Si ringrazia il C.I.S.V.A
(CENTRO INTERUNIVERSITARIO INTERNAZIONALE DI STUDI SUL VIAGGIO ADRIATICO)
nella persona della sua
direttrice Prof. Giovanna Scianatico per aver concesso l'uso del testo
…..« Fratelli d'Italia » e mille mani afferravano le nostre. «
Figlioli » e le madri toccavano le nostre spalle madide di salsedine e poi si
facevano il segno della croce. « Liberatori...» e belle bocche s'imprimevano
sulle nostre bocche. « Soldati che avete vinto la nostra guerra... » e fiori
di bambini s'attaccavano con le manine protese alle nostre bandoliere e alle
nostre cinture. Poi ci siamo visti salutare in perfetta posizione d'attenti,
con uno scatto d'amore e di rispetto, da soldati italiani pallidi e consunti
che non avevamo portati con noi. Erano venuti a piedi da Klagenfurt, da
Lubiana, dai campi di concentramento della Croazia, fin dalla lontana Ungheria
e sono giunti chissà per quali vie, chissà con quanti patimenti, in tempo per
riceverci ed accoglierci con sguardi che dilaniavano le fibre del nostro
cuore. Altri soldati, dissimili da loro, ma stanchi, laceri e pallidi come
loro, s'aggiravano a frotte stasera in questa tumultuante città, curvi sotto
il peso del sacco gonfio legato alle spalle, più curvi sotto un peso più greve
che non si vedeva, ma si leggeva negli occhi smarriti: erano i nemici vinti,
arrivati fin qua dal Friuli, dal Tagliamento, dall'Isonzo nella precipitosa
ritirata; travolti fin qui dalla marea arretrante, senza più ordine né
direzione né orientamento né mèta. Sono ancora nemici, ma non hanno più anima;
alcuni portavano il, fucile a tracolla, ma trascinandolo come un peso inutile
forse senza sapere neppure essi il perchè.
I nostri prigionieri scampati di prigionia, i nostri avversarci sospinti dalla
disfatta si mescolavano e s'incrociavano senza che la promiscuità più li
stupisse. Gli uni e gli altri ci hanno visti arrivare con animo diverso, ma
con aria di sbalordimento uguale : essi soli silenziosi in mezzo al generale
frastuono.
C'è qualche cosa d'assurdo, stasera, a Trieste...
Cinque giorni fa, oltre le linee del Piave, udivo ancora i concentramenti di
fuoco delle artiglierie austro-ungariche abbattersi con rabbia contro gli
ammassamenti delle nostre truppe all'attacco ; ancora gli aeroplani crociati
di nero bombardavano le nostre batterie galleggianti... Ed ecco che stanotte
le mie finestre aperte in faccia ai moli di San Carlo — dove fremono ancora
per l'ansito della corsa le navi italiane, — echeggiano del canto degl'inni
nazionali cantati da centomila bocche non avvezze a lanciarli impunemente a
gola spiegata, in faccia al mare di Venezia, ai piedi di San Giusto.
Ma che cosa sono, che cosa ho fatto di bene nel mondo, perchè Dio mi desse
questa giornata che generazioni e generazioni d'italiani hanno atteso invano,
soffrendo il martirio, mentre stasera 1'Ermada così torvo e fosco ricorda a
tutti noi che i più prodi di noi giacciono dietro quella muraglia affocata
ch'eravamo abituati a veder sempre, terribile, irraggiungibile, dall'altra
parte?. Mentre le lagune di Cortellazzo e di Sdobba che abbiamo intraviste
nella nebbia dall'alto delle prue vittoriose, passando, chiudono nelle loro
marcite sinistre i corpi che s'avventarono alla morte per veder questa
giornata, né chiedevano altro premio ?
Ciò che altri, senza la nostra fede, avrebbe creduto inverosimile, è vero. La
speranza di ieri, è un fatto. Come il cervello d'un uomo può in questo
momento, in questo luogo, in questa prima notte italiana riassumerlo ?. Anche
la gioia umana ha un limite ; anche la commozione ha un limite. Al di là, la
memoria vacilla. E poiché ho il compito di descrivere la spedizione navale che
ha sciolto il voto seicentenario dei connazionali dell'altra sponda, non posso
che trascrivere le mie note di viaggio.
Venezia, ore 5. — Le torpediniere, i caccia, i trasporti, fumano nella
notte nebbiosa che ancora non schiarisce nell'alba. Eruttano vulcani di nafta
incombusta che avvolgono la città d'una caligine nera. I « Mas » fremono nel
buio. Bagliori e faville di caldaie che s'accendono. I bersaglieri del
generale Coralli — i bersaglieri dell'Ermada — s'imbarcano. I carabinieri
s'imbarcano. I marinai in grigio-verde (Fanteria Marina S. Marco) s'imbarcano. Calpestio di scarpe
ferrate, battiti di fucili sulla pietra, tintinnii di mitragliatrici portate a
spalla. Un mormorio dovunque; dovunque lo stesso nome — Trieste — sussurrato
come una preghiera.
Le navi onerarie ricevono gli ultimi carichi di viveri e munizioni. La Marina
ha dovuto operare, in poche ore, uno sforzo immenso. La vittoria ha dato agli
avvenimenti un ritmo così precipitato, che qualunque previsione è stata
oltrepassata e sconvolta. Ieri l'altro, a quest'ora, nessuno poteva immaginare
né imminente né vicina la spedizione che sta per salpare alla santa mèta. Fra
ieri e stanotte è stata decisa, apparecchiata, fornita. Alle sei si deve
partire col primo convoglio. Alle cinque e mezzo il convoglio è pronto.
Ore 6. — Usciamo dagli sbarramenti. Il corteo è immenso. E' una lunga fila di
navi che si perde nel grigio dell'alba nuvolosa. Il mare è in bonaccia. Sciami
di siluranti vanno e vengono, incrociando a varie velocità lungo i fianchi del
convoglio. Siluranti in testa. Siluranti in coda. I Mas, i cavalleggeri del
mare, partono rombando con scatti fulminei, esplorano contro possibili insidie
le acque all'orizzonte. Siamo ancora in piena guerra. Nessun sentore
d'armistizio. Il nemico è in ritirata dal Tagliamento ; ma non vorrà tentare
la difesa estrema del suo grande sbocco in Adriatico ? E' quello che vedremo
quest'oggi....Sorpassiamo la torpediniera fino a ieri l'altro austriaca, la
«T. B. 3 » della Kriegsmarine», sulla quale imbarcarono i delegati del
Comitato di Salute pubblica triestino, quando vennero a dirci che la città
s'era riscattata dall'antico regime, che I'esercito imperiale, rotto dal colpo
italiano, era impotente a difendere la sua preda secolare. Chiedevano il
nostro aiuto, la nostra bandiera, i nostri soldati. Ci chiedevano difesa,
ordine, nutrimento. Accorriamo. Ma che avviene dunque a Trieste perchè noi
v'accorriamo con questa fretta guardinga? Una cosa semplice e maravigliosa:
Trieste ha fatto la rivoluzione. Da tre giorni s'è proclamata italiana. Appena
ha saputo che il nostro esercito, sui monti ed in pianura, inseguiva il nemico
in rotta, il popolo triestino è insorto, sicuro dell'appoggio della nostra
vittoria. Mercoledì 30 ottobre, dopo mezzogiorno, dal Caffè degli Specchi usci
fuori all'improvviso uno stormo di giovani. Spettacolo inaudito : portavano
spiegata una bandiera tricolore. Fu la scintilla che accese la fiammata. In un
attimo, Piazza grande ed il Corso si vestirono di vessilli bianco-rosso-verdi.
Tele cucite alla meglio nel momento, pezzi di carta colorata incollati
insieme, lenzuoli tinti di fresco. Alle prime grida di Viva l'Italia, le
strade s'empirono di folla plaudente, decisa a tutto. — L'ora è scoccata ! Il
Governo austriaco è decaduto per sempre ! »
C'erano migliaia di soldati austriaci e bosniaci, nelle Caserme. La polizia
era al completo. Il barone stava al suo posto, al Palazzo della Luogotenenza.
Intervennero; ma inutilmente. Polizia e soldati scesero nelle strade,
tentarono di strappare le prime bandiere, di disperdere ed arrestare i
dimostranti. Questi reagirono. Nelle colluttazioni, i poliziotti furono
sopraffatti. Gli arrestati vennero liberati a furia di popolo. Una voce sorse
dalla folla e dominò le altre: « La bandiera sulla torre del Comune ! » E la
bandiera fu issata sulla torre, in mezzo al delirio di decine di migliaia di
triestini, quasi in faccia alle finestre del Governatore.
Poi i dimostranti si recavano in Via della Sanità ad acclamare il loro antico
podestà, l'avvocato Valerio, destituito ed internato dall'Austria allo scoppio
della guerra, da poco ritornato alla città natale. Grida unanimi: — Viva il
primo sindaco della città redenta ! — L'ex-podestà s'è affacciato, ha parlato
ai concittadini, ha ringraziato dell'augurio, ha proclamato Trieste libera di
rientrare nella grande famiglia italiana. Il campanone di San Giusto chiamava
frattanto il popolo alla riscossa. Il Fascio nazionale italiano si riuniva
d'urgenza; e, con una rappresentanza del partito socialista, creava un
Comitato di Salute pubblica, sotto la presidenza d'Alfonso Valerio: dodici
italiani nazionali e dodici italiani socialisti, ai quali sono stati aggiunti
più tardi quattro delegati slavi.
Il Comitato di Salute pubblica, appena costituito, si reca dal Luogotenente e
gli comunica d'aver proclamato la decadenza dell'Austria dalle terre italiane
adriatiche; perciò intende assumere il governo della cosa pubblica. Durante il
colloquio, una moltitudine immensa, stipata nella gran piazza, fa comprendere
al barone Fries Skene che ogni resistenza è inutile. Il Luogotenente s'è
limitato allora ad informare a Vienna il Presidente del Consiglio Lammasch di
quanto accadeva ; poi — impotente a fronteggiare la situazione — ha
abbandonato il suo posto ed è partito per Graz. L'Ammiragliato, andandosene,
consegna le navi da guerra al Consiglio nazionale iugo-slavo. Cessione in
articulo mortis.
L'ingegner Forti e il socialista Passigli, membri del Comitato, arringando la
folla da un'automobile, le lanciano la notizia che Trieste non appartiene più
all'Impero. Scoppio d'evviva all'Italia. 1I Comitato siede d'ora in poi in
permanenza, assume i servizi ferroviari, proibisce ogni partenza di treni
trasportanti viveri, requisisce i depositi di cereali, fa liberare i detenuti
politici, scioglie dal giuramento all'Austria le guardie di pubblica sicurezza
e le passa agli ordini dei Commissari civili. Centinaia di cittadini si
costituiscono in guardia nazionale e cominciano subito a reprimere tentativi
di disordini e di saccheggi, provocati dai teppisti che s'illudono di non
trovare ancora riorganizzato l'ordine pubblico. Tutta la notte le donne
lavorano a fabbricare, con ogni sorta di stoffe e di carta, bandiere italiane.
Al mattino dipoi la città è pavesata di tricolori. II Comitato s'insedia nel
Palazzo della Luogotenenza. Piazza Grande è ribattezzata u Piazza Italia ».
Nel giardino di essa, il gigantesco marinaio di legno che l'Austria aveva
innalzato, costringendo la cittadinanza ed i ragazzi delle scuole a piantarvi
chiodi di ferro e chiodi d'argento ogni volta che l'Impero credeva di
propiziarsi la Vittoria, è rovesciato, schiantato, abbruciato fra il giubilo
della popolazione. I busti e i ritratti imperiali, le aquile bicipiti, i segni
dell'antico dominio, vengono dovunque abbattuti e distrutti.
Ma la città non può sentirsi sicura. I suoi dintorni sono pieni di truppe
austro-ungariche in ritirata. Gruppi di prigionieri russi e serbi assalgono i
vagoni delle derrate. Incidenti sorgono qua e là, a mano armata, fra soldati,
cittadini e guardie nazionali. Alla periferia, nei dintorni delle Caserme, i
tafferugli e le fucilate sono frequenti. E, quel che è peggio, la città è
isolata dal mondo... Allora il Comitato di salute pubblica chiede alla
rappresentanza iugo-slava, rimasta erede delle pavida guerra, di potere usare
la radiotelegrafia ed una torpediniera, per entrare in comunicazione con
l'Italia. Gli iugoslavi discutono e tergiversano un poco, poi acconsentono. Da
Trieste, la sera del 31 ottobre (Giovedi), parte per Venezia questo radiotelegramma: «II
Comitato di Salute Pubblica di Trieste, vista la gravissima situazione della
città, manderà domattina 1 novembre una torpediniera del Comitato Nazionale
jugo-slavo per parlamentare con la flotta dell'Intesa. Preghiamo di venirci
incontro all'altezza di Caorle»
L'ammiraglio Marzolo, comandante in capo della piazza marittima di Venezia,
invia questa risposta: «Sta bene».
Alle nove di venerdì 1 novembre la torpediniera ex-austro-ungarica «T. B. 3» è avvistata
fuori Càorle dalla squadriglia di torpediniere del comandante Almagià, partita
da Venezia al mattino per incontrarla. La nostra « 1 P. N. » s'avvicina alla «
T. B. 3 », che issa tre bandiere: una italiana, una bianca e una jugo-slava.
E' comandata dal tenente Pierpaolo Vucetic. Porta a bordo tre parlamentari del
Comitato triestino: Marco Samaia, rappresentante degl'italiani nazionali;
Alfredo Canini, rappresentante degl'italiani socialisti; e Giuseppe Ferfolja,
rappresentante degli slavi.
La « T. B. 3 » è scortata fino a Venezia dalle nostre siluranti ed è fatta
fermare all'imboccatura del porto di Lido, fuori degli sbarramenti. Un nostro
motoscafo, con a bordo il capitano di vascello Rota, esce dalle ostruzioni,
accosta alla torpediniera battente tre bandiere e riceve i parlamentari. Alle
una e mezza del pomeriggio i delegati triestini giungono all'Arsenale di
Venezia, dove sono immediatamente ricevuti dall'ammiraglio Marzolo. Il
colloquio dura due ore. Mentre la conversazione si svolge, arriva davanti a
Venezia una piccola nave mercantile, l'Istria del Lloyd, sulla quale sono
imbarcati il dottor Jacchia ed altri tre cittadini di Fiume, i quali
annunziano che anche Fiume s'è ribellata al dominio austriaco, ha cacciato i
rappresentanti imperiali ed invoca l'intervento della Marina italiana.
Ndr: La
mattina del 1 novembre 1918 (festa di Tutti i santi)) il 39° battaglione
dell'11° reggimento bersaglieri era accampato a Sala di Campagna di Treviso.
Dopo il rancio della mattina e la Messa, arrivò l'ordine di marcia.
Incolonnati sui lati della strada i bersaglieri si trasferirono in stazione a
Treviso. Da li con una tradotta si portarono allo scalo marittimo di Venezia.
Il segreto della destinazione stava cedendo e sempre più spesso si sentiva
dire che la meta era Trieste. Alloggiati in un capannone fino alle 17 del
giorno 2 ebbero anche il tempo di fare una passeggiata in città. Sulla far
della sera vennero imbarcati con un altro battaglione bersaglieri, il 10° del
7° reggimento, su due trasporti scortati (cacciatorpediniere Audace) che
fecero rotta lungo la costa. In mare c'erano ancora molte mine e si doveva
fare molta attenzione.
L'ammiraglio Marzolo parte in serata per il Comando Supremo
e ne ritorna nella notte. All'indomani, 2 novembre sabato, si sparge a Venezia la
voce che una spedizione navale per l'occupazione di Trieste, è imminente.
L'arrivo della seconda Brigata bersaglieri (7° e 11° Rgt) e l'allestimento
improvviso di compagnie di marinai da sbarco ne costituiscono l'esplicita
conferma. La sera del 2 novembre, riceviamo infatti l'ordine d'imbarco per la
notte.
Ed eccoci ora, sulle siluranti di scorta, in rotta per l'altra sponda. Non è
un sogno ?
Ore 9. — Ci manca il sole, stamane; ma il sole è nell'anima. Già l'impazienza
ci fa soffrire. Non possiamo navigare con tutta la velocità delle nostre
macchine e del nostro desiderio, perchè l'alto Adriatico è cosparso di mine.
La torpediniera sulla quale m'ha accolto il capitano di vascello Vaccaneo,
comandante delle siluranti e della spedizione, incrocia continuamente, ad
alta velocità, innanzi e indietro, attorno alla formazione immensa ; immensa
anche perchè 1'e acque insidiate, sulle quali procediamo con ogni cautela,
hanno reso necessario scartare dalla spedizione i piroscafi di gran
tonnellaggio, troppo facilmente vulnerabili, in questo mare basso, dalle armi
subacquee.
Una pioggerella fine e viscosa avvolge d'un nuovo velario il convoglio.
Vedette di coffa, vedette di prora, attenzione ! Voi portate, non migliaia
d'uomini soltanto, ma tutta l'Italia, ma tutta la sua gloria, ma millenni di
storia, sui vostri bastimenti fumiganti. Portate anche i nostri dolori, anche
i nostri morti, con voi. Che non vadano perduti !
Ore 12. — Avvistiamo Càorle riconquistata dal Reggimento Marina; poi le foci
del Tagliamento, silenziose.
Le sentinelle di bordo annunziano : « Torpedini alla deriva ! »
Sono due mine galleggianti austriache sulla rotta del convoglio. Distinguiamo
sull'orlo superiore emerso dall'acqua gli « urtanti » che, se toccati, fanno
esplodere l'ordigno. La nostra torpediniera vi si avvicina. I marinai
imbracciano i moschetti. Cinque minuti di fucileria. Le mine affondano,
esplodono. La via è libera. Idrovolanti tricolori volteggiano sulle nostre
teste.
Ore 13,30. -- La silurante capo-linea segnala : « Avvistamento di sommergibili
». Gli uomini si dispongono ai pezzi e ai tubi di lancio. I Mas partono a
tutta corsa, per esplorare le acque circostanti e dar la caccia a sottomarini
o a periscopi che eventualmente affiorassero.
Nessun periscopio spunta sulla superficie tranquilla. Avanti !
Ore 14.30. -- Passiamo al traverso di Grado. Vediamo i campanili, le casette
allineate lungo la diga semicircolare, il ben noto profilo venezianeggiante,
caro al nostro cuore.
Gli austro-ungarici ci sono ancora, o l'hanno abbandonata? Lo ignoriamo. Ma
nessun colpo parte dalle batterie austriache che il nemico aveva armate lungo
il litorale. Almeno, gli artiglieri della costa debbono essersene andati... Ma
non abbiamo tempo per compiere indagini gradensi. Legato ad un boa, a qualche
miglio della spiaggia, scorgiamo un barcone con dentro un pezzo da campagna :
affusto, ruote e cassone. A bordo, nessuno. Una torpediniera s'avvicina al
barcone e se lo prende a rimorchio. Entriamo nel golfo di Trieste. La
vigilanza è raddoppiata.
Ore 15. --- Appare a proravia lo sciame dei cacciatorpediniere che vengono
avanti sulla nostra rotta, già dragata. E' in testa l' « Audace ». Ha alzato
il pavese sull'albero di prua. Ha a bordo il generale Petitti di Roreto, il
vincitore della battaglia dei due Piave, fra poche ore governatore di Trieste.
Comanda l'« Audace » Pietro Starita, colui che con un battaglione di marinai
tenne fermo a Cortellazzo contro gli ungheresi soverchianti ed arrestò
l'invasione verso Venezia. — Non è ancora un anno !
|
Le campane.
Per le spiagge, per le vie di Trieste,
suona e chiama di San Giusto la campana.
L'ora suona, l'ora suona non lontana,
che più schiava non sarà.
Le ragazze di Trieste cantan tutte con ardore:
oh Italia, oh Italia del mio cuore!
Tu ci vieni a liberar.
rip
|
.di S.
Giusto Avrà baci, fiori e rose
la Marina,
la campana perderà la nota mesta;
su San Giusto sventolar vedremo
a festa il vessillo tricolor.
Le ragazze di Trieste cantan tutte con ardore:
oh Italia, oh Italia del mio cuoe!
Tu ci vieni a liberar
rip
|
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MP3
http://www.fiammacanicatti.it/multimediali/La Campana di San Giusto.mp3 |
I caccia ci oltrepassano, si mettono in testa al convoglio. Una vela
all'orizzonte. Un Mas corre a sventare la possibile insidia. E' un povero
bragozzo carico di terrecotte diretto alla penisola istriana. Vien lasciato
proseguire.
Ore 16. (del 3 novembre Domenica) — La mèta è vicina. Le navi accelerano l'andatura. L'impazienza
diventa angosciosa. Siamo tutti pallidi, gli occhi fissi in direzione delle
prore. La nebbia è inesorabile. I bersaglieri già cantano le loro canzoni
d'amore e di guerra. Già una fanfara echeggia sulle acque brumose. Spuntano
fuori bordo, da ogni trasporto, miriadi di bandiere, grandi e minuscole.
Ecco, a prora, nella caligine, disegnarsi una riga più nera, dentata. La
riconosco ! E' la catena di monti che da Duino s'innalza a Prosecco ed a
Officina, poi digrada a levante, verso la collina di San Giusto. La vidi
l'anno passato, nella nostra offensiva di maggio. La rividi nell'offensiva
d'agosto. Poi... poi non la vidi più. La riveggo stasera. Sia lodato Iddio
d'Italia !
La nostra torpediniera capolinea ha un fremito in avanti, uno scatto
improvviso. Gli spruzzi salsi feriscono le nostre pupille, ma le pupille non
si chiudono. Fra la caligine, ecco biancheggiare un castello e una torre.
Miramare !
Passano pochi minuti. Ecco i contorni ancor vaghi della città. Lumi
s'accendono. Razzi brillano. Fuochi di gioia sulle colline. Sulle
fortificazioni più alte, scoppii di, munizioni fatte saltare. Fumi di treni
che se ne vanno... E questo clamore di campane che ci viene col vento? Dev'essere
crosciante, perchè vince il fragore delle nostre macchine in corsa. E questo
rimbombo come di tuono, strano, continuo, crescente, che ci martella le
orecchie, prima che gli occhi possano vedere nella caligine vespertina? Forse
un bombardamento lontano ?
Ci sentiamo più, pallidi, perchè riconosciamo che non è rombo d'artiglierie, è
clamore umano ! Gli occhi si velano. Un singhiozzo ci stringe alla gola.
Oltrepassiamo le dighe. Un motoscafo, con bandiera italiana, è già venuto
incontro alle navi, accosta ai fianchi dell' « Audace » . Sono i
rappresentanti della città, i membri del Comitato provvisorio, Alfonso Valerio
e il socialista Puecher, che vanno dal generale Petitti di Roreto.
Entriamo nello specchio grande del porto, in cui migliaia di lampade
elettriche riflettono e moltiplicano i barbàgli delle luci. Tutte le finestre
dei grandi palazzi prospicienti la riva sono illuminati. Hanno tutte il
tricolore pendente dal davanzale. La riva, i moli, le banchine, la piazza
grande, gli scali, i tetti, i balconi sono neri di folla. Rallentiamo. Le
macchine non strepitano più. E' allora che riceviamo in pieno petto
l'esplosione di Trieste italiana e redenta.
Dopo, quello che sia avvenuto, precisamente non lo so. Le mie note tacciono.
La memoria non m'assiste. Ricordo d'aver barcollato sulla prua della
torpediniera ché accostava al Molo della Sanità. Ricordo che le mie orecchie
non udivano più, martoriate dalle acclamazioni e dalle grida d'evviva
all'Italia. Ricordo che non ho potuto, sbarcando, baciare la banchina, perchè
ogni pietra era scomparsa sotto la calca. Ricordo d'a-vere intravisto, nel
pianto, decine di migliaia di volti che piangevano come me e una ridda di
fazzoletti, di crisantemi, di bandierette davanti agli occhi. Le mie mani non
appartenevano più a me, ma alla folla. Sono stato trascinato fino ad un
palazzo maestoso, inondato di lumi e di gente, che ho riconosciuto più tardi
come il palazzo della ex-luogotenenza. Ricordo d'aver notato con stupore,
sotto il peristilio, guardie in uniforme austriaca e fiocco tricolore al
bavero del cappotto, che m'hanno salutato di scatto, con un saluto che non è
il nostro regolamentare.
Nel tragitto, signore eleganti e popolane mi hanno abbracciato; me, come
ognuno degli arrivati. Ricordo d'essermi trovato con fiori nelle mani, nelle
tasche, nella fondina della pistola. Ricordo d'avere osservato che tutti,
anche ufficiali e soldati austriaci, avevano la coccarda italiana. Mille mani
tese a chiedere giornali, giornali, giornali... Ci caviamo quelli che abbiamo
in tasca : disputati. Ricordo d'essere stato sospinto per lo scalone del
Palazzo Municipale, gremito, in una sala dove il generale Petitti, col braccio
bendato in una fascia di seta nera, parlava al potestà italiano, ora sindaco
di Trieste, Valerio.
Qualcuno, accanto a me, sussurrava, accennando il Governatore:
— Sapete? Quand'è sbarcato per primo dall'Audace sul molo di San Carlo, ha
battuto forte il piede in terra ed ha proclamato: In nome di Sua Maestà il Re
d'Italia, prendo possesso della città di Trieste. Sapete? Quando il cavo
d'ormeggio è stato lanciato dall'Audace in terra, chi l'ha raccolto s'è
inginocchiato e l'ha baciato, prima di dargli volta !...
Ricordo che era un vecchio tutto bianco ; e, mentre raccontava, i lucciconi
gli rigavano il raso della redingote.
Ricordo che, dopo le comunicazioni ufficiali, il Governatore e il Sindaco si
sono gettate le braccia al collo. Alfonso Valerio ha additato un giovinetto in
divisa di esploratore e, mostrandolo al generale, ha detto : « E' mio figlio.
Prendetelo ». Né, per i singhiozzi, ha potuto aggiungere parola. I1
Governatore ha tratto dalla folla che gremiva tutto intorno il salone un
giovanissimo ufficiale italiano: « Le presento il mio. Ha fatto il suo dovere
». Ciascun padre ha baciato il figliuolo dell'altro. Le generazioni degli
italiani delle vecchie terre e delle nuove parevano ricongiungersi idealmente
ed eternamente in quell'atto. Poi il Governatore s'è affacciato alla balconata
del Comune, sulla piazza Italia, dove più di centomila faccia in istato di
grazia erano volte in su, sotto il biancore delle lampade elettriche, come
aspettanti il battesimo dello spirito. Il Governatore ha parlato al popolo
brevi parole, a voce altissima, col tono degno della grandezza dell'ora.
Cittadini di Trieste - ha detto - le accoglienze che avete fatto alle nostre
truppe sono degne del vostro gran cuore : ve ne ringrazio e vi saluto in nome
dell'Italia, in nome del nostro Re. Vi porto l'offerta d'amore e di dolore
dell'Esercito che sacrificò generosamente il suo sangue per rendere reale il
sogno d'un secolo. Le vostre sofferenze sono finite. Abbiate fede nei destini
della grande Madre. Comincia per voi un'era nuova ; e sarà di pace e di
prosperità. Conto sull'opera di tutti voi, per questo scopo comune. Vi invito
a gridare con me: Viva il Re ! Viva l'Esercito ! Viva l'Italia ! »
Ricordo che gli ha risposto un triplice urlo immenso, che, visto dall'alto,
quasi metteva paura. Poi, della serata, non ricordo altro se non una visione
di delirio: battaglioni di bersaglieri, fanfara in testa, elmetto d'acciaio,
piumetto al vento, fucile a bilanciarm, sfilanti a passo di corsa dal molo di
sbarco alla Caserma d'Oberdan, attraverso una marea umana, fatta divina dalla
speranza compiuta...
Cap.VII.
LA LIBERAZIONE DEL GOLFO SACRO. Trieste, 11 novembre.
A Trieste la Marina italiana, fino dal primo giorno dell'occupazione, ha
costituito un Comando di difesa marittima, affidato al capitano di vascello
Alfredo Dentice di Frasso. Cotesto Comando, rapidamente organizzatosi coi
battaglioni del Reggimento Marina venuti dalla Livenza e con elementi di
Venezia e delle antiche difese di Monfalcone e di Grado, si estende
attualmente da Grado a Parenzo, abbracciando un enorme sviluppo costiero.
Soprintende alla disciplina dei lavoratori nei porti litoranei,
all'attrezzatura e all'armamento dei piroscafi che vi si trovano, agl'imbarchi
e sbarchi delle truppe e dei prigionieri rimpatrianti, al trasporto degli
approvvigionamenti, alla rimozione dei campi minati, ai servizi aerei e navali
per le comunicazioni fra Trieste e i paesi rivieraschi, fra Trieste e
l'Italia. Provvede alla polizia portuaria e fornisce distaccamenti per la
tutela dell'ordine pubblico nelle cittadine affidate alla giurisdizione della
Marina. Nei giorni passati, ebbe una parte importante nell'occupazione delle
località costiere del Basso Isonzo e dell'Istria.
Il 4 novembre i comandanti Dentice e Dal Pozzo si imbarcavano a Trieste sulle
torpediniere « 40 P. N. » e « 46 P. N. » comandate dal tenente di vascello
Procaccini e dal capitano di corvetta Bella, capo della sezione ; ed
imbarcarono una compagnia di bersaglieri, una ventina di carabinieri, una
sezione di marinai mitraglieri.
Mezz'ora dopo sbarcavano a Capo d'Istria, in mezzo ad una fantastica
accoglienza di popolo che aveva in pochi minuti improvvisato sulla banchina,
con festoni e con fiori, innumerevoli archi di trionfo. Il Sindaco Niccolò
Belli ha porto al comandante Dentice il saluto ed il ringraziamento dei
capodistriani.
La folla, intraveduto fra gli sbarcati un suo concittadino, il tenente
motonauta Gessi, che ha combattuto nella Marina italiana fino dal giorno
dell'apertura delle ostilità, prima a Monfalcone ed a Grado, poi sul Basso
Piave, ha rivolto una grande acclamazione a lui ed alla nostra Armata. Gli
equipaggi italiani hanno risposto gridando: « Viva la patria di Nazario Sauro
».
Le truppe ed i marinai sbarcati hanno subito preso possesso della città, del
porto e dei dintorni. Tra un entusiasmo che non si descrive, il tricolore è
stato issato sul Palazzo della Ragione, prospiciente la bellis-sima piazza
veneziana ancora adorna del leone marmoreo.
In quella stessa mattina, la torpediniera « 13 O. S. n, comandata dal tenente
di vascello Vivaldi, partiva da Trieste, filava a Monfalcone e vi sbarcava un
plotone di marinai del Reggimento. Anche qui, la scarsissima popolazione
rimasta ha fatto ai marinai grandi accoglienze. Intanto attraversavano il
paese i battaglioni austro-ungarici in ritirata dall'Isonzo, divisi per
nazionalità. Trascinavano seco le artiglierie che avevan potuto salvare al di
sopra della linea del Tagliamento. I pezzi erano rimorchiati da pesanti
trattrici, e lunghe colonne di carreggi fangosi, con salmerie affastellate
alla rinfusa, impazientemente li seguivano. La sfilata era sufficientemente
ordinata, data la fretta della marcia e l'ingombro del carreggio.
Mentre il tenente Vivaldi, dalle finestre d'una casa, contemplava indisturbato
quella marea umana in risucchio, ecco venir contro corrente una folla di
soldati italiani prigionieri, ch'erano stati fino allora adibiti a lavori
nelle retrovie nemiche, ma ch'erano accorsi a Monfalcone appena avevano visto
il tricolore sventolare sul mare. Apparivano stanchi e denutriti. Vivaldi ne
ha imbarcati duecento sulla torpediniera : tutti quelli che la nave poteva
contenere ; li ha rifocillati alla meglio e portati a Trieste, dopo aver
lasciato sul luogo un forte presidio.
A Monfalcone si son trovati in costruzione cinque sommergibili. Il cantiere,
riattato in parte, aveva da qualche mese ricominciato a lavorare. La « Naven,
la famosa « Nave » che ci servì da osservatorio e da riparo in tante azioni
contro il Carso, era come noi la lasciammo. Esistono ancora, nelle antiche
nostre riservette, le munizioni d'artiglieria che, or è un anno, dovemmo
abbandonare. Oggi sono gli austro-ungarici che hanno dovuto abbandonare, lungo
tutte le strade, cannoni d'ogni calibro, camions d'ogni forma e molte
trattrici impantanate nel fango., tra le quali distinguiamo anche qualche
nostra « Tolotti » perduta dopo Caporetto. I prigionieri liberatisi ci
raccontano che gli ungheresi hanno fino a stamane malmenato i nostri
ufficiali. Il giorno 5, mentre trenta mitraglieri del Reggimento Marina
occupavano Barcola, la « 40 P. N. » partiva da Trieste alla volta di Pirano,
portando una compagnia di marinai del battaglione Golametto.
L'entusiasmo dei piranesi, col loro Sindaco e tutto il Comitato di Salute
Pubblica alla testa, è stato frenetico, folle. La silurante non s'era ancora
accostata alla banchina che è stata letteralmente coperta dal getto dei fiori.
Appena i marinai dalla prua hanno lanciato il cavo d'ormeggio a riva, mille
persone hanno proteso le mani per toccarlo, colla riverenza con cui si tocca
una reliquia.
Intanto, uno stormo di camicie rosse garibaldine, fendeva, acclamante, la
folla. La coorte scarlatta aveva in testa una gran bandiera e si faceva largo
tra la calca. Era il corteo delle più belle ragazze della città; s'erano
vestite da cacciatrici delle Alpi: camicia e berretto rosso, pezzuola al
collo, giberne alla cintura. La loro apparizione fiammeggiante ha suscitato il
delirio.
Nessuno ha potuto trattenere le ragazze dal salire a bordo. Hanno offerto agli
ufficiali mazzi di rose ed il saluto italico « ai liberatori », a nome di
tutte le donne istriane. Volevano navigare ad ogni costo con noi, compiere con
noi il periplo attorno alla penisola sacra. La torpediniera, però, era
insufficiente a contenerle. Dovevamo trasportare ancora truppa ad Umago. Il
comandante, a fatica, ha potuto dissuaderle.
Allora le garibaldine hanno avuto un'idea magnifica : sono corse al
porticciuolo, si sono imbarcate in tanti piccoli battelli, si sono spinte al
largo. Sicché, quando la torpediniera è uscita da Pirano dirigendosi alla
volta di Umago, il suo passaggio è avvenuto attraverso una fantastica parata
di galleggianti carichi di gioventù vermiglia, come se l’Istria avesse gettato
in mare, a fiorire la nostra scìa, le più belle rose della sua terra e della
sua razza.
La « 40 P. N. » è arrivata ad Umago verso le 16. Umago: malinconico villaggio
nascosto dietro i muraglioni della sua cintura veneziana, dai quali spunta
fuori solo il campanile cuspidato. La scarsa popolazione del luogo era tutta
addensata sull'unico pontile proteso fuor delle mura. Qui s'è avuto un vero e
proprio ricevimento ufficiale. Il sindaco De Franceschi, antico podestà del
paese, in « redingote » e cilindro, è venuto a bordo coi maggiorenti del
paese, a fare atto di sottomissione all'Italia. Quindi ha offerto, con una
colazione cordiale, cordialissima ospitalità alla spedizione italiana, che ha
lasciato ad Umago un plotone di marinai del Reggimento.
Allo sbarco, una bimba di Umago doveva porgere un gran mazzo di fiori e
recitare una poesia patriottica al comandante dei reparti. La bimba ha dato i
fiori, poi la commozione l'ha presa e la poesiola l'è rimasta in gola, tra i
singhiozzi. Intanto, nella stessa giornata, una compagnia di bersaglieri
metteva piede a Muggia e di lì procedeva ad occupare Ovic e i paesetti
dell'interno. Gl'idrovolanti nazionali di tipo cc Macchi » cominciavano subito
il servizio delle comunicazioni postali fra Pirano, Umago, Capodistria,
Monfalcone e Trieste; e fra Trieste e Venezia. Contemporaneamente, una mezza
compagnia di marinai della compagnia « mitraglieri del Reggimento era stata
portata a Grado, e l'aveva occupata, al comando del tenente Meriggio, tra la
riconoscenza della popolazione piangente, che ha sofferto un anno di martirio
sotto la dura oppressione degli ungheresi di Boroevic....
Maffio Maffii nasce a Firenze il 6
agosto 1881. Studia all’Istituto di studi superiori di Firenze.
Collabora a Hermes, la rivista letteraria fondata e diretta da Giuseppe
Antonio Borgese nel 1904, quindi al Regno, diretto da Enrico Corradini e
al Nuovo Giornale di Firenze. Fonda e dirige, nel biennio 1908-09, Il
Giornale di Vicenza; è vicedirettore della Tribuna di Roma negli anni
dal 1910-24 ma anche irredentista e combattente nella prima guerra
mondiale. Passa alla direzione della Gazzetta del Popolo di Torino nel
biennio 1926-27, poi, per volere di Mussolini, a quella del Corriere
della Sera tra il 1928-29. Dirige quindi per undici anni, dal 1932 al
1943, La Nazione di Firenze. Muore a Roma il 30 novembre 1957.
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CENTRO INTERUNIVERSITARIO
INTERNAZIONALE DI STUDI SUL VIAGGIO ADRIATICO (CISVA). Il
Centro si pone come soggetto di raccordo tra la Comunità scientifica
universitaria, il sistema delle Imprese del turismo, gli Enti locali e
la potenziale utenza delle popolazioni locali e dei turisti, e può
fornire un fondamentale supporto all’ideazione e al lancio di percorsi
innovativi paesistico-culturali, avvalendosi di un consistente apporto
di avanzate tecnologie informatiche.
Attività del Centro sono: individuazione, catalogazione,
riorganizzazione, e valorizzazione di un patrimonio condiviso di testi
letterari e documentali della scrittura di viaggio dell’area adriatica,
attualmente disperso, per costruire su di esso l’offerta di itinerari
turistico-culturali innovativi, mirati allo sviluppo di un turismo
sostenibile, organizzando una Rete Interadriatico di Enti locali e
imprese, destinata a supportare tale sviluppo. http://www.viaggioadriatico.it |
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