Un
racconto in un sogno
Improvvisamente
mi ritrovai in un sogno. L’aria solare, la non curanza serena, il tempo
perfettamente eterno che mi cullava in una soffice nuvola bianca. Eravamo in
dieci, forse quindici, tutti ragazzi, con tante speranze, segreti, ricordi e
desideri, come ogni adolescente che abiti in questo mondo. Inizialmente feci
fatica a capire le parole di Fabio, che arrivavano al mio orecchio distorte, e
confuse, poi cominciai a seguire. Il ragazzo, slanciato, il volto ricoperto da
lentiggini imbarazzate, i capelli ricci di un rosso schiarito, parlava di suo
padre. Ne raccontava le avventure, quella volta che si era arrampicato sul tetto
per prendergli un aquilone che il vento aveva trascinato fin lì; di quando era
inciampato rincorrendolo nel parco; di quella volta in cui lo aveva visto
baciare timidamente la mamma, ed esitando cercava di spiegare il figlio di
quattro anni cosa significasse quel gesto. Storie di tutti i giorni, che
acquistavano la bellezza e l’importanza di romanzi storici, ed intorno il
silenzio più totale trafitto da quest’unica voce solitaria, un po’
tremante, ma che cominciava ad avere fiducia in sé stessa. Tutti ascoltavano il
susseguirsi delle vicende con trepidazione ed attesa, per un finale che si
riconfermava essere banale, scontato e consuetudinario, ma che accoglievano come
nuovo, e meraviglioso.
Il
discorso finì su “questo era mi padre”, mentre un ronzio di voci
soddisfatte ed appagate commentavano il film di emozioni che era stato appena
trasmesso davanti ai loro occhi. Una ragazza si schiarì la voce, tutto tacque
di nuovo, e cominciò a parlare. Raccontò di quando era stata in gita in barca
ed aveva conosciuto Francesco, della passeggiata mano nella mano, del bacio
segreto confessato a tutti. Aveva i capelli lisci, che le arrivavano fin sotto
le spalle, mori, la linee del viso delicate, gli occhi circondati da un paio di
occhiali rotondi ed una voce simpatica e decisa, che vibrava nell’aria
immateriale di quel posto.
Mancavano
tre persone, dopo sarebbe toccato a me. Era inevitabile. Ognuno era disposto a
condividere con gli altri un po’ di sé stesso, un pizzico della propria vita,
e questo mi spaventava. Cosa avrei potuto raccontare di me, a loro, che non mi
conoscevano? Che dire in un mondo che non avevo mai visto, con gente nuova e
perciò pericolosa?
Le
idee nella mia mente si confondevano, diventando nulla come il tempo che mi
circondava. Due, ne restano solo due. Amore. L’unico argomento del quale
potevo ironizzare con loro come facevo con me stessa, con la mia stanza, con
chiunque, nessuno. Nella mia impercettibile esistenza tre erano state le persone
che avevano contato veramente: Marco, Giovanni, e Massimiliano. Tre nomi di cui
avrei potuto parlare per ore, anche se sapevo che lo spazio che avevo per
raccontarmi era estremamente ridotto. Dovevo scegliere chi maggiormente era nel
mio animo, per chi ero lì, a sognare in un sogno.
Il
mio turno arrivò più in fretta di quanto l’immobilità di quel posto mi
faceva immaginare. Misi da parte la ragione, la timidezza, e mi buttai senza
alternative.
“Tre
anni fa conobbi un ragazzo. Era il mio primo anno di liceo e avevo sentito tanto
parlare dell’”autogestione”. L’aveva fatta mio fratello da sempre, e mi
allettava l’idea di provare qualcosa di nuovo, in quell’universo ancora
totalmente sconosciuto per me. Dopo varie tragedie familiari e qualche animosa
lite, convinsi mia madre a farmi partecipare, “solo per una prova”.
Arrivai
lì entusiasta, a fianco le compagne appena conosciute, che condividevano con me
quella che doveva essere l’avventura dei nostri primi mesi di scuola. Dopo le
varie spiegazioni in aula magna, ci sguinzagliarono per le classi, ognuno in
cerca del corso entusiasmante, o dell’angolo in cui potersene stare
tranquilli, al riparo da quella confusione. Camminavo a passi svelti, quasi
sapessi già dove andare, lessi “Scacchi” su una porta, andai avanti, e mi
ritrovai davanti la scritta “Corso di teatro”. Mi voltai sorridendo alle mie
compagne: almeno per un’ora avevamo trovato dove stare. Chi teneva il corso
era lo stesso personaggio fisicamente perfetto e un po’ egocentrico che avevo
notato poco prima, durante le spiegazioni di rito, e lo fissai intensamente
mentre trovavo una collocazione tra il cappotto nero di Azzurra, e quello grigio
di una ragazza più grande. Tirò fuori, come un giocoliere, un coniglio dopo
l’altro dal suo cappello, tra scene tipicamente comiche, umorismo, quei chiari
riferimenti all’educazione sessuale di cui tutti parlano e che tutti temono,
ed una sottile ironia, che spuntava fuori in alcuni spezzoni. Non ci facevo caso
allora, e forse, li creo adesso sulla scia di un sentimento.
Alla
fine dei quattro giorni di autogestione, avevo imparato quattro nomi, di quelli
che sarebbero stati i miei
“paladini”, le persone speciali da imitare: Enrico, che teneva il corso,
Francesco, un ex-allievo che tornava a darci “lezioni di stile”, Nicola, che
ancora non c’era, ma la cui immagine era sempre presente, come un fantasma, e
Massimiliano.
L’anno
seguente io e le mie oramai affermate amiche riproponemmo la vacanza
ufficializzata. Le spiegazioni in aula magna, l’eccitazione, poi la mia folle
corsa verso quella classe che un anno prima mi aveva fatto sentire a casa, e le
mie amiche che rassegnate prendevano posto affianco a me, sapendo che non avrei
neanche guardato da lontano gli altri corsi. Ed ecco Nicola che, del primo anno,
si era conquistato più amicizie di quante io me ne sia costruite in quindici.
Ha una dote innata per la recitazione, e con il suo egocentricismo si
accompagnava bene alla razionale passione di Massimiliano. Una scenetta che
spero non dimenticherò mai: l’essere contro l’avere, Massimiliano contro
Nicola, e la mia anima che già bussava con un nuovo amore sulle spalle.
Anche
in questo caso, quattro giorni di completa dedizione, senza un ripensamento, un
“mi sto annoiando”, anche quando la recitazione era pessima ed avevo voglia
di uscire, per rispetto a quei quattro, ai “miei” quattro, che amavo ed
ammiravo più di me stessa.
A
maggio, tra compiti, divertimento, e studio, mi ritrovo ad assistere ad una
rappresentazione del “Corso di teatro” della scuola, nel quale l’unico a
non partecipare è Enrico, con Francesco come Direttore Artistico, quando già
non ci parlavamo più e la mia considerazione per lui era diventata nulla, e
Nicola e Massimiliano come attori di rilievo. Il primo fece un’interpretazione
stupenda, il secondo tentennò inizialmente, rincuorandomi poi verso la fine
dello spettacolo, quando si esibì in una scena divertentissima, in cui recitò
come solo lui sa fare. Mentre tornavamo a casa, un lampo occupò la mia mente, e
poi sparì: pur essendo il mio cuore temporaneamente occupato, quel sentimento
era entrato nel mio cuore in punta di piedi, pronto a farmi male.
Mancavano
due giorni alla fine della scuola quando la consapevolezza si impadronì della
mia anima. Eravamo scesi in aula magna per una premiazione, e Massimiliano lesse
una poesia. Piansi. Era ad un metro da me, e filtrava quelle sillabe in modo
indescrivibilmente bello, magico, speciale. Cercai di negare a me stessa quello
che stava succedendo, prima di negarlo agli altri.
E’
basso, robusto, troppo serio, adulto, la voce stridula. Ma per quanto
continuassi a schernirlo, la sua immagine era sempre lì, davanti a i miei
occhi, aspettando solo che il siero che mi aveva iniettato facesse effetto e che
finalmente cedessi.
La
fine della scuola era dalla mia parte, non lo vidi per moltissimo tempo, e tirai
un sospiro di sollievo. L’ultima persona che avevo creduto di amare non era
chi pensavo che fosse, ed in più mi aveva fatto troppo male. Massimiliano
costituiva l’insieme dei miei sogni, e delle mie paure, ma mi consolavo nei
miei quindici anni, in cui amore ed odio si avvicendano in un continuo scambio
di ruoli.
Da
quando la scuola è cominciata, ho capito che non è come pensavo. Non si tratta
di qualcosa di passeggero, del dire “mi piace” per una settimana, ma di
mesi, di giorni in cui non sono riuscita a studiare pensando a cosa stesse
facendo, di istanti in cui avrei desiderato abbracciarlo, così, per sempre. La
disperazione forse, la stanchezza, il voler credere in un sogno, o meglio,
“nella speranza di non essere più sola”, mi hanno spinto a fare ciò che ho
fatto.
Una
lettera, tre quarti di pagina stampati con inchiostro nero su sottile carta
bianca, che da vigliacca gli ho fatto consegnare. Cosa pensava di fare il mio
istinto in quel giorno in cui ho perso la mia razionalità, la mia logica, non
lo so. Forse la mia anima aveva visto troppi film, nei quali il finale si può
scrivere, cancellare, e digitare di nuovo.
Sul
copione della vita non si possono cambiare le carte, cancellare aggettivi,
aggiungere nomi, togliere emozioni. Mi è venuto a cercare, naturalmente, ma in
quel momento già la mia capacità di pensare aveva ripreso il controllo,
portandosi dietro la timidezza che odio.
Come
una ferita al cuore che viene riaperta, sento ancora il sangue scorrere ogni
volta che la mia mente torna a quel sabato 22 Dicembre: la mia voce rotta, il
suo sguardo di ghiaccio.
E
da quel giorno ho fatto in modo di evitarlo, faccio finta di non vederlo quando
lo incontro, e piango nel mio letto aspettando un miracolo.
E
questo è tutto.”
Anche
il mio racconto era finito con una frase banale, come tutta la vicenda del
resto. Una quindicenne non può cercare di avere diciotto anni prima di
compierli, ma la mia presunzione questo lo aveva dimenticato.
Il
sogno si è svegliato, l’incantesimo si è rotto, come tutte le volte che
sogno di sistemare quello che ho fatto e che la realtà mi smentisce ponendomi
di nuovo davanti la timidezza che mi uccise, ed il giudizio degli altri che mi
terrorizza.
Questa
volta però, a differenza di tutte le occasioni nelle quali la vita mi ha negato
l’accoglienza, ci credo ancora. Nel miracolo di un dio, in un coraggio
ritrovato di una ragazza, nella speranza di un domani che, pur essendo così
felice, io non veda così triste.
“Che
il 2002 ti dia la consapevolezza di ciò che di grande potresti essere se solo
imparassi a sorridere anche nella pioggia…”.