William

 

Tornavo a casa, dopo la consueta visita alla nonna paterna per il pranzo. Chiusi il cancello che divide il complesso di appartamenti dove vive dalla strada, ed attraversai. Mi misi le mani nei capelli, come un gesto inconsulto ed abitudinario, segno della mia totale insicurezza, e sbuffai. Camminavo a passo lungo, con una cadenza quasi monotona, mentre il caldo cominciava a logorarmi. Sentivo i raggi del sole pizzicare la mia pelle, entrarmi nelle ossa, sembrava quasi che il caldo venisse dall’interno del mio corpo, invece che da fuori.

Girai l’angolo, una macchina scivolò dietro di me, proseguendo lentamente la sua corsa. D’improvviso, il silenzio. Tutto taceva, sembrava che il tempo si fosse fermato. Gli uccelli smisero di cantare, le macchine erano scomparse, ed il sole colpiva piano il mio petto, quasi a non volermi svegliare da quel magico incanto. Un istante, solo una frazione di secondo, ed il mondo era svanito, con tutti i suoi problemi, le sue follie. Ero… affascinata. Tutta quella calma, quella tranquillità, mi penetrava nelle ossa, dandomi una pace che non provavo da molto. La mia mente, libera da qualsiasi pensiero, avvolta in questa bambagia, fantasticava, volando sulle sue nuvole. E un bimbo occupò la mia anima, piccolo, e fragile, che mi guardava. Il volto lineare, rotondo, ma non eccessivo, i tratti leggeri, tenui, come su un disegno nel quale l’artista non ha voluto marcare la matita, per rendere il tutto sfumato e prezioso. Rimaneva sospeso nel bianco, inabissato in una magnifica coperta color giallo paglierino, dai bordi più scuri, trapuntati, che rendeva il quadro spettacolare. Si divertiva a giocare con un angolo di questa, tendendo il minuto braccio per afferrare il suo angolo. I suoi movimenti erano così dolci, si muoveva piano, le dita si piegavano appena, ed era contento anche così, pur non riuscendo in questa sua piccola impresa.

Un sorriso ironico invase la mia mente, che di tanto in tanto tornava alla sua fredda razionalità: essere felici non arrivando all’obbiettivo, un dono che oramai neanche più i bambini possiedono.

Sorrideva, con le labbra leggermente incurvate verso l’alto, lucide, con sfumature rosee che strabiliavano, e che le rendevano molto tenere, e carismatiche. Il nasino, piccolo e all’insù, commuoveva il mio spirito, delicato come un petalo di rosa.

Ma la cosa che più mi affascinava erano gli occhi, grandi, pieni di luce: il loro marrone striato di verde ricordava una foresta in primavera, stracolma di piante e di serenità. Mi osservavano, quasi più consapevoli di me di ciò che stava accadendo, e guardavano la mia anima, concedendomi l’accesso alla sua. In quello sguardo mi perdevo, travolta da mille emozioni, soggiogata da quelle due gemme intrise di una conoscenza che andava oltre a tutto quello che conoscevo, nozioni che dimentichiamo vivendo, e che lui conservava ancora, pure e misteriose, mentre cercava di trasmetterle al mio spirito folle di mondo.

Qualcosa poi mutò, sbatté le palpebre, con delicatezza ed innocenza, e tese le mani verso di me, invitandomi ad un abbraccio inatteso. Stesi le braccia, e lo portai sul mio petto, al quale si appoggiò sicuro, ed amorevole. Portai la mano destra sotto il suo capo, mentre la sinistra sorreggeva il suo fragile corpo. Sentii le sue emozioni, il senso di protezione che io gli davo, e che lui dava a me, in un gioco quasi mistico, che non riuscivo a comprendere, ma che entrambi assaporavamo con gusto e semplicità, senza temere che finisse, senza affannarci nell’idea di non poterlo più provare: il mondo non esisteva, né il tempo, eravamo io e lui, e nient’altro.

La mia anima si fuse con la sua, e come un cuore solo cominciò la nostra vita, era quello il nostro tempo, il battito di quel cuore, che solo, sosteneva entrambi, in una simbiosi perfetta, ed immutabile.

Come un fulmine poi, un boato, la magia che sfumava, il sogno interrotto, dolore, poi la luce del sole che mi trafiggeva implacabile gli occhi. Scossi la testa, allontanando definitivamente le mie fantasie, e mi accorsi di essere caduta, inciampando nelle scale di casa mia. Il ginocchio sanguinava appena, ma si faceva sentire, quasi fossero due le ferite. Mi rimisi in piedi, arrivai fino al portone, lo aprii svogliatamente, ed entrai in ascensore: ero sdegnata, e triste, era finito tutto troppo bruscamente, troppo in fretta, senza che avessi il tempo di saziarmi di quella pace, senza che potessi chiedergli di restare, ancora, solo un po’.

Sobbalzai, poi sentii il mio cuore scandire il tempo, leggero, infinito: sorrisi, era con me… per sempre.