi che gli uomini della Folgore avevano loro inferto.
Lentamente, col terminare delle munizioni i pezzi venivano abbandonati,
rendendoli inutilizzabili. Gli inglesi non ne avrebbero avuto, lo stesso,
bisogno. Rimase solo un anticarro, che di retroguardia, minacciava, invano, le
avanguardie nemiche, vogliose più di vedere l’esito della ritirata che di
combattere. Ugo era rimasto indietro; colpito dalla dissenteria, disidratato,
stremato, si era allontanato piano piano dal gruppo. Prima con altri e poi
sempre più solo. Lo raccolse, ormai senza forze, uno dei pochi automezzi
italiani non requisiti dal valoroso alleato; fu un caso. La fortuna l’aveva
ancora una volta aiutato.
Il cerchio si chiuse sui superstiti. Erano circondati dagli inglesi, intorno i
tanks con i cannoni abbassati, e senza munizioni, acqua e viveri. Il
comandante, Tenente Colonnello Camosso propose la resa; gli uomini
rifiutarono. Piangendo risposero che avevano ancora le bombe a mano. I
comandanti schierarono la truppa su due file e la presentarono al Colonnello.
Ebbero l’onore delle armi. Il Generale Enrico Frattini, accompagnato col suo
vice, in auto, dal comandante inglese si vide porgere la mano; rifiutò la
stretta.
Intanto Ugo, ricoverato in vari ospedali delle retrovie, ritrovava lentamente
le forze. Seguì la marea di uomini che cercava di sfuggire all’avanzata
alleata. Si trovò a Tunisi, ultimo baluardo difensivo dell’Asse. Fu costituito
anche un battaglione di 250 paracadutisti, provenienti per lo più dagli
ospedali, per tentare l’estrema resistenza; fra loro Ugo. Lo spirito sempre
alto, ma nella consapevolezza che il dovere non era bastato, che troppi
avevano congiurato contro quella che fu definita la più bella divisione del
mondo. Non solo il nemico, che le aveva reso onore, anche in Parlamento, ma
soprattutto chi, invece, doveva sostenerla. Si trovò, con altri compagni, in
una buca. Sapeva a memoria come comportarsi, cosa dire agli altri. Arrivarono
gli inglesi, in massa, come al solito. La fantasia non era il loro pane; erano
coraggiosi, preparati, ma avanzavano sempre come nella prima guerra mondiale.
Ugo sparò le restanti cartucce. Con l’ultima colpì un inglese che correva,
baionetta in canna, verso di lui. Non aveva più i mezzi per combattere; uscì
dalla buca, senza fucile, ma senza alzare le mani: non era stato vinto. Una
pallottola lo sfiorò e fu subito preso prigioniero. L’intransigente,
assolutistico spirito di Corpo, quello che animava Frattini, i suoi compagni
nel deserto, tutta la Folgore al momento di una resa che era però una
vittoria, l’aveva risparmiato. Fu avviato, come tanti, al campo di
concentramento.
Gli restò, in quegli anni il ricordo del proprio dovere, di una lotta impari,
delle dichiarazioni di Churchill, della BBC; il ricordo di molti compagni
dimenticati dalla politica, ma non da loro; per un giorno soldati di fanteria,
ma sempre paracadutisti della Folgore. Sandro Santini
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