PICCOLE STORIE DIARI MINIMI 

Con i bersaglieri d'Italia
(Dal nostro inviato speciale al fronte)

ZONA DI GUERRA


Cari amici, ieri ho assistito alla consegna delle medaglie decretate per concessione immediata alla prima Brigata bersaglieri. Per concessione immediata vuol dire che le ricompense al valore non si sono fatte aspettare, questa volta. E lo non sono che un soldato semplice, ma dico che è meglio cosi; meglio essere premiati subito, quando sono recenti i fatti pei quali si è meritato l'encomio o la medaglia. Alla distanza di sei mesi o di dieci, tutto è passato; qualcuno è morto in altri combattimenti; altri hanno cambiato unità; non ci si ritrova più come si era in quel giorno. Io, per mio conto, se mai arrivassi a questo altissimo onore, vorrei essere decorato subito, sul campo, nel momento più bello, quando ci si sente veramente orgogliosi di quel che si è compiuto. Allora una parola del vostro superiore, un suo « bravo », un suo gesto di …. paterna confidenza, una sua stretta di mano, un suo abbraccio vi compensano in un solo istante di ciò che avete sofferto in mesi e mesi di pericoli, di fatiche e di tormenti di guerra. Ho passato sei mesi anch'io in un reggimento di fanteria, e so che cosa sia l'ubriacatura di una giornata di combattimento fortunata e gloriosa, quando si è disposti a dare, tutto per niente, quando si pensa solo a vincere, a fare onore al .proprio reggimento, alla brigata. Il premio che tocca a uno dei vostri compagni pare anche vostro, la medaglia che sarà data alla bandiera é di tutti, si è una famiglia sola, dalla quale non si vorrebbe uscire più. Neanche i morti se ne vanno via; anzi, sono quelli che più restano fra noi, con noi. Poveri morti. Senza il loro sacrificio, noi stessi non avremmo potuto avanzare, non avremmo occupato quella tal posizione, forse non si parlerebbe di noi. Io delle volte penso che tutti gli onori dovrebbero essere riservati ai caduti : eppure quanti valorosi ho veduti fra quelli che sono sopravvissuti; quanto spesso la fortuna premia i più audaci, i più temerari, coloro che vanno sempre avanti, e buttandosi a corpo morto addosso al nemico, trovano la vittoria e la salvezza Ieri dunque andammo ad assistere a una di queste cerimonie di consegna di medaglie al valor militare, meritate da vivi ch'erano presenti, da caduti che riposano qua e là nelle tombe di uno o di altro cimitero, e da feriti e ammalati che ancora giacciono all'ospedale.
La cerimonia era per le undici del mattino e, manco ad averlo ordinato, c'era fuori il sole. Un cielo azzurro, d’inverno, che splendeva sui campi: per la cerimonia era stata scelta una specie di brughiera tutta gialla, con l'erba bruciata dal freddo, con fossatelli dove scorre l'acqua tutto l'anno, con alberi di gelso in lunghe file che adesso sono scapitozzati e neri, ma buttano già i nuovi ramicelli lunghi, sottili, elastici con sopra i nodi delle gemme, d'un color bruno dorato, ancora piccoli e duri, come semi. Li ho visti bene perché per assistere più comodo allo spettacolo mi sono scelto un posto su uno di quegli alberi, e avevo davanti a me il quadrato delle truppe, coi comandanti di battaglione e di reggimento che andavano e venivano a cavallo, nel mezzo, e davano gli ultimi ordini, le ultime disposizioni. Le truppe portavano l'elmetto, con un ciuffo di quattro o cinque piume ricascante alla destra. Ormai l'elmetto è diventato popolare. Nei primi tempi i nostri soldati non ne volevano sapere. Lo portavano di malavoglia, lo perdevano, lo buttavano via. Non ci credevano. A poco a poco hanno capito che è utile; all'elmetto tanti debbono la vita: ripara la testa dalle pallottole sbiecate e specialmente dai sassi. Quando scoppia un colpo, specialmente sul Carso che è tutta una pietra, si fa una volata di sassi: l'acciaio dall'elmetto risparmia tante vittime. Cosi il cappello piumato è passato di moda: non c'era che un piccolo nucleo di complementi e da poco arrivati, e che assistevano anch'essi alla cerimonia, che lo portavano in capo. Ma sull'elmo è rimasto, come il segno di un ricordo che non si cancella. I soldati erano senza cappotto, lindi in tenuta da combattimento, disposti per compagnia su quattro righe, coi comandi fuori linea. Tre lati erano formati dai vecchi della Brigata, il quarto era chiuso dal battaglione delle reclute.
Il colonnello Ceccherini, un prode di tutte le nostre guerre, col petto addirittura coperto di nastrini. montato su un cavallo baio, presentò le truppe al comandante di Brigata, generale Montanari. I due comandanti si andarono incontro a cavallo tenendo la mano alla visiera dell'elmetto, in segno di saluto l'uno all'altro. Poi il generale fece al passo il giro dell'ampio quadrato, per rivedere e salutare i suoi buoni amici di questo e di quel battaglione. C'era anche il tenente-colonnello Agnesi. che adesso ha preso degnamente il posto del prode colonnello Coralli. Alle 11,15 giunsero due rappresentanti dell'esercito inglese, che dovevano assistere alla cerimonia di consegna: il generale Radcliffe e il colonnello Gabriel. Arrivarono in automobile ed entrarono nel quadrato a piedi, con le divise color kaki, che spiccavano sulle nostre linee grigio-verdi. La Brigata presentò le armi. Chi doveva distribuire le medaglie era il generale di Brigata, insignito giorni orsono da S. A. R. il Duca d'Aosta della medaglia d'argento al v.m. con questa motivazione:

“Comandante di Brigata, durante un bombardamento delle posizioni tolte il giorno innanzi dai suol soldati al nemico, si portava in prima linea in mezzo alle truppe, e coll'esempio infondeva ad esse suprema tenacia, cosi da mantenerle sulle posizioni stesse, nonostante le gravi perdite. Ferito, non abbandonava il posto e continuava a tenere il comando anche nei giorni successivi».
Il generale, a cavallo nel mezzo delle sue truppe, fece il discorso di rito, a voce alta e squillante, che risuonava in aperta campagna come in una sala. Disse che il bel sole d'Italia aveva voluto arridere alla solennità della festa, alla quale prendeva parte tutta la sua bella Brigata: truppe che ricordavano le vette della Carola tenacemente difese, la conca di Plezzo insanguinata (zona della II armata), e le conquistate alture del Veliki Hribach, del Pecinka e di quota 308. « La mia Brigata - aggiunse il generale - già ebbe il 13 settembre, sulla linea di Versa, il saluto augusto di S. A. R. il Duca d'Aosta, che la nominò magnifica e gloriosa, e disse che la Brigata, come egli l'aveva veduta, gli recava tale onda di sangue giovanile e generoso da renderlo fiero di riceverla nella sua III Armata. Egli vi chiamò soldati magnifici, stupendi. Il vostro generale cosi allora rispose: Altezza Reale! grazie dell'onore e della fiducia. Per la Patria e per il Re, per l'Italia e pei Savoia, siamo pronti a tutto dare, per la vita e per la morte ». Bersaglieri della prima Brigata, questo fu il nostro giuramento di Versa. E le prove vennero presto. Il 12 ottobre sulla quota 265 fu dato mirabile esempio di tenacia e di resistenza, e fu meraviglioso l'attacco che deste uscendo tutti all'aperto, sotto il fuoco del cannoni, delle mitragliatrici e dei fucili nemici. Quello per la Brigata non poté essere il giorno della vittoria, fu della Morte. Ma voi attendeste la vostra ora. Nei giorni 1, 2, 3 novembre a quota 308, con slancio, tenacia resistenza, impavidi sotto il fuoco più violento, affratellandosi i capi e gli umili soldati, salutammo l'ora della vittoria. E voi ricordate il Vipacco dove furono date prove di fermezza mirabile nella lotta contro il fango, contro la pioggia. Ed oggi abbiamo l'alto onore di potere, uniti nello spirito, onorare i compagni che abbiamo lasciati per la via, e quelli che mi duole non veder qui presenti, ammalati e feriti negli ospedali. Altre ricompense per quei giorni memorandi seguono la via regolare. Oggi ricordiamo i prodi che diedero tutto se stessi negli assalti del Pecinka e di quota 308, che caddero nel buio e nel fango, illuminati dalla gloria del sacrificio. Né io dimenticherò mai tutti gli oscuri e valorosi miei bersaglieri, i poveri feriti, dilaniati, i veri avanzi umani che vidi a terra intorno a me e che onorai commosso fra i quali ricordo ora in vostro cospetto quel caporale Merli, che su quota 265, troncate ambedue le gambe, impugnandone una. si rivolse a quelli che passavano. e, poco prima di morire, esclamò: “ Ecco le mie gambe, ma voi che le avete, andate avanti!”.
Severino Merli nasce a Poggio Renatico (FE) il 28 luglio 1891. Alla chiamata di leva del 1911 viene destinato al 5° reggimento dove resta fino al 1914, congedandosi col grado di Sergente. Emigrato in Calabria, nell'agro cosentino, allo scoppio della guerra viene richiamato al 12° Reggimento, XXXVI Battaglione. Impegnato da subito sul Mrzli (Sleme) si distinse per la promozione a sergente maggiore. Nel mese di luglio venne trasferito al 7° guadagnandosi una medaglia di bronzo al S. Michele per aver condotto il reparto all'attacco in mancanza di ufficiali. Il suo carisma nei confronti dei bersaglieri valeva l'impegno che questi per lui profondevano in ogni circostanza difficile. Tutti lo seguivano, e lo seguirono anche il 12 ottobre 1916 quando sul Carso al Veliki Hribach si tentò un'azione diversiva per facilitare la conquista del S. Marco a Gorizia. Nella fase più cruenta dell'attacco una granata gli spezzò entrambe le gambe. Motivo del conferimento: Costante esempio di coraggio ed altissimo sentimento del dovere, sapeva infondere nei dipendenti lo slancio ed il vigore offensivo che lo animavano. Avute le gambe asportate da una granata nemica, con eccezionale forza d’animo e cosciente sublime spirito di sacrificio, chiedeva di non essere trasportato al posto di medicazione, dicendosi lieto di morire per la Patria sul campo di battaglia, in mezzo ai suoi soldati. Fino agli ultimi istanti incitò i dipendenti a perseverare nella lotta e spirò dopo aver gridato - Viva l’Italia !. Veliki - Hriback, 12 ottobre 1916.
Voi tutti, miei prodi, che moriste alla vita, rinasceste alla gloria. Ed ora ai vivi!. Dopo di che cominciò la consegna delle medaglie. Leggerete sul giornale l'elenco del premiati e le belle motivazioni. La scena della premiazione, quando i comandanti di reggimento e i premiandi accorsero tutti attorno al generale di brigata, da tre lati dal quadrato, come uno stormo, fu bella e commovente. Nel campo c'erano alcuni operatori cinematografici del Comando Supremo, che ritrassero la scena. Potrete vederla anche voi in …., come l'ho veduta io dall'alto del mio albero c'erano parecchi giornalisti che prendevano appunti…
Quando la cerimonia fu finita, le truppe sfilarono a passo di corsa davanti al generale e ai due ufficiali inglesi; e gli operatori misero la macchina sull'automobile e dall'alto presero anche alcuni momenti di questo spettacolo. Le fanfare suonarono, quelle migliaia di uomini durarono più di mezz'ora a sfilare, Io m'ero messo a un .lato della strada per vederli passare. E confesso che mi sentii commosso. Sono qui da tanti mesi, ne ho visto tante, che certe volte ho paura di ritrovarmi il cuore indurito. Poi mi accorgo che non è vero, e questo mi fa un gran piacere. Ci sono nella guerra degli spettacoli terribili, atrocità che non so perché, in certi determinati istanti non vi commuovono, pare non'vi tocchino. Li guardate con gli occhi e passate oltre. Dentro, non vi sentite nulla; e sono scene da piangere. Dipende dal momento, dalle circostanze, dalla vostra stessa posizione e occupazione: se siete preso anche voi nella morsa di ferro, non vi commovete più per gli altri, per la sorte degli altri. Ma ci sono altri spettacoli, che paiono da niente, nei quali non c'è nulla di singolare, di strano; eppure a un tratto, non sapete perché, quello stato d'animo indefinibile profondo che è la commozione vi sorprende. Vi accorgete di avere la gola stretta, le pupilla umide, state per piangere come un bambino. Cari amici, è un fatto che non si spiega; è un momento che non si racconta. Dipende dal chi sa che. Io lo provai ieri durante lo sfilamento, e vi spiegherò. Dapprima mi ero messo alla destra della lunga colonna che sfilava al passo di corsa. Come i generali erano alla sinistra, i comandanti, man mano che le truppe giungevano a quel punto, davano con voce alta l’attenti a sinistra. E tutte le facce si rivolgevano dalla parte dove io non ero. Non vedevo che le nuche. Quando potei passare dall'altra parte, sull'altro margine della strada, fu una cosa stranissima. Vidi tutti i volti, tutti gli occhi, tutte le teste che di fila in fila man mano che giungevano - si voltavano e si fissavano sul generale che teneva la destra alla visiera. Tutti i volgevano, automaticamente, per l'ordine ricevuto: quei quattro, poi gli altri quattro, e gli altri e gli altri, e via, tutti cosi: centinaia di uomini- migliaia di uomini, giovani, i più anziani, alcuni che erano belli, altri che non lo erano, alcuni che erano agili, altri che passavano di corsa con qualche stento, sudati, un po' grevi. Ma tutti ubbidivano, tutti facevano lo stesso gesto: e questo per una parola lanciata dal comandante della compagnia. Tutti correvano, tutti sì volgevano, tutti erano una cosa sola. Nessuno nelle file aveva più volontà propria, nessuno pensava, tutti erano nella voce, nella volontà di uno solo. Amici, io non riesco a spiegarmi bene; ma questo è un fatto enorme, questa è la disciplina, questo à l'esercito, questo è la guerra.. Questa, voglio io dire, è la vita. Sono pochi che pensano, che danno il comando: gli altri vanno dietro, ubbidiscono. Erano migliaia di uomini: ognuno ha la sua famiglia, ognuno ha una vita che gli è cara; ognuno sente col proprio cuore, pensa con la propria testa. Ma quando si è li, non si conta più niente: si è una piccola parte di un gran tutto: si è un atomo di un gran corpo che ha nome battaglione, o reggimento, o brigata, poi divisione, poi Corpo d'armata, armata, esercito, nazione. Questo perdersi di ognuno nell'immensità del tutto, questo ubbidire a un cenno, a una parola sola di centinaia e migliaia di volontà, di vite, di anime, è un fatto che vi prende, vi commuove, vi fa piangere, E vi dirò di più. Guardando quella sfilata rapida, bella, quel movimento ordinato, in cui vedevate quattro facce alla volta, io che vedevo una colonna sola che empiva la strada, una successione di elmetti, di fucili, non vi potevano sfuggire le differenze profonde fra uomo e uomo, tra soldato e soldato. Come dicevo, ce n'eran dei giovani, ce n'era qualcuno sui trent'anni, ce n'era di quelli che avreste giurato erano contadini: ebbene tutte queste differenze non avevano importanza; andavano avanti tutti lo stesso: erano tutti presi. In una corrente gioia, erano le righe che contavano, erano i plotoni, le compagnie, ecc. Come non pensare che in guerra sia lo stesso. Che gli uomini vanno avanti a masse, ad ondate, a reparti, per effetto di una suggestione che non si può spiegare, che non si può capire da chi non ha veduto. (17.01.1917) La Stampa - numero 17 Pagina 1
 

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