PICCOLE STORIE - DIARI MINIMI
I DIARI DI DORA MITTELBAU
E LA FINE DELLA PRIGIONIA |
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PREMESSA
Dei 430.000 soldati italiani catturati nei
Balcani (ma altri vennero catturati in Italia e in altri paesi) la maggior parte fu deportata nei lager di Germania e Polonia non come
prigionieri di guerra ma come IMI, Internati Militari Italiani e 100.000
trattenuti nei Balcani (Austria e Ungheria compresi), in parte in lager veri e propri, in parte alle
dipendenze dirette dei reparti tedeschi che qui combattevano o che erano sul
fronte settentrionale russo arretrante. Nei campi di internamento di Germania (e
Austria) i soldati, sin dall’inizio della loro prigionia, vennero obbligati ad
un lavoro massacrante di dodici ore quotidiane per sei giorni la settimana:
lavoro nelle fabbriche, manutenzione delle linee ferroviarie, lavori agricoli e
forestali, costruzione di fortificazioni, sgombero di macerie, miniere di
carbone in Renania e in Slesia; almeno un migliaio di internati furono destinati
a Dora, sottocampo di Buchenwald, per la preparazione di installazioni
sotterranee e poi per la fabbricazione delle bombe V1 e V2. 1800 detenuti del
penitenziario militare di Peschiera furono inviati a Dachau dove in gran parte
morirono.
ADA BUFFULINI dalla prefazione al Diario
di CALOGERO SPARACINO
http://www.deportati.it/static/pdf/libri/sparacino.pdf
… …Allestiti
nel 1933, subito dopo l'ascesa al potere di Hitler, per i nemici del nazismo, i
lager si moltiplicarono in seguito, soprattutto durante la guerra, quando furono
destinati allo sterminio non solo dei “ politici ”, ma degli ebrei, degli
zingari e degli slavi, considerati razze inferiori. Nel 1941-42 però i nazisti,
rendendosi conto che la “ guerra lampo ” sarebbe durata molto più del previsto e
avrebbe richiesto un enorme sforzo produttivo dalle industrie belliche, ormai
private della mano d'opera per il massiccio reclutamento nell'esercito,
pensarono di utilizzare la grande massa dei deportati come mano d'opera
gratuita. Era una mano d'opera che durava poco (i nazisti prevedevano una
sopravvivenza media di sei mesi), ma poteva essere continuamente rinnovata con
le retate che si facevano in tutta l'Europa occupata, dal Caucaso alla Francia.
L'annientamento attraverso il lavoro fu la nuova parola d'ordine del le SS.
Nordhausen, dove Sparacino arrivò i primi di ottobre del '43, faceva parte del
grande gruppo dei campi chiamati ‹‹Dora”, che dipendevano all'inizio dal campo
principale di Buchenwald. Poi diventò indipendente, col nome di Mittelbau-Dora,
e vi fu costruito un forno crematorio, mentre prima i cadaveri venivano mandati
per l'incenerimento a Buchenwald. Alla fine del '44 facevano parte di Dora 31
sottocampi o dipendenze. Lo scavo dei tunnel di Dora fu iniziato alla fine
dell'agosto '43 per fabbricarvi V1 V2 (i razzi destinati al bombardamento
dell'Inghilterra)dopo che le grandi fabbriche di Peenemunde erano state
distrutte da un terribile bombardamento. “I galeotti dei razzi - scrive Michel
nel suo libro su Dora - in principio traforarono, allargarono, sistemarono i
primi tunnel quasi senza attrezzi. Il trasporto di pietre e macchine avveniva in
condizioni spaventose... I deportati sgobbavano 18 ore al giorno (12 di lavoro e
6 per le formalità e i controlli) e dormivano nel tunnel. Non vedevano la luce
del giorno che una volta alla settimana, in occasione dell'appello della
domenica. Nel tunnel il freddo e l'umidità erano intensi. L'acqua
che filtrava dalle pareti provocava una macerazione nauseante. Il fracasso
inaudito che regnava lì dentro fu causa di veri crolli psicologici: rumore di
macchine, rumore di martelli pneumatici, la campanella della locomotiva,
continue esplosioni, tutto rimbombava e si ripercuoteva in un'eco senza fine nel
chiuso del tunnel. [...] I baraccamenti furono terminati soltanto nel marzo
'44... ”.
Nei campi di
Dora si ebbero casi di sabotaggio e molte V1-V2 non riuscirono poi ad arrivare
al bersaglio. Vi furono crudeli rappresaglie e molti sabotatori furono
impiccati. I prigionieri di guerra italiani internati a Dora ebbero dei numeri
di matricola molto bassi (perché il campo era appena aperto) preceduti da uno
zero. La loro divisa era come quella dei deportati politici, e consisteva di
pantaloni, giacca e berretto della tipica stoffa a righe (zebrata foto a
colori originale sopra), col numero e
la scritta IMI, che contraddistingueva i militari italiani, mentre i politici
avevano un triangolo rosso con impressa una lettera, che era I per gli italiani,
R per i russi, F per i francesi, e così via; i politici tedeschi avevano solo il
triangolo rosso. Un triangolo verde distingueva i delinquenti comuni prelevati
dalle carceri, un triangolo nero i cosiddetti “ asociali ” e un triangolo giallo
gli ebrei, che però arrivarono nel campo solo più tardi, quando era in via di
evacuazione il campo di Auschwitz in Polonia. Dei prigionieri di guerra
italiani, alcuni vi furono portati come prima loro destinazione dopo la cattura,
come Sparacino, altri furono fatti venire da altri campi di prigionia in base
alla loro qualifica (minatori, carpentieri, muratori, falegnami), come Zaffarini.
Unico loro privilegio fu quello di dormire tutti insieme in un cunicolo, finché
rimasero nel tunnel, e poi in una baracca separata dalle altre, nelle quali il
capo baracca era un cecoslovacco di madre italiana che perciò capiva la loro
lingua, con aiutanti italiani, anch'essi prigionieri di guerra. Come si vedrà,
questi italiani non si comportarono meglio dei sorveglianti delle altre
baracche. Come in tutti i lager nazisti, la responsabilità del campo era delle
SS, il cui numero però era molto ristretto. Per far funzionare il campo, per
mantenere la disciplina e garantire il lavoro, essi utilizzavano tutta una
gerarchia di detenuti, per lo più scelti tra i delinquenti comuni, i cosiddetti
“Kapò”, che andavano dal capo campo al capo baracca. C'era un capo per le
cucine, un capo per i magazzini, uno per il forno crematorio, e così via. Ogni
gruppo di lavoro (Kommando) aveva un suo capo, oltre a un capo squadra (Vorarbeit),
responsabile del gruppo. C'erano poi i Lagerdienst, addetti alla sorveglianza e
all'organizzazione generale del campo. Tutti questi capi, di rango differente,
erano tuttavia dei privilegiati in confronto agli altri deportati, perché per lo
più dormivano in ambiente separato e soprattutto provvedevano alla distribuzione
del cibo e così potevano riservarsi una gamella di zuppa più consistente o mezzo
litro di zuppa in più. Dovendo rispondere di fronte alle SS della disciplina dei
detenuti, erano loro che urlavano, picchiavano, vessavano in tutti i modi i
prigionieri per ottenere il massimo rendimento, e da ciò l'odio dei deportati
verso di loro. Alla liberazione molti furono massacrati e altri si salvarono
solo perché riuscirono a dileguarsi in tempo. Terrorizzati dalle SS, angariati
dai capi di tutte le categorie, sottoposti a vessazioni anche dai capi civili
delle imprese (i Meister), gli internati (Häftling) erano alla mercé di tutti e
la loro sorte dipendeva giorno per giorno dall'umore di un capo qualsiasi o
semplicemente dal caso.
DORA QUANDO LA
VITA VINCE LA MORTE
Gherardo Del Nista Memoriale dal campo di Dora Mittelbau
http://www.deportati.it/static/pdf/libri/delnista.pdf
COLLECTANEA ARCHIVI VATICANI – 52 - INTER ARMA CARITAS - L’UFFICIO INFORMAZIONI
VATICANO PER I PRIGIONIERI DI GUERRA ISTITUITO DA PIO XII (1939-1947) II
Documenti CITTÀ DEL VATICANO - ARCHIVIO SEGRETO ed. 2004
Promemoria di don Luigi Pasa circa le condizioni degli ufficiali ex prigionieri
del campo di Wietzendorf (Soltau-Hannover) (Wietzendorf, 8 maggio 1945)
.... Ma nella massa che assomma tante copie di sofferenze quali neppur gli anni
avvenire potranno del tutto rivelare sono facilmente individuabili e, per i
segni fisici ed esteriori, i bigio-rigati provenienti dai lavoridelle gallerie
di Dora (Nordhausen) la cui tragedia va ricordata accanto a quelle vissute nei
campi di Buckenwalde e di Belen.
Sono circa 400 qui giunti la mattina del 4 maggio (1945) dal campo di Belen,
dove erano stati trasferiti l’11 aprile (dopo l’abbandono di Dora sotto
l’incalzare delle Armate Alleate) con un viaggio durato sei giorni ed
effettuato in carri bestiame aperti, a più di 100 per carro, sotto la pioggia,
senza cibo, seminando la strada ferrata di morti. Eppure avevano motivo di
reputarsi fortunati i partiti da Dora, quando si sapeva che gli ultimi dei loro
compagni, a seguito della impossibilità di trasporto, erano stati eliminati
dalla mitragliatrice delle S. S.
Dora, a circa 4 km. da Nordhausen in Turingia, era uno dei centri di
fabbricazione dei V1 e V2, altrimenti nota con il nome di Mittelwerok. Ivi
furono fatti affluire già alla fine del 1943 internati politici di tutte le
nazionalità, e nel dicembre dello stesso anno, circa 600 tra militari e politici
italiani; il numero poi crebbe fino a 1300. Il primo lavoro consistette nella
costruzione della galleria sotterranea, anzi del complesso di gallerie da
adibirsi a cantiere per uno sviluppo di due km. e mezzo di profondità per m. 200
di lunghezza. Tale opera venne realizzata con un sistema di lavoro forzato nella
sua espressione più brutale e selvaggia, durata fino al 1 maggio 1944. In questo
frattempo dei 25.000 adibiti ai lavori, moltissimi passarono più di 3 mesi senza
mai vedere la luce del sole.
Addensati nelle gallerie graveolenti di gas acetilene, sotto lo stillicidio
della roccia, con un vitto affatto insufficiente (la ben nota razione
dell’internato) privi di qualsiasi assistenza estranea e perfino di quella
religiosa, senza alcuna notizia della famiglia, della Patria, del mondo, erano
costretti al pesante lavoro dei minatori per 12 (e alle volte per 18) ore
consecutive e con la non meno grossa appendice di due appelli, che significavano
altre quattro ore sottratte al riposo. Dire queste cose è però dir nulla.
Bisogna cavare dalle loro bocche, che a dire il vero non sono facili al
racconto, la narrazione di quello che hanno sofferto, perché possiamo credere ai
nostri orecchi noi, che pur abbiamo vissuto la vita di prigionia. Ogni frase,
ogni particolare è una pennellata, che incupisce il calvario di questi sepolti
vivi.
Ci limitiamo a riferire alcuni appunti relativi alle loro condizioni generali di
vita e di lavoro. Quelli del primo scaglione, non appena giunti sul posto,
furono spogliati totalmente e vennero loro tolte le divise, gli indumenti e
tutti gli oggetti che ancora avevano. Fu loro dato un vestito a larghe righe
bianco-azzurre, il tipico vestito da galeotto e questo, che molti di essi
portano ancora, caratterizza il rigore, cui erano sottoposti, più grave che in
qualsiasi penitenziario. Il Comando del campo era affidato alle SS i quali si
servivano per la disciplina di un corpo di criminali comuni tedeschi portanti i
contrassegni dei loro delitti. Durante il lavoro invece erano sottoposti al
controllo dei dirigenti civili o tecnici delle imprese esecutrici, sempre pronti
a scaricare sui lavoratori qualsiasi responsabilità per guasti, rotture, ecc. ed
a minacciare le feroci pene comminate per sabotaggio.
SS, criminali comuni, dirigenti civili e controlli tecnici gareggiavano fra loro
nei maltrattamenti. Oltre le ingiurie più umilianti e le percosse dispensate di
continuo per motivi più futili o addirittura senza motivo venivano inflitte
quotidianamente in serie le punizioni per così dire disciplinari costituite
dalla fustigazione. Parecchi recano nel corpo e anche nel volto i segni dello
staffile, subiti spesso per un pretesto qualsiasi, altre volte per motivi
addirittura ignorati. La ferocia ed i metodi si esprimevano in modo particolare
con la minaccia delle rappresaglie e con la punizione collettiva. Tutti hanno
negli occhi le quotidiane impiccagioni, specialmente dei russi e la fucilazione,
avvenuta verso al fine del 1943 di 7 alpini rei di aver chiesto anche per loro
un supplemento (mezzo litro) di minestra di rape, di cui beneficiavano gli
internati di altre nazionalità, adibiti allo stesso lavoro di perforazione.
Tutto ciò per tacere delle più crudeli e raffinate sevizie escogitate dai feroci
aguzzini. Nessun conforto, neppure di quelli minimi e indispensabili, che si
realizzano nelle circostanze più misere della vita era lor concesso, non un
giaciglio stabile, che ogni sera dovevano affidarsi alla sorte, non acqua né per
bere, né per lavarsi, mentre l’insufficiente vitto era raccolto e consumato in
vecchi barattoli da loro raccolti nell’immondezzaio.
Tali condizioni di vita, anche solo accennate, fanno agevolmente ritenere, come
conseguenza ineliminabile, l’alta mortalità subita. In proposito i sopravvissuti
non hanno, anche per il rigoroso distacco in cui erano tenuti i vari gruppi,
dati precisi. Ma qualche particolare può essere tragicamente significativo. Il
sergente Vimercati Carlo di Cremano sul Naviglio (Milano) ed il caporale
Mantovani Silvano di Mantova, mi asseriscono che dei 14 componenti del loro
Komandos solo essi due sono oggi superstiti. Da varie risultanze, che sarebbe
troppo lungo riferire, può ritenersi che – specie fra i lavoratori adibiti alla
perforazione – la percentuale dei decessi abbia superato il 50%.
Praticamente essendo nulla ogni assistenza sanitaria, i lavoratori dovevano
portarsi al posto di lavoro anche se ammalati. Quando non erano più in grado di
muoversi, venivano portati dai compagni al luogo dell’infermeria, che però
abitualmente li rifiutava, accusandoli, senza neppure visitarli, di simulazione.
E intanto ogni giorno morivano sul giaciglio di fortuna, ed al vicino incombeva
portare fuori, al mattino, la spoglia del compagno e così, centinaia di corpi
denudati si accatastavano ogni giorno nelle gallerie e uscivano solo morti alla
luce del sole per venire portati a bruciare nel crematorio. Tale vita era resa
più angosciosa dall’ignoranza della lingua e dalla mancanza di interpreti, dalla
promiscuità di elementi di altre nazionalità, nei cui confronti i tedeschi
ostentavano un trattamento meno astioso che per gli italiani, e specialmente
dall’assoluta privazione di qualsiasi assistenza spirituale e religiosa e di
qualsiasi collegamento epistolare con la famiglia e la Patria. Per tutti i venti
mesi questi esseri banditi dalla legge e dal mondo hanno solo faticato e penato
senza neppure avere la parola di conforto di un sacerdote, dei riti della fede,
senza conoscere cosa fosse qualsiasi interessamento di un Ente di assistenza
italiano e internazionale, senza potere inviare una sola riga alla famiglia, che
ignorava ancora la loro sorte. È facile pensare come i sepolti vivi di Dora ad
altro non anelino che di tornare, quanto prima è possibile, alle loro case, alla
loro Patria, per rinascere ad una nuova vita.
Postilla: per ovvie ragioni, ma particolarmente, dato il carattere eterogeneo
degli individui e specialmente per le condizioni fisiche precarie e per gli
esacerbati animi, la assistenza spirituale, mentre si imponeva senza indugio,
trovava particolari difficoltà. Ad ogni modo essa è stata subito iniziata anche
in questo settore da Padre Crosara, Cappuccino, e colla piena collaborazione del
Comando. Nel locale adibito a Cappella all’uopo approntata con la massima
rapidità fu celebrata la festività dell’Ascensione con il confortante concorso
di cira l’80%. Merita particolare segnalazione la presenza di un certo numero di
ex-carcerati per delitti comuni che hanno seguito le sorti degli altri
internati, con i quali fanno tutto oggi vita comune.
[Uff. Inf. Vat., 520, n. 99]
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