Anatomia Patologica del cuore


Lezione del 19/10/2000
prof. Ferretti

 

 

L’altra volta abbiamo parlato dell’infarto, in particolare abbiamo visto quali sono le cause che lo determinano e le lesioni che ne derivano. Abbiamo anche visto come funziona da un punto di vista patogenetico l’infarto: si tratta di una necrosi coagulativa per quanto riguarda il miocardio.

Ha tutto in comune con i normali processi di necrosi che interessano altri organi: c’è un apparato di necrosi ed una fase riparativa che termina con la cicatrizzazione della lesione, sempre che l’organo sopravviva all’evento. Il problema è proprio questo, perché il muscolo cardiaco è estremamente delicato, sia per questioni strutturali sia per motivi funzionali.

In base al distretto vascolare interessato, alla quantità della lesione ed alle condizioni generali del soggetto, si hanno diversi livelli di gravità.

L’infarto è visto classicamente come la lesione di un solo vaso per una placca aterosclerotica; di solito è una patologia che non si sviluppa a ciel sereno ma in individui con un sistema arterioso compromesso, senza, quindi, grosse possibilità di compenso. Tenete anche presente che questo quadro di compromissione può verificarsi anche senza occlusione fisica del vaso. Infatti, può avvenire per un aumento della densità del sangue che rallenta la velocità del flusso, facendo scendere al di sotto della soglia di sopportabilità l’ipossia del paziente.

Un quadro di infarto può verificarsi anche in seguito a patologie di carattere infettivo ed infiammatorio.

Da un punto di vista anatomo-patologo possiamo avere due tipi di infarto: possiamo avere infarti diffusi o infarti circoscritti a seconda del distretto vascolare interessato. Più l’occlusione è a monte, più vasta sarà l’area interessata dall’ischemia ed eventualmente dall’infarto perché, vi ricordo, la circolazione cardiaca è una circolazione terminale, oppure c’è anche la possibilità che il quadro di compromissione provochi un infarto più robusto. C’è la possibilità che l’infarto riguardi tutta la parete (infarto TRANSMURALE) oppure solamente una parte.

La volta scorsa abbiamo precisato che l’area più fragile è quella subendocardica poiché prende il sangue dal tratto terminale delle arterie coronarie.

Abbiamo anche visto le cose importanti che si fanno quando l’infarto è in corso per prevenire l’allargamento, circoscrivendo la zona infartuata, tenendo presente che l’intervento medico si realizza molto spesso a giochi fatti.

Per comodità si possono dividere le complicanze dell’infarto in base al tempo che intercorre dall’infarto stesso; le complicanze si verificano durante la fase di riparazione ed occupano gran parte dell’attività medica.

 

Qual è secondo voi la PRIMA grande complicanza dell’infarto?

Il muscolo va in necrosi e la gittata si riduce poiché abbiamo meno tessuto disponibile; questo riguarda, quindi, infarti di una certa portata, dove viene ridotta sensibilmente la quantità di muscolo disponibile per attivare una sistole valida e, di conseguenza, si ha shock cardiogeno. Entro pochissimi minuti la parte lesa del cuore, pur non essendo ancora in necrosi, cessa di battere perché ha finito la benzina e si tutela attraverso un meccanismo di risparmio energetico che prevede l’interruzione della gittata. In conclusione, se l’infarto è grave come prima complicanza si può avere shock cardiogeno: è una complicanza molto grave.

Vi viene in mente un’altra complicanza precoce contro la quale il clinico mette in gioco una serie di misure terapeutiche? I problemi prima descritti succedono solo se l’infarto è esteso?

Se l’infarto è piccolo, ovviamente, non si ha una diminuzione significativa della massa muscolare. Occorre, però, porre massima attenzione ai NODI. Infatti, se arriva un paziente in stato di fibrillazione, è indispensabile arrestare immediatamente la fase di fibrillazione e riattivare la normale attività cardiaca. C’è, infatti, la possibilità che infarti anche piccolissimi vadano a ledere una zona critica che è rappresentata dai Nodi dei fasci di conduzione. Come sapete, il cuore, funzionalmente parlando, è un sincizio, cioè è formato da molte cellule divise fra loro che sono, però, estremamente interconnesse dal punto di vista funzionale; ha un equilibrio stabile ma abbastanza delicato poiché, quando il flusso normale degli impulsi si interrompe, c’è la possibilità che si originino dei centri ectopici di genesi del battito cardiaco, di avere dei blocchi e c’è la possibilità di avere dei meccanismi di rientro. Tutto ciò provoca alterazioni anche gravi dell’attività elettrica del cuore e, in questi casi, l’alterazione più grave da temere è la fibrillazione ventricolare. Per cui anche infarti di piccolissima entità, persino infarti che non si riescono a vedere al tavolo anatomico, se interessano una zona critica ed innescano una fibrillazione ventricolare possono causare una shock cardiogeno, nel senso che il cuore continua ad avere un’attività elettrica ma non assolutamente normale dal punto di vista funzionale.

Abbiamo, quindi, visto le due complicanze fondamentali: riduzione della gittata ed alterazione del tessuto di conduzione.

Andiamo avanti: successivamente all’infarto si ha la necrosi di tutte le strutture interessate dall’ischemia.

Altra cosa importante è la lesione del foglietto endocardico: questo non avviene immediatamente anche se nello schema ve l’ho messo fra le complicanze precoci (sarebbe da considerare tra le precoci e quelle a medio termine). In caso di alterazione del foglietto endocardico, come nel caso di alterazione di qualsiasi struttura endoteliale, si ha l’attacco delle piastrine e si attiva un meccanismo di TROMBOSI. Col trascorrere del tempo (diverse ore, fino a 1-2 giorni), si può avere una trombosi murale a vari livelli; il trombo può creare grossi problemi per quanto riguarda la possibilità che si stacchino EMBOLI. Questo può avvenire se accompagnato da fibrillazione, problema che si presenta maggiormente a livello atriale. Quindi, nel caso di trombosi, si ha la possibilità che si formino delle embolie poiché si staccano dei frammenti del trombo che vanno in circolo: prendono la via dell’aorta e vanno a finire in tutti i distretti tributari dell’aorta, prime fra tutte le coronarie.

Una delle complicanze dell’infarto più temibili a MEDIO TERMINE è la rottura del cuore, cioè la zona lesa si rompe.

Perché il miocardio si rompe? E perché si rompe a medio termine?

Il cuore si rompe in una determinata sezione dell’area infartuata e si rompe dopo un certo tempo. La rottura avviene nella zona di confine fra l’area infartuata e l’area che è rimasta intatta poiché è la zona con minore resistenza.

Ripassiamo cosa avviene nella zona di infarto: c’è la necrosi, dopo qualche ora arrivano i granulociti, dopo due o tre giorni arrivano i macrofagi e si forma il tessuto di granulazione, formato da vasi che sono deboli. E’ il motivo per cui il cuore si rompe alla periferia della lesione e si rompe cinque – sei – sette giorni dopo l’infarto; prima non è possibile in quanto, prima il tessuto di granulazione non è così formato da consentire un punto di minore resistenza dove il muscolo si rompe. In seguito, al tessuto di granulazione subentrano i fibroblasti che formano una struttura più robusta.

A LUNGO TERMINE si possono avere delle complicanze di cui abbiamo già parlato trattando gli aneurismi: alla parete muscolare, attiva da un punto di vista funzionale, si sostituisce la parete fibrosa che non partecipa alla contrazione ma subisce passivamente la spinta della pressione sanguigna quando tutto il resto del muscolo si contrae. In pratica, tutto il muscolo si contrae verso l’interno, mentre l’area fibrosa subisce la spinta del sangue verso l’esterno; con il passare del tempo, se quest’area è sufficientemente grande, c’è la possibilità che si dilati e formi un ANEURISMA. Possibilità che diventa quasi una conseguenza inevitabile in quanto, come abbiamo visto per le arterie, tutte le volte che la parete inizia a dilatarsi è costretta a dilatarsi sempre di più dalle forze che agiscono in questo punto. Siamo in una situazione di non ritorno per cui c’è un inevitabile cedimento che può formare un aneurisma ventricolare, cioè una sacca che diventa sempre più grande e che costituisce un impedimento alla normale funzionalità del cuore poiché in questa sacca il sangue ristagna anziché venire espulso nell’aorta. Rimanendo fermo, attraverso meccanismi di lesione dell’endotelio e di creazione di vortici, possono crearsi dei trombi all’interno dell’aneurisma.

C’è, infine, un’altra possibilità: come l’infarto interessa il muscolo e l’endocardio, può anche interessare il pericardio. Si può sommare un processo infiammatorio (lo stesso che abbiamo visto per gli aneurismi) in cui tutta la parete partecipa. Il foglietto viscerale del pericardio perde la propria integrità ed è, quindi, facile che aderisca al foglietto parietale; questo succede in tutte le sierose (cuore, pleure, peritoneo), ma, mentre a livello pleurico e peritoneale l’aderenza non è particolarmente importante, a livello cardiaco lo è in quanto il cuore ha un margine piuttosto ristretto per poter funzionare. C’è, quindi, la possibilità che si instauri una PLEUROPERICARDITE che può impedire la normale attività del cuore.

Possono anche instaurarsi patologie collaterali in seguito a problemi di carattere immunitario nei confronti di questa lesione.

Si parla di PLEURITI e PERICARDITI su base immunitaria.

Fra queste, una delle più conosciute è la cosiddetta SINDROME DI DRESSLER, in seguito alla quale si possono avere delle pericarditi, per cui anche un infarto che decorre normalmente e viene riparato, ha come esito finale una pleuropericardite per cui il cuore viene costretto all’interno di una grossa area fibrosa che ne impedisce il funzionamento.

 

Riapriamo un capitoletto sulle rotture del cuore.

Quando il cuore si rompe, il sangue va a finire fra il foglietto viscerale ed il foglietto parietale del pericardio. Per tamponamento cardiaco si intende una situazione in cui un grosso versamento pericardico crea un ostacolo alla normale circolazione del cuore; la situazione è molto delicata poiché i segni clinici (rappresentati essenzialmente dalla morte del soggetto) intervengono in maniera rapidissima in quanto il pericardio viene inondato da una quantità di sangue che di per sé non è eccessiva (alcune centinaia di cc.), ma che determina un meccanismo multifattoriale. Infatti, la totalità dell’energia del cuore viene utilizzata per pompare sangue in un buco, cioè la maggior parte del sangue viene veicolata nella cavità pericardica; da qui c’è un certo livello di compressione. Tutto il sangue che va a finire nella cavità pericardica viene sottratto dal circolo sistemico. Abbiamo, quindi, un cuore che ha grossi problemi di funzionamento in quanto ha avuto l’infarto; abbiamo una diminuzione della gittata cardiaca in quanto il sangue va a finire nel pericardio ed abbiamo una situazione di compressione: ciò che si determina è una situazione di shock cardiogeno acuto che porterà il cuore a morte per l’impossibilità di mantenere un ritmo cardiaco sufficiente.

Quando si rompe il cuore c’è sempre il sanguinamento?

Si può rompere il setto interventricolare ed in questo caso non c’è sanguinamento del pericardio ma vi è SHUNT: il sangue del ventricolo sinistro passa al ventricolo destro con conseguente aumento del circolo polmonare. Rappresenta un circolo vizioso poiché il sangue fa cuore sinistro – cuore destro – polmoni – cuore sinistro, ecc….; il circolo polmonare si trova all’improvviso a dover fronteggiare un gradiente pressorio molto più elevato della norma, senza avere possibilità di adattamento.

C’è, infine, la possibilità di un ulteriore tipo di rottura: quella dei MUSCOLI PAPILLARI (le valvole e le corde tendinee non possono rompersi in quanto non hanno vasi); come conseguenza si ha un’insufficienza valvolare che, clinicamente parlando, è avvertibile con l’esistenza di un soffio sistolico durante tutta la sistole poiché c’è un rigurgito di sangue fra il ventricolo e l’atrio. L’insufficienza valvolare che si è creata è generalmente fatale in quanto anche in questo caso non c’è il tempo per trovare un adattamento a livello polmonare. Lo scompenso, infatti, crea una congestione polmonare gravissima che provoca in breve tempo (max un minuto) la morte del paziente per insufficienza polmonare.

 

DIAPOSITIVE (commento)

 

Un infarto subendocardico appare come una zona di pallore, un po’ più asciutta di aspetto, che forma una corona sotto l’endocardio; il resto del muscolo è abbastanza integro.

Prima avevamo visto un infarto circoscritto che interessava tutto lo spessore in un settore; ora, invece, abbiamo un infarto a base subendocardica che interessa tutto il subendocardio ma non a tutto spessore. Questi sono i due tipi principali di infarto, che hanno patogenesi e decorso clinico differenti.

Tramite reazioni chimiche che avvengono nel muscolo è possibile far diventare bianche le aree infartuate (le aree normali diventano blu).

Rottura di cuore: viene sezionato il pericardio, al cui interno si vede del materiale ematico (di solito coaguli). Estraendo cuore e polmoni, ed eliminando la parte liquida, rimane un grosso coagulo che si è formato nella cavità pericardica; è possibile anche vedere la zona di frattura.

Aneurisma acuto di cuore: dilatazione rapida; situazione di pre-rottura, in cui la parete, fortemente indebolita, è portata a dilatarsi. Il pericardio normale appare lucido, perché ricoperto da endotelio.

Pericardite fibrinosa: l’endotelio si è alterato e vi è deposito di fibrina; il pericardio normale appare lucido in quanto ricoperto da endotelio.

 

Complicanza molto grave è la Recidiva dell’infarto: ciò che ha prodotto il primo infarto è un substrato patologico che ha la possibilità di produrne un altro; quindi, tutti i pazienti che hanno avuto un infarto hanno un elevato rischio di averne un altro (circa il 25% dei pazienti sintomatici). Si vede una zona biancastra, cioè tessuto fibroso riparato, mentre ai margini c’è una zona rosso-biancastra che rappresenta una recidiva. I pazienti già infartuati, quindi, devono essere seguiti tramite una serie di parametri per prevenire il rischio di altri infarti.

 

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