Minèga
…
Dopo cena quasi
sempre veniva gente a vegliare. Capitava Minèga lo
scemo, capitava la Teresina di Bastiano, abituata a
venire al frantoio quando non si frangeva, avendoci bottega di legnaiuolo suo marito. Intanto che il castello delle bruscole, sotto i ceppi dello strettoio, si riposava e
sgrondava olio a gocciole e a fili gialli sottili – si stava intorno a Minèga perché contasse la sua novella. Minèga,
lo scemo, ne sapeva una; contava sempre la stessa alla maniera sua, che faceva
ridere tanto.
-
‘Questo Flurindo
andava a fa’ sempre pulizzia. Voleva accende’ la fumma e non aveva el fiammifero.
E da quella via gli si aggrovigliolò un serpente al
collo. Ora il tempo delle novelle passa presto, va costà alla tonda al ponte di
Macallè. Il tempo delle novelle passa presto,
ammazzarono tutti cignali, colombi e via. Il tempo delle novelle passa presto,
arrivò a Marsiglia; il tempo delle novelle passa presto, arrivò a Marsiglia…’
Così, con queste
ultime parole, continuava fin tanto che ci si divertisse a sentirlo e non gli
si dicesse: basta! Fra una frase e un’altra, senza finirla, faceva una
osservazione sua, se gli cadeva sott’occhio qualcosa che lo impressionasse
-
Questa cos’è?
-
Una catena lustra, di diamanti.
-
Ah una catena di diamanti! Uh bella…
eh…
-
Questo cos’è? questo cos’è?
-
Un canapo, una stanga di leccio…
-
O voi, mi date un paio di scarpe? l’ho tutte rotte…
Fra una frase e
un’altra, si lasciava allargare la bocca da qualche sbadiglio e finiva con le
sue solite parole, quando pareva a noi;
-
‘Mangiarono e bevvero; a me niente mi dettero…
-
Come nulla?
-
… mi dettero un panetto di pane e un fiasco di vino e
io ne feci una panciata come un salacchino.’
Altre volte in ore
migliori, gli stavamo attorno costringendolo a raccontare i suoi amori con la Nena del Bocchi. Il disgraziato,
per una di quelle ignote ragioni che muovono gli atti e i sentimenti di certi
organismi e di certe coscienze discese in basso fino a commuovere di pietà
altrui, pure l’estraneo – diceva d’essere innamorato di questa Nena, una buona ragazza, figliola di buona famiglia.
Qualcuno lo aveva sentito, tornando nella sua catapecchia, lo aveva sentito
parlare da sé e lo aveva veduto gestire come se veramente fosse stata davanti a
lui la ragazza.
-
Nena, tieni;
questo è il pane; questa è la minestra; via, metti la pasta; fai bollire il paiuolo; fai la polenda, chè ti voglio bene…
I ragazzi gli
urlavano dietro queste frasi, imitate con ogni bizzarria di voce. Egli si
voltava a tratti, mostrando i denti, come certi cani di campagna, che passano
con la coda fra le gambe e si rivoltano con un abbaio rabbioso ai cani del
paese che li rincorrono dopo essersi raccolti insieme. Irritato, andava a
rintanarsi nella sua stamberga, una stanza buia, in fondo al corridoio d’una
casa disabitata, dove dormiva per terra fra i calcinacci del pavimento
scempiato, e non usciva fin tanto che gli duravano i tozzi del pane raccolti
nei giorni precedenti, bussando alle porte. Di uno scherzo tenne molto rancore
anche a noi.
Gli avevamo in
frantoio mescolato dell’olio di ricino a quello di oliva, datogli per la crogentina. Aveva avuto dei disturbi; non era tornato a
trovarci, non era tornato più all’elemosina a casa nostra in giorno di sabato,
non aveva voluto accettare il pane che gli avevamo mandato da noi stessi. Venne
soltanto l’ultimo pomeriggio della stagione. Rimaneva da stringere una frantura di sansine; ci doveva
poco più tardi essere la maccheronata in frantoio. Arrivò che le donne
scodellavano, nei vassoi tondi, i maccheroni tagliati a quadrucci, e li
coprivano di salsa piccante e di formaggio grattato. Quell’odore di stracotto
cucinato bene, che si sentiva di fuori dalla strada, ce lo riconciliò. Noi
stessi, pentiti dello scherzo passato, sentivamo il bisogno di ricompensarlo
con buone accoglienze. Giobbe lo fece sedere e fu il primo a colmargli una
scodella di maccheroni.
Ma più tardi, verso
la fine del mangiare, mandata a mezzo la damigiana del vino, ricominciò
l’allegria. Minèga aveva mangiato a crepa pelle, con
una voracità di bruto rimasto a lungo digiuno; aveva anche bevuto vino pretto,
senz’acqua, e il vino già gli aveva dato alla testa. Non volle contar la
novella, ma cominciò a parlare della sua povera Nena,
che gli voleva bene, diceva. Nel brio, si tinse il viso di morca;
noi gli appiccicammo allora sul viso e intorno al collo penne di gallina; si
cominciò a dirgli che era bello, che stava bene, che pareva un signore, che
doveva andare in quel modo a trovare la Nena. Gli
atti di contentezza, il passeggiare rimpettito che faceva di qua e di là, quasi
per prova, ci convinsero che ci sarebbe andato davvero.
Pure, quando uscì
non lo seguitammo.
…
Da diversi giorni
pioveva e la terra nei luoghi piani era tutta sott’acqua e minacciava frane
d’argini in ogni parte esposta a cadere. Si uscì sotto una pioggia scrosciante,
grossa come le funi. Poco dopo, mentre nello scrittoio assistevamo Giobbe che
dava le consegne della lavorazione a nostro padre, fra lo scroscio fragoroso
della pioggia che continuava, si sentì una romba sorda, come d’una frana.
Calmata la pioggia bussarono all’uscio. Era franato il muro dell’Orto di sotto,
sopra il lavatoio e l’abbeveratoio comunali. Nel buio, sotto le rade gocce di
pioggia che cascavano ancora, molte lanterne giravano intorno alla frana.
Quando arrivammo anche noi, spaventati, si udì una voce che si lamentava fioca
dietro a un muricciuolo.
Uno che si avvicinò
con la lanterna e con la zappa per liberare il disgraziato, riconoscendolo,
disse forte in modo che tutti s’intese:
- Guà, anche questa volta ti è andata bene, Minèga!
Da “Raccolta delle olive”, un racconto di Emilio
Agostini, in “Lumiere di sabbio”
Il ricordo di Minèga
sopravvive a Sassetta, soprattutto come modo di dire
“non fare il Menèga”
…
Alcune
immagini da una commedia che la”Compagnia dei Rintronati” di Sassetta dedicò a Minèga nel 2000