Giacomo Leopardi - Opera Omnia >>  Zibaldone di pensieri  -  Pagg. da 3747 a 3901 PAGG. 3541-3746  <--  *  -->  PAGG. 3902-4030    




 

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[3747]Come la lingua francese illustre è dominata, determinata e regolata quasi interamente dall'uso, e certo più che alcun'altra lingua illustre, così, perocchè l'uso è variabilissimo e inesattissimo, essa lingua illustre non solo non può esser costante, nè molto durare in uno essere, come ho notato altrove, ma veggiamo eziandio che la proprietà delle parole in essa lingua è trascurata più che nell'altre illustri, e trascurata per regola, cioè presso gli ottimi scrittori costantemente, non meno che nel parlare ordinario. Voglio dir che gli usi di moltissime parole e modi ec. anche presso gli ottimi scrittori, sono più lontani dall'etimologia e dall'origine e dal valor proprio d'esse parole ec. meno corrispondenti ec. che non sogliono esser gli usi de' vocaboli nell'altre lingue illustri presso, non pur gli ottimi, ma i buoni scrittori, e in maggior numero di voci ec. che nelle altre lingue illustri non sono. Che vuol dir ch'essi usi e significati sono più corrotti ec. E non potrebb'essere altrimenti perchè l'uso corrente cotidiano e volgare e generalmente la lingua parlata, anche dai colti, (che è quella cui segue il francese scritto) corrompe ed altera ogni cosa e non mai non cessa di rimutare e logorare ec. P.e. per dire il materiale e lo spirituale, o il sensibile e l'intellettuale, i francesi dicono il fisico e il morale. (le physique et le moral, le physique et le moral de l'homme, le monde physique et le [3748] monde moral etc.). Qual cosa più impropria di queste significazioni, o che si considerino in se stesse o nella loro scambievole opposizione e in rispetto l'una all'altra? Fisico propriamente significa forse materiale o sensibile? E il fisico, che vuol dir naturale, è forse l'opposto dello spirituale o intelligibile? Quasi che questo ancora non fosse naturale, ma fuori della natura, e vi potesse pur esser cosa non naturale e fuori della natura, che tutto abbraccia e comprende, secondo il valor di questa parola e di questa idea, e che si compone di tutto ch'esiste o può esistere, o può immaginarsi ec. E il morale com'è l'opposto del naturale? Sia che riguardiamo la propria significazione di morale sia la francese. E che hanno che far l'idee, l'intelletto, lo spirito umano, gli altri spiriti, il mondo e le cose astratte ec. coi costumi, ai quali soli propriamente appartiene la voce morale? e gli appartiene pure anche in francese, e anche nel parlare e scriver francese ordinario (la morale, moralité, etc.). Così dite degli avverbi physiquement o moralement ec.

[3749] Di tali esempi se ne potrebbero addurre infiniti.

La lingua latina illustre fu, non solo tra le antiche, ma forse fra tutte, la più separata e diversa, e la meno influita e dominata dalla volgare. Parlo della lingua latina illustre prosaica (ch'è poco dissimile dalla poetica) rispetto all'altre pur prosaiche perchè p.e. la lingua poetica greca fu certo (almen dopo Omero ec.) anche più divisa ec. dalla greca volgare. Ma ciò come poetica, non come illustre, e qualunque linguaggio appo qualunque nazione è veramente poetico e proprio della poesia, di necessità e per natura sua è distintissimo dal volgare; chè tanto è quasi a dir linguaggio proprio poetico, quanto linguaggio diverso assai dal volgare. S'egli ha ad esser assai diverso dal prosaico illustre, molto più dal volgare. Fra le lingue illustri moderne, la più separata e meno dominata dall'uso è, cred'io, l'italiana, massime oggi, perchè l'Italia ha men società d'ogni altra colta nazione, e perchè la letteratura fra noi è molto più esclusivamente che altrove, propria de' letterati, e perchè l'Italia non ha lingua illustre moderna ec. Per tutte queste ragioni la [3750] lingua italiana illustre è forse di tutte le moderne quella che meglio e più generalmente osserva e conserva la proprietà delle voci e modi. Ciò presso i buoni scrittori, cioè quelli che ben posseggono e trattano la lingua illustre, i quali oggi son men che pochissimi, e quelli che scrivono la lingua illustre, i quali oggi sono in minor numero di quelli che non la scrivano, o il fanno più di rado che non iscrivono la volgare. Perocchè oggi la lingua più comunemente scritta e intesa in Italia nelle scritture, non è l'illustre ma la barbara e corrotta volgare; e però ella non conserva punto la proprietà delle parole ec. ma sommamente se n'allontana, come fa la volgare. E p.e. quel fisico e morale, fisicamente e moralmente ec. nel senso francese, è oggi del volgare italiano, e dello scritto non illustre, non men ch'e' sia dell'illustre e del volgare francese ec. Ma presso i nostri buoni scrittori di qualunque secolo (non che gli ottimi), si vedrà forse più che in niun'altra lingua illustre moderna, [3751] osservata e conservata la proprietà delle parole e dei modi ec. Cioè l'uso loro esser totalmente e sempre, o quasi totalmente e quasi sempre, o più e più spesso che nell'altre lingue illustri, e in assai maggior numero di parole e modi ec., conforme al significato ch'essi ebbero da principio nella lingua e ne' primitivi scrittori italiani, ed anche alla loro nota etimologia, ed al senso ed uso ch'essi ebbero nella lingua onde alla nostra derivarono, cioè massimamente nella latina, madre della nostra. Certo la proprietà latina nell'uso e significato delle parole e dei modi, (siccome la forma, lo spirito ec. della latinità, della dicitura latina, il modo dell'orazione in genere, del compor le parole, dell'esporre e ordinar le sentenze, dello stile ec. ec. E quanto a queste cose, anche in ordine alla lingua greca l'italiano illustre è la lingua più simile ch'esista ec. ec.) è molto meglio e in assai maggior parte conservata nell'italiano veramente illustre, per insino al dì d'oggi, che in alcun'altra lingua; e forse più nell'italiano illustre degli ultimi nostri buoni scrittori, che nel linguaggio de' più antichi e migliori scrittori francesi, spagnuoli ec. (21. Ott. 1823.)

Diminutivi positivati. Novello, nouveau, Novella, rinnovellare ec. ec. V. il Forc. in Novellus (quasi iuvenculus) e i derivati sopra e sotto la detta voce: gli spagnuoli ec. (22. Ott. 1823.)

[3752] Alla p. 3685. Ho detto il genitivo ec. Tutti i nomi o verbi o avverbi ec. latini che son fatti immediatamente da qualche nome, son fatti dal genitivo o da' casi obliqui di questo nome, non mai dal nominativo (nè dal vocativo s'egli è conforme al nominativo, nè dall'accusativo come da manum onde sarebbe manalis non manualis, da tempus accusativo onde sarebbe tempalis non temporalis ec. ec. Tempestas però par che venga da tempus accusativo o nominativo). Ciò in moltissimi casi (come in dominor da dominus i ec.) non si può conoscere nè distinguere, ma in moltissimi sì. Miles itis - milito, militia, militaris ec. nomen inis - nomino ec. (1) salus utis - saluto ec. Imago inis - imagino ec. Virgo inis - virgineus ec. Magister istri - magistratus ec. Sempre che si può distinguere, troverete che così è. (V. la p. 3006. marg.) Eccezione. Propago inis - propagare in vece di propaginare (che noi però abbiamo altresì, e l'ha anche Tertull. V. Forc. e il Gloss. ec.), se però propagare non è piuttosto fatto da propages is, o se propago non viene anzi da propagare (il che mi è molto verisimile, se l'etimologia è da pango, come il Forcell. in propago inis. Allora propago as per propango is apparterrebbe a quella categoria di verbi di cui p. 2813. sqq. e nelle ivi richiamate ec. [3753] E in esse pagg. si vedrebbero gli esempi e l'analogia e la ragione per cui pango in propago as o in propago inis abbia perduta la n, e perchè mutata coniugazione ec. che altrimente non son cose facili a dirsi. E certo l'osservazione fatta qui dietro, persuade che propagare non debba venir da propago inis: bensì propaginare). E s'altre tali eccezioni si trovano; ma saranno ben poche, s'io non m'inganno. (2) Eccettuo ancora quei derivati che piuttosto sono inflessioni ec. de' rispettivi nomi, che altri nomi fatti da questi, come lapillus, (se questa e simili non sono contrazioni, v. p. 3901) vetusculus dal nominativo di vetus eris ec. Ma questo diminutivo è di Sidonio. Gli antichi vetulus. Nigellus potrebb'esser da nigeri non da niger, come puellus da pueri non da puer. V. p. 3909.; nigellus ch'è dal nominativo di niger, e altri tali diminutivi ec. Se già gli antichi non dissero magister isteri, niger eri ec. (22. Ott. 1823.). E così tengo per fermo; ond'è magisterium, ministerium ec. per magistrium, piuttosto dall'obliquo magìsteri, magìstero ec. poi contratti, che da magistrium, ministrium per epentesi della e. Infatti gli antichi dissero magisterare, ma i più moderni magistrare, onde magistratus us ec., come ministrare [3754] ec. Insomma queste non mi paiono eccezioni, perchè si riducono alla regola coll'osservare il modo dell'antichità e lo stato primitivo delle voci, mutato poscia, e così si potranno risolvere mill'altre tali eccezioni apparenti. In ogni modo il più delle volte è vero che i derivati de' nomi vengono da' casi obliqui, come ho detto, di qualunque declinazione sieno i nomi originali, come si è mostro cogli esempi, e non solamente se essi nomi son della quarta, chè allora si potrebbe negare quello che noi affermiamo dei derivati di questi, cioè che vengano da' casi obbliqui e fra questi derivati da' casi obliqui sono certamente quelli fatti da' nomi della quarta e notati da noi ec. Il che basta al caso nostro. (22. Ott. 1823.)

Alla p. 3728. Quest'uso latino di mutare alle volte il primo n in g, quando concorrerebbero due n, uso che si vede in agnatus, cognatus, cognosco, ignosco, ignotus, ignobilis, ignarus, ignavus ec. per annatus, connatus, (che anche si trova), connosco, innosco, innotus (v. Forc.), innobilis, innarus, innavus (che sarebbero come innocens, innumerus, innobilitatus) ec. ec. (3) (p. 3695.) corrisponde all'uso della pronunzia spagnuola che suol mutare in gn il doppio n delle parole latine o qualunque (come año, caña per canna ec.), e che generalmente [3755] rappresenta il suo gn col carattere ñ che è il segno di un doppio n. (Se però i latini pronunziavano ig-navus ec. come a p. 2657., l'uso spagnuolo di dir agno per annus ec. non ha che far niente col lat. ig-navus per innavus. Tuttavia può pur avervi che fare, in quanto anche appo gli spagnuoli quell'año ha sempre una pronunzia di g).

Del resto non solo nel concorso delle due n, ma anche fuor di questo caso, i latini usavano di preporre o frapporre avanti la n il g. Come in prognatus per pronatus (che anche si trova), adgnascor per adnascor, adgnatus per adnatus ec. (i quali perciò dimostrano un semplice gnascor), e in gnarus, gnavus, gnavo, gnosco, gnobilis ec. (sicchè forse ignarus ec. non sono per innarus ec. ma più probabilmente per i-gnarus, i-gnavus ec. cioè per ingnavus, ingnarus ec.). Onde resta fermo quel ch'io [ho] detto p. 3695. che i latini usavano, come gli Eoli, il g veramente protatico (perchè anche in pro-gnatus per pro-natus, in i-gnobilis per innobilis ec. ei viene a esser protatico.). E quest'uso ancora [3756] avrebbe qualche corrispondenza coll'uso spagnuolo di mutare alle volte, se non erro, anche l'n semplice delle voci latine ec. in ñ. (22. Ott. 1823.)

Prolicio, prolecto as ec. Aggiungansi alle cose dette nella mia teoria de' continuativi (sul principio) circa i verbi allicio, allecto ec. (22. Ott. 1823.)

Verbo diminutivo in senso positivo. Nidulor per nidor aris (che non esiste) da nidulus per nidus. Noi abbiamo annidare ec. (22. Ott. 1823.)

Alla p. 3706. Senza fallo il nostro verbo fu noo is, non no nis. (e altrettanto si dica di poo, non po, da πόω, il quale dovette essere poo pois povi potum secondo le ragioni che or si diranno). 1. Da no non si sarebbe fatto nosco ma nisco. Veggasi la p. 3709. fine-10. principio. 2. No non avrebbe fatto nel preterito novi ma ni (o per duplicazione neni), come suo sui, luo lui ec. Noo bensì doveva far noi, come suo sui ec. (p. 3731. seg. 3706. marg.), poi per evitar l'iato fece novi, come amai amavi, docei docevi, [3757] lui luvi ec. (p. 3706. 3732. V. Forc. in luo verso il fine). 3. Così no non avrebbe fatto notum ma nitum. (4) Nè questo si sarebbe mai mutato in notum, nè ni o neni in novi. Bensì noi in novi nel modo detto; e in notum il regolare noitum di noo (p. 3708. marg. 3731-2. 3735.). Anche Nomen, agnomen, cognomen ec. vien da noo, e serve a mostrare, primo, noo non no (onde sarebbe nimen, come da rego, regimen ec.); secondo, noo da cui esso viene, non da nosco, checchè dica il Forc. in nomen, princip. e quivi Festo ec. 4. Nobilis non potrebbe venir da no. Bensì da noo. Perocchè i verbali in bilis nel buon latino non si fanno se non da supino in tum (o partic. in tus), e non da altri, mutato il tum (o tus) in bilis. V. p. 3825. Bensì tali supini (o participii) non sono sempre noti, ma dato il verbale in bilis, e' si possono conoscere mediante l'analogia e la cognizione dell'antichità e della regola della lingua latina, le quali anche da se li possono mostrare, e il verbale in bilis li conferma, sempre ch'egli esista. P.e. Docibilis è da doci-tum. Questo supino già lo conoscevamo per altra via, benchè inusitato, cioè per altri argomenti ec. Il verbale docibilis lo conferma. Immarcescibilis da marcescitus inusitato. Già abbiam detto e sostenuto che il proprio participio [3758] o supino de' verbi in sco era in scitus. Eccone altra prova in marcescitum di marcesco (che ora non ha o non gli s'attribuisce supino alcuno) dimostrato da immarcescibilis. Solu-tum, volu-tum, solu-bilis, volu-bilis ec. Labilis, nubilis, habilis ec. sono dai regolari, veri ed interi, benchè inusitati supini, labitum, nubitum, (habitum è usitato, anzi solo usitato, ma non è il primitivo) ec., secondo la regola, fuor solamente ch'e' son contratti da labi-bilis, nubi-bilis per effetto di pronunzia accelerata o confusa ec. o per evitare il cattivo suono ec. (5) Or dunque da no nitum avremmo nibilis. Nobilis non può essere che da no-tum, gnobilis da no-tum o da gnotum, ignobilis da no-tum o gno-tum o igno-tus o gnobilis o nobilis. Ovvero nobilis ec. sono contrazioni di noibilis come notum lo è di noitum. Vedi la pag. 3832. fine.

Secondo queste osservazioni, nobilis, gnobilis, ignobilis confermano l'esistenza di un verbo originario di nosco, al quale è chiaro ch'essi hanno attinenza; ma se venissero da nosco farebbero noscibilis ec. da noscitum, ed anche il Forc. che certo non aveva osservata la formazione de' verbali in bilis da' supini in tum, pur vide che nobilis era quasi noscibilis (vedilo in [3759] nobilis princip. dove ha vari spropositi, secondo le nostre osservazioni). Nè da noscibilis sarebbe stata punto naturale nè latina la contrazione in nobilis ignobilis ec. V. ignoscibilis, antica voce, nel Forc. la quale conferma il supino noscitum, secondo le presenti osservazioni, e che da nosco si sarebbe fatto noscibilis, non nobilis, come anche da marcesco immarcescibilis, non immarcibilis ec. V. anche nel Forc. noscibilis, agnoscibilis ec. irascibilis. Del resto nobilis, gnobilis ec. sono voci antichissime, onde ben poterono venire dall'antichissimo e poscia inusitato noo. [V. p. 3851.]

Possibilis (e impossibilis, possibilitas ec.) dimostra possitus, e quindi il participio o supino situm di sum, confermando il detto da noi in proposito di sto, come potens dimostra il participio sens (pag. 3742-4.).

Del resto noo, poo e simili andarono presto in disuso probabilmente per il cattivo suono di quel doppio o l'un dietro l'altro, onde si preferì l'uso de' verbi lor derivati, i quali restarono, e quasi o senza quasi nel senso degli originarii (massime nosco e composti ec.), o anche [3760] in esso senso ec. Nosco però non restò tutto, nè noo perì tutto, ma ne restò novi e notum ec. insomma una gran parte (dove non aveva luogo, o n'era stato scacciato, il cattivo suono), la quale supplì ai mancamenti e perdite sofferte dal derivato ec. Così di poo restò potus, epotus, potum, poturus ec. anche più usati di potatus ec., e potus sum ec. (22. Ott. 1823.). V. p.3850.

Niente d'assoluto. Qual cosa par più assoluta e generale, almen fra gli uomini, di quello che la corruzione sia nauseosa? Or le sorbe e le nespole, perocchè nello stato che per loro è vera maturità e perfezione, per noi non son buone a mangiare; bensì nello stato che per loro è vera, non pur vecchiezza, ma morte e corruzione; perciò mezze e corrotte si mangiano. - Lo schifoso è interamente relativo. La lumaca non fa schifo a se stessa. Non è schifoso a noi quello che in noi, o da noi uscito o prodotto ec. è schifoso agli altri. Il porco si diletta di ravvolgersi nel fango e lordure ec. E quanti uomini trattano e amano, e mangiano e gustano ec. [3761] cose che agli altri (a tutti o a più o ad alcuni, nella stessa nazione o in diverse) riescono schifosissime. - La sorba, la nespola, secondo noi, è perfetta quando è corrotta, misurando noi la perfezione di queste, come d'infinite altre cose, dall'uso nostro ec. Ma chi non vede che questa perfezione è al tutto relativa? e relativa a noi soli, anzi al solo uso del nostro palato e stomaco, ed in quanto la sorba è atta a divenirci una volta cibo, cosa a lei affatto accidentale ed estrinseca? E che la sorba non ne è perciò meno corrotta e degenerata? nè, per se stessa e per sua natura, meno perfetta allor quando ec. e non in altro tempo ec. (23. Ott. 1823.)

Si può applicare all'uomo in generale avendo riguardo alle illusioni e al modo in che la natura ha supplito coi felici errori ec. alla felicità reale, anzi può applicarsi ad ogni genere di viventi, quel verso del Tasso (Gerus. I. 3.) E da l'inganno suo vita riceve. (23. Ott. 1823.)

Forte, fortemente, fort, force ec. per molto, molti ec. Kάρτα. Vedi lo Scapula, e Arriano nell'Indica e nella Spediz. d'Alessandro ec. E nótisi che κάρτα per valde mostra d'essere antichissimo, ond'egli è poetico piucch'altro ec. V. Forcell. Gloss. Diz. franc. spagn. ital.

Anche i latini vehementer, vehemens ec. E valde è contrazione di valide ec. Onde nelle lingue moderne dicendo fortemente per valde si conserva la etimologia di questa parola ec. (23. Ott. 1823.)

A quello che altrove (6) ho detto di dompter da domitare, aggiungi promtus e promptus, promsi e prompsi, [3762] promtum e promptum, demsi e dempsi, demtum e demptum, temptare per tentare (v. Forcell. e il Cod. Cic. de republ. col Conspectus Orthograph. del Niebuhr), comsi e compsi, comptum e comtum, comptus e comtus, compte e comte, ec. ec. V. Forcell. I francesi scrivono anche domter domtable ec. e forse oggi più frequentemente. Il Richelet non ha che domter, l'Alberti che dompter. Vedi il Richelet in Compte, compter ec. che scrivevasi ancora, com'egli dice, comter, comte ec. Notisi peraltro che compter ec. viene da computare, sicchè il p vi è naturale e non ascitizio come in dompter ec. Infatti oggi i francesi, i quali scrivono Comte (da comes itis), comtat ec. scrivono sempre, ch'io sappia, compte da computus, compter ec. (23. Ott. 1823.)

A proposito di sylva da ὕλη, del che altrove. Sulla e Sylla, Symmachus e nel Cod. Ambros. delle Orazioni Summachus costantemente. V. Forcell. ec. (23. Ott. 1823.)

Chi vorrà credere che apto ed ἅπτω (de' quali altrove) essendo gli stessissimi materialmente, e significando propriamente la stessissima cosa, non abbiano a far nulla tra loro per origine ec. converrà supporre un'assoluta casualità che troverà pochi fautori ec. (23. Ott. 1823.)

Alla p. 2657. marg. E se in Italia, in che parte, (avendo noi tanti e sì diversi dialetti), come ne' paesi ove la pronunzia tien più dello straniero, ne' paesi di confine, nel Piemonte (ove forse è probabile che sia stato scritto il [3763] Cod. de rep. e così di Frontone ec.) nell'alta Lombardia e Venezia, o generalmente nella Lombardia o nel Veneziano. E se nel cuor d'Italia, ed anche in Roma, a che tempo, come ne' vari tempi che vi furono più stranieri, e più influenti ec. E finalmente da chi, se da italiani o stranieri, e italiani di che parte d'Italia, e di buona pronunzia o cattiva, e periti dell'ortografia o no, e vissuti fra gli stranieri o no ec. ec. (23. Ott. 1823.). Puoi vedere la p. 3754.

Alla p. 3692. Aggiungasi che scivi scitum di scisco, e de' suoi composti (ascitum, conscitum, plebiscitum) ec. hanno tutti l'u lungo. Or la desinenza in itum è affatto improprissima de' verbi della terza. (Lascio quella in ivi, che n'è parimente impropria, ma altresì quella in ivi il sarebbe). Che segno è questo, se non che scitum grammaticalmente non è di scisco, ma di scio, di cui, come verbo della 4. è propria e debita peculiarmente la desinenza del supino in itum? Così dicasi di qualunqu'altro verbo in sco che sia fatto da un verbo della quarta, noto o ignoto: che se tal verbo in sco ha supino, o se gli si attribuisce, esso è certamente in itum, e però è certamente tolto in prestito dal suo verbo originale, il quale, se non esiste, da ciò n'è dimostrato ec. E può vedersi la p. 3707. fine 08. principio. (23. Ott. 1823.)

[3764] Necessità di nuove o forestiere voci, volendo trattar nuove o forestiere discipline. Impossibilità e danno del mutare i termini ricevuti in una disciplina che da' forestieri sia stata trovata, o principalmente coltivata, o trasmessaci ec. di sostituire cioè altri termini a quelli con che i forestieri che ce la tramettono, sono usi di trattare quella disciplina, quando bene fosse facile alla nostra lingua il trovar termini suoi, novi o vecchi, da sostituir loro, anzi quando ella già ne avesse degli altri (sian termini sian vocaboli) con quel medesimo significato ec. V. Speroni Dial. della Retorica, ne' suoi Diall. Venez. 1596. p.139. a dieci pagg. dal principio, e 23. dal fine. (23. Ott. 1823.)

Gli spettacoli gladiatorii, così sanguinarii ec. appartengono a quel diletto delle sensazioni vive, di cui dico in tanti luoghi. (23. Ott. 1823.). Così le cacce di tori ec. ec.

Disperser da dispergo-dispersus. (24. Ott. 1823.)

Ai verbi diminutivi o frequentativi italiani da me altrove raccolti, aggiungi per esempio di quelli in olare, crepolare da crepare, screpolare ec. (24. Ott. 1823.) Quaero is, quaesitum e itus. Perchè dunque da queror, questus, ch'è verbo differente sol d'una lettera nella scrittura, e di nulla nella pronunzia? E da quaesitum e quaesitus che pur restano e son fuori di controversia, [3765] e non si potrebber dire altrimenti, abbiamo quaestus us e quaestor ec. ec. L'uso dunque delle contrazioni de' supini che altrove in tanti luoghi io suppongo, è evidente; perocchè qui restando il supino e il participio intero, le voci quindi formate sono, le più, contratte al modo appunto degli altri supini e participi ec. i quali molte volte per lo contrario son dimostrati da voci derivate o affini ec. non contratte. Come qui vale l'argomento da quaesitum a quaestus us ec. così dovrà valere ne' casi contrarii ec. (24. Ott. 1823.)

Alla p. 3557. principio. L'aspetto della debolezza riesce piacevole e amabile principalmente ai forti, sia della stessa specie sia di diversa. (forse per quella inclinazione che la natura ha messa, come si dice, ne' contrarii verso i contrarii). Quindi la debolezza in una donna riesce più amabile all'uomo che all'altre donne, in un fanciullo più amabile agli adulti che agli altri fanciulli. E la donna è più amabile all'uomo che all'altre donne, anche pel rispetto della debolezza ec. Ed all'uomo tanto più quanto egli è più forte, non solo per altre cagioni, ma anche per questa, che l'aspetto della debolezza gli riesce tanto più piacevole, quando è in un oggetto altronde amabile ec. Ed anche per questa causa i militari, e le [3766] nazioni militari generalmente sono più portate verso le donne, o verso τὰ παιδικὰ  ec. (V. Aristot. Polit. 2. Flor. 1576. p. 142.). Le cose dette della debolezza si possono anche dire della timidità. Piace l'aspetto della timidità in un oggetto d'altronde amabile, e quando essa medesima non disconvenga. Piace p.e. ne' lepri, ne' conigli ec. Piace massimamente ai forti o assolutamente o per rispetto a quei tali oggetti. Piace ai più coraggiosi, e questo ancora si riferisca a quel che ho detto de' militari. Il veder che uno teme e ha ragion di temere, e ch'e' non si può difendere, è cosa amabile, e induce i forti e i coraggiosi, o della stessa specie o di diversa, a risparmiare quei tali oggetti; quando non v'abbia altra causa che operi il contrario, come nel lupo verso la pecora ec. Cause indipendenti dalla timidità e dal coraggio. E da ciò, almeno in parte, deriva che gl'individui e le nazioni forti e coraggiose sogliono naturalmente essere le più benigne; e in contrario è stato osservato che gl'individui e i popoli più deboli e timidi sogliono essere i più crudeli verso i viventi più deboli di loro, verso i loro stessi individui più deboli ec. Ed [3767] è proposizione costante e generale che la timidità la codardia e la debolezza amano molto di accompagnarsi colla crudeltà, colla inclemenza e spietatezza e durezza de' costumi e delle azioni ec. (Che il timore sia naturalmente crudele, perchè sommamente egoista, e così la viltà ec. l'ho notato in più luoghi). Ciò non solo si osserva negli uomini, ma eziandio negli altri animali. E con molta verisimiglianza, se non anche con verità, si attribuisce al leone la generosità verso gli animali di lui più deboli e timidi ec. quando la natura, cioè una nimistà naturale, o la fame ec. non lo spinga ad opprimerli ec. o ve lo spinga talora, ma non in quel tal caso, o quando la natura non glieli abbia destinati particolarmente per cibo, chè allora sarà ben difficile ch'ei se ne astenga, o se ne astenga p. altro che per sazietà. Si applichino queste osservazioni a quelle da me fatte circa la compassionevolezza naturale ai forti, e la naturale immisericordia e durezza dei deboli ec. e viceversa quelle a queste (p. 3271. segg.). Si suol dire, e non è senza esempio nelle storie che le donne [3768] divenute potenti in qualunque modo, sono state e sono generalmente come più furbe e triste, così più crudeli e meno compassionevoli verso i loro nemici, o generalmente ec. di quel che sieno stati o sieno, o che sarebbero stati o sarebbero, gli uomini, in parità d'ogni altra circostanza. Ed è ben noto che i Principi più deboli e vili sono sempre stati i più crudeli proporzionatamente alle varie qualità ed al vario spirito de' tempi a cui sono vissuti o vivono, e alle varie circostanze in cui si sono rispettivamente trovati o trovansi, e secondo le varie epoche e vicende della vita di ciascheduno ec. (24. Ott. 1823.)

Alla p. 3616. fine. Un'altra osservazione confermante il mio parere, che l'Iliade se cede agli altri poemi in qualche cosa, ciò possa essere ne' dettagli, ma tutti li vinca nell'insieme, e nella tessitura medesima e disposizione e condotta, non che nell'invenzione (al contrario del comun giudizio), si è che nell'Iliade l'interesse cresce sempre di mano in mano, sin che nell'ultimo arriva al più alto punto. Laddove nella Gerusalemme egli [3769] è, si può dire, onninamente stazionario; nell'Eneide assolutamente retrogrado dal settimo libro in poi, e così nell'Odissea: errore e difetto sommo ed essenzialissimo e contrario ad ogni arte. Nella Lusiade nol saprei ora dire, nè nella Enriade, dove però l'interesse non può essere nè stazionario nè retrogrado nè crescente, essendo affatto nullo, almeno per tutti gli altri fuor de' francesi. Puoi vedere a proposito del crescente interesse l'Elogio di Voltaire nelle opp. di Federico II. 1790. tome 7. p. 75. Ho detto in questo discorso come sia necessario che il soggetto dell'epopea sia nazionale, e come dannoso sarebbe ch'ei fosse universale ec. (se non nel modo usato dal Tasso ec.). Ma per altra parte la nazionalità del soggetto limita, quanto a se, l'interesse e il grand'effetto del poema, a una sola nazione. Non v'è altro modo di ovviare a questo gran male (il qual fa ancora che i posteri, dopo le tante mutazioni politiche che cagiona il tempo, distruttore o cangiatore delle nazioni, o de' loro nomi, ch'è tutt'uno, [3770] e loro carattere nazionale ec. non considerino più quegli antichi, nè possano considerarli, come lor nazionali, e che a lungo andare, immancabilmente, non vi sia più nazione a cui quel poema sia nazionale), se non di costringere l'immaginazion de' lettori qualunque a persuaderli di esser compatrioti e contemporanei de' personaggi del poeta, a trasportarli in quella nazione e in quei tempi ec. Illusione conforme a quella che deono proccurare i drammatici ec. Or tra tutti gli epici quel che meglio l'ha proccurata si è Omero nell'Iliade, siccome fra tutti gli storici Livio. Vero è che questo viene in grandissima parte da quelle tante cagioni altrove da me esposte, le quali fanno che tutte le nazioni civili in tutti i tempi sieno state e sieno p. essere connazionali e contemporanee de' troiani, greci antichi romani antichi ed ebrei antichi. Infatti dopo l'Iliade, il poema epico che meglio proccura la detta illusione universale, si è l'Eneide, perchè di soggetto troiano e romano. Ma vero è ancora che, massime quanto ai troiani, le dette cagioni si riducono alla sola Iliade (ed all'Eneide), [3771] onde l'illusione ch'essa proccura, non viene da cause a lei affatto estrinseche, anzi l'Iliade è tanto più mirabile quanto essa sola, o essa principalmente (cioè aiutata dall'Eneide ec.), ha potuto rendere e rende tutti gli uomini civili d'ogni nazione e tempo compatrioti e contemporanei de' troiani. Questo ella consegue mediante le reminiscenze della fanciullezza ec. le quali l'accompagnano perchè sin da fanciulli conosciamo l'Iliade, o i fatti da essa narrati e inventati, e la mitologia in essa contenuta, ec. e le prime nozioni della mitologia che apprendiamo, sono strettamente legate e in buona parte composte delle invenzioni d'Omero ec. ec. Ma tutto questo non sarebbe nè sarebbe stato se l'Iliade non fosse sempre stata così celebre. Nè così celebre sarebbe stata sempre senza il suo sommo merito. Vero è che questo non ha che fare in particolare colla condotta ec. ec. (25. Ott. 1823.)

Alla p. 3729. marg. Trovansi eziandio ne' nostri antichi parecchie voci o significazioni ec. proprie del latino noto, ma che ora non potremmo in alcun modo usare, ben sono usate e familiari appo gli spagnuoli: il che [3772] pare che provi ch'elle fecero parte di quel volgare che precedette ambo le lingue, del volgar latino ec. se non vogliamo supporre che l'antico italiano allo spagnuolo, o l'antico spagnuolo all'antico italiano le comunicasse, che nè l'uno nè l'altro è molto verisimile. (25. Ott. 1823.)

Alla p. 3488. marg. Trovo in un cinquecentista spagnuolo, ma di poca autorità, falsar la paz per rompere frodolentemente la pace, o violar le condizioni della pace, mancare ai trattati ec. Del resto falsare in questi sensi è quasi un continuativo di fallere. Falsar la fede nell'esempio dello Speroni è lo stesso che il fallire, cioè fallere, la promessa nell'altro esempio. E anche in se stesso, falsare nelle dette significazioni ha un certo senso d'ingannare, cioè fallere, benchè forse si vorrà piuttosto dargli quello di mancare. Ma in questo senso non si vede come nè fallirefalsarefaltar ec. possano essere attivi ec. ec. (25. Ott. 1823.). Falsare in altri sensi, (come in falsatus e falsatio ap. Forc.) è bensì da falsus di fallere ma preso in senso di aggettivo; laddove ne' detti significati falsare sarebbe da falsus in senso di participio ec. (25. Ott. 1823.)

[3773] Vogliono che l'uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perchè avendo più vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell'altre, secondo i principii da me in più luoghi sviluppati. Or qual altra qualità è più antisociale, più esclusiva per sua natura dello spirito di società, che l'amore estremo verso se stesso, l'appetito estremo di tirar tutto a se, e l'odio estremo verso gli altri tutti? Questi estremi si trovano tutti nell'uomo. Queste qualità sono naturalmente nell'uomo in assai maggior grado che in alcun'altra specie di viventi. Egli occupa nella natura terrestre il sommo grado per queste parti, siccome generalmente egli tiene la sommità fra gli esseri terrestri.

Il fatto dimostra, al contrario di quel che gli altri lo interpretano, che l'uomo è per natura il più antisociale di tutti i viventi che per natura hanno qualche società fra loro. Da che il genere umano ha passato i termini di quella scarsissima e larghissima società che la natura gli avea destinata, più scarsa ancora e più larga che non è [3774] quella destinata e posta effettivamente dalla natura in molte altre specie di animali; filosofi, politici e cento generi di persone si sono continuamente occupati a trovare una forma di società perfetta. D'allora in poi, dopo tante ricerche, dopo tante esperienze, il problema rimane ancora nello stato medesimo. Infinite forme di società hanno avuto luogo tra gli uomini per infinite cagioni, con infinite diversità di circostanze. Tutte sono state cattive; e tutte quelle che oggi hanno luogo, lo sono altresì. I filosofi lo confessano; debbono anche vedere che tutti i lumi della filosofia, oggi così raffinata, come non hanno mai potuto, così mai non potranno trovare una forma di società, non che perfetta, ma passabile in se stessa. Nondimeno ei dicono ancora che l'uomo è il più sociale de' viventi. Per società perfetta non intendo altro che una forma di società, in cui gl'individui che la compongono, per cagione della stessa società, non nocciano gli uni agli altri, o se nocciono, ciò sia accidentalmente, e non immancabilmente; una società i cui individui non cerchino sempre e inevitabilmente di farsi male gli uni agli altri. Questo è ciò che vediamo accadere fra le api, fra le formiche, fra i [3775] castori, fra le gru e simili, la cui società è naturale, e nel grado voluto dalla natura. I loro individui cospirano tutti e sempre al ben pubblico, e si giovano scambievolmente, unico fine, unica ragione del riunirsi in società; e se l'uno nuoce mai all'altro, ciò non è che per accidente, nè il fine e lo scopo di ciascheduno è immancabilmente e continuamente quello di soverchiare o di nuocere in qualunque modo altrui. E talora gli uni fanno male ad alcun degli altri, o tutti ad un solo o a pochi, per lo solo oggetto del ben comune o del ben dei più, come quando le api puniscono le pigre. Nol fanno già esse per il bene di un solo. Nè chi 'l fa, lo fa pel solo ben suo, anzi pel bene ancora di chi è punito. Ed anche questo far male ad alcuno è un cospirare al ben comune. Ma nelle società umane quello non si trovò mai, questo sempre. Leggi, pene, premi, costumi, opinioni, religioni, dogmi, insegnamenti, coltura, esortazioni, minacce, promesse, speranze e timori di un'altra vita, niente ha potuto far mai, niente è nè sarà bastante di fare, che l'individuo di qualsivoglia società umana, conformata come si voglia, non dico giovi altrui, ma si astenga dall'abusarsi, o vogliamo dire dal servirsi di qualunque vantaggio egli abbia sugli altri, per far bene a se col male altrui, dal cercare di aver più degli altri, di soverchiare, di volgere in somma quanto è possibile, tutta la società al suo solo utile o piacere, il che non può avvenire senza disutile e dispiacere degli altri individui. Infinite e diversissime furono [3776] e sono le forme dei costumi, delle opinioni, delle istituzioni, de' governi, le varietà delle leggi ec. infinite e diversissime quelle che i filosofi ec. in tutti i secoli e nazioni civili hanno immaginato ed immaginano e che non sono mai state poste in effetto, ma in ciascuna di queste forme è sempre avvenuto, o certo sempre avverrebbe il medesimo. Quali mezzi, quali artifizi non si sono immaginati o impiegati per impedirlo? che studio, che dottrina, che esperienza, che fatica, che forza d'ingegno si è risparmiata per ottener questo effetto? quanti geni sommi non vi si sono applicati? ma tutto è stato pienissimamente indarno; e chiunque abbia fior di giudizio dee senza difficoltà convenire, che tutto lo sarà sempre ugualmente, qualunque affatto nuova e strana circostanza si possa mai offrire, e qualunque novissima arte e via ritrovare. Il che insomma vuol dire che una società perfetta, e niente più perfetta che nel modo spiegato di sopra, senza il quale l'idea della società è contraddittoria ne' termini; una società, dico, perfetta fra gli uomini, anzi pure una società vera è impossibile. Or come può star che sia impossibile, se la natura ce l'avesse [3777] destinata, e se l'uomo fuor di una tal società non potesse conseguire la sua perfezione e felicità naturale? Veggiamo pur che quella società ch'è stata destinata dalla natura ad animali tanto inferiori a noi, è stata sempre fin dal principio, ed è costantemente, perfetta nel suo genere, bench'essi non abbiano avuti e non abbiano nè legislatori, nè filosofi, nè esperienze d'altre forme di società ec. Veggiamo eziandio ch'ella è perfetta, non pure nel genere suo, ma rispetto al genere ed all'idea della società assolutamente, la quale importa, moltitudine maggiore o minore d'individui cospiranti in una o altra forma al bene di tutta la moltitudine, e ad essa in niun modo mai, se non accidentalmente, pregiudicanti; del resto poi comunicanti tra se più o meno, e moltissimo o pochissimo; ciò nulla rileva, purchè in tanto cospirino al ben comune, in quanto e' comunicano insieme, poco o molto che ciò sia. Non dobbiamo dunque dedurre da tutto il sopraddetto, sì ragioni, sì esperienze di tanti e tanti secoli, che il genere umano per natura, o non è destinato a società veruna tra se, o (com'è vero) è destinato ad un genere, o per meglio dire, ad un grado di società diverso affatto da tutti quelli che in esso lui ebbero luogo dal primissimo principio del suo (così detto) dirozzamento, fino al dì d'oggi? Cioè ad una scarsissima comunione de' suoi individui tra loro, nella qual comunione, in quanto ella si stendeva ed esigeva, ciascuno avrebbe cospirato al comun bene degl'individui in essa compresi, e niuno, se non [3778] per caso, gli avrebbe nociuto; onde sarebbe risultata agli uomini una specie di società perfetta in se stessa e relativamente ai subbietti suoi proprii, e perfetta in ordine all'idea ed alle condizioni essenziali della società assolutamente considerata. La quale specie di società essendosi bentosto perduta, niun'altra specie di società perfetta ha potuto mai rimpiazzarla in non so quante migliaia d'anni, nè mai la rimpiazzerà, perchè la natura non si rimpiazza, nè più d'una sola perfezione (cioè del suo naturale stato) può convenire a niuna specie d'esseri creati, e quindi non più d'una felicità.

Stante la natura generale de' viventi, e massime quella dell'uomo in particolare, una società stretta, la quale è cosa dimostrata che necessariamente produce tra gli uomini la disuguaglianza di mille generi e intorno a mille beni e mali, non può a meno di eccitare e di mettere in movimento, com'ella fa in effetto, le passioni dell'invidia, dell'emulazione, della gara, della gelosia, conseguenze necessarie, o piuttosto specie e nuances dell'odio verso gli altri, naturale ad ogni essere che ami naturalmente se stesso. Or qual cosa è più antisociale di queste passioni? Elle non avrebbero avuto luogo nella società scarsa e larga destinataci dalla natura, il cui uffizio sarebbesi limitato al vero fine d'ogni società, quello di soccorrersi scambievolmente ne' bisogni (che in natura son pochi), e massime in quei bisogni (che sono anche meno) i quali esiggono la cospirazione di più individui, come sarebbe il difendersi dagli altri animali nemici, al qual effetto anche gli animali meno socievoli, si riuniscono e fanno tra loro una società temporanea, che dura quanto il pericolo, come i cavalli si stringono insieme in una ruota, ove ciascuno resta co' piedi di dietro al di fuori, per difendersi dal lupo, ec. Le dette passioni, [3779] ripeto, non avrebbero avuto luogo, sì per la poca strettezza di quella società, sì perchè in essa e nello stato naturale dell'uomo, i vantaggi naturali dell'uno individuo sull'altro sarebbero stati pochi, rari, e piccoli, e i sociali non vi sarebbero stati affatto. La disuguaglianza tra gli uomini che la società rende naturalmente somma e di mille generi, sarebbe stata quasi nulla, e limitata a ben poche cose. Infatti fra gli altri animali, fra cui la società è scarsa, la disuguaglianza fra gli individui è rara e sempre scarsissima; così i vantaggi degli uni sugli altri. Quindi le dette passioni, che sono necessariamente suscitate da' vantaggi e dalla disuguaglianza ch'è inevitabilmente prodotta da una società stretta, sono fra gli altri animali rarissime e debolissime. E quelle che nascono dall'orgoglio naturale di ciascheduno individuo, necessariamente punto ed afflitto e molestato dal comando, dalle dignità, dalle preminenze qualunque, dalla stima e dalla gloria degli altri individui della stessa specie e compagnia, non avrebbero avuto luogo nella società scarsa in modo alcuno, nè l'hanno tra gli animali i più socievoli, perchè nè in quella si sarebbero trovati, nè fra questi si trovano gli oggetti che le suscitano, anzi neppur l'idea loro, non che il desiderio. E quanto al comando, se ve n'ha vestigio alcuno tra gli animali, come tra le api, tra' buoi, tra gli elefanti (v. Arriano Indica), esso viene da superiorità di natura e quasi di specie, intorno a cui non ha luogo invidia nè emulazione; come le pecore non possono invidiare al montone che le conduce e quasi governa perch'egli è di sesso più forte, nè le donne invidiano agli uomini la loro maggior fortezza, nello stesso modo che noi non l'invidiamo al leone. Oltre di che il comando [3780] e qualunque specie di preminenza fra gli animali, come dalla natura fu posta, così da tutti gli altri individui soggetti è sempre riconosciuta per utile a tutti loro, ed utile non solo in potenza non solo in destinazione, ma in atto e in effetto continuamente, e come a tale essi vi si soggettano naturalmente, non pur senza la menoma ripugnanza, ma con piacere, e molto si dolgono s'ella, per qualche accidente, vien loro a mancare, come alle api il re ec. Ma in una società stretta, massime umana, è d'inevitabile necessità che abbiano luogo tutte le dette preminenze, come altresì è necessario ch'elle sempre offendano grandemente l'orgoglio naturale degli altri individui. E fra esse preminenze è d'indispensabile necessità che v'abbia luogo il comando, e questo fra gli uomini non può esser effetto di superiorità di natura o di specie, ma è necessario che l'uguale per natura, sia signor degli uguali. E il comando e la soggezione fra gli uomini è incontrastabilmente inevitabile che sebbene utili per istituto, il più delle volte sieno anzi dannosissime in effetto a chi ubbidisce e sottostà, e per tale siano riconosciute da loro, seguendone naturalmente un'invidia e un odio sommo verso chi comanda; odio antisocialissimo, massimamente che il comando è necessario, ec. Ed è ancora inevitabile che non di rado, (anzi quasi sempre), il comando e la signoria per l'origine medesima e per istituto sieno dirette al danno de' sottoposti ed al solo bene de' signori: come sono le signorie acquistate per viva forza o per arte, contro il volere e l'intenzione de' subbietti, le quali si chiamano tirannie. E certo è che tutti o la più parte de' principati passati e presenti hanno avuto principio dalla forza o dall'artifizio, e che tutti i troni d'Europa [3781] si possono, genealogizzando, far risalire a queste radici. Insomma, com'egli è cosa certissima che tutto il mondo è il patrimonio della forza (sia fisica, cioè vigore, sia morale, cioè ingegno, arte ec. ch'è tutt'uno), e ch'egli è fatto per li più forti, ne segue che in una società stretta, inevitabilmente, qualunque forma se gli possa mai dare, i più deboli individui denno essere, furono sono e saranno la preda, la vittima, il retaggio de' più forti. Onde non si può assolutamente dare, molto meno fra uomini, una società stretta, che ottenga il fine della società, cioè il ben comune degl'individui che la compongono, ed il cui risultato sia il detto ben comune. Senza di cui la società non può avere ragione alcuna. In una società larga i più forti non hanno nè mezzo nè occasione nè desiderio nè stimolo alcuno di esercitare e porre in opera la superiorità delle loro forze sopra gl'individui di essa società, se non solamente alcuna volta per accidente, in modo scarso e passeggero. Ciò ch'ei si propongono di ottenere, non è a spese della lor società, nè di alcuno de' suoi individui; esso è fuori di lei; la lor società è troppo scarsa perchè alcuno possa farci sopra dei disegni, e riporre la sua felicità in beni dipendenti o appartenenti in alcun modo alla medesima società, di cui appena si avveggono di esser parte, e che loro è, per così dire, fuori degli occhi, e quindi anche del pensiero, almeno il più del tempo. ec. I lupi fanno società per attaccare un ovile, ma i disegni ch'essi [3782] formano sì nel tempo di questa passeggera società, sì nel resto, e i vantaggi che essi, e tra essi massimamente i più forti, si propongono di ottenere, non sono sopra gli altri lupi, ma sopra le pecore. Se poi nella division della preda, nasce fra loro qualche discordia, e se in questa i più forti hanno il più, queste son cose accidentali e poco durevoli, e che non lasciano ne' più deboli alcun rancore, perchè la società subito si discioglie, sicchè l'effetto della discordia si limita a quei pochi momenti, e in ultimo è maggior l'utile che quei lupi hanno riportato da quella società, senza cui non avrebbero penetrato l'ovile, e maggior l'utile che i più deboli hanno ricevuto da' più forti che han combattuto più di loro ec., di quello che sia il danno che quei lupi hanno riportato da tal discordia, e i più deboli da' più forti. Ma tutto l'opposto accade nelle società umane: dove i più forti non servono ad altro che a far male ai più deboli e alla società, e la superiorità qualunque di forze è sempre dannosa altrui, perchè sempre (almeno oggidì, e per lo passato il più delle volte) adoperata in solo bene di chi la possiede.

La società stretta, ponendo gl'individui a contatto gli uni degli altri, dà necessariamente l'essor all'odio innato di ciascun vivente verso altrui, il qual odio in nessuno animale è tanto, neppur verso gl'individui di specie diversa e naturalmente nemica, quanto egli è negl'individui di una società stretta verso gli altri individui della medesima società! Perchè ogni [3783] odio naturalmente si accresce a mille doppi colla continua presenza dell'oggetto odiato, e delle sue azioni ec. massime quando quest'odio sia naturale, in modo che, per natura, e' non possa esser mai deposto. Ora, checchè si voglia dire, e in qualunque modo (anche sotto l'aspetto di amore) si mascheri l'odio verso altrui (così fecondo in trasfigurazioni come l'amor proprio suo gemello), egli è così vero che l'uomo è odioso all'uomo naturalmente, com'è vero che il falcone è odioso naturalmente al passero. E quindi tanto è consentaneo riunire insieme in una repubblica sotto buone leggi i falconi e i passeri (quando anche ai falconi si tagliassero gli artigli, e si operasse in modo che di forza fisica non eccedessero i loro compagni), quanto riunire gli uomini insieme in istretta società sotto qualsivoglia legislazione. E quando anche la società stretta non accrescesse il detto odio, certo non si potrà negare ch'ella lo sveglia e l'accende, e ch'ella sola somministra le occasioni di esercitarlo, rendendo così fatalissimo alla specie e mettendo in opera l'odio scambievole innato negl'individui d'essa specie, il quale senza società o in società larga, sarebbe stato affatto o quasi affatto innocuo alla specie, ed inefficace, e per mancanza o insufficienza di occasioni e di stimoli neppur sentito. Il che sarebbe stato conforme alle intenzioni della natura, ed anche alla ragione assoluta, non essendo presumibile che la natura abbia voluto che niuna specie (molto manco l'umana) perisse per le sue medesime mani, o fosse infelicitata (e per conseguenza impeditagli la perfezione e il fine del suo essere) da' suoi [3784] propri individui; sicchè ella medesima fosse causa di distruzione e d'infelicità, e quindi imperfezione, a se stessa, e la sua medesima esistenza cagionasse direttamente e come propria, non altrui, opera la sua non esistenza, sia col distruggersi, sia coll'infelicitarsi, che è privarsi del proprio fine e complemento, e quindi rendersi non esistenza, e peggio ancora (7). Queste, essendo contraddizioni evidentissime e formalissime, sono escluse dal ragionamento assoluto; il principio stesso della nostra ragione, o si riconosce per falso, e non possiamo più discorrere, o impedisce di supporre queste contraddizioni nella natura; le quali però vi avrebbero necessariamente luogo s'ella avesse voluto in qualunque specie una società stretta, siccome sempre in una società stretta, qualunque sia stata o sia o sia per essere la sua forma, hanno avuto ed avranno luogo le cose sopraddescritte. Dal che si deduce efficacissimamente che il supporre nella natura l'intenzione di una società stretta in qualsivoglia specie, e massime nell'umana (che da una parte, essendo la prima, doveva esser la più felice e perfetta, dall'altra, in una società stretta, è necessariamente più di tutte sottoposta ai detti inconvenienti) ripugna dirittamente al principio stesso della ragione. La natura non ha posto nel vivente l'odio verso gli altri, ma esso da se medesimo è nato dall'amor proprio per natura di questo. Il quale amor proprio è un bene sommo e necessario, e in ogni modo nasce per se medesimo dall'esistenza sentita, e sarebbe contraddizione un essere che sentisse di essere e non si amasse, come altrove ho dichiarato. Ma da questo principio ch'è un bene e che la natura non poteva a meno di porre nel vivente, e che [3785] anzi, senza l'opera diretta della natura, nasce necessariamente dalla stessa vita (onde la natura medesima, per così dire, lo aveva e lo ha, verso se stessa, indipendentemente dal suo volere) (8) ne nasce necessariamente l'odio verso altrui, ch'è un male, perchè dannoso di sua natura alla specie, come ne nascono cento altre conseguenze, che sono mali, e producono di lor natura effetti dannosissimi, non pure alla specie e agli altri individui, ma all'individuo medesimo. Or questi effetti non sono stati voluti dalla natura, nè ella n'ha colpa, (come l'avrebbe), perchè ella ha provveduto che quelle cattive conseguenze dell'amor proprio fossero inefficaci, e tali sarebbero state nell'esser naturale di quel tale individuo e specie. Così ella dunque ha provveduto che l'odio verso gli altri individui della stessa specie fosse inefficace, se non per qualche assoluto accidente, perchè privo di occasione e di stimolo e di circostanza ove potesse operare. E ciò ha fatto destinando agl'individui di una stessa specie, e fra questi agli uomini, o niuna società, o scarsa e larga. Una società stretta pone necessariamente in contrasto gl'interessi degl'individui, rende necessario alla soddisfazione dei desiderii degli uni, il male degli altri; alla superiorità, ai vantaggi, alla felicità degli uni, l'inferiorità, gli svantaggi, l'infelicità degli altri; desta il desiderio di beni che non si possono conseguire senza il male degli altri, di beni che consistono nel male altrui, che corrispondono per lor natura ad altrettanti mali [3786] degli altri individui, ed altrettali, anzi, per lo più, maggiori che quei beni non sono. Dunque una società stretta nuoce necessariamente a grandissima parte (e la maggiore, perchè i più deboli sono sempre i più) de' suoi individui: dunque il suo effetto è il contrario del fin proprio ed essenziale della società, ch'è il bene comune de' suoi individui, o almeno dei più: dunque ella è il contrario di società, e ripugna per essenza non pure alla natura in genere, ma alla natura e alla nozione stessa della società. Sì il contrasto degl'interessi, sì l'altre cose qui dietro esposte, fanno in modo che l'odio naturale d'ogn'individuo verso gli altri, in una società stretta, non pur si sviluppa tutto intero, e riceve tanta efficacia e tanto atto quanto egli ha di potenza, ma fa necessariamente, che, contro le intenzioni della natura e il ben essere della specie, quell'odio naturale che in potenza e in natura è molto minore verso i suoi simili che verso gli altri viventi, in atto sia molto maggiore verso i suoi simili, anzi quasi tutti i suoi atti e i suoi effetti sieno rivolti contro i soli suoi simili. Perocchè l'individuo di una società stretta, coi soli suoi simili ha stretto e quotidiano commercio ed affare. Or l'odio verso altrui non si può sviluppare nè porre in atto se non quando si abbia o si abbia avuto affare coll'oggetto odioso. E tanto più si sviluppa ed opera quanto questo affare è o è stato maggiore, e più frequente, più lungo, più continuo. E in conformità di questi evidenti principii, veggiamo infatti che mentre l'individuo umano da principio odiava assai più sì in potenza sì in atto gli altri viventi, [3787] massime gli a lui dannosi ec. ora in atto odia senza alcun paragone più i suoi simili che gli altri viventi qualunque, anche gli a lui più micidiali, perchè da questi è lontano, o poco affar ci può avere, e niun commercio di spirito; a quelli è sempre presente, e sempre ha affar seco loro, e commercio continuo e grandissimo, sì di corpo, sì, che è molto più, di spirito. Per le quali cose è veramente un zucchero l'odio che oggidì l'uomo porta a qualsivoglia più misantropo animale rispetto a quello ch'ei porta a' suoi simili, e ciascun vede quanto sarebbe ridicolo il farne paragone. Sicchè l'odio verso gli altri, qualità come naturale, così distruttiva della vera società, non solo in una società stretta non si scema nulla rispetto ai suoi simili da quel ch'egli era in natura, ma anzi, se non in potenza, certo in atto s'accresce a mille doppi, anzi pure svolgendosi da tutti gli altri viventi, si raccoglie tutto, si termina e si rivolge ne' soli suoi simili. Onde se il vivente, stante il detto odio, è antisociale per natura, in virtù della società stretta, non pur diviene più sociale, ma infinitamente più antisociale che da principio, perchè da principio egli odiava i suoi simili quasi solo in potenza, e in atto soli o molto più gli altri viventi, e nella società stretta il suo odio dimentica quasi affatto gli altri viventi, ed in atto odia, si può dir, soli i suoi simili, e gli odia più assai che da principio non fece i dissimili, co' quali ebbe sempre molto meno affare ed intimo commercio, che non ha ora co' simili suoi.

[3788] Dalle quali cose tutte, parlando in somma, si raccoglie che il dir società stretta, massime umana, è contraddizione, non solo rispetto alla natura ec. ma assolutamente, rispetto a se stessa, ne' termini, e rispetto alla nozione di queste parole. Perocchè società importa quello che disopra (p. 3777.) si è definito; e società stretta importa communione d'individui sommamente nocentisi scambievolmente, e odiantisi in atto gli uni gli altri sopra ogni altra cosa, giacchè, stante la natura de' viventi, non vi può essere società stretta i cui individui non sieno tali, come si è dimostrato.

Quindi non è maraviglia se mai non si è trovata nè mai si troverà, fra le infinite eseguite, immaginate, eseguibili e immaginabili, forma alcuna di società perfetta, da quella primitiva e naturale in fuori. Perocchè gli elementi di tali forme dovevano ben sempre esser discordi, poichè la idea medesima d'esse forme è contraddittoria per natura. E quella prima società non è stata mai potuta nè si potrà mai rimpiazzare, perchè la natura universale, nè particolare e speciale, non si rimpiazza, nè si rimpiazza la felicità e la perfezione destinata a qualsivoglia essere o specie dalla natura, nè veruna specie e veruno esser creato è capace di più che una sola e determinata felicità e perfezione, la quale non altrove si può trovare nè può consistere, che nel suo naturale stato, nè d'altronde derivare. Nè volle il destino, nè comporta la natura delle cose che [3789] niuna specie e niuno essere mortale e creato sia l'autore del sistema e dell'ordine che dee condurlo alla propria felicità e perfezione (come avverrebbe se l'uomo fosse destinato a quella società che noi pensiamo, la quale è capace e bisognevole di una forma, non che eseguita ma immaginata dagli uomini, e infinite ne può ricevere e n'ha ricevute, tutte parimente buone o cattive, tutte o quasi tutte a lei ed alla sua idea convenienti, [cioè tutte contraddittorie e discordevoli in se stesse ec.] e la natura niuna forma le prescrisse nè potè prescriverle, non avendola voluta; quando però ella ben ne prescrisse, ed intere, e costanti, a quelle società ch'ella volle, come a quella de' castori, e delle gru ec.): ma la natura stessa e sola, o vogliamo dire il Creatore, dovette esser l'autore, come di ciascuna creatura, così del sistema, ordine e modo che la dovesse condurre alla perfezione della sua esistenza, vale a dire alla felicità, e render compiuta l'opera di Lui.

Tutto questo discorso esclude una società stretta, non solo dalla specie umana, ma da tutte le specie viventi; tanto però maggiormente, quanto elle sono in maggior grado viventi, contro quello che si presume, e quindi hanno più vivo amor proprio, e quindi più vive passioni e più vivo e maggiore odio verso altrui. Il che vuol dire che il detto discorso esclude la società stretta, dalla specie umana massimamente. Venendo ora più da presso a mostrare quanto sia vero che l'odio verso gli altri, specialmente verso i simili, è [3790] assai maggiore nell'uomo che negli altri animali, e quindi l'uomo è il più insociale di tutti gli animali, perchè una società stretta di uomini, al comune degl'individui che la compongono, nuoce assai più che non farebbe in niun'altra specie; considereremo la guerra, male affatto inevitabile in una società stretta di uomini, e niente accidentale, al che dimostrare se non bastasse l'esperienza di tutte le nazioni e di tutti i secoli, sì dee bastare il riflettere che siccome una stretta società pone necessariamente in atto l'odio naturale degl'individui verso gl'individui simili nel modo e per le cagioni mostrate di sopra, altrettanto ella fa necessariamente fra classe e classe, ceto e ceto, ordine ed ordine, compagnia e compagnia, popolo e popolo. E come la guerra nasca inevitabilmente da una società stretta qual ch'ella sia, nótisi che non v'ha popolo sì selvaggio e sì poco corrotto, il quale avendo una società, non abbia guerra, e continua e crudelissima. Videsi questo, per portare un esempio, nelle selvatiche nazioni d'America, tra le quali non v'aveva così piccola e incolta e povera borgatella di quattro capannucce, che non fosse in continua e ferocissima guerra con questa o quell'altra simile borgatella vicina, di modo che di tratto in tratto le borgate intere scomparivano, e le intere provincie erano spopolate di uomini per man dell'uomo, e immensi deserti si vedevano e veggonsi ancora da' viaggiatori, dove pochi vestigi di coltivazione e di luogo anticamente o recentemente abitato, [3791] attestano i danni, la calamità, e la distruzione che reca alla specie umana l'odio naturale verso i suoi simili posto in atto e renduto efficace dalla società. Vedi l'op. cit. da me a p. 3795., passim, e sommariamente nel cap.116. E certo non v'ha nè v'ebbe al mondo così piccola e remota isoletta, così scarsa d'abitatori, e così poco di costumi corrotta, dove tra quelle decine d'abitanti umani stretti in società, non sia stata e non sia divisione, discordia e guerra mortalissima, e diversità di parti e moltiplicità di nazioni. Come sia nata e dovesse necessariamente nascere la guerra tra gli uomini, l'ho detto p. 2677. segg. dove si può vedere che la colpa di questo nascimento è tutta della società stretta, posta la quale, ei non poteva mancare. E tanto è l'odio dell'uomo verso l'uomo, e tanto il danno che inevitabilmente ne nasce in una società stretta, che la divisione in popoli diversi, e la nimistà tra popolo e popolo, posta una società stretta, è piuttosto utile che dannosa al genere umano, tenendo lontana la molto più terribile e fiera guerra intestina, sia aperta, come ho detto nel citato luogo, sia la coperta guerra dell'egoismo, che infelicita tutti gl'individui d'una stessa nazione, gli uni per opera degli altri, come lungamente ho disputato parlando dell'utilità dell'amor patrio e nazionale e quindi dell'odio verso gli estrani, e del danno che nasce dalla mancanza di nazionalità e dal preteso amore universale ec. Il tutto, supposta una società stretta, e che questa non si possa più (come già non puossi) evitare.

Or che la specie umana costantemente e regolarmente perisca per le sue proprie mani, e ne perisca in questo modo così gran parte e così ordinatamente come avviene per la guerra, è cosa da un lato [3792] tanto contraria e ripugnante alla natura quanto il suicidio, conforme di sopra (p. 3784.) si è detto, dall'altro lato priva affatto di esempio e di analogia in qualsivoglia altra specie conosciuta, sia inanimata o animata, sia d'animali insocievoli o de' più socievoli dopo l'uomo. Che una specie di cose distrugga e consumi l'altra, questo è l'ordine della natura, ma che una specie qualunque (e massime la principale, com'è l'umana) distrugga e consumi regolarmente se stessa, tanto può esser secondo natura, quanto che un individuo qualunque sia esso stesso regolarmente la causa e l'istrumento della propria distruzione. Cani, orsi e simili animali vengono molte fiate a contesa tra loro, e fannosi non di rado del male ma rado è che una bestia sia uccisa dalla sua simile, anzi pur che ne soffra più che un male passeggero e curabile. E quando pur ne rimanga uccisa, primieramente questo è un di quei disordini affatto accidentali, non voluti, ma neanche provvedibili dalla natura, e di cui ella non ha colpa, accadendo e contro le sue intenzioni e contro le sue provvisioni, che, benchè non in quel caso particolare, nel generale però riescono sufficienti ed ottengono il loro fine. Questo caso, rispetto alla natura e all'ordine sì generale delle cose, sì generale della specie, è così accidentale come se un animale ammazza un suo simile involontariamente inscientemente ec., o se ammazza nello stesso modo qualche animale d'altra specie ec., o s'è ucciso dalla caduta di un albero, o da un fulmine, o da morbo ec. ec. ec. Secondariamente che proporzione, anzi che simiglianza può aver l'uccisione di uno o di quattro o dieci animali fatta da' loro simili qua e là sparsamente, in lungo intervallo, e per forza di una passione momentanea e soverchiante, con quella di migliaia d'individui umani fatta in mezz'ora, in un luogo stesso, da altri individui lor simili, niente passionati, che combattono per una querela o altrui, o non propria d'alcun di loro, ma comune (laddove niuno [3793] animale combatte mai per altro che per se solo; al più, ma di rado co' suoi simili, per li figli, che son come cosa, anzi parte di lui), e che neppur conoscono affatto quelli che uccidono, e che di là ad un giorno, o ad un'ora, tornano all'uccisione della stessa gente, e seguono talvolta finchè non l'hanno tutta estirpata ec. ec.? lasciando gli altri infiniti mali e infelicità che reca la guerra ai popoli; mali e infelicità parte reali in ogni caso, e che tali sarebbero anche nello stato naturale del genere umano (come le mutilazioni ec.); parte che son tali, posta fra gli uomini una società stretta, e le abitudini, e quindi i bisogni, di questa (come la devastazione de' campi, e ruina delle città, e le carestie, oltre le pesti ec. ec.): i quali deono essere riconosciuti per mali massimamente da quelli che sostengono esser propria dell'uomo una società com'è la presente, e com'è quella che cagiona la guerra; ma oltre di ciò eziandio da chi negandola, per così dire, in diritto, dee pur supporla nel fatto, supponendo la guerra ec. e quindi supporre tutte le abitudini e i bisogni ch'ella non può a meno di produrre negli uomini ec. Solamente fra le api, la cui società è naturale, si potrebbe voler trovare un esempio della nostra guerra, fatta in più persone da ciascuna parte ec. Ma ben guardando, anche le battaglie dell'api, oltre che son rarissime e niente regolari e inevitabili (a paragon delle nostre), sono effetto di passione momentanea, come le battaglie singolari o poco più che singolari, e inordinate e confuse de' cani, orsi ec. onde per l'una e per l'altra cagione son da considerarsi per disordini accidentali, [3794] come di quelle dei cani ec. si è detto. Del combattere in due partiti d'una stessa specie, fuor dell'api, non si troverà credo altro esempio che negli uomini, perchè gli altri animali quando anche combattano tra loro in molti, combattono uno contro un altro confusamente senza veruno amico, o ciascuno contro tutti, perchè ciascuno combatte per se solo, mosso dalla propria passione, e a fine del proprio, non dell'altrui nè di commun bene.

Quanto sia maggiore la facoltà di odiare che ha l'uomo verso tutti, e posta la società stretta, verso i suoi simili; maggiore, dico, di quella che ha verun'altra specie di animali, basti osservare le orribili e smisuratissime crudeltà che l'uomo col fatto si è mostrato e mostrasi infinite volte capace di esercitare verso i suoi simili a se nemici, sieno d'altra nazione, e questa nemica o amica, ed in tal caso esercitate dalle nazioni intere per costume o straordinariamente, ovver dagl'individui in particolare; sieno della stessa nazione e società qualunque. Nè l'uomo primitivo verso gli altri animali a lui più nemici, nè animale alcuno (per feroce, per insociale ch'ei sia), non pure verso i suoi simili, ma verso l'altre specie a lui più nemiche, esercitò nè esercita mai (se non per bisogno, come nel cibarsene ec. ma non per odio, nè a fine di straziarlo, benchè lo strazi), neppur nel più caldo dell'ira e nello stesso combattimento crudeltà così grande che sia degna d'esser comparata a quelle che gl'individui umani di una stessa nazione verso i loro compagni, le nazioni verso le nazioni nemiche, i governi verso i lor sudditi colpevoli o supposti tali, i tiranni ec. ec. esercitarono infinite volte ed esercitano dopo la vittoria, dopo il pericolo, a sangue freddo, spesse volte senza passione veruna, neppur passata, (come nelle pene de' rei), per [3795] uso, per regola, per legge, per tradizione de' maggiori ec. ec. ec. Chi non sa che cosa possa nell'uomo lo spirito di vendetta? il quale rende eterna l'ira e l'odio verso i suoi simili cagionato da una piccolissima offesa, vera o falsa, giusta o ingiusta ec. e dalle altre cagioni che adirano gli uomini verso gli uomini sia nelle nazioni, sia negl'individui, sia privato sia pubblico ec. Or questo spirito ch'è inevitabile in qualunque società umana stretta, fu ignoto all'uomo primitivo, è ignoto a qualunque altro animale, in cui l'ira non dura più che qualunque altra passione momentanea, e la ricordanza dell'ingiuria non più dell'ira; e la vendetta o è subito ottenuta e fatta (e basta ben poco a placarli e soddisfarli), o di poi non è ricercata niente più che se l'ingiuria non avesse avuto luogo.

Questo spirito di vendetta ec. le crudeltà sopraddette ec. sono così naturali all'uomo posto in società stretta, la quale sviluppi il suo odio innato verso i simili ec., che non v'è bisogno di molta corruzione a cagionarle, anzi elle si trovano immancabilmente in qualunque più primitiva e più bambina società. Non si manchi di vedere intorno a questo proposito, e intorno ad altri orribilissimi costumi, propri solo dell'uomo verso i suoi simili, e dell'uomo anche mezzo naturale e quasi primitivo, la Parte primera de la Chronica del Peru di Pedro de Cieça de Leon (soldato spagnuolo che fu alla conquista e scoprimenti di quei paesi, ove visse più di diciassett'anni, (9) e vide esso medesimo, ed ebbe parte o udì da testimonii di vista e dagl'indiani stessi, ec. le cose, i costumi, gli avvenimenti, i luoghi ec. ch'esso racconta; e protesta sì nella [3796] prefazione sì in altri molti luoghi, e dimostra col suo scrivere semplicissimo e inornato, anzi incolto e senza niuna arte, di narrare la purissima verità: mostra ancora molto buon giudizio, eccetto solamente in ordine a superstizioni, dove manifesta quella credulità che in tali materie è propria della sua nazione e fu propria del suo secolo e de' passati) en Anvers 1554 en casa de Jinan Steelsio. Impresso por Juan Lacio. in 8vo piccolo, cap. 12.16. (p. 41.) 19. (car. 49. p.2.) principalmente, oltre gli altri luoghi che si trovano notati nell'indice sotto il titolo Indios amigos de comer carne humana.

Tutte queste cose dimostrano che, come si è detto di sopra, la società stretta, in luogo di scemare, accresce per sua natura in mille doppi l'odio naturale dell'uomo verso i di lui simili, il qual è incompatibile coll'idea, colla nozione, ragione, fine, natura ec. di qualsivoglia società. Dico, accresce l'odio, non l'ira, se non in quanto mette anche questa in atto assai più spesso, e le dà molto più frequenti e maggiori occasioni e cagioni ec. ec. Gli altri animali verso i lor simili non provano mai o quasi mai, e ben pochi di loro, odio, ma sola ira (ch'è cosa accidentale, e disordine accidentale ch'ella si volga sopra i simili ec. ). Eccetto talvolta alcuni di quelli che noi contra la natura loro stringiamo in società e sforziamo a vivere insieme: come talora un cane odia abitualmente per invidia un altro cane suo compagno, e i tori nella mandra si odiano per gelosia ec. E questo stesso dimostra come la società stretta ponga subito in azione l'odio naturale anche negl'individui [3797] e specie ec. che fuori di essa società mai non provano odio, o mai verso i loro simili, e sono anche mansuetissimi per natura, e verso gli estrani ec. ec.

Io noto che generalmente parlando, le dette crudeltà ec. tanto sono più frequenti e maggiori, e le guerre tanto più feroci e continue e micidiali ec. quanto i popoli sono più vicini a natura. E astraendo dall'odio e dagli effetti suoi, non si troverà popolo alcuno così selvaggio, cioè così vicino a natura, nel quale se v'è società stretta, non regnino costumi, superstizioni ec. tanto più lontani e contrarii a natura quanto lo stato della lor società ne è più vicino, cioè più primitivo. Qual cosa più contraria a natura di quello che una specie di animali serva al mantenimento e cibo di se medesima? Altrettanto sarebbe aver destinato un animale a pascersi di se medesimo, distruggendo effettivamente quelle proprie parti di ch'ei si nutrisse. La natura ha destinato molte specie di animali a servir di cibo e sostentamento l'une all'altre, ma che un animale si pasca del suo simile, e ciò non per eccesso straordinario di fame, ma regolarmente, e che lo appetisca, e lo preferisca agli altri cibi; questa incredibile assurdità non si trova in altra specie che nell'umana. Nazioni intere, di costumi quasi primitive, se non che sono strette in una informe società, usano ordinariamente o usarono per secoli e secoli questo costume, e non pure verso i nemici, ma verso i compagni, i maggiori, i genitori vecchi, le mogli, i figli. (10) (Veggansi i luoghi citati nella pagina antecedente). [3798] Le superstizioni, le vittime umane, anche di nazionali e compagni, immolate non per odio, ma per timore, come altrove s'è detto, e poi per usanza; i nemici ancora immolati crudelissimamente agli Dei senza passione alcuna, ma per solo costume; il tormentare il mutilare ec. se stessi per vanità, per superstizione, per uso; l'abbruciarsi vive le mogli spontaneamente dopo le morti de' mariti; il seppellire uomini e donne vive insieme co' lor signori morti, come s'usava in moltissime parti dell'America meridionale; ec. ec. son cose notissime. Non v'è uso, o azione, o proprietà o credenza ec. tanto contraria alla natura che non abbia avuto o non abbia ancor luogo negli uomini riuniti in società. E sì i viaggi sì le storie tutte delle nazioni antiche dimostrano che quanto la società fu o è più vicina a' suoi principii, tanto la vita degl'individui e de' popoli fu o è più lontana e più contraria alla natura. Onde con ragione si considerano tutte le società primitive e principianti, come barbare, e così generalmente si chiamano, e tanto più barbare quanto più vicine a' principii loro. Nè mai si trovò, nè si trova, nè troverassi società, come si dice, di selvaggi, cioè primitiva, che non si chiami, e non sia veramente, o non fosse, affatto barbara e snaturata. (o vogliansi considerar quelle che mai non furon civili, o quelle che poscia il divennero, quelle che il sono al presente ec. ec.). Dalle quali osservazioni si deduce per cosa certa e incontrastabile che l'uomo non ha potuto arrivare a quello stato di società che or si considera come a lui conveniente e naturale, e come perfetto o manco [3799] imperfetto, se non passando per degli stati evidentemente contrarissimi alla natura. Sicchè se una nazione qualunque, si trova in quello stato di società che oggi si chiama buono, s'ella è o fu mai, come si dice, civile; si può con certezza affermare ch'ella fu, e per lunghissimo tempo, veramente barbara, cioè in uno stato contrario affatto alla natura, alla perfezione, alla felicità dell'uomo, ed anche all'ordine e all'analogia generale della natura. I primi passi che l'uomo fece o fa verso una società stretta lo conducono di salto in luogo così lontano dalla natura, e in uno stato così a lei contrario, che non senza il corso di lunghissimo tempo, e l'aiuto di moltissime circostanze e d'infinite casualità (e queste difficilissime ad accadere) ei si può ricondurre in uno stato, che non sia affatto contrario alla natura ec.

Or dunque, poichè tutto questo è certo e dimostrato da tutte le storie e notizie di tutte le nazioni antiche o moderne ec., poichè da un lato è da tenere per fermissimo che la società e l'uomo non ha potuto nè può divenir civile senza divenir prima e durare per lunghissimo tempo, affatto barbaro, cioè in istato affatto contro natura; e dall'altro lato si vuole che nello stato di società civile consista la perfezione e felicità dell'uomo, e la condizione sua propria e vera e destinatagli ed intesa in principio dalla natura ec.; io domando se è possibile, se è ragionevole, il credere che la natura abbia destinato ad una specie di esseri (e massime alla più perfetta) una perfezione e felicità, per ottener la quale le convenisse assolutamente passare p. uno e più stati onninamente contrari alla [3800] natura sua ed alla natura universale, e quindi per uno e più stati di somma infelicità, di somma imperfezione sì rispetto a se medesima e sì a tutto il resto della natura. Una perfezione e felicità della quale essa specie per lunghissimi secoli, e infiniti individui suoi per tutta la vita loro, non solo non dovessero esser partecipi, ma averne anzi necessariamente tutto il contrario. Una perfezione e felicità le quali esigessero assolutamente gli estremi delle cose a loro contrarie, cioè gli estremi dell'imperfezione e dell'infelicità, senza i quali estremi essa perfezione e felicità della specie non avrebbero mai potuto aver luogo. Una perfezione e felicità di cui fosse proprio ed essenziale il dover nascere dall'estrema imperfezione e infelicità della specie, e il non poter nascere d'altronde nè senza queste. Una perfezione e felicità ch'essenzialmente supponesse la somma corruzione e infelicitazione della specie per moltissimi secoli, e d'infiniti suoi individui per sempre. Conseguentemente domando se l'estrema barbarie e corruttela ch'ebbe luogo anticamente nelle nazioni antiche o moderne, spente o superstiti, passate o presenti, che divennero poi civili; e quella che ancora ha luogo in tanto innumerabile quantità di popoli ancor selvaggi ec. ec. e che durerà per tempo indeterminabile e forse per sempre ec. domando, dico, se questa barbarie e corruzione, senza cui la civiltà non può nè potè nascere, fu voluta e ordinata dalla natura, la quale, secondo costoro, volle e ordinò la civiltà dell'uomo. Domando pertanto se tutto ciò che di contrario alla natura ebbe ed ha luogo nelle società selvagge, primitive ec., fu ed è secondo natura. Domando se la natura rispetto [3801] all'uomo ha bisogno del suo contrario, lo esige, lo suppone. Se fu intenzione della natura, se è cosa naturale che l'uomo divenisse e divenga naturale (cioè perfetto) mediante l'essere stato sommamente contrario e diverso dalla natura sua e generale. Se è proprietà dell'uomo l'acquistare la sua vera proprietà, mediante l'averla affatto deposta e contrariata ec. ec. Se l'antropofagia, se i sacrifizi umani, se le superstizioni, le infinite opinioni ed usi barbari ec. ec. le guerre mortalissime che nell'America, unite all'antropofagia ec., sino agli ultimi secoli, distrussero innumerabili popolazioni e spopolarono d'uomini molti e vasti paesi, e che una volta essendo state comuni a tutti i popoli, e ciò quando il genere umano era ancora scarso, misero necessariamente l'intera specie in pericolo di scomparire affatto dal mondo per sua propria opera; sono cose secondo natura, intese dalla natura, supposte, volute, ordinate dalla natura; non accidenti, non disordini, ma secondo l'ordine, e derivanti dal sistema naturale e da' naturali principii; necessarie al conseguimento ed effettuamento della perfezione e felicità della specie. V. p. 3882. e vedi la pag. 3920. 3660-1.

I Californi, popoli di vita forse unico, non avendo tra loro società quasi alcuna, se non quella che hanno gli altri animali, e non i più socievoli (come le api ec.), quella ch'è necessaria alla propagazione della specie ec. e credo, nessuna o imperfettissima lingua, anzi linguaggio, sono selvaggi e non sono barbari, cioè non fanno nulla contro natura (almeno per costume), nè verso se stessi, nè verso i lor simili, nè verso checchessia. Non è dunque la natura, ma la società stretta la qual fa che tutti gli altri selvaggi sieno o [3802] sieno stati di vita e d'indole così contrari alla natura. La scambievole communione, voglio dire una società stretta, non può menomamente incominciare in un pugno d'uomini, che ciascheduno di questi non ne divenga subito, non che lontano e diverso, come siam noi, ma contrario dirittamente alla natura. Tanto la società stretta fra gli uomini è secondo natura. Non è dubbio che l'uomo civile è più vicino alla natura che l'uomo selvaggio e sociale. Che vuol dir questo? La società è corruzione. In processo di tempo e di circostanze e di lumi l'uomo cerca di ravvicinarsi a quella natura onde s'è allontanato, e certo non per altra forza e via che della società. Quindi la civiltà è un ravvicinamento alla natura. Or questo non prova che lo stato assolutamente primitivo, ed anteriore alla società ch'è l'unica causa di quella corruzione dell'uomo, a cui la civiltà proccura per natura sua di rimediare, è il solo naturale e quindi vero, perfetto, felice e proprio dell'uomo? Come mai quello stato ch'è prodotto dal rimedio si dee, non solo comparare, ma preferire a quello ch'è anteriore alla malattia? Il quale già nel nostro caso, voglio dir lo stato veramente primitivo e naturale, non è mai più ricuperabile all'uomo una volta corrotto (non da altro che dalla società), e lo stato civile (socialissimo anch'esso, anzi sommamente sociale) n'è ben diverso. Bensì egli è preferibile al corrotto stato selvaggio: questa preferenza è ben ragionevole, e segue ed è secondo il nostro e il sano discorso: ma non al vero primitivo ec. ec. V. p.3932.

[3803] Dai superiori ragionamenti appoggiati e accompagnati ai fatti e alle storie degli uomini, e queste paragonate con quello che avviene negli altri animali ec. si dee dedurre che dalla società che passa p.e. tra le api e i castori, e gli altri animali che per natura hanno tra loro più stretta comunione di vita, e dagli esempi naturali siffatti, ben si può argomentare che agli uomini non si convenga una società più stretta di quella; ma non già perch'ella si trovi in parecchie specie naturalmente, si può argomentare che agli uomini convenga neppure una società altrettanto stretta, giacchè gli uomini, contro quello che si stima, cioè che sieno per natura i più socievoli animali, sono anzi i meno socievoli, o certo manco socievoli di quello che sieno parecchi altri, cioè gli animali che veramente sono i più socievoli per natura. Onde, non che all'uomo convenga una società più stretta che all'api ec., come lo è di gran lunga quella ch'egli ha presentemente, ed ebbe da tempo immemorabile, si dee concludere che non gliene conviene se non una molto più larga ec. come ho accennato p. 3773. fine, e come risulta dagli estremi danni dell'umana società stretta (danni verso se stessa e la specie umana, e verso l'altre specie ancora e l'ordine della natura terrestre, in quanto egli può essere ed è influito dall'uomo, massime dall'uomo in società) considerati di sopra, e dall'estrema insociabilità dell'uomo, dimostrata in tutto il passato discorso.

[3804] - Moltissimi, anzi la più parte degli argomenti che si adducono a provare la sociabilità naturale dell'uomo, non hanno valore alcuno, benchè sieno molto persuasivi; perciocch'essi veramente non sono tirati dalla considerazione dell'uomo in natura, che noi pochissimo conosciamo, ma dell'uomo quale noi lo conosciamo e siamo soliti di osservarlo, cioè dell'uomo in società ed infinitamente alterato dalle assuefazioni. Le quali essendo una seconda natura, fanno che tuttodì si pigli per naturale, quello che non è se non loro effetto, e bene spesso contrario onninamente a natura, o da lei diversissimo. Onde gli effetti della società, quello che sola la società ha reso necessario, quello che non è vero se non posta la società, che senza questa non avrebbe avuto luogo ec., si fanno tuttogiorno servire nelle argomentazioni de' filosofi a dimostrare la naturale sociabilità dell'uomo, la necessità della società assolutamente e secondo la nostra natura ec. Di questo genere è quella inclinazione che tutti abbiamo a far parte ad altrui delle nostre sensazioni vive e non ordinarie, piacevoli o dispiacevoli ec., inclinazione della quale ho parlato altrove più volte, ed osservato, che bench'ella sembri affatto spontanea ed innata, non è che l'effetto dell'assuefazione e del nostro vivere in società, e nell'uomo posto fuori di essa per qualunque circostanza, e massime nell'uomo primitivo e veramente incorrotto, non ha luogo e gli è ignota. Ed infiniti altri sono gli effetti di questo genere che paiono naturalissimi, e dimostrativi della naturale sociabilità dell'uomo, e che per tali [3805] si recano tuttogiorno, ma che per vero non sono naturali, se non in quanto naturalmente hanno luogo, posta la società, e le rispettive circostanze ed assuefazioni non naturali; e naturalmente nascono da tali cagioni; nè possono non nascere, supposte queste. È cosa onninamente e naturalmente difficilissima il discernere tra l'assoluto naturale, e gli effetti dell'assuefazione, massime dell'assuefazione universale, e contratta o cominciata a contrarre fin dalla nascita o da' primi momenti del vivere, com'è l'assuefazione della società, e infinite assuefazioni subalterne da questa dipendenti e cagionate ec. o parti di lei, o da lei supposte ec.; e massime ancora nell'uomo, ch'essendo di gran lunga più conformabile e modificabile d'ogni altro animale, facilissimamente e presto si adatta alle assuefazioni, per innaturali ch'elle sieno, e se le converte in natura, e le abbraccia ed arripit, e seco loro s'immedesima in modo che appena l'occhio del più acuto filosofo è bastante a distinguerle dalle disposizioni naturali, e gli effetti loro dalle naturali qualità ed operazioni ec. Quindi non è maraviglia se tanti argomenti ci paiono dimostrativi della naturale sociabilità dell'uomo, e se di questa quasi tutti sono persuasi intimamente, e credono assurdo e impossibile il contrario, e stimano questa persuasione naturalissima, e fondata sopra il più certo ed intimo e spontaneo senso, ed autenticata dalla più chiara e sincera e manifesta voce della natura; e mai non deporranno questa credenza. Perocchè [3806] tutti gli uomini che di queste cose possono discorrere o pensare in qualsivoglia modo, filosofi o non filosofi o plebei, sono nati, allevati, formati e vissuti sempre nella società e nelle assuefazioni ad essa appartenenti. Onde, non veramente per prima natura, ma per seconda natura, essi sono tutti in verità esseri sociali, ed a cui la società è propria e necessaria. E s'alcuno è nato e cresciuto fuori della società esso non discorre nè pensa di queste cose, o non prima che la società e le sue assuefazioni, coll'abitudine, gli si sieno convertite in natura. Sicchè nel creder l'uomo naturalmente sociale, e fatto per la società, e di lei bisognoso assolutamente, e la società natural cosa e indispensabile all'uomo, i saggi e gl'idioti, i civili e i barbari, gli antichi e i moderni, e tutte le diversissime nazioni e tutte le classi dissimilissime di persone, consentono insieme e consentirono e consentiranno forse più interamente, fortemente, costantemente e per più lungo tempo, che non fecero non fanno e non sono per fare intorno ad alcun'altra quistione speculativa. Ma questo consenso quanto vaglia a dimostrar la proposizione da lui favorita, le cose sopraddette il deggiono fare giustamente e adeguatamente estimare.

Amongst unequals no society, dice Milton, cioè fra disuguali non è società ec. ec. Or quello che si suol dire dell'amicizia e delle secondarie società fra gli uomini, io lo trasporto, e dee parimente valere circa la società del genere umano generalmente [3807] considerata. (11) Di tutte le specie d'animali (così degli altri esseri) l'umana è quella i cui individui sono, non solo accidentalmente, ma naturalmente, costante e inevitabilmente, più vari tra loro. Come l'uomo è di gran lunga più conformabile d'ogni altro animale, e quindi più modificabile, ogni menoma circostanza, ogni menomo accidente (sia individuale, sia nazionale ec. sia fisico sia morale ec.) basta a produrre tra l'uno uomo e l'altro (e così fra l'una nazione e l'altra) notabilissime diversità. E come è assolutamente inevitabile la menoma varietà delle menome circostanze e accidenti, così è inevitabile la diversità degli umani individui ec. che ne deriva. Inevitabile si è l'una e l'altra in tutte le specie di animali, ma la seconda è molto maggiore nell'uomo perchè dal poco diverso nasce in lui il diversissimo, stante la sua somma modificabilità estremamente moltiplice, e la somma delicatezza e quindi suscettibilità della sua natura rispetto agli altri animali, come si è detto. Nel modo che la specie umana è divenuta, per la sua conformabilità, più diversa da tutte l'altre specie animali e da ciascuna di loro, che non è veruna di queste rispetto ad altra veruna di esse; e nel modo che l'uomo nelle sue diverse età, e in diversi tempi, anche naturalmente, è più diverso da se medesimo che niuno altro animale; più diverso l'uomo giovane da se stesso fanciullo, che non è niuno animale decrepito da se stesso appena nato; tanto che un uomo in diverse età o in diverse circostanze naturali o accidentali, locali, fisiche, morali, ec. di clima ec. native, cioè di nascita ec. o avventizie ec. volontarie o no ec. appena si può dire esser lo stesso [3808] uomo, ed il genere umano universalmente in diverse età, o in diverse circostanze naturali o accidentali, locali ec. appena si può dire esser lo stesso genere; nel modo stesso gl'individui di nostra specie sono per natura di essa specie molto più vari tra loro che non son quelli di verun'altra. Ciò accade ancora, ed inevitabilmente, e naturalmente, nell'uomo naturale, nel selvaggio ec. Onde anche considerando l'uomo in natura, si può, eziandio per questa parte, conchiudere che la sua specie è meno di verun'altra, disposta a società, perchè composta d'individui naturalmente più diversi tra loro, che non son quelli d'altra specie veruna. Ma come la società introduce e porta al colmo tra gli uomini quella disuguaglianza che si considera negli stati, nelle fortune, nelle professioni ec. così ella accresce a mille doppi, promuove inevitabilmente e porta per sua natura al colmo la diversità sì fisica sì morale, di facoltà, d'inclinazioni, di carattere, di forze, corpo ec. ec. degl'individui, delle nazioni, de' tempi, delle varie età di un individuo ec. ec. Ella accresce le diversità naturali ed ingenite di uomo ad uomo, ed altre infinite e grandissime che nello stato naturale dell'uomo non avrebbero avuto luogo, necessariamente e per sua natura ne introduce e cagiona. Ella distrugge mille conformità e somiglianze naturali di uomo ad uomo. La natura è un canone generale e costante, indipendente dall'arbitrio, poco soggetta agli [3809] accidenti (rispetto alla dipendenza che hanno dagli accidenti e circostanze le opere ec. dell'uomo), una da per tutto, una sempre rispetto a ciascuna specie, consistente in leggi certe ed eterne, ec. La società, opera dell'uomo, dipendente dalla volontà che non ha niuna legge certa, altrimenti non sarebbe volontà, arbitraria, incostante, varia secondo gli accidenti e le circostanze de' tempi, de' luoghi, de' voleri, delle mille cose che la cagionano e che determinano la sua forma e il modo del suo essere, non è una in se stessa, perchè ha avuto ed ha necessariamente infinite forme, e queste sempre variabili e variate; non è una in nessuna delle sue forme, perchè in ciascuna di queste v'ha mille varietà che diversificano l'una dall'altra necessariamente le parti che la compongono, chi comanda da chi ubbidisce, chi consiglia da chi è consigliato, ec. ec. Nella società l'uomo perde quanto è possibile l'impronta della natura. Perduta questa, ch'è la sola cosa stabile nel mondo, la sola universale, o comune al genere o specie, non v'ha altra regola, filo, canone, tipo, forma, che possa essere stabile e comune, alla quale tutti gl'individui agguagliandosi, sieno conformi tra loro ec. ec. La società rende gli uomini, non pur diversi e disuguali tra loro, quali essi sono in natura, ma dissimili. Onde anche per questo argomento si conchiude che l'essenza e natura della società, massime umana, contiene contraddizione in se stessa; perocchè la società umana naturalmente distrugge il più necessario elemento, [3810] mezzo, nodo, vincolo della società, ch'è l'uguaglianza e parità scambievole degl'individui che l'hanno a comporre; o vogliamo dire accresce per proprietà sua la naturale disparità de' suoi subbietti, e l'accresce tanto che li rende affatto incapaci di società scambievole, di quella medesima società che gli ha così diversificati, anzi d'ogni società, anche di quella che per natura sarebbe stata loro e possibile e destinata e propria; insomma, per tornare al principio di questo discorso, rende i suoi soggetti quali son quelli tra' quali naturalmente no society, anzi fa più, perchè se la società, secondo Milton, è impossibile tra disuguali, essa li rende dissimili. E in verità niuno animale meno che l'uomo ha ragion di chiamare suoi simili gl'individui della sua specie, nè ha più ragione di trattarli come dissimili, e come individui di specie diversa. Il che egli non manca di fare. E il farlo, com'ei lo fa ordinariamente, massime nella società, è ben prova effettiva del sopraddetto ec. ec. (25-30. Ottobre. 1823.)

Vomito as da vomo is itum. Arguto as e argutor aris da arguo is utum, o dall'aggett. argutus, che di là viene ec. V. Forcell. e i due pensieri seguenti. (31. Ott. 1823.)

Participii in us di verbi attivi ec. in senso attivo, transitivo o no ec. V. Forcellini in Odi isti osus, Exosus, Perosus ec. e in Argutus. (31. Ott. 1823.)

Veri participii passati poi in aggettivi ec. Argutus. (31. Ott. 1823.). V. il pensiero precedente.

[3811] Nomi in uosus ualis ec. V. Forcell. in Cornuatus, cornuarius. (31. Ott. 1823.) Diminutivi positivati. Cornacchia (poet. cornice), corneja, corneille, per lo positivo cornix. Cornicula è di Orazio. V. Forcell. in Corniculans e corniculatus da corniculum diminutivo di cornu, e la Crusca in cornicolare, cornicolato, corniculato ec. A quel che si è detto altrove di flagellum aggiungi il verbo da lui fatto, cioè flagello as, mentre da flagrum non si disse flagrare. Vero è che flagrum si crede anzi derivato da flagrare ardere ec. Da flabellum flabellare, ma non da flabrum flabrare, il qual verbo, seppur esiste, è in altro senso ec. (12) (31. Ott. 1823.)

Alla p. 3797. marg. Cioè mentre la pigrizia e l'ignoranza dell'agricoltura ec. impediva loro o rendeva difficile il sostentarsi sufficientemente de' frutti della terra; la pigrizia e la codardia e la mancanza d'armi sufficienti l'affrontare o l'inseguire, il domare o il raggiungere gli animali più veloci o più forti dell'uomo, o più veloci e forti insieme, o anche altrettanto veloci e forti ec. ec.

Alla p. 3666. Provano l'unicità di origine nel genere umano le conformità di tradizioni, di religioni, di opinioni non naturali, di mitologie, dì certe usanze, di certi dogmi, riti ec. conformità e corrispondenze che si trovano fra popoli del cui scambievole commercio non si ha memoria alcuna (fino agli ultimi momenti) nè se ne vede il come, in popoli affatto disgiunti dagli altri, come in isole remotissime ec. recentemente scoperte, e non mai, a memoria alcuna d'uomini, per l'avanti calcate da forestieri, e in cui tutto dà a vedere che non mai furono calcate da forestieri; [3812] conformità, corrispondenze, e unicità o medesimezze di origine ora più ora meno patenti, ora più ora meno svisate, lontane, leggere e difficili a riconoscersi, com'è naturale in tanti secoli e tanta diversificazione accaduta ne' vari popoli, ma non però men vere, nè meno atte a dimostrare il nostro proposito, (poichè basta una menoma conformità, la quale non possa essere o non si possa credere accidentale, a provare l'unicità e medesimezza dell'origine ec.) e molte volte incontrastabili ec. Come son quelle che i critici hanno riconosciuto, e vengono sempre più riconoscendo tra la mitologia ec. indiana e la greca ec. tra l'egiziana e la greca ec. e quelle di moltissime altre nazioni antiche ec. V. Annali di Scienze e lettere di Milano. Gennaio 1811 num. 13. vol. 5. p. 37. ec. Dove troverai osservazioni concorrenti a dimostrare l'unicità dell'origine di molti popoli la cui unica radice è generalmente sconosciutissima. Or da questa unicità, e da quella di altri ivi mentovati, che si dicono di altra origine dai primi ma comune tra loro (benchè parimente sogliano essere reputati diversissimi di radice), si può, se non istoricamente e per certe dimostrazioni o congetture critiche, ben però filosoficamente argomentare la più remota unicità dell'origine sì de' secondi popoli rispetto ai primi, sì di tutti i popoli insieme. Alcuni popoli si diramarono e divisero in tempi a noi più prossimi o di cui ci restano più monumenti e più noti. Questi popoli son tenuti generalmente per conformi di origine. Altri in tempi più remoti e di cui ci restano meno o men noti monumenti, furon tutt'uno. Questi non son tenuti per conformi di origine se non da' più dotti. Così salendo, si argomenta che anche [3813] dove l'unicità dell'origine non può (almen finora) per niun modo apparire, ella non è per tanto men vera, benchè non apparisca o per maggior lontananza de' tempi, o per mancanza o scarsezza o oscurità o poca cognitezza di monumenti ec. Il filosofo da' particolari inferisce i generali, da' simili i simili, dal noto l'ignoto, e se neppure il critico, molto meno il filosofo ha bisogno di mostrar co' fatti ogni particolare, ovvero ogni generale con fatti generali o con tutti i particolari che cadono sotto quel tal generale ec. ma spesso e bene dimostra co' particolari il generale, e non con tutti i particolari, ma con alcuno, e i particolari con altri particolari o col generale ec. (31. Ott. 1823.)

L'amor della vita, il piacere delle sensazioni vive, dell'aspetto della vita ec. delle quali cose altrove, è ben consentaneo negli animali. La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. Perciocch'ella esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Esser morte, son termini contraddittorii. S'ella tendesse in alcun modo alla morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe e proccurerebbe contro se stessa. S'ella non proccurasse la vita con ogni sua forza possibile, s'ella non amasse la vita quanto più si può amare, e se la vita non fosse tanto più cara alla natura, quanto maggiore e più intensa e in maggior grado, la natura non amerebbe se stessa (vedi la pagina 3785. principio), non proccurerebbe se stessa o il proprio bene, o non si amerebbe quanto più può (cosa impossibile), nè amerebbe il suo maggior [3814] possibile bene, e non proccurerebbe il suo maggior bene possibile (cose che parimente, come negl'individui e nelle specie ec., così sono impossibili nella natura). Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l'esistenza, l'essere, la vita, sensitiva o non sensitiva, delle cose. Quindi non vi può esser cosa nè fine più naturale, nè più naturalmente amabile e desiderabile e ricercabile, che l'esistenza e la vita, la quale è quasi tutt'uno colla stessa natura, nè amore più naturale, nè naturalmente maggiore che quel della vita. (La felicità non è che la perfezione il compimento e il proprio stato della vita, secondo la sua diversa proprietà ne' diversi generi di cose esistenti. Quindi ell'è in certo modo la vita o l'esistenza stessa, siccome l'infelicità in certo modo è lo stesso che morte, o non vita, perchè vita non secondo il suo essere, e vita imperfetta ec. Quindi la natura, ch'è vita, è anche felicità.). E quindi è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro. E il piacere non è altro che vita ec. E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto essa vita è maggiore e più viva. La vita generalmente è tutt'uno colla natura, la vita divisa ne' particolari è tutt'uno co' rispettivi subbietti esistenti. Quindi ciascuno essere, amando la vita, ama se stesso: pertanto non può non amarla, e non amarla quanto si possa il più. L'essere esistente non può amar la morte, (in quanto la morte abbia rispetto a lui) veramente parlando, non può tendervi, non può proccurarla, non può non odiarla il più ch'ei possa, in veruno istante dell'esser suo; per la stessa ragione per cui egli non può [3815] odiar se stesso, proccurare, amare il suo male, tendere al suo male, non odiarlo sopra ogni cosa e il più ch'ei possa, non amarsi, non solo sopra ogni cosa, ma il più ch'egli possa onninamente amare. Sicchè l'uomo, l'animale ec. ama le sensazioni vive ec. ec. e vi prova piacere, perch'egli ama se stesso. (31. Ott. 1823.)

Al mio discorso sopra avvisare, divisare ec. aggiungi il franc. Deviser. (31. Ott. 1823.)

Alla p. 2928. fine. Noi abbiamo ancora, bensì in diversi significati, intenso ed intento. (intensità ec.). V. i francesi e gli spagnuoli. Nel lat. intensus è ben raro. V. Forcell. Tensus è de' più moderni. Extensus ec. e gli altri composti, veggasene il Forcellini. (1. Nov. 1823.)

Come altrove ho congetturato dalla voce σῦκον, anche nel greco, come sì sovente in latino, lo spirito denso si cangia talora in s. P. e., da ἃλς σαλεύω ec. V. i Lessici. Così in lat. sal, salum ec. dalla stessa voce. (1. Nov. 1823.)

A quello che nella teoria de' continuativi ho detto per mostrare che sector aris è contrazione di secutor, aggiungi persector aris, che i francesi dicono infatti persécuter, noi perseguitare, e gli spagnuoli se non fallo, persecutar. (1. Nov. 1823.)

Alla p. 3036. marg. Periurus, cioè qui peieravit, o periuravit, non sembra essere altro che contrazione di periuratus (che pur si trova, come anche peieratus, in senso passivo), siccome coniuratus, qui coniuravit; iuratus, qui iuravit ec. (iuratus ha pure il senso passivo: non così periurus). (1. Nov. 1823.)

[3816] Participii in us in senso attivo o neutro ec. Periurus. V. il pensiero precedente (1. Nov. 1823.). Giurato, juré ec.

Alla p.2779. Al contrario da ϕὼρ fur ec. (1. Nov. 1823.) Diminutivi positivati. Libella (it. livella, livello, franc. niveau, spagn. se non erro, nivel; livellare ec., niveler ec., ec.) per libra che pur si dice nello stesso significato. V. Forcellini. Circulus (circulo as, circularis ec. ec.) per circus, voce antiquata ec. (benchè pur si trova) se non nel senso dell'anfiteatro romano ec. ec. V. Forc. (2 Nov. 1823.)

Mestare, rimestare ec. da misceo-mixtus o mistus, quasi mistare o mixtare. V. il Gloss. i Diz. franc. e spagn. ec. (2. Nov. dì de' morti. 1823.). Expulser franc. da expellere expulsus, come da pello-pulsus, pulso as ec. V. Forcell. in expulso ed expulsatus. (2. Nov. dì de' morti. 1823.)

Alla p. 3067. Non altrimenti, al tempo di Voltaire e in quei contorni (quando l'unica letteratura d'Europa era, si può dir, la francese, benchè già ben decaduta; essendo spenta l'italiana e la spagnuola; la tedesca non ancor nata, o bambina, o tutta francese; l'inglese quasi interrotta, o francese anch'essa, ma già priva de' capi di quella scuola anglo-gallica, cioè Pope, Addison, ec.: e parlo qui della letteratura non delle scienze e filosofia, dove gl'inglesi anche allora fiorivano), le epistole e poesie indirizzate o da Voltaire medesimo o dagli altri poeti francesi ai principi di Svezia, di Russia, d'Alemagna ec. o composte in loro lode, o su di loro, o sui loro affari, o sugli avvenimenti ec. si leggevano, si applaudivano, si ricercavano, si diffondevano, davano materia di discorso nelle rispettive corti e capitali, e nell'altre corti d'Europa ec. e da' rispettivi principi ec. (lasciando anche da parte il re e la corte [3817] e capitale, e quasi tutto il regno, di Prussia, ch'era tutta francese ec.). Così anche l'altre opere in versi o in prosa, di francesi o scritte in francese, di letteratura e di poesia, non che di filosofia ec. Sicchè la lingua italiana occupava nel sopraddetto tempo il grado che la francese non solo occupa presentemente, ma quello ancora che occupò quando essa letteratura francese era unica; sì per universalità e diffusione, sì per riputazione, dignità, gusto e cura diffusane generalmente ec. come si vede anche per questa somiglianza d'esser ella in quei tempi così e sopra tutte gradita nelle corti, come lo fu nel 700, oltre la lingua, che ancor lo è sopra tutte, anche la letteratura francese, che or non lo è più se non di pari coll'altre moderne (dal qual numero l'italiana d'oggidì è fuori niente meno che la spagnuola). (2. Nov. dì de' morti. 1823.)

Alla p. 2685. marg. Δέω, δέον ec. significa anche mancare mancante ec., e tale si è appresso appoco il suo significato nelle dette frasi, onde elle sono le stesse che le addotte italiane. Similmente il francese falloir vale propriamente mancare (dal lat. fallere, spagn. faltar, it. fallire, fallare ec. ed anche in franc. faillir), e riunisce i significati di mancare e bisognare appunto come il greco δέω, o l'impersonale δέῖ (13). Simiglianza che non è da trascurare nè dev'esser casuale ec. Nelle addotte frasi il suo significato è parimente di mancare. In greco si dice anche semplicemente ὀλίγου, ὀλίγον, μικροῦ, senza il verbo δέῖν per fere, quasi ec. come noi per poco e di poco senz'altro verbo. V. la Crusca in di poco e in per §. 98. e i Lessici greci. Si dice ancora in greco assolutamente ὀλίγου [3818] δέον, μικροῦ, πολλῦ δέον. Ovvero concordato col subbietto ὀλίγου δέοντα, δέοντες ec. Ovvero p.e. δυοῖν δέοντα εἴκοσι cioè diciotto ec., ὀλίγου δέον ἶσος cioè quasi uguale ec. Anche si dice παρὰ μικρὸνἐδέησα τοῦτο ποιεῖν che risponde precisamente al nostro per poco mancai di far questo: ovvero di poco ec. V. i Lessici in δέω. Qua si dee riferire il nostro di gran lunga e d'assai (à beaucoup près) in quelle frasi: egli non è di gran lunga, o d'assai, così grande (beaucoup s'en faut). Ovvero ei non fu ec. (beaucoup s'en fallut ec.). Dove il verbo mancare o simile, è soppresso, come nelle frasi greche ὀλίγου ovvero ὀλίγον ἀπέϑανεν, μικροῦ ἀπόλωλα e simili, dove è taciuto il verbo δεῖν. Πολλοῦ così assoluto non mi par che si dica. (14) (3. Nov. 1823.)

Alla p. 3573. Questa proposizione è molto azzardata. Bisogna intenderla lassamente. Per rispetto alla lingua francese è vera, parlando generalmente. Ma per rispetto all'italiana, dubito che sia vero neppur generalmente, ben compensate che sieno insieme le conformità estrinseche che hanno le lingue italiana e spagnuola colla latina. Il suono della lingua spagnuola ha più del latino, ma questa è quasi un'illusione de' sensi. Perchè quei tali suoni latini non sono nello spagnuolo a quei luoghi in cui erano nel latino. Per esempio la moltitudine degli s contribuisce, e forse principalmente, a rassomigliare il suon dell'una lingua a quello dell'altra. Ma lo spagnuolo abbonda di s, principalmente perchè in essa [3819] lingua tutti i plurali terminano in quella lettera. Non così in latino. (Vero è però che in latino la terminazione in s è propria di tutti gli accusativi plurali non neutri. Ora, secondo Perticari, i nomi latini trasportati nelle lingue figlie, son tutti fatti dagli accusativi delle declinazioni rispettive latine. Quindi che nello spagnuolo la terminazione in s sia caratteristica de' plurali, potrebb'esser preso dal latino, e cosa anch'essa latina. E quest'osservazione può essere di non poco peso a confermare l'opinione di Perticari; (sebben ei parla solamente de' singolari, i quali fatti dall'accusativo latino generano poi i plurali al modo nostro) mentre altri con più apparenza di ragione, ma forse men verità, vogliono che i nostri nomi sieno gli ablativi latini. P.e. amore ec. Ma veramente non si vede perchè, dovendosi perder l'uso degli altri casi, e restare un solo per tutti, com'è avvenuto nelle lingue moderne, e come, certo in gran parte, dovette avvenire anche nell'antico latino volgare e parlato, avesse a prevaler l'uso dell'ablativo. Ben è consentaneo che l'accusativo si usasse in vece degli altri casi ec. v. p. 3907. L'aggiunger sempre la es ai singolari terminati in consonante non è uso latino, se non in certi casi, e nella terza declinazione. (Noi per la terminazione de' plurali imitiamo i nominativi latini della seconda e della prima. Sicchè quanto alla terminazione de' plurali, la conformità dello spagnuolo col latino, supposta eziandio e conceduta, come sopra, non si può dire che superi punto quella dell'italiano. Del resto quel continuo s che si sente nello spagnuolo fa un suono che tutto insieme considerato è così poco, o tanto, latino, quanto le continue terminazioni vocali dell'italiano. Il latino è temperato di queste e di quelle, ed eziandio insieme d'altre molte terminazioni; sicchè veramente il suo suono, parlando pure in generale e astrattamente non è nè quello dell'italiano nè anche quello dello spagnuolo. Ben è vero che nello spagnuolo le terminazioni consonanti sono miste come in latino, alle vocali, laddove in italiano non v'ha quasi che le vocali; e nello spagnuolo, benchè la terminazione in s sia, almeno tra le consonanti, la più frequente, pur v'ha diverse terminazioni consonanti, come in latino; e niuna terminazione in consonante, che non sia propria, credo, anche del latino (al contrario che in francese in tedesco ec.), benchè non sempre, anzi non il più delle volte, ne' casi stessi; e le terminazioni vocali son piane come in latino e non acute ossia tronche come in francese. Sotto questi aspetti il suono dello spagnuolo è veramente più conforme al latino che non è non solo il francese ma neppur l'italiano. E da queste ragioni nasce che udendo lo spagnuolo si possa più facilmente confonderlo col latino che non fa il francese nè anche l'italiano. E questo effetto, sotto questi aspetti, non è un'illusione, nè una cosa che non meriti esser considerata, e che non abbia un principio e una ragione di conformità o simiglianza reale. La terminazione consonante in d frequente nello spagnuolo è rara in latino ma pur v'è, come in ad, illud, id, istud, sed ec.). Del resto anche in francese (bensì nel solo francese scritto) la terminazione in s (e a' singolari terminati in consonante, si aggiunge talvolta la es, se non m'inganno) è caratteristica del plurale (quella in x vien pure a essere in s); sicchè lo spagnuolo in questa parte non prevarrebbe al francese se non in quanto ei pronunzia sempre la s, e il francese solo talvolta, e piuttosto per accidente che per altro. Quanto all'italiano, [3820] anche nelle forme regolari delle coniugazioni, esso in molte cose [è] assai più conforme al latino che non è lo spagnuolo. V. p.e. le pag. 3699-701. e la mia teoria de' continuativi dove si parla del digamma eolico in ama?u ec. E basti osservare che lo spagnuolo non ha che tre coniugazioni; l'italiano le ha tutte quattro, e tutte, in molti caratteri, corrispondenti alle rispettive latine, come negl'infiniti are, ere, ere, ire (lo spagnuolo manca del 3° e gli altri non gli ha che tronchi), e in altre cose. Anche il francese ha 4. coniugazioni, ma non corrispondono alle latine (eccetto quella in ir quanto all'infinito ec.), e la conformità del numero (cioè l'esser 4. come in latino) sembra, ed è forse, un puro caso; il che non si può certo dire dell'italiano. E quanto alla conservazione della latinità in mille e mille altre sì regole, sì voci particolari materialmente considerate, sì frasi considerate pure materialmente (chè ora parliamo dell'estrinseco), significati ed usi delle parole e frasi, anche propri originalmente o sempre del popolo e del parlato, non del solo illustre ec. dubito assai che lo spagnuolo possa esser preposto, anzi pure agguagliato all'italiano. Questa e quell'altra voce ec. sarà più latina in ispagnuolo che in italiano (così avverrà alcune volte che nello stesso francese una voce ec. sia più latina che nelle due sorelle, o in una di loro, o che queste o l'una di esse, non abbiano una voce ec. nel francese conservata, nè pertanto sarà chi dica la latinità conservarsi più nel francese che nelle sorelle, o che nell'una di esse); questa e quella voce latina resterà nello spagnuolo, e all'italiano mancherà; ma, raccolti i conti e computati i casi contrarii, e posto tutto insieme, io credo che in tutte queste cose l'italiano soverchi lo spagnuolo di grandissima lunga. (3. Novembre 1823.)

[3821] Diminutivi positivati. Orbiculatus, orbiculatim, reticulatus, venniculatus ec. (3. Nov. 1823.) se già non sono frequentativi di significato come altrove generalmente ho avvertito.

Alla p. 3156. - quando eziandio il sentimentale di Lord Byron, quello che spetta al giuoco delle passioni, al cuore, all'espressione alla pittura all'imitazione de' caratteri e de' sentimenti degli uomini, alla scienza e considerazione dello spirito dell'uomo, dell'uomo interno ec. (del che le poesie di Lord Byron sommamente abbondano, anzi sono composte) pochissimo si communica a' lettori, e veramente è poco fatto per comunicarsi agli animi altrui. E ciò appunto perchè esso pare, e forse è, piuttosto dettato dall'immaginazione che dal sentimento e dal cuore, piuttosto immaginato che sentito, immaginato che vero, inventato che imitato o congetturato, creato che ritratto ed espresso, e insomma ha certamente più dell'immaginoso che del passionato e sentimentale, ed è per sua natura più atto e disposto ad operare sulla immaginazione che sul cuore di chi legge. E così parrebbe che Lord Byron avesse voluto, e così certo accade. E perciò il suo effetto è debole, cioè poco intimo, e quindi poco durevole, benchè possa esser fortissimo al primo tratto, il che non è incompatibile col superficiale. L'effetto delle poesie di Lord Byron, tanto e così perpetuamente ed estremamente sentimentali, l'effetto del sentimentale di esse, non è sentimentale per le dette ragioni. Or veggiamo che per ciò è poco intimo, e poco si comunica il movimento dell'autore e di esse, perchè questo non essendo quasi proprio ad agire che sull'immaginazione, l'immaginazione [3822] de' lettori oggidì è generalmente poco atta a ricevere forti, cioè intime e durevoli impressioni: il che è quello ch'io diceva, e il proposito di questo discorso. E quel movimento delle poesie e de' poeti che spetta solamente o principalmente all'immaginazione, sia che nasca da essa sola nel poeta, e in essa sola abbia avuto luogo, sia che in essa sola possa agir ne' lettori e ad essa sola comunicarsi, (questo è più probabilmente il caso nostro, perchè io credo che Lord Byron veramente senta, non solo imagini, anzi l'eccesso e la straordinaria forza e qualità de' suoi sentimenti sia quel che gli noccia) difficilmente e in piccola parte e poco gagliardamente si comunica ai lettori d'oggidì. Diversamente certo accadeva negli antichi (lo vediamo infatti anche oggi ne' fanciulli e ne' giovani ancora inesperti del mondo, o nella prima gioventù, quando ella, in pratica, ancor non filosofa, come tutti fanno nell'altre età, o dopo l'esperienza; cioè tutti oggi filosofano, quanto alla vita ec. chi in teoria e in pratica, chi in questa sola). Oggi anche gli antichi sommi poeti presto ci stancano e lasciano in secco, se e quando non sono che immaginosi, ancorchè in questo medesimo sommi, straordinarii e pieni d'arte. Le poesie di Lord Byron molto più e più presto ci stufano e lascian freddi, per la grande uniformità che vi si sente, la quale può esser vera, e nascere da mancanza della vera e sottile arte poetica (sì bene e distintamente conosciuta e sì eccellentemente e maestrevolmente praticata dagli antichi); e può anche esser che sia apparente, e nasca solo dal continuo eccesso in ogni cosa, dalla continua intensità, dal continuo risalto [3823] straordinario di ciascuna parte. Il che da un lato produce l'effetto dell'uniformità, e lo è veramente, in quanto è continuo eccesso ec. benchè variato, quanto si voglia, ne' suoi subbietti, qualità ec. Dall'altro lato stanca come l'uniformità, perchè troppo affatica gli animi, che ben tosto non possono più tener dietro all'entusiasmo del poeta, come la vista presto si stanca di colori tutti vivissimi, benchè e belli e varii; e perchè il molto ed ἀϑρόον, sia pur bonissimo, presto sazia; come chi bee ad un tratto un boccale di liquore, ha subito estinta la sete, nè perchè tu gli offra altro liquore diverso e squisitissimo, ha voglia di gustarlo, ma egli ha perduto per allora la facoltà di provar piacere dal bere, e da' grati liquori. Come nel corpo così nell'animo la facoltà la virtù di provar piacere è scarsa; bisogna risparmiarla, o ch'ella è ben tosto esaurita. Il corpo e l'animo cede e vien meno al soverchio piacere, come al soverchio dolore. Ben rare sono le cose piacevoli, e i piaceri ben piccoli. Ma fossero pur frequentissimi e grandissimi. Nè il corpo nè l'animo umano hanno la forza di goder più che tanto, e anche indipendentemente dall'assuefazione che rende indifferenti le sensazioni da principio piacevoli o dolorose, anche restando ai piaceri e ai dolori la lor forza, manca all'uomo la facoltà di sentirli, se e' son troppo grandi, o se son troppi ec. La facoltà di soffrire è assai maggiore nell'uomo. Pur se il dolore è soverchio, nè il corpo nè l'animo umano non è capace di sentirlo, e non soffre, o per poco spazio, dopo il quale la sua facoltà di soffrire vien meno. L'uomo non può molto godere, non solo perchè pochi e piccoli sono i piaceri, [3824] ma anche rispetto a se stesso, perchè egli è molto limitatamente capace del piacere, e quegli stessi che vi sono, così piccoli e pochi, bastano a vincere di gran lunga la sua capacità. Bacco e Venere sono piaceri, ma l'uomo dopo un quarto d'ora ec. diviene incapace di gustarli, e soccombe alla loro forza niente meno che a quella de' tormenti e de' morbi. (3. Nov. 1823.)

Somma conformabilità dell'uomo ec. Tutto in natura, e massime nell'uomo, è disposizione. ec. Straordinaria, ed, apparentemente, più che umana facoltà e potenza che i ciechi, o nati o divenuti, hanno negli orecchi, nella ritentiva, nell'inventiva, nell'attendere, nella profondità del pensare, nell'apprender la musica ed esercitarla e comporne ec. ec. Similmente dei sordi nell'attenzione, nella contenzione e concentrazione del pensiero, nell'imparar cose che paiono impossibili ai sordi nati, fino a leggere, a scrivere, a parlare fors'anche ec. come nelle scuole de' sordi muti ec. Le quali straordinarie potenze delle parti morali, che si scuoprono nell'uomo per la sola forza delle circostanze, e talora in un individuo medesimo che dapprima non le aveva, come in uno divenuto cieco a una certa età, ec.; sono analoghe a quelle, altrettanto straordinarie, delle parti fisiche, occasionate pur dalle sole circostanze, e che in tanto si credono possibili fisicamente all'uomo, in quanto solamente si vede in fatti qualche individuo che per forza delle sue circostanze, è giunto a possederle. Come quello che nato senza braccia, suppliva co' piedi a tutte le funzioni delle mani, fino alle più squisite. Delle quali potenze niuno pure immagina che l'uomo e le rispettive sue parti morali [3825] o fisiche sieno in alcun modo capaci, se non vede o non conosce i fatti a uno per uno. Così dico di centomila altre facoltà straordinarie morali o fisiche possedute oggi o ne' tempi addietro da individui, o da razze, o da nazioni particolari, per sola forza di circostanze, o di esercizio, o di costumi ec. Come son quelle de' giocolieri indiani, ed eran quelle de' giocolieri messicani ec. de' nostri saltatori, giuocatori di forze, ed anche di lestezza di mano ec. E quel che dico delle facoltà dicasi ancora delle qualità straordinarie morali o fisiche, de' costumi, delle abitudini d'ogni sorta ec. straordinarie, o che a noi son tali ec. (4. Nov. 1823.)

Non solamente in italiano e in francese ec. (come in châtelet) si diminuiscono i diminutivi positivati, come ho detto altrove, venuti dal latino o no, positivati nel latino o nelle lingue moderne ne ec.; ma eziandio nel latino medesimo, come flabellulum, s'è vera voce, e credo altre parecchie. (15) Del resto anche i diminutivi non positivati si tornano a diminuire talvolta in latino come in italiano ec. s'io non m'inganno. Puella, benchè sia voce esprimente una cosa piccola e da vezzeggiare ec. pur è un diminutivo positivato in quanto restò solo in uso in vece dell'antiquato suo positivo puera, di cui v. Forcell. E puella si diminuisce in puellula. (4. Nov. 1823.)

Alla p. 3757. Dagli altri supini, si fanno, ma son più rari, mutato l'um in ibilis, come da flexum flexibilis, inflexibilis, ec. passibilis ec. sensibilis, insensibilis ec. Nel latino barbaro, e nelle lingue moderne s'usa di far tali verbali [3826] allo stesso modo da' supini in tum impuro, cioè sostituendo all'um l'ibilis, come fattibile, perfettibile, indefettibile, ec. da perfectum, defectum, factum. Ma non così in latino buono, o seppur v'avesse qualch'esempio simile, sarebbe de' tempi più moderni ec. I buoni latini avrebbero detto facibilis da facitum, come anche noi diciamo concepibile inconcepibile ec. (concevable ec.) da concepitum, mentre però diciamo percettibile impercettibile ec. da perceptum; e diciamo reperibile da reperitum, non repertibile da repertum ec. Regolarmente e primitivamente niun supino latino finisce in tum impuro. Sicchè questa formazione non è latina. V. p. 3904.3928. Del resto, queste osservazioni sopra la formazione de' verbali in bilis servono anch'esse a confermare le nostre proposizioni circa l'antico e regolare stato de' supini, sì in generale, sì per ciascuno di tai verbali in particolare, cioè di quelli che fanno al proposito ec. (4. Nov. 1823.)

Alla p. 3688. fine. Come il significato di no¡v abbia a fare con quel di nosco, vedi i Lessici. E in ogni modo o che nosco fosse da νοΐσκω, o che sia da νοέω, sarebbe la stessa cosa, quanto alla ragion del significato ec. perchè νοέω e νοΐσκω sono lo stesso verbo. E γιγνώσκω, che vale nosco, vien certamente da νοΐσκω ec. (4. Nov. 1823.)

Reperito da reperio-ertum, ant. reperitum. V. Forcell.

Manto as da maneo-mansum, ant. manitum regolare, contratto in mantum. Ovvero mantum sta per mansum mutato l's in t. Vedi ciò che altrove s'è detto in più luoghi circa tal mutazione ne' supini e participii, a proposito di vectum e vexum di veho, onde [3827] vectare e vexare, e ad altri propositi; e quello si riferisca a manto, e manto a quel che ivi si è detto. Mansum anomalo è dall'anomalo mansi per manui, secondo il detto altrove della formazione de' supini da preteriti perfetti, al che si aggiunga anche questo esempio. Da mansum è mansitare fratello di mantare, come vexare di vectare ec. (4. Nov. 1823.)

Alla p. 3704. fine. E qualcosa similmente è più aliena dalla terza coniugazione, e più propria e caratteristica della prima, che la desinenza in avi nel perfetto e in atum nel supino? (sero is anomalo ha satum, anomalo come il perfetto sevi; ma oltre che questo supino è anomalo, ei non è in atum ma in atum). Or eccovi nascor della terza fa natus participio e sostantivo e natus sum, e natum, e natu ec. E tutti i verbi in asco e ascor, o non hanno perfetto nè supino, o se n'hanno o che se gli attribuiscano, e' sono in avi e in atum. Qual più chiaro segno che questi non sono proprii loro, ma d'altro verbo, e questo della prima? Veterasco is ha, o se gli attribuisce, veteravi. Pare però che lo stesso Forcell. che glielo attribuisce, abbia veduto ch'e' non può esser proprio suo, ma di un vetero as, il quale ei segna senz'alcun esempio, rimettendo a veterasco, dove di vetero non è parola; solo vi sono esempi di veteravi frammisti a quelli di veterasco. (Trovasi anche veteratus, v. Forc. in questa voce). Infatti abbiamo inveterasco is fatto evidentemente da invetero as avi atum, il quale ancora sussiste (tutto intiero), e così inveteratus (che il Forc. attribuisce giustamente ad invetero, sì come anche il perfetto inveteravi e il supino inveteratum, segnando [3828] inveterascere senza perfetto nè supino), e così forse altri composti di vetero. Dunque se v'invetero, e se a questo spetta inveteravi, atum, atus, dovette avervi anche vetero, e suo esser veteravi, atus ec. E così discorrasi di tanti altri verbi originali di quelli in sco, de' quali mancando il semplice si trovano però i loro composti, a' quali ordinariamente si attribuiscono i perfetti e supini che loro convengono, mentre quelli de' semplici, se i semplici non si trovano, s'attribuiscono ai loro semplici derivati in sco.

Irascor sta nel Forcell. senza supino nè perfetto. Trovasi iratus. Vero participio, benchè forse, almeno in certi casi, aggettivato, come tanti altri. Or donde viene questo participio? Non dimostra egli un verbo della prima? un verbo onde venga sì egli sì irascor? Cioè un antico iror, conservato nell'italiano (irare, adirare, airare ec. con lor derivati ec.), e v. gli spagn. (4. Nov. 1823.)

Alla p. 3710. Da' verbi della 2da si fanno quelli in esco, dalla terza si fanno in isco, così dalla quarta, come scisco; dalla prima, in asco; del che vedi gli esempi nel pensiero precedente, ed aggiungi labasco e labascor da labo as, e simili. In Labasco nel Forcell. trovo il nome appellativo e speciale de' verbi in sco. Essi si chiamano presso i grammatici, verba inchoativa. (4. Nov. 1823.). V. p. 3830. fine.

Adito as da adeo is-itum. (4. Nov. 1823.)

Al detto altrove del verbo bitere, aggiungi quello che ha il Forcell. in adito as. E nóta come anche [in] quell'esempio, [3829] il quale, secondo il Forcell., è appoggiato da tutte l'ottime edizioni, la coniugazione di bito fu la prima. Si adbites. Certo questo è presente congiuntivo e non futuro indicativo. Almeno sen può ben dubitare. E veramente io mi maraviglio come nè per questo, nè per gli altri esempi, altrove da me esaminati, il Forcellini (e forse niun altro) si sia avveduto che bito è della prima, o anche della prima, e l'abbia pur creduto della terza, o della sola terza, oltre bitio is della 4ta ec. s'è vera voce. (16) (4. Nov. 1823.)

Lo stato della letteratura spagnuola oggidì (e dal principio del 600 in poi), è lo stesso affatto che quello dell'italiana, eccetto alcuni vantaggi di questa, ed alcune diversità di circostanze, che non mutano la sostanza del caso. Come noi (al paro di tutti gli altri stranieri) non dubitiamo che la Spagna non abbia nè lingua nè letteratura moderna propria, e dal 600. in poi non l'abbia mai avuta, così non dobbiamo dubitare che non sia altrettanto in Italia, e ciò dal 600. in poi, come gli stranieri, e forse tra questi anche gli spagnuoli (che del fatto loro non converranno), punto non ne dubitano. Quello che noi vediamo chiaro in altrui e nel lontano, ci serva di specchio e di esempio per ben vedere, per accorgerci, per conoscere e concepire il fatto nostro, e quello ch'essendoci proprio e troppo vicino, non suol vedersi nè conoscersi mai bene, sì per l'inganno dell'amor proprio, sì perchè la stessa vicinanza nuoce alla vista, e l'abitudine di continuamente vedere impedisce o difficulta l'osservare, il notare, l'attendere, il por mente, l'avvedersi. L'opinione che abbiamo di quelli stranieri c'istruisca [3830] di quella che dobbiamo avere di noi, e le ragioni di quella si applichino al caso nostro, chè ben vi sono applicabili ec. Del resto tutto quello ch'io [ho] ragionato in più luoghi circa la presente (ec.) condizione della letteratura e lingua italiana; circa il mancar noi di lingua e letteratura moderna, di filosofia ec.; circa la condizione in cui si troverebbe oggidì un grande e perfettamente colto ingegno italiano, la necessità che avrebbe di crearsi una lingua, di creare una letteratura ec., il come e quale gli converrebbe crearle, e con quali avvertenze ec. ec. tutto, con lievi e accidentali diversità intendo altresì dirlo degli spagnuoli. E viceversa la considerazione di questi può e dee molto servire, sì a noi, sì anche agli stranieri, per giudicare e formarsi una giusta idea dello stato d'Italia e degl'ingegni italiani (se ve ne fossero) rispetto alla lingua, letteratura, filosofia ec. Le lingue e letterature italiana e spagnuola, le più conformi forse del mondo per mille altri titoli, come ho mostrato altrove (e così le nazioni ec.), lo sono altresì per la loro storia, e pel loro stato presente e passato ec. Ed altrimenti infatti non avrebbero avuto fra loro quelle conformità intrinseche che hanno, o certo non in tal grado, nè così durevolmente ec. ec. (4. Nov. 1823.)

Alla p. 3828. fine. Sicchè di ciascun verbo in asco si può sicuramente dire che viene da un verbo della prima, e non d'altra coniugazione, della quale è segno caratteristico l'a precedente la desinenza in sco; e così rispettivamente dite de' verbi [3831] in esco ed isco ec. (se pur non v'ha qualche verbo in sco che non sia incoativo, neppur per origine, (giacchè per significato ed uso molti nol sono o nol sono sempre, come altrove dico) il quale sarebbe fuori del nostro discorso). Pasco è certamente da un antico pare da πάω (e non da βόσκω, come dubita il Forcell. in Pasco princip.) come l'antico poo da πόω, e altri tali di cui altrove sparsamente ed insieme. Dimostralo sì la sua desinenza in asco, sì il perfetto pavi, affatto anomalo rispetto a pasco e rispetto alla sua coniugazione, cioè alla terza, perchè tolto in prestito da quell'antico verbo della prima, di cui è proprio. Ecco come le nostre osservazioni scuoprono e illustrano le antichissime voci e radici della lingua latina, e la sua analogia, e le sue antichissime conformità colla greca, e la medesimezza di voci greche e latine che non paiono più aver nulla che fare (e ciò non per stiracchiate etimologie, come tanti altri han fatto, ma per accurato ed evidente ragionamento, e per mille confronti ec. e per regole grammaticali ec. trovate, o illustrate nuovamente e nuovamente applicate, ampliate, meglio stabilite, spiegate ec.), e le origini della lingua latina, e la proprietà vera e primitiva sua e delle sue voci, e le sue vere norme e regole, forme ec.; e le ragioni ed origini delle anomalie sue e delle sue voci ec. Pastum è contrazione di pascitum dimostrato da pascito. L'uno e l'altro è supino (e participio) proprio di pasco, non di pao. Nuova prova che il vero e proprio supino di tutti i verbi in sco è in scitum, benchè per lo più perduto, e sostituitigli degli altri ec.; e quindi ancora che il lor proprio perfetto sarebbe in sci, giacchè il supino si fa dal perfetto, come [3832] altrove. Il composto di pasco, compesco, s'egli però è veramente composto di pasco, come crede il Forcell. (vedilo in pasco fin. e in compesco), non fa compavi, ma compescui, anomalo anch'esso, (v. la pag. 3707.) ma, benchè anomalo, proprio di compesco e di un verbo in sco, non di compao nè di pao, e che pur serve a mostrare che pavi non è proprio di pasco. Per supino Prisciano gli dà compescitum, e a dispesco, dispescitum; nuova prova e di pascitum e della qualità de' proprii supini de' verbi in sco ec. Prisciano riconosce anche dispescui. Se dispesco sia composto di pasco, ne dico quello stesso che di compesco. Del resto ne' verbi in sco fatti da quelli della terza, non è essenziale la desinenza in isco. Da noo is si fa nosco: posco ec. ec. O che queste desinenze sieno primitive, ovvero, che m'è più probabile, l'u che dovrebb'esservi, vi è mangiato, e ciò per evitare il concorso delle vocali, giacchè tali desinenze han luogo quando la desinenza in isco sarebbe stata preceduta da una vocale. P.e. da noo is, regolarmente sarebbe stato noisco (intieramente conforme al greco νοΐσκω, e ciò per puro accidente, come a pag. 3688.). Ma siccome noo e simili andarono in disuso per la spiacevolezza del suono, cagionata dal concorso delle vocali, siccome altrove ho detto, così ne' lor derivati che restarono in loro luogo, per evitar lo stesso concorso, fu soppresso l'u, ch'era la vocale più esile. Del resto nosco è per noisco, come notum per noitum, nobilis per noibilis, potum per poitum, sutum per suitum ec. ec. come altrove in più luoghi. E questi sono così ridotti per la detta ragione. (4. Novembre. 1823.)

[3833] Alla p. 3640. marg. Gl'Inca furono i civilizzatori di quella parte non piccola dell'America meridionale ond'essi in varie maniere s'insignorirono. Civilizzatori per rispetto alla barbarie estrema de' popoli di quella parte non soggetti alla loro dominazione, anche de' confinanti, ed alla barbarie de' popoli da lor soggettati, prima della soggezione. La civilizzazione operata dagl'Incas, o da essi diffusa, fu principalmente nelle provincie più vicine alla lor capitale; nell'altre tanto minore proporzionatamente quanto più lontane, men soggette, e più recentemente riunite al loro impero. Or gl'Inca adorarono unicamente o principalmente il sole; e così la lor capitale e le più antiche provincie del loro regno. Essi introdussero il culto del sole per tutto insieme col lor dominio. L'altre provincie lor soggette massime le più lontane, o le men soggette, o le più recentemente, e ne' principii della lor soggezione tutte o quasi tutte, lo riunirono ai culti lor naturali, ch'erano d'idoli orribili a vedere, e de' quali avevano formidabili e odiosissime idee di figure d'animali feroci, o d'idee semplici di qualche essere spaventevole non rappresentato in niun modo. Le provincie non soggette agl'Inca non ebbero che questi o simili culti e mai non conobbero quello del sole. Quando gli Europei scoprirono il Perù e suoi contorni, dovunque trovarono alcuna parte o segno di civilizzazione e dirozzamento, quivi trovarono il culto del sole; dovunque il culto del sole, quivi i costumi men fieri e men duri che altrove; dovunque non trovarono il culto del sole, quivi (ed erano pur provincie, valli, ed anche borgate, confinanti non di rado [3834] o vicinissime alle sopraddette) una vasta, intiera ed orrenda e spietatissima barbarie ed immanità e fierezza di costumi e di vita. E generalmente i tempii del sole erano come il segno della civiltà, e i confini del culto del sole, i confini di essa ec. (5. Nov. 1823.)

Dico altrove che noi sogliamo cangiare l'u de' participii latini in us, usitati o inusitati, nella lettera u. Che questa mutazione dell'i in u (mutazione propria della voce umana, come ho detto altrove in più d'un luogo) ci sia naturale segnatamente in questo caso, veggasi che noi diciamo concepito (regolare lat. ant. concepitus), e conceputo (diciamo anche concetto, voce tolta dal latino dagli scrittori e dalla letteratura). Ma questo secondo è più italiano ed elegante. Così empiuto, compiuto, riempiuto ec. rispetto ad empìto, compìto (in alcuni sensi però non si potrebbe dir compiuto per compito ma questi sono anzi forestieri che no) ec. Così forse altri ec. Nótisi però che i grammatici distinguono empiere ec. ed empire (meno elegante) ec.; concepere e concepire; e ad empiere danno empiuto ec., a concepere conceputo; ad empire empìto ec. (5. Nov. 1823.)

Diminutivi positivati. Rameau, (17) Taureau. (5. Nov. 1823.)

Participii affatto aggettivati. Acutus a um. E v. Forc. in Acuo sulla fine. (5. Nov. 1823.)

Verbi in uo. Tribuo da tribus us; verbo della terza, siccome [3835] acuo che forse è da acus us, statuo da status us ec. del che altrove. (5. Nov. 1823.)

L'esaltamento di forze proveniente da' liquori o da' cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona,(18) come suole sovente, un torpore e una specie di assopimento letargico (come diceva il Re di Prussia), essendo un accrescimento di vita, accresce l'effetto essenziale di essa, ch'è il desiderio del piacere, perocchè coll'intensità della vita cresce quella dell'amor proprio, e l'amor proprio è desiderio della propria felicità, e la felicità è piacere. (19) Quindi l'uomo in quello stato è oltre modo, e più ch'ei non suole, avido e famelico di sensazioni piacevoli, e inquieto per questo desiderio, e le cerca, e tende con più forza e più direttamente e immediatamente al vero fine della sua vita e del suo essere e di se stesso, e alla vera somma e sostanza ultima della felicità, ch'è il piacere, poco, o men del suo solito, curando le altre cose, che spesso son fini delle operazioni e desiderii umani, ma fini secondarii, benchè tuttogiorno si prendano per primarii e per felicità; perch'essi stessi tendono essenzialmente ad un altro fine, e tutti ad un fine medesimo, cioè a dire al piacere. In somma l'uomo è allora rispetto a se stesso ed al solito suo, quello che sono sempre i più forti rispetto agli altri, cioè più sitibondi della felicità, e più inquieti da' desiderii, cioè dal desiderio della propria felicità, e più immediatamente e specialmente, e in modo più espresso, sensibile e manifesto sì agli altri che a se medesimi, avidi del piacere [3836] (al quale tutti tendono e sempre, ma i più forti più, e più immediatamente e chiaramente, o ciò più spesso e più ordinariamente degli altri), perocch'essi sono abitualmente più vivi degli altri.

Similmente, come in generale i più forti per l'ordinario, così gl'individui in quel punto, sogliono essere (proporzionatamente alle loro rispettive abitudini e caratteri, età, circostanze morali, fisiche, esteriori, di fortuna, di condizione e grado sociale, di avvenimenti ec. costanti, temporarie, momentanee ec.) più del lor solito disposti alle grandi e generose azioni, agli atti eroici, al sacrifizio di se stessi, alla beneficenza, alla compassione (dico più disposti, e voglio dire la potenza, non l'atto, che ha bisogno dell'occasione e di circostanze, che mancando, come per lo più, fanno che l'uomo neppur si avveda in quel punto di tal sua disposizione e potenza, ed anche in tutta la sua vita non si accorga che in quei tali punti egli ebbe ed ha questa disposizione ec.); perocchè la sua vita in quel punto è maggiore, e quindi più potente l'amor proprio, e quindi questo è meno egoista, secondo le teorie altrove esposte. Lasciando le illusioni proprie e naturali di quello stato, proporzionatamente all'abitual condizione morale dell'individuo ec.

E così troverassi che gli altri effetti che accompagnano o seguono la maggiore intensità della vita, la maggior forza corporale ec., avuta ragione de' vari caratteri e circostanze morali e fisiche degl'individui ec. da me altrove considerati in più luoghi ec. hanno tutti luogo proporzionatamente nelle dette occasioni ec. (5. Novembre 1823.)

[3837] Il giovane che al suo ingresso nella vita, si trova, per qualunque causa e circostanza ed in qual che sia modo, ributtato dal mondo, innanzi di aver deposta la tenerezza verso se stesso, propria di quell'età, e di aver fatto l'abito e il callo alle contrarietà, alle persecuzioni e malignità degli uomini, agli oltraggi, punture, smacchi, dispiaceri che si ricevono nell'uso della vita sociale, alle sventure, ai cattivi successi nella società e nella vita civile; il giovane, dico, che o da' parenti, come spesso accade, o da que' di fuori, si trova ributtato ed escluso dalla vita, e serrata la strada ai godimenti (di qualsivoglia sorta) o più che agli altri o al comune de' giovani non suole accadere; o tanto che tali ostacoli vengano ad essere straordinari e ad avere maggior forza che non sogliono, a causa di una sua non ordinaria sensibilità, immaginazione, suscettibilità, delicatezza di spirito e d'indole, vita interna, e quindi straordinaria tenerezza verso se stesso, maggiore amor proprio, maggiore smania e bisogno di felicità e di godimento, maggior capacità e facilità di soffrire, maggior delicatezza sopra ogni offesa, ogni danno, ogn'ingiuria, ogni disprezzo, ogni puntura ed ogni lesione del suo amor proprio; un tal giovane trasporta e rivolge bene spesso tutto l'ardore e la morale e fisica forza o generale della sua età, o particolare della sua indole, o l'uno e l'altro insieme, tutta, dico, questa forza e questo ardore che lo spingevano verso la felicità, l'azione, la vita, ei la rivolge a proccurarsi l'infelicità, l'inattività, la morte morale. [3838] Egli diviene misantropo di se stesso e il suo maggior nemico, egli vuol soffrire, egli vi si ostina, i partiti più tristi, più acerbi verso se stesso, più dolorosi e più spaventevoli, e che prima di quella sua poca esperienza della vita egli avrebbe rigettati con orrore, divengono del suo gusto, ei li abbraccia con trasporto, dovendo scegliere uno stato, il più monotono, il più freddo, il più penoso per la noia che reca, il più difficile a sopportarsi perchè più lontano e men partecipe della vita, è quello ch'ei preferisce, ei vi si compiace tanto più quanto esso è più orribile per lui, egl'impiega tutta la forza del suo carattere e della sua età in abbracciarlo, e in sostenerlo, e in mantenere ed eseguire la sua risoluzione, e in continuarlo, e si compiace fra l'altre cose in particolare nell'impossibilitarsi a poter mai fare altrimenti, e nello abbracciar quei partiti che gli chiudano per sempre la strada di poter vivere, o soffrir meno, perchè con ciò ei viene a ridursi e a rappresentarsi come ridotto in uno estremo di sciagura, il che piace, come altrove ho detto, e se qualche cosa mancasse e potesse aggiungersi al suo male, ei non sarebbe contento ec. egl'impiega tutta la sua vita morale in abbracciare, sopportare e mantenere costantemente la sua morte morale, tutto il suo ardore in agghiacciarsi, tutta la sua inquietezza in sostenere la monotonia e l'uniformità della vita, tutta la sua costanza in scegliere di soffrire, voler soffrire, continuare a soffrire, tutta la sua gioventù in invecchiarsi l'animo, e vivere esteriormente da vecchio, ed abbracciare e seguir gl'istituti, le costumanze, i modi, le inclinazioni, il pensare, la vita de' vecchi. Come tutto ciò è un effetto del suo ardore e della sua forza naturale, egli va molto al di là del necessario: se il mondo a causa di suoi difetti o morali o fisici, o di sue circostanze, gli nega tanto di godimento, egli se ne toglie il decuplo; se la necessità l'obbliga a soffrir tanto, egli elegge di soffrir dieci volte di più; se gli nega un bene ei se ne interdice uno assai maggiore; se gli contrasta qualche godimento, egli si priva di tutti, e rinunzia affatto al godere.

[3839] Il giovane è in queste cose così costante, risoluto, forte, durevole, che gli educatori e quelli che han cura di lui, anche sommamente benevoli, assai spesso e il più delle volte, stimano tali risoluzioni e tali forme di vita essergli naturali, nascere dalle sue inclinazioni, esser conformi al suo vero carattere, al suo vero piacere, e però determinano di non distornelo, non impedirnelo, di confermarvelo, di secondarlo, e così fanno, anche talora senz'alcun proprio interesse per sola premura ed affezione verso di lui. E' s'ingannano sommamente e in tali casi la lor poca cognizione del cuore umano e de' suoi mirabilissimi accidenti, de' fenomeni dell'amor proprio e delle sue sottilissime e sfuggevolissime operazioni e modi di agire, e stravagantissimi effetti e trasformazioni, nuoce grandemente a quei poveri giovani, i quali ben potrebbero ancora, ma non senza molta forza e molto artifizio, essere strappati a quelle dure risoluzioni, azioni e abitudini, e riconciliati con se stessi e con la vita, vero partito che si dovrebbe prendere in tali casi da un prudente e filosofo e pietoso curatore, e solo mezzo di svolgere il giovane da' tristi partiti ch'egli ha abbracciati o è per abbracciare, e di sottrarlo dalla vera infelicità che glien'è per seguire, massime calmato il furore e intiepidito l'ardore dell'età, che sono appunto quelli che cagionano quella tal sua pazienza e che l'agghiacciano, e che lo sostengono e nutrono in quella gelata, sterile, ed arida vita ch'egli ha intrapreso, o nella risoluzione d'intraprenderla; ma poco potranno durare a sostentarlo, e consumati o diminuiti, egli sentirà tutta [3840] la pena del suo stato, e gli mancherà la virtù di soffrirlo, dopo impostasene la necessità. La qual virtù manca insieme colla compiacenza ch'ei prova in soffrire o in voler soffrire, la qual compiacenza non può essere perpetua, e il tempo e l'età, se non altro, l'estingue. Massime ch'egli non potrà esser consolato e reso indifferente verso le sue privazioni dal disinganno, non avendo mai provato quello di ch'ei si privò, e non essendosene privato per disinganno e per dispregio ch'e' n'avesse, anzi al contrario per inganno, perch'ei ne faceva gran conto, perchè assaissimo gli costava il privarsene. Chè questa è la differenza da questa sorta di sacrifizi che or discorriamo, e quella più facile e più nota, (perchè proveniente da causa più manifesta e facile a comprendere e a vederne la connessione coll'effetto) e forse più ordinaria, o altrettanto, che nasce dal disinganno, dall'esperienza de' godimenti, dal disgusto della vita tutta felice com'ella può essere.

Quindi accade che tali giovani i quali nella gioventù son vecchi per lor volontà, e più fortemente vecchi de' vecchi medesimi, perchè la lor morale vecchiezza viene a nascere appunto dalla lor gioventù fisica, e dalla forza e ardore di questa e del loro carattere, nella maturità e nella vecchiezza (posto che abbiano effettuato quelle loro risoluzioni) sono moralmente giovani, e più giovani assai de' giovani stessi che abbiano fatta un poco di esperienza, o che sieno di men fervida e sensitiva natura. Perchè questi sono in parte disingannati, o meno avidi e smaniosi del godimento. Quelli continuano e serbano tutto intero e fresco il loro inganno giovanile [3841] e le loro illusioni, e come frutta l'inverno, conservate nella cera, state sempre escluse dal contatto dell'aria, sotto la vecchiezza del corpo conservano quasi intatta ed intera la gioventù dell'anima (mantenuta lungi dall'influenza esteriore ec. nel ritiro ec.) già vera gioventù, perchè cessata la gioventù del corpo che li spingeva a soffrire, e ne li facea compiacere, e gliene dava il valore. Questi tali, bene attempati, sono smaniosi del godimento, avidi e sitibondi della felicità senza sperarla, ma ben persuasi, come da principio, ch'ella sia possibile e non difficile nè rara, hanno ripreso i desiderii proprii dell'uomo, e massime della gioventù, con tutto il loro ardore ec. Quindi e' vivono e muoiono disperati e infelici, tanto più quanto e' credono felici gli altri, e che la loro infelicità, il lor soffrire, il loro non godere, o il non aver mai goduto e sempre sofferto, sia provenuto da loro, e ch'essi avessero potuto altrimenti se avessero voluto; la quale opinione e il qual pentimento è la più amara parte che possa trovarsi in qualunque abituale o attuale infelicità o sventura o privazione ec. e il colmo dell'infelicità.

Spettano a questo discorso e nascono dalle psicologiche cagioni e principii, e dagl'interni avvenimenti e circostanze sviluppate di sopra, gran parte delle monacazioni ec. di giovani, e lo sceglier di vivere in casa o in campagna, e i ritiri dalla società ec. fatti nel principio della gioventù, massime da persone vive e sensibili ec. e resi poi necessarii a continuarsi, per l'abitudine, per li rispetti umani, per l'imperizia, che ne segue, del conversare, per il timor [3842] panico dell'opinione, del ridicolo ec. che suole accompagnare lo straordinario, la novità, il cominciare, il mutar proposito e vita in tempo, in età non conveniente, non ordinaria al cominciare, o al nuovo proposito e vita per se medesima ec. ec. (5. Nov. 1823.)

Alla p. 2779. marg. fine. Che βούλω attivo esistesse una volta confermasi con argomento non solo di analogia, ma di fatto; cioè che boælomai trovasi anche usato in senso passivo. Dunque s'egli è passivo, ei dovette nascere da un attivo, ed avere il suo attivo onde egli fosse il passivo. Vedi Creuzer Meletemata e disciplina antiquitatis, par.2. Lips. 1817. p.55. fin.-56. init. (6. Nov. 1823.)

Sempre che l'uomo pensa, ei desidera, perchè tanto quanto pensa ei si ama. Ed in ciascun momento, a proporzione che la sua facoltà di pensare è più libera ed intera e con minore impedimento, e che egli più pienamente ed intensamente la esercita, il suo desiderare è maggiore. Quindi in uno stato di assopimento, di letargo, di certe ebbrietà, (20) nell'accesso e recesso del sonno, e in simili stati in cui la proporzione, la somma, la forza del pensare, l'esercizio del pensiero, la libertà e la facoltà attuale del pensare, è minore, più impedita, scarsa ec. l'uomo desidera meno vivamente a proporzione, il suo desiderio, la forza, la somma di questo, è minore; e perciò l'uomo è proporzionatamente meno infelice. Quanto si stende quell'azione della mente ch'è inseparabile dal sentimento della vita, e sempre proporzionata [3843] al grado di questo sentimento, tanto, e sempre proporzionato al di lei grado, si stende il desiderio dell'uomo e del vivente, e l'azione del desiderare. Ogni atto libero della mente, ogni pensiero che non sia indipendente dalla volontà, è in qualche modo un desiderio attuale, perchè tutti cotali atti e pensieri hanno un fine qualunque, il quale dall'uomo in quel punto è desiderato in proporzione dell'intensità ec. di quell'atto o pensiero, e tutti cotali fini spettano alla felicità che l'uomo e il vivente per sua natura sopra tutte le cose necessariamente desidera e non può non desiderare. (6. Nov. 1823.)

Diminutivi positivati. Mamilla o mammilla diminutiv di mamma (mammella ec.). Papilla diminutivo di papula, come fabella di fabula e simili, del che altrove; (21) e diminutivo in illa, come mammilla che il Forc. chiama diminut. a MAMMA, atq. idem saepe significans (scil. idem ac mamma). (6. Nov. 1823.)

Convexo as vedilo nel Forcell. e applicalo a quello che ho detto altrove di convexus derivandolo da veho, come vexare, da cui è convexare che vale altrettanto ec. (6. Nov. 1823.)

La differenza che fa Prisciano tra nectus e necatus non sussiste. (ap. Forc. in Neco). Seppur ei non intende di farla ancora tra necui e necavi. Perocchè nectus è da necui, e necatus da necavi, secondo il detto da me altrove della formazione [3844] de' supini e participii passivi da' perfetti. È anche certo che necui onde nectus, non è che corruzione di necavi onde necatus, sì che nectus viene a esser non altro che corruzione di necatus. Questo è almeno quanto all'origine e alla ragione grammaticale. Che l'uso e il significato de' due detti participii sia diverso si potrebbe credere a Prisciano quando e' ne recasse esempii idonei, o quando quelli che noi abbiamo favorissero o non contraddicessero la sua distinzione. Ora, di nectus non abbiamo esempi certi; ma necatus in un luogo di Ovidio (Forc. in necatus), detto delle api, non vuol certamente dire ucciso col ferro. E v. nel Forc. gli esempi di Enecatus e di Enectus. Del resto par veramente nel cit. luogo del Forcell. cioè in Neco, che Prisciano faccia anche tra' due (che in origine sono uno solo) perfetti di neco la stessa distinzione di significato che tra' due participii, i quali altresì per origine sono un solo, ma mediatamente, cioè in quanto vengono da perfetti che sono in origine uno stesso. (6. Nov. 1823.)

A quello che altrove ho detto di asinus-asellus, fabula fabella, populus-popellus ec. aggiungi pagina-pagella, Poculum-pocillum, Papula-papilla, Geminus-gemellus, Tabula tabella, Femina-femella, Baculum o us-bacillum o us, Pulvinus-pulvillus. E nóta il nostro diminutivo positivato favella, favellare ec. (V. la pag. 3896.) de' quali verbi altrove ad altro proposito. Catulus-catellus. Anellus (anello ec.) è diminutivo di anulus (il quale ancora è forse diminutivo di annus, ma di senso diverso dal suo positivo onde non ha che fare col nostro discorso de' diminutivi positivati). Sicchè il nostro anello ec. (e v. il Gloss.) è un diminutivo positivato. (7. Nov. 1823.)

[3845] Nomi in uosus. V. Forcell. in fetuosus. (7. Nov. 1823.) Alla p. 3585. I quali testi, e per conseguenza questi due verbi, sono antichi, cioè l'uno di Catullo, l'altro di Paolo Diacono da Festo. Del rimanente assulito è per assilito, mutato l'i in u, per la grande affinità di queste due vocali, altrove considerata. La quale affinità non è fra l'a e l'u, nè in composizione nè altrove l'a (ch'io mi ricordi) si muta mai in u, nè viceversa. Sicchè assulito non può esser per assalito, nè assulto, resulto ec. per assalto, resalto ec. ma per resilto, assilto ec. E così tutti i composti di salto, i quali tutti (ch'io sappia) fanno in ulto (fuorchè resilito, che sarebbe da salito). O che essi vengano a dirittura da salto, nel qual caso l'a sarebbe stato cangiato in u, ma mediatamente, cioè prima in i (mutazione ordinaria nella composizione, come ho detto altrove in più luoghi, e come appunto l'a di salio, ne' suoi composti), poscia l'u in u (sicchè veramente non l'a ma l'i fu cambiato in u); o, quel ch'è più verisimile, essi vengono da' participii o supini de' rispettivi composti originali, cioè da assultum, resultum ec. di assilio, resilio ec. Così facul, difficul, facultas, difficultas per facilitas, difficilitas ec. mutato l'i in u, e soppresso l'altro i. V. p. 3852. I quali participii o supini regolarmente sarebbero resilitum, assilitum ec. (e lo dimostra appunto col fatto il verbo resilito), ma ebbero il primo i cambiato in u, come maximus maxumus (e in tale stato, cioè da assulitum, viene assulito, e dimostra la nostra asserzione), e il secondo i soppresso, come nel semplice salitum-saltum: onde divennero assultum, resultum ec. onde assultare contratto d'assulitare. Potrebbe anch'essere che i più antichi, prima di [3846] assilio ec. pronunziassero assulio, resulio ec., come forse maxumus ec. ec. e più antica pronunzia o scrittura ec. che maximus; e per conseguenza assulitum, resulitum (che poi anche nella successiva lor contrazione conservarono la pronunzia e scrittura ec. dell'u) ec. In tal caso assulito sarebbe la più antica forma de' composti di salto, e resilito sarebbe più moderna, dal più moderno resilitum. (7. Nov. 1823.)

Alla p. 3281. La somma e la forza di questo pensiero si è che la compassionevolezza, la beneficenza, la sensibilità ec. da tutti (e in particolare da Rousseau) considerate come proprie generalmente de' giovani (massime uomini), e l'insensibilità, la durezza ec. considerate come proprie de' maturi, e più, de' vecchi (massime donne), (22) non tanto derivano dall'innocenza, inesperienza e poca cognizione mondana degli uni, e dall'esperienza e scienza mondana, dal disinganno morale ec. degli altri, come ordinariamente si crede e si dice, quanto dalle altre cagioni sì fisiche sì morali accennate in questo discorso, o certo da esse ancora in gran parte, e forse principalmente; se non da ciascuna, posta per se sola al paragone della suddetta, che certo è grandissima, ed a cui spetta la differenza di virtù fra gli antichi e i moderni ec. almen dalla somma di esse. Infatti di un uomo e una donna egualmente giovani e inesperti e in parità d'ogni altra qualità e circostanza, quello, perchè più forte, ec. è naturalmente più dell'altra compassionevole, benefico ec. e più inclinato alla compassione, all'interessarsi per altrui ec. Così di due giovani, pari in ogni altra cosa e circostanza, il più forte è più portato a soccorrere altrui, a compatire, a ben fare ec. ec. (7. Nov. 1823.) Sempre che il vivente si accorge dell'esistenza, e tanto più quanto ei più la sente, egli ama se stesso, (23) e sempre attualmente, [3847] cioè con una successione continuata e non interrotta di atti, tanto più vivi, quanto il detto sentimento è attualmente o abitualmente maggiore. Sempre e in ciascuno istante ch'egli ama attualmente se stesso, egli desidera la sua felicità, e la desidera attualmente, con una serie continua di atti di desiderio, o con un desiderio sempre presente, e non sol potenziale, ma posto sempre in atto, tanto più vivo, quanto ec. come sopra. Il vivente non può mai conseguire la sua felicità, perchè questa vorrebb'essere infinita, come s'è spiegato altrove, e tale ei la desidera; or tale in effetto ella non può essere. Dunque il vivente non ottiene mai e non può mai ottenere l'oggetto del suo desiderio. Sempre pertanto ch'ei desidera, egli è necessariamente infelice, perciò appunto ch'ei desidera inutilmente, esclusa anche ogni altra cagione d'infelicità; giacchè un desiderio non soddisfatto è uno stato penoso, dunque uno stato d'infelicità. E tanto più infelice quanto ei desidera più vivamente. Non v'è dunque pel vivente altra felicità possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza d'infelicità; non è, dico, possibile al vivente il mancare d'infelicità positiva altrimenti che non desiderando la sua felicità, nè per altro mezzo che quello di non bramar la felicità. Ma sempre ch'ei si ama, ei la desidera; e mentre ch'ei sente di esistere, non può, nè anche per un istante, cessare di amarsi; e più ch'ei sente di esistere, più si ama e più desidera. Il discorso dunque della felicità umana e di qualunque vivente si riduce per evidenza a questi termini, e a questa conclusione. Una specie di [3848] viventi rispetto all'altra o all'altre generalmente ec., è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d'infelicità positiva, quanto meno dell'altra ella sente l'esistenza, cioè quanto men vive e più si accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de' polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi). Così un individuo rispetto all'altro o agli altri. (Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice: e la nazion de' Lapponi la più felice delle nazioni ec.). E un individuo rispetto a se stesso allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà letargica, in uno alloppiamento, come quello de' turchi, debolezza non penosa, ec. negl'istanti che precedono il sonno o il risvegliarsi ec. Ed allora solo sì l'uomo, sì il vivente è e può essere pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d'infelicità positiva, quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento totale, negl'istanti che precedono la morte, cioè la fine del suo esser di vivente ec. Ciò vuol dire quando ei non è capace neanche di felicità veruna, nè di piacere o bene veruno, assolutamente; quando ei vivendo, non vive; allora solo egli è pienamente felice. S'ei desidera la felicità, non può esser felice; meno ei la desidera, meno è infelice; nulla desiderandola, non è punto infelice. Quindi l'uomo e il vivente è anche tanto meno infelice, quanto egli è più distratto dal desiderio della felicità, mediante l'azione e l'occupazione esteriore o interiore, come ho spiegato altrove. O distrazione o letargo: ecco i soli mezzi di felicità che hanno e possono mai aver gli animali. (7. Nov. 1823.)

Alla p.3705. marg. Così sino is fa nel perfetto sivi. Ma [3849] notisi che il primo i quivi è breve, al contrario di quelle voci di cui or discorriamo, cioè de' perfetti di cresco, suesco ec. ed anche di sevi e di crevi da cerno. Sterno is stravi atum. Quest'anomalia forse viene che sterno è difettivo, e supplito coll'avanzo di un antico stro as dall'inusitato στρώω, onde στρώσω, ἔστρώσα ec. Simile dico de' composti prosterno, insterno ec. Le lettere vocali che precedono il vi ne' perfetti delle altre coniugazioni sono sempre per lor natura lunghe (eccetto forse alcune anomalie), dico quelle che lo precedono regolarmente, cioè l'a nella prima, l'e nella seconda, l'u nella quarta (perocchè p.e. fovi, cavi da foveo, caveo sono contrazioni di fovevi, cavevi, sicchè non regolarmente il vi è preceduto in fovi dall'o, in cavi dall'a: per altro l'a e l'o di queste e simili voci, sono altresì lunghi). Insomma la desinenza di sivi non è veramente propria della 3. ma neanche di verun altra coniugazione. Al contrario di quella de' perfetti de' verbi in sco, i quali se sono in vi, la vocale che precede questa desinenza, è sempre (credo) lunga. Cosa affatto impropria della 3. e chiaro segno che tali perfetti sono propri di verbi d'altre coniugazioni. (8. Nov. 1823.). V. p. 3852.

Restito (onde restitrix) di cui v. Forcell. è notabile in quanto egli è continuativo o frequentativo di un verbo ch'esso medesimo in origine è continuativo, essendo composto del continuativo sto. Veggasi la p. 3298. (8. Nov. 1823.)

Monosillabi latini. Lax. Mors, onde morior ec. ec. idee ben primitive. Ius, onde iuro, iniuria ec. ec. tutte idee primitive nella società. Or la lingua non antecedette la società. Fraus. Res. (8. Nov. 1823.)

Nuo di cui altrove, oltre il suo continuativo nutare, e i suoi composti, annuo, innuo, renuo, abnuo ec. e loro continuativi adnuto, [3850] renuto ec., è dimostrato ancora sì dagli altri suoi derivati, sì dal verbale nutus us, ch'è fatto dal supino di nuo, secondo la regola altrove assegnata della formazione di tali verbali della 4. declinazione. Del resto, come da neæv si fece indubitatamente nuo, così da γεύω potè bene e verisimilmente e secondo l'analogia, farsi guo, di cui altrove. E viceversa nuo da νεύω come guo da γεύω. ec. (8. Nov. 1823.)

Alla p. 3760. Similmente a guo andato in disuso, fu preferito il suo continuativo gusto, de' quali verbi altrove. Similmente andò in disuso il verbo nuo, restando il suo continuativo nuto (e i derivati nutus, gustus us ec. ne' quali non avea luogo l'iato). Restarono ancora i suoi composti (vedi il pensiero precedente) perchè l'iato nei non monosillabi è men duro e appariscente che ne' monosillabi, (24) giacchè se in questi v'è l'iato, essendo essi d'una sillaba sola, son tutti formati d'un iato, e son quasi un puro iato essi stessi. Infatti l'osservazione della p. 3759. fine. - 3760. si verifica principalmente ne' monosillabi, e di questi massimamente si deve intendere. Dove il tema monosillabo riceve un incremento restando l'iato, la voce benchè non più monosillaba, ha sempre men sillabe che la corrispondente ne' verbi composti, e però l'iato in quella apparisce tuttavia ed offende maggiormente che in questa. Del resto essa talvolta, perito il tema, si è conservata, come noitum di noo, poitum di poo ec. bensì in queste e simili fu soppresso l'iato per contrazione, facendo notum, potum ec. (8. Nov. 1823.). V. p. 3881.

[3851] Alla p. 3758. marg. Se non si volesse che nubi-lis, labi-lis, fossero come doci-lis faci-lis ec. de' quali verbali in lis, loro formazione ec. mi par che si possa discorrere come di quelli in bilis, e però trarne gli stessi argomenti ec. (10. Nov. 1823.)

Participii passivi di verbi attivi o neutri, in senso attivo o neutro ec. Ho detto altrove dello spagn. parida participio sovente (o sempre; v. i Diz.) attivo intransitivo di senso. Simili ne abbiamo ancor noi parecchi, e molto elegantemente gli usiamo, in luogo de' participii veramente attivi di forma, il cui uso è poco grato alla nostra lingua, non altrimenti che alla francese e spagnuola. Uomo considerato, avvertito, avvisato vagliono considerante, avvertente ec. cioè che considera ec. veri attivi di significato, benchè intransitivi. Simili credo che si trovino ancora nel francese e più nello spagnuolo che se ne servono parimente in luogo de' participii di forma attiva poco accetti a esse lingue. (25) La detta sorta di participii passivi attivati, fatti da' verbi attivi ec. (ed infatti essi o sempre o per lo più, hanno ancora il proprio lor significato, cioè il passivo) è massimamente usata da' nostri antichi del 300. e del 500. che ne hanno in molto più copia che noi oggidì non sogliamo usare o punto, o solo in senso passivo. La nostra lingua somigliava anche in questo alla spagnuola la quale mi pare che anche oggidì conservi quest'uso più [3852] frequente che non facciam noi, accostatici ora ai francesi, a' quali esso è men frequente che agli altri, siccome esso pare singolarmente proprio della lingua spagnuola ec. ec. (10. Nov. 1823.)

Alla p. 3845. marg. Non credo, come il Forcellini, che facultas, difficultas venga da facul, difficul; ma che sieno contrazioni di facilitas, difficilitas, pronunziati difficulitas, faculitas. Facul ec. non sono che apocopi di facilis, facile avverbio ec. (pronunziati faculis ec.) dello stesso genere che volup ec. (v. Frontone e Forc. in famul, il quale non è già da famel (v. Forc. in familia) ma da famulus.) (10. Nov. 1823.). E son le stesse voci identiche che sarebbero facil, difficil, mutata sol la pronunzia.

Alla p. 3636. marg. Forse però fourre valeva fodera, e quindi fourreau, quasi foderetta, per fodero, onde il diminutivo sarebbe d'un senso distinto dal positivo, e però non apparterrebbe al nostro discorso che considera i diminutivi usati in iscambio de' positivi. (10. Nov. 1823.)

Diminutivi positivati. Ladrillo (diminutivo ladrillejo) con tutti i suoi derivati da later, quasi latericulus, o laterculus. E vedi appunto il Forc. circa l'uso positivato di laterculus. (10. Nov. 1823.)

Contracter franc. per contrarre, come in contrario lo spagn. traher alle volte nel senso di tractare, secondo che ho detto nel principio della teoria de' continuativi. (10. Nov. 1823.)

Alla p. 3849. Il vero perfetto di sino è sini. Questo infatti si trova ancora. Da questo, cred'io, per soppressione della n (della qual soppressione credo v'abbiano altri esempi), (26) si fece [3853] sii che ancor si trova eziandio, massime ne' composti (come desino is ii ed ivi). Da sii per evitar l'iato si Ϝ i, cioè sivi, come da audii audivi, da amai amavi, da docei docevi. Questo mi è più probabile che il creder sii posteriore a sivi, come gli altri fanno, e come fanno eziandio circa i preteriti perfetti della 4. coniugazione. Il supino nasce, come altrove dico, dal perfetto. Quindi da sii o sivi, situm (come da audii o audivi, auditum ec. da ama-vi ama-tum ec.), in luogo del regolare sinitum. Questo mi è più probabile che il creder situm contrazione di sinitum, fatto o per soppressione assoluta della sillaba ni, contrazione, che sappia io, non latina o per soppressione della n, onde siitum, come da sini sii, poi contratto in situm, nel qual caso l'u di situm parrebbe avesse ad esser lungo. (10. Nov. 1823.)

Alla p. 3702. La considerazione da me altrove fatta che i supini vengono dai perfetti, facilmente spiega il perchè l'etum, propria e regolare desinenza della 2. sia stato per lo più cambiato in itum, soppresso poi sovente, e forse il più delle volte, l'i. La cagione si è che l'evi de' perfetti di essa coniugazione fu cangiato in ui, e il come, si è benissimo dichiarato di sopra. Con ciò si dichiara facilissimamente e bene, il come l'etum de' supini (che in molti di essi ancor trovasi) sia passato in itum ec. mutazione che senza ciò difficilmente si spiegarebbe, non solendo l'e passare in i ec. Docitum per docetum, (meritum di mereo e simili che ancor si trovano e sono anche per lo più gli unici supini superstiti de' rispettivi verbi, o i più usitati ec.) onde doctum, è da docui per docevi, come domitum per domatum è da domui per domavi, nè [3854] più nè meno (v. la p.3715-7. 3723. ec.). E chi vuol vedere la contrazione di doctum anche ne' supini della prima in itum, fatti dai perfetti in ui, come è doctum, osservi sectum, nectum da secui, necui, enecui di secare, necare ec. Se il perfetto de' verbi della 2. si conserva in evi, il supino che ne nasce è in etum e non altrimenti, come deleo es evi etum Se il supino è in itum o contratto, mentre il preterito è in evi, come abolitum di aboleo abolevi, adultum di adoleo evi (comparato con adolesco: adolesco ha evi, adoleo ha ui), allora esso supino non nasce certo dal perfetto in evi, ma nasce ed è segno certo di un altro perfetto noto o ignoto, in ui. Infatti ne' citati esempi, Prisciano riconosce ad aboleo un abolui, e bene: adolui di adoleo è noto e usitato; è noto anche adolui di adolesco, benchè rarissimo, dice il Forcell. V. p. 3872.

Mi pare che queste osservazioni sieno mirabilmente utili a scoprire l'analogia, la ragione, le cause della lingua e grammatica latina, e delle sue apparenti anomalie ec. ec. e a stabilir regola e cagione dove gli altri non veggono che capriccio, varietà, disordine, arbitrio e caso ec. (10. Nov. 1823.)

Quello che noi chiamiamo spirito nei caratteri, nelle maniere, ne' moti ed atti, nelle parole, ne' motti, ne' discorsi, nelle azioni, negli scritti e stili ec. ci piace, e ciò a tutti, perch'egli è vita, e desta sensazioni vive sotto qualche rispetto, o desta sensazioni qualunque, e molte, e spesse, il che è cosa viva, perchè il sentire lo è. Infatti lo spirito si chiama anche vivacità ec. o semplicemente, o vivacità di spirito, di carattere, stile, modi ec. ec. Il suo contrario in certo modo è morte, e non desta sensazioni, o poche, leggere, [3855] non rapide, non varie, non rapidamente succedentisi e variantisi, il che è cosa morta. Noi lo chiamiamo spirito perchè siamo soliti di considerar la vita come cosa immateriale, e appartenente a cose non materiali, e di chiamare spirito ciò ch'è vivo e vive e cagiona la vita ec.; e la materia siamo soliti di considerarla come cosa morta, e non viva per se, nè capace di vita ec. (10. Nov. ottava del dì de' Morti. 1823.)

Tra le cagioni del mancar noi (e così gli spagnuoli) di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la nullità politica e militare in cui è caduta l'Italia non men che la Spagna dal 600 in poi, epoca appunto da cui incomincia la decadenza ed estinzione delle lingue e letterature proprie in Italia e in Ispagna. Questa nullità si può considerare e come una delle cagioni del detto effetto, e come la cagione assoluta di esso. Come una delle cagioni, perocchè se noi manchiamo oggi affatto di voci moderne proprie italiane e spagnuole, politiche e militari, ciò viene perchè gl'italiani e spagnuoli non hanno più, dal 600 in poi, nè affari politici propri, nè milizia propria. Fino dall'estinzione dell'imperio romano, l'Italia è stata serva, perchè divisa; ma sino a tutto il 500 la milizia italiana propria ha esistito, e le corti e repubbliche italiane hanno operato da se, benchè piccole e deboli. Il governo era in mano d'italiani, le dinastie erano italiane in assai maggior numero che poi non furono [3856] ed or non sono. Influiti e dominati da' governi e dagli eserciti stranieri, i governi e gli eserciti italiani, chè tali essi erano ancora, agivano tuttavia essi medesimi, ed avevano affari. Essi erano che si davano agli stranieri, quando a questo, quando a quello, che li chiamavano, che gli scacciavano, o contribuivano a ciò fare, che si alleavano cogli stranieri, o contro di loro, con altri stranieri, o con altri italiani, contro altri italiani, o a favore. L'amicizia de' governi italiani, ancorchè piccolissimi, delle stesse singolari città, era considerata e ricercata dagli stranieri, e la nemicizia temuta; e in qualunque modo i governi e le città italiane erano allora nemiche o amiche di questa o quella straniera potenza. Gl'italiani agivano per se presso o nelle corti straniere, e gli stranieri presso gl'italiani. V. p. 3887. Quindi è che noi avevamo allora a dovizia voci politiche e militari; più a dovizia ancora delle altre nazioni, perchè la politica e il militare, ridotti ad arte e scienza tra noi, non lo erano presso gli altri. Negli storici, negli scrittori tecnici di politica o di milizia, o d'altre materie appartenenti, e generalmente negli scrittori italiani avanti il seicento, non troverete mai difficoltà veruna di esprimersi in checchessia che spetti agli affari pubblici, economia pubblica, diplomatica, negoziazioni, politica, e a qualsivoglia parte dell'arte militare; mai povertà; e mai li vedrete ricorrere a voci straniere, o che possano pur sospettarsi tali: al contrario li vedrete franchissimi [3857] nell'espressione di tali materie, anzi ricchissimi e abbondantissimi, esattissimi, provvisti di termini per ciascuna cosa e parte di essa, ed anche di più termini per ciascuna, voci tutte italianissime e tanto italiane quanto or sono francesi quelle di cui i francesi e noi ed anche altri in tali materie si servono; e queste voci e questi termini ben si vede che non erano inventati da quegli scrittori, nè debbonsi al loro ingegno, ma all'uso della favella italiana d'allora, e che erano fra noi (come anche fuori non pochi) comunissimi, notissimi, e di significato ben certo e determinato. La più parte di questi, dal 600. in poi, perduti nell'uso del favellare, lo furono e lo sono conseguentemente nelle scritture, di modo che le stesse cose ancora, che noi a que' tempi con parole italianissime, e con più parole eziandio, chiarissimamente e notissimamente esprimevamo, or non le sappiamo esprimere che con voci straniere affatto, o se queste ci mancano, e son troppo straniere per potersi introdurre, o non furono ancora introdotte, non possiamo esprimer quelle cose in verun modo. Moltissime di quelle voci, usandole, sarebbero intese fra noi anche oggidì nel lor proprio e perfetto senso, come allora, e non farebbero oscurità. Ma moltissime, sostituite alle straniere che or s'usano, riuscirebbero oscure, parte per la nuova assuefazione fatta a queste altre voci, parte perchè il loro senso non sarebbe più inteso così determinatamente come [3858] allora. E il simile dico di molte voci con cui potremmo esprimer cose per cui non abbiamo nemmen voci straniere, o che a questi pur manchino, o che tra noi non sieno state ancora introdotte. Moltissime voci militari, civili e politiche sì del nostro 300, sì dello stesso 500, benchè significative di cose or notissime e comunissime, son tali che noi ora, leggendole negli antichi, o non le intendiamo, o non senza studio, o non avvertiamo, almen senza molta acutezza e attenzione, o imperfettamente la loro corrispondenza con quelle che oggi ne' medesimi casi comunemente usiamo. Altresì ci accade non di rado tale incertezza nelle voci significative di cose, or non più comuni, e spesso in queste ci accade più che nell'altre. Ecco come, mancati gli affari politici e la milizia in Italia, la nostra nazione non ha nè può avere, nè ebbe dal 600 in poi, lingua moderna propria per significar le cose politiche e militari, non ch'ella mai non l'abbia avuta, anzi l'ebbe, ma l'ha perduta, o non l'ha se non antica. E nello stesso modo proporzionatamente e ragguagliatamente discorrasi della Spagna.

Come cagione assoluta, la nullità politica e militare degl'italiani e spagnuoli ha prodotto il mancar essi di lingua e letteratura moderna dal 600 in qua, ed il mancarne oggi. Essa nullità è cagione che l'Italia e la Spagna abbiano perduto d'allora in poi il loro essere di nazione. Quindi essa è cagione che l'Italia e la Spagna non abbiano, e d'allora in qua, nè letteratura moderna, nè filosofia ec. Esse non hanno [3859] lingua moderna propria, perchè mancano di propria letteratura e filosofia moderna; ma di queste perchè ne mancano? perchè non sono più nazioni; e nol sono, perchè senza politica e senza milizia, non influiscono più nè sulla sorte degli altri, nè sulla lor propria, non governano nè si governano, e la loro esistenza o il lor modo di essere è indifferente al resto d'Europa. Quanto al non influir sugli altri nè aver parte agli affari comuni d'Europa, è manifesto. Quanto al non influir sopra se stessi nè governarsi, gl'italiani o soggiacciono a un principe e ad un governo decisamente straniero, o italianizzato il principe ma non il governo, o se il governo e il principe sono italiani, come in Ispagna spagnuoli, lasciando star la continua influenza straniera che li determina, modifica, volge a piacer suo, e che agisce insomma essa per mano italiana, sì in Italia che in Ispagna la forma del governo è tale che la nazione non v'ha alcuna parte, gli affari sono in man di pochissimi e separatissimi dal resto de' nazionali, tutto si passa senza pur venire a notizia della nazione, sicchè la politica è affatto ignota ed aliena alla nazione medesima, i suoi affari sono per essa come gli altrui, ed oltre di ciò la libertà di ciascheduno massime privato, cioè de' più e del vero corpo della nazione, è così circoscritta che ciascheduno è ben poco in grado di determinar la sua sorte, e di governarsi, ma quanto più si può è governato veramente da altrui, e ciò non dalla nazione, non dal comune, non ciascuno da tutti, ma tutti da uno o [3860] da pochissimi particolari, e il pubblico, per così dir, da' privati. Quanto alla milizia, ognun sa che l'Italia e la Spagna dal 600 ne mancano.

Questa politica condizione dell'Italia e della Spagna ha prodotto e produce i soliti e immancabili effetti. Morte e privazione di letteratura, d'industria, di società, di arti, di genio, di coltura, di grandi ingegni, di facoltà inventiva, d'originalità, di passioni grandi, vive, utili o belle e splendide, d'ogni vantaggio sociale, di grandi fatti e quindi di grandi scritti, inazione, torpore così nella vita privata e rispetto al privato, come rispetto al pubblico, e come il pubblico è nullo rispetto alle altre nazioni. Questi effetti nati subito, sono andati dal 600 in poi sempre crescendo sì in Italia che in Ispagna, ed oggi sono al lor colmo in ambo i paesi, benchè le cagioni assegnatene, forse non sieno maggiori oggi che nel principio, anzi forse al contrario (sebbene però la placidezza del dispotismo, propria dell'ultimo secolo, e quindi la blandizia di esso, n'è anzi la perfezione, la sommità e il massimo grado, che un grado minore). Questo è avvenuto perchè niente in natura si fa per salto, e perchè un vivente colpito dalla morte, si raffredda appoco appoco, ed è più caldo assai a pochi momenti dalla morte che un pezzo dopo. Nel 600, ed anche nel 700, l'Italia già uccisa, palpitava e fumava ancora. Così discorrasi della Spagna. Or l'una e l'altra sono immobili e gelate, e nel pieno dominio della morte.

Egli è costante, ed io in molti luoghi l'ho sostenuto, [3861] che crescendo le cose, la lingua sempre si accresce e vegeta. Ma appunto per la stessa ragione, arrestandosi e mancando la vita, si ferma e impoverisce e quasi muore la lingua, com'è avvenuto infatti dal 600 in qua agli spagnuoli ed a noi, le cui lingue di ricchissime e potentissime che furono, si sono andate e si vanno di mano in mano continuatamente scemando, restringendo e impoverendo, e sempre più s'impoveriscono e perdono il loro esser proprio, e le ricchezze lor convenienti, cioè le proprie, perchè le altrui ch'esse acquistano, molto incapaci d'altronde di compensare le loro perdite, non sono di un genere che si convenga alla natura loro. Veramente le dette lingue vanno morendo. Perchè in fatti la Spagna e l'Italia, dal 600 in qua, e negli ultimi tempi massimamente, non ebbero e non hanno più vita, non solo nazionale, ch'elle già non sono nazioni, ma neanche privata. Senz'attività, senza industria, senza spirito di letteratura, d'arti ec. senza spirito nè uso di società, la vita degli spagnuoli e degl'italiani si riduce a una routine d'inazione, d'ozio, d'usanze vecchie e stabilite, di spettacoli e feste regolate dal Calendario, di abitudini ec. Mai niuna novità fra loro nè nel pubblico nè nel privato, di sorta nessuna che dimostri in alcun modo la vita. Tutto quello ch'e' possono fare si è di ricevere in elemosina un poco di novità sia di cose, sia di costumi, sia di pensieri, e quasi un fiato di falsa ed aliena vita, dagli stranieri. Questi sono che ci muovono [3862] quel pochissimo che noi siamo mossi. Se noi non siamo ancora dopo un sì rapido corso del resto d'Europa allo stato e grado in cui era la civiltà umana due o tre secoli addietro, (e gli spagnuoli vi sono quasi ancora, e noi siam pure addietro delle altre nazioni), son gli stranieri soli che ci hanno portati avanti. Noi non abbiam fatto un passo nella carriera, nè abbiamo nulla contribuito all'avanzamento degli altri, come gli altri hanno fatto ciascuno per la sua parte. Noi non abbiam camminato, noi siamo stati trasportati e spinti. Noi siamo e fummo affatto passivi. Quindi è ben naturale che noi siam passivi nella lingua eziandio, la quale segue sempre e corrisponde perfettamente alle cose. Noi abbiam pochissima conversazione, ma questa pochissima è straniera; conversazione italiana non esiste; quindi è ben naturale che la conversazione d'Italia non sia fatta in lingua italiana, e tutto ciò che ad essa appartiene, e questo è moltissimo, e di generi assai moltiplice, e coerente con molte parti della vita, costumi, letteratura ec. sia espresso in voci straniere, e non abbia in italiano parole nè modi che lo significhino. Noi non possiamo avere lingua propria moderna perchè oggi non viviamo in noi, ma quanto viviamo è in altri, e per altrui mezzo, e di vita altrui, ed anima e spirito e fuoco non nostro. Poichè la vita ci vien d'altronde, è ben naturale che di fuori e non altrimenti, ci venga la lingua che in questa vita usiamo. E così dico della letteratura. E quel che dico dell'Italia, dico [3863] altresì della Spagna, la quale però, dal 600 in poi (come anche al suo buon tempo), vive e ha vissuto men dell'Italia, non per altro se non perchè meno communicando cogli stranieri, men vita ha ricevuto di fuori, non che per se stessa ell'abbia avuto molto men vita di noi, e forse anche per suo carattere è meno atta a tal comunione, e a ricevere la vita altrui. E quindi la sua lingua e letteratura, isterilendosi, decrescendo, scemando, perdendo e riducendosi a nulla quanto la nostra ha fatto, si è forse contuttociò meno imbarbarita ec. della nostra: che non so se si debba contare per maggior male o bene ec. (10-11. Nov. 1823.)

A quello che altrove ho detto del latino diminutivo positivato sella, aggiungi il francese selle, col suo diminutivo sellette, ec. e v. gli spagnuoli ec. (11. Nov. 1823.)

Accade nelle lingue come nella vita e ne' costumi; e nel parlare come nell'operare, e trattare con gli uomini (e questa non è similitudine, ma conseguenza). Nei tempi e nelle nazioni dove la singolarità dell'operare, de' costumi ec. non è tollerata, è ridicola ec. lo è similmente anche quella del favellare. E a proporzione che la diversità dall'ordinario, maggiore o minore, si tollera o piace, ovvero non piace, non si tollera, è ridicola ec. più o meno; maggiore o minore o niuna diversità piace, dispiace, si tollera o non si tollera nel favellare. Lasceremo ora il comparare a questo proposito le lingue antiche colle moderne, e il considerare come corrispondentemente [3864] alla diversa natura dello stato e costume delle nazioni antiche e moderne, e dello spirito e società umana antica e moderna, tutte le lingue antiche sieno o fossero più ardite delle moderne, e sia proprio delle lingue antiche l'ardire, e quindi esse sieno molto più delle moderne, per lor natura, atte alla poesia; perocchè tra gli antichi, dove e quando più, dove e quando meno, ηὐδοκίμει la singolarità dell'opere, delle maniere, de' costumi, de' caratteri, degl'istituti delle persone, e quindi eziandio quella del lor favellare e scrivere. La nazion francese, che di tutte l'altre sì antiche sì moderne, è quella che meno approva, ammette e comporta, anzi che più riprende ed odia e rigetta e vieta, non pur la singolarità, ma la nonconformità dell'operare e del conversare nella vita civile, de' caratteri delle persone ec.; la nazion francese, dico, lasciando le altre cose a ciò appartenenti, della sua lingua e del suo stile; manca affatto di lingua poetica, e non può per sua natura averne, perocchè ella deve naturalmente inimicare e odiare, ed odia infatti, come la singolarità delle azioni ec. così la singolarità del favellare e scrivere. Ora il parlar poetico è per sua natura diverso dal parlare ordinario. Dunque esso ripugna per sua natura alla natura della società e della nazione francese. E di fatti la lingua francese è incapace, non solo di quel peregrino che nasce dall'uso di voci, modi, significati tratti da altre lingue, [3865] o dalla sua medesima antichità, anche pochissimo remota, ma eziandio di quel peregrino e quindi di quella eleganza che nasce dall'uso non delle voci e frasi sue moderne e comuni, cioè di metafore non trite, di figure, sia di sentenza, sia massimamente di dizione, di ardiri di ogni sorta, anche di quelli che non pur nelle lingue antiche, ma in altre moderne, come p.e. nell'italiana, sarebbero rispettivamente de' più leggeri, de' più comuni, e talvolta neppure ardiri. Questa incapacità si attribuisce alla lingua; ella in verità è della lingua, ma è acora della nazione, e non per altro è in quella, se non perch'ella è in questa. Al contrario la nazion tedesca, che da una parte per la sua divisione e costituzion politica, dall'altra pel carattere naturale de' suoi individui, pe' lor costumi, usi ec. per lo stato presente della lor civiltà, che siccome assai recente, non è in generale così avanzata come in altri luoghi, e finalmente per la rigidità del clima che le rende naturalmente propria la vita casalinga, e l'abitudine di questa, è forse di tutte le moderne nazioni civili la meno atta e abituata alla società personale ed effettiva; sopportando perciò facilmente ed anche approvando e celebrando, non pur la difformità, ma la singolarità delle azioni, costumi, caratteri, modi ec. delle persone (la qual singolarità appo loro non ha pochi nè leggeri esempi di fatto, anche in città e corpi interi, come in quello de' fratelli moravi, e in altri molti istituti ec. ec. tedeschi, che per verità non hanno [3866] punto del moderno, e parrebbero impossibili a' tempi nostri, ed impropri affatto di essi), sopporta ancora, ed ammette e loda ec. una grandissima singolarità d'ogni genere nel parlare e nello scrivere, ed ha la lingua, non pur nel verso, ma nella prosa, più ardita per sua natura di tutte le moderne colte, e pari in questo eziandio alla più ardita delle antiche. La qual lingua tedesca per conseguenza è poetichissima e capace e ricca d'ogni varietà ec. (11. Nov. 1823.)

Il pellegrino e l'elegante che nasce dall'introdurre nelle nostre lingue voci, modi, e significati tolti dal latino, è quasi della stessa natura ed effetto con quello che nasce dall'uso delle nostre proprie voci, modi e significati antichi, o passati dall'uso quotidiano, volgare, parlato ec. Perocchè siccome queste, così quelle (e talor più delle seconde, che siccome erano, così conservano talvolta del barbaro della loro origine o dell'incolto di que' tempi che le usarono ec.) hanno sempre (quando sieno convenientemente scelte, ed atte alle lingue ove si vogliono introdurre) del proprio e del nazionale, quando anche non sieno mai per l'addietro state parlate nè scritte in quella tal lingua. E ciò è ben naturale, perocch'esse son proprie di una lingua da cui le nostre sono nate ed uscite, e del cui sangue e delle cui ossa queste sono formate. Onde queste tali voci ec. spettano in certo modo all'antichità delle nostre lingue, e riescono in queste quasi come lor proprie voci antiche. Sicchè non è senza ragione verissima, se biasimando l'uso o introduzione di voci ec. tolte dall'altre lingue, sieno antiche sieno moderne, (eccetto le voci ec. già naturalizzate) lodiamo quella delle voci ec. latine. Perocchè quelle a differenza di queste, sono come di sangue, così di aspetto e di effetto straniero, e diverso [3867] da quello delle altre nostre voci, e delle nostre lingue in genere, e del loro carattere ec. La novità tolta prudentemente dal latino, benchè novità assolutissima in fatto, è per le nostre lingue piuttosto restituzione dell'antichità che novità, piuttosto peregrino che nuovo; e veramente (anche quando non sia troppo prudente nè lodevole) ha più dell'arcaismo che del neologismo. Al contrario dell'altre novità, e degli altri stranierismi ec. E per queste ragioni, oltre l'altre, è ancor ragionevole e consentaneo che la lingua francese sia, com'è, infinitamente men disposta ad arricchirsi di novità tolta dal latino, che nol son le lingue sorelle. Perocchè essa lingua è molto più di queste sformata e diversificata dalla sua origine, degenerata, allontanata ec. Onde quel latinismo che a noi sarebbe convenientissimo e facilissimo perchè consanguineo e materno ec. alla lingua francese, tanto mutata dalla sua madre, riescirebbe affatto alieno e straniero e non materno ec. Meglio infatti generalmente riesce e fa prova e si adatta e s'immedesima e par naturale nella lingua francese la novità tolta dall'inglese e dal tedesco (che agl'italiani e spagnuoli sarebbe insopportabile e barbara) che quella dal latino. Questo può vedersi in certo modo anche ne' cognomi e nomi propri inglesi, tedeschi, ec. che si nominino nel francese. Paiono sovente e gran parte di loro molto men forestieri che tra noi, e men diversi ed alieni da' nazionali.

Quello ch'io dico della novità tolta dal latino, si può anche dire intorno a quella tolta dalle lingue sorelle, la quale pure noi difendiamo, condannando gli altri stranierismi. Ma bisogna però in questo particolare far distinzione tra quello ch'è proprio delle lingue sorelle [3868] in quanto sorelle, e quello ch'è proprio loro in quanto lingue diverse dalla nostra; quello che conviene al carattere generale della famiglia, e quello che al carattere dell'individuo; quello che spetta in certo modo a tutta la famiglia, e che solo per caso si trova esser proprietà e possessione di un solo individuo di essa e non d'altri, o di alcuni sì, d'altro no, e quello che ec.; quello che spetta a quella tal lingua, in quanto ella si confa colla nostra, come che sia, e quello che le appartiene in quanto ella dalla nostra si diversifica; ec. ec. Quello è atto alla nostra lingua, qual ch'esso si sia per origine e per qualunque cosa, e può presso noi parere un arcaismo, ed avere un peregrino non diverso da quello de' nostri effettivi arcaismi, e servire all'eleganza ec.; questo no, e non parrà che un neologismo ec. e un barbarismo, come se fosse tolto dalle lingue affatto straniere ec. La novità tolta dalle lingue sorelle dev'esser tale che per l'effetto riesca quasi un arcaismo, cioè il pellegrino e l'elegante che ne risulta somigli a quello che nasce dall'uso conveniente dell'arcaismo moderato ec. (11. Nov. 1823.)

Alla p. 3717. marg. V. il Forc. sì ne' composti di sono, e sì in sono as fine, dalle cose dette nel qual luogo, e in Tono as ui fine, e in Crepo as fine ec. si potrebbe forse dubitare che la cagione dell'anomalia di cui discorriamo in tali verbi della prima, non sia quella che noi supponiamo, ma un'altra, ch'io però, generalmente almeno, non credo. (27) E certo quest'anomalia non è in pochi della prima, e nella più parte di questi, non si trova vestigio alcuno di terza coniugazione se non nel perfetto ec. e supino. E la desinenza in ui trovasi veramente in molti verbi della 3a. [3869] (p. 3707.) ma ella è anche in essi anomala, e bisognosa essa stessa che se ne renda ragione e se ne assegni l'origine. E chi sa che anzi per lo contrario tali verbi della terza non abbiano ricevuto tali perfetti dalla prima o dalla 2da cioè si coniugasse una volta p.e. coleo es, in vece o non meno che colo is, e di quello sia il perfetto colui: in luogo di dire che sonui sia di sono is, crepui e crepitum di crepo is ec. Il qual crepo is dev'essere stato supposto da quel grammatico del Forcell. per non essersi ricordato di tanti altri verbi della 1. che fanno in ui itum, come crepo as. (28) (12. Nov. 1823.). Lacesso is, ivi ed ii, itum, ere. Senza dubbio il perfetto e supino di lacessere non è suo, ma in origine è di un lacessio della quarta. Infatti si ha lacessiri. V. Forc. in lacesso princ. Così dite di peto is, ivi ed ii, itum, e s'altri simili ve n'ha. V. p. 3900.

Al detto altrove di tosare, tonsito ec. aggiungi detonso as da detondeo. (12. Nov. 1823.)

Alla p. 3710. I verbi incoativi si formano da' supini regolari e primitivi, usitati o inusitati, de' verbi positivi noti o ignoti, cioè da' supini in atum della prima, etum della 2. itum della 3. ed itum della quarta; mutato il tum in sco. Quindi dalla prima gl'incoativi fanno in asco, dalla 2. in esco, dalla 3. e 4. in isco. Queste sono desinenze caratteristiche e dimostrative della congiugazione del verbo positivo ond'essi incoativi sono formati. E attendendo a queste, non si può sbagliare la coniugazione del rispettivo verbo positivo (se ciò non è tra la 3. e la 4. onde viene una sola desinenza, cioè in isco). (29) E noto il verbo positivo, non si può dubitar della desinenza dell'incoativo. Da' supini in tu irregolari o contratti ec. e dagli altri irregolari supini in sum, in xum ec. ec. non mi sovviene che si faccia alcuno incoativo. Del rimanente attendendo a questa osservazione, gl'incoativi, non meno che [3870] i continuativi, e le altre specie di verbi o voci qualunque derivanti da' supini, debbono servire a conoscere i veri supini regolari de' verbi sì in generale sì ne' casi particolari, e nell'uno e nell'altro modo appoggiano le mie asserzioni circa le vere primitive forme d'essi supini ec. Callisco da calleo è detto, come il Forc. osserva ἀρχαϊκῶς per callesco. Tali varietà di pronunzia ec. non debbono intendersi ostare alla regola da me proposta circa la formazione degl'incoativi. Fors'anche si potrebbe dire che callisco venisse dal non regolare e secondario supino callitum (inusitato) per calletum (inusitato). Dubito infatti che da' supini in itum della prima e 2da benchè non regolari o non primitivi ec. pur si faccia qualche incoativo, sebbene niun esempio me ne soccorre, se non fosse il sopraddetto. Del resto la detta regola porta questo corollario, che non solo gl'incoativi dimostrano i verbi positivi ancorchè ignoti, cosa confermata da me con tante altre prove, ma ne dimostrano eziandio la coniugazione. E che se v'ha un verbo positivo il cui supino regolare e primitivo non sia capace di produrre un incoativo colla desinenza che si trova in quello ch'esiste, questo incoativo (eccetto le differenze di pronunzia o qualche irregolarità come sopra) dimostra un altro verbo positivo diverso da quello che generalmente forse sarà creduto essere il suo originale, o una diversa forma di questo verbo. Per es. fluesco parrà venir da fluo. Ma la desinenza in esco e non in isco (se già non fosse una variazione [3871] di pronunzia al contrario di callisco ch'è per callesco, variazione che potrebbe anche avere avuto luogo in vivesco per vivisco; ovvero un error di codici, come è creduto da alcuni quello di scriver vivesco) dimostra un flueo-etum, cioè un verbo diverso da fluo d'altro significato ec. ovvero un'altra forma dello stesso fluo, al qual proposito v. la pag. 3868-9. E vedila ancora per tonesco, se questo non è errore o varietà di pronunzia per tonisco da tonitum di tono is o di tono as ui. Io dico che i verbi in sco regolarmente debbono avere, ed anticamente ebbero, il supino in itum, e il perfetto in sci. Che regolarmente non possano avere se non questi perfetti e supini, è chiaro. Che anticamente l'avessero infatti, sebben questo non è necessario, e la prima proposizione può stare senza questa seconda, e ben poterono i verbi in sco, tutti o alcuni, esser difettivi anche anticamente; pure, almen quanto ad alcuni, si è già dimostrato altrove per quel che tocca al supino. Per ciò che spetta al perfetto gli esempi di fatto ne son più rari. Vero è che i supini dimostrano i perfetti, secondo il detto altrove della formazion di quelli da questi. Ma eziandio un effettivo perfetto in sci vedilo in Callisco appo il Forcell. (12. Nov. 1823.) Alla p. 3702. Ben è consentaneo che da un tema in eo venisse un supino in etum, conservandosi l'e caratteristica della coniugazione, come s'è detto, p. 3699 fine, circa il perfetto in ei ed evi. E tanto più è consentaneo che il proprio supino della 2da sia in etum, e questo, lungo, quanto che il suo proprio perfetto è in ei o evi; atteso [3872] che i supini si formano dai perfetti, come altrove dimostro. Onde anche viceversa i supini in etum lungo, dimostrano che il proprio perfetto della 2. è in ei o evi, ec. (12. Nov. 1823.). V. p.3873.

Alla p. 3854. Nondimeno i supini contratti della 2. poterono anche direttamente venire dai rispettivi supini in etum senza passare per la forma in itum, cioè p.e. doctum esser contratto da docetum, non da docitum, soppressa la e, come nei perfetti in ui della stessa coniugazione, cioè p.e. docui ossia docvi, ch'è contrazione di docevi. Onde adultum cioè adoltum, potrebbe benissimo venire da adolevi senza adolui, cioè essere una contrazione immediata di adoletum fatto da adolevi. Anzi siccome per una parte non suole l'e passare in i, dall'altra non veggo ragion sufficiente per cui da' perfetti in ui sì della seconda sì della prima, si debba fare un supino in itum, io dico che tutti i supini in itum usitati o no della 2. e della 1. vengono bensì da' perfetti in ui, ma non immediatamente. Da' perfetti in ui che sono contratti, p.e. domvi da domavi, mervi da merevi, vennero dei supini contratti, cioè domtum, mertum (che noi infatti ancora abbiamo, e i franc. domter ec.), ne' quali era soppresso l'e e l'a come ne' perfetti. Da questi supini poi, interpostavi per più dolcezza la lettera i, solita (com'esilissima ch'ella è tra le vocali) sì nel latino sì altrove ad interporsi tra più consonanti, quando non si cerca altro che un appoggio e un riposo momentaneo e passeggero alla pronunzia, riposo fuor di regola e originato ed autorizzato solo dalla comodità della pronunzia, onde quella vocale non ha che far col tema, ed è accidentale affatto, e un semplice affetto e accidente di pronunzia; vennero i supini in itum, come domitum, meritum. Sicchè al contrario di quel ch'io ho detto per lo passato, [3873] i supini contratti precederono quelli in itum, e questi vengono da quelli, e li suppongono e dimostrano, ma non viceversa. Sicchè doctum non dimostra nè esige che vi fosse un docitum, bensì meritum un mertum; sectum non dimostra un secitum, bensì domitum un domtum (simile ad emtum ec. onde domter ec.). Bensì i supini contratti, e per conseguenza anche quelli in itum, che ne derivano, suppongono e dimostrano i perfetti in ui. Da' quali immediatamente e regolarmente vengono i supini contratti, e mediatamente e irregolarmente quelli in itum (specie di pronunzia de' contratti, e però contratti essi stessi; avendo l'esilissima i e breve, in cambio dell'a o e): e non viceversa, come per l'addietro io diceva. (12. Nov. 1823.). V. p.3875.

Alla p. 3872. Secondo queste mie osservazioni i temi della seconda avrebbero in tutta la coniugazione conservato l'e. Ed è ben giusto, perocch'ella in essi è radicale. Così l'u penultimo nella quarta, che si conserva in essa coniugazione tutta intera, ne' verbi regolari.(30) Non così l'a nella prima, dove essa lettera non è caratteristica, benchè propria dell'infinito. Infatti manca nel tema, e nel presente ottativo ec. ec. Similmente il penultimo e di legere. Ne' temi de' verbi son radicali tutte le lettere eccetto l'ultima, cioè l'o, ch'è la desinenza non del tema in quanto tema, ma in quanto voce presente indicativo singolare prima persona attiva del verbo rispettivo. Or come la prima e la 3. finiscono per lo più in o impuro, esse coniugazioni per se stesse non hanno vocale alcuna che sia radicale generalmente in tutti i temi della coniugazione. [3874] Ma ne' temi della 2. e 4. l'e e l'u penultimi son propri elementi del tema in quanto tema, non in quanto prima persona ec. Dunque come propri e radicali elementi del tema, si debbono conservare in tutta la coniugazione, considerata regolare e non contratta. E la propria forma, in somma, della coniugazione li deve conservar sempre, come la prima e la 3. conserva tutti gli elementi proprii de' suoi temi, cioè am in amo, leg in lego ec. Li conserva, dico, sempre, se non quando è o irregolare o contratta, il che non ha che far colla sua proprietà, ed è accidente non regola nè natura. E quando ne' verbi della prima o della terza, benchè in essi non sia costante nè proprio della coniugazione che l'ultima radicale del tema sia una vocale, come lo è nella 2. e 4., quando, dico, questo s'incontra, essa vocale si conserva per tutta la coniugazione del verbo, purch'ella sia regolare giacchè per anomalia spesse volte la sopprime, come in sapio, capio (verbi della 3.) e loro composti desipio, recipio ec. ec. come in meo as, fluo is (benchè non sia primitiva la coniugazione di questo ec.), ruo, tribuo ec. Or dunque perchè l'ultima vocale radicale del tema, che, regolarmente, si conserva in tutta la coniugazione de' verbi sì della quarta, sì della 1. e 3. quando in queste ha luogo (e se non la vocale si conserva la consonante, quando questa è l'ultima radicale), perchè, dico, non si dee conservare nella seconda? anzi regolarmente e costantemente si dee perdere? e se non si perde, ha da essere irregolarità? Or tutto questo avverrebbe se non si ammettono le nostre osservazioni e regole, secondo le quali la presente forma della coniugazione 2. è contratta e non primitiva. E solo le nostre osservazioni mostrano, [3875] ciò, cred'io, per la prima volta, la primitiva analogia della seconda con tutte l'altre nel conservare l'ultima lettera radicale del tema, e le ragioni e i modi per li quali è avvenuto che nella sua presente più usitata forma ella sola, fra tutte, non lo conservi. (13. Nov. 1823.)

Ho detto altrove che patulus sembra diminutivo positivato di un patus. Male. Non tutti i nomi in ulus, nè tutti i verbi in ulare sono diminutivi neppur per origine e regola di formazione: p.e. iaculum da iacio, speculum e specula da specio, vehiculum, curriculum, adminiculum, amiculum da amicio, periculum da peir.v, iaculari, speculari, famulus, famulor ec., retinaculum, miraculum, obstaculum, stimulus, stimulo, stabulum, stabulo, pabulum, poculum, fabula, fabulor ec. (v. la p. 3844.), crepitaculum, sustentaculum, baculum, baculus, osculum, ec. Patulus è di questi, fatto a dirittura da pateo ec. (13. Nov. 1823.). Fors'anche oculus è di questi, contro il detto altrove. V. Forc. ec. Alla p. 3873. Resta però quello che io per l'addietro ho sempre detto circa i supini della 3. e 4. E la presente correzione non riguarda che la 1. e 2. Lectum cioè legtum è vera contrazione di legitum, è fatto per soppressione dell'i, suppone e dimostra legitum, gli è posteriore, i supini veri e regolari e non contratti della 3. e 4. sono in itum e itum e non altrimenti ec. I contratti della terza e quarta, come lectum, quaestum, sono contrazioni de' supini in itum e fatti per soppressione dell'esilissima vocale i o i. I supini in itum della 1. e 2. vengono da' contratti, e son fatti al contrario di quelli per addizione dell'esilissimo suono i. (13. Nov. 1823.)

Alla p. 3873. marg. - e non contratti. Come venio is veni. [3876] Perde spesso la i, come in venerunt, veneram ec. per venierunt venieram ec. che sarebbe il regolare; o ciò sia anomalia, o contrazione, ch'io piuttosto credo. La qual contrazione ha principio nella stessa prima voce del perfetto veni per venii. Anzi da questa nasce il tutto ec. Così ne' composti, come invenio ec. e in altri molti verbi. (13. Nov. 1823.). V. p.3895.

Dico che l'uomo è sempre in istato di pena, perchè sempre desidera invano ec. Quando l'uomo si trova senza quello che positivamente si chiama dolore o dispiacere o cosa simile, la pena inseparabile dal sentimento della vita, gli è quando più, quando meno sensibile, secondo ch'egli è più o meno occupato o distratto da checchessia e massime da quelli che si chiamano piaceri, secondo che per natura o per abito o attualmente egli è più vivo e più sente la vita, ed ha maggior vita abituale o attuale ec. Spesso la detta pena è tale che, per qualunque cagione, e massime perch'ella è continua, e l'uomo v'è assuefatto fino dal primo istante della sua vita, non l'osserva, e non se n'avvede espressamente, ma non però è men vera. Quando l'uom se n'avvede, e ch'ella sia diversa da' positivi dolori, dispiaceri ec., ora ella ha nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi. Sovente essa pena, che non vien da altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste, e che per conseguenza tanto è maggiore e più sensibile quanto il desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente, dico, ella è maggiore nell'atto e nel punto medesimo del piacere, che nel tempo [3877] della indifferenza e quiete e ozio dell'animo, e mancanza di sensazioni o concezioni ec. passioni ec. determinatamente grate o ingrate; e talvolta maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione ingrata sino a un certo segno. Ella è maggiore, perchè maggiore e più vivo in quel tempo è il desiderio, come quello ch'è punto e infiammato dalla presente e attuale apparenza del piacere, a cui l'uomo continuamente sospira; dalla vicina anzi presente, straordinaria e fortissima, e fermissima e vivissima anzi si può dir certa speranza e quasi dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch'è il suo perpetuo e sovrano fine, senza però poterla afferrare, perocchè il desiderio è ben più vivo allora, ma non più fruttuoso nè più soddisfatto che all'ordinario. Il desiderio del piacere, nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più vivo dell'ordinario, più vivo che nel tempo d'indifferenza. Non si può meglio definire l'atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del naturale e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto quel preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza è sembianza di piacer maggiore. L'uomo desidera allora la felicità più che nel tempo d'indifferenza ec. e con assolutamente eguale inutilità. Dunque il desiderio essendo più vivo da un lato, ed egualmente vano dall'altro, la pena compagna naturale del sentimento della vita, la qual nasce appunto e consiste in questo desiderio di felicità e quindi di piacere, dev'esser maggiore e più sensibile nell'atto del piacere (così detto) che all'ordinario. Essa lo è infatti (se non quando e quanto la sensazione piacevole, o l'immaginazione [3878] piacevole, o quella qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto piacere, serve e debb'esser considerata come una distrazione e una forte occupazione ec. dell'animo, dell'amor proprio, della vita e dello stesso desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole effetto del piacere umano o animale; occupare l'animo, e, non soddisfare il desiderio ch'è impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo, e riempiergli quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E l'uomo, che in uno stato ordinario bene spesso, anzi forse il più del tempo, appena si avvede di detta pena, nell'atto del piacere, se ne avvede sempre o quasi sempre, ma non sempre l'osserva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l'attribuisce alla sua vera cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi nè in quel punto, nè mai, o ch'ei rifletta sul suo stato d'allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec. rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle universali e grandi verità che noi andiamo osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o interamente e chiaramente comprese e concepute ec. (13. Nov. 1823.)

Alla p. 3639. marg. Esseri più forti dell'uomo; ecco i primi Dei adorati dagli uomini, o da loro riconosciuti e immaginati e considerati per tali; ecco la prima idea della divinità. E come i più forti per lo più anzi, naturalmente e primitivamente, sempre si prevalgono di questo, come di ogni altro, vantaggio, in loro proprio bene, e quindi sovente in danno de' più deboli, e però essi sono, appunto in quanto più forti, malefici e formidabili ai più deboli; e come gli stessi individui umani, massime nella società primitiva e selvaggia (che fu quella in cui nacque [3879] l'idea della Divinità) così ne usavano e ne usano verso i più deboli per qualunque lato, sì loro simili, sì d'altre specie; quindi nell'idea primitiva della Divinità che consisteva nella maggior forza e soprumana, dovette necessariamente entrare l'idea della maleficenza e della terribilità, naturali effetti e conseguenze e compagne della maggior forza. Anche gli uomini ch'erano o erano stati straordinariamente superiori e più forti degli altri, sia di forza corporale, sia di quella che nasce da qualunqu'altro vantaggio, ancorchè malefici, temuti e odiati, furono non di rado nelle società primitive, e lo sono forse ancora nelle selvagge, divinizzati sì nell'idea, sì talora nel culto, vivi o morti; e questo si può anche riconoscere presso i critici che indagano le origini della stessa mitologia greca, men feroce e terribile e odiosa, anzi più molle ed umana e ridente e amena e vaga e graziosa ed amabile di tutte l'altre ec. (13. Nov. 1823.)

Alla p. 3715. Sono molte volte che la noia è un non so che di più vivo, che ha più sembianza perciò di passione, e quindi avviene che non sia sempre in tali casi chiamata noia, benchè filosoficamente parlando, ella lo sia, consistendo in quel medesimo in cui consiste quel che si chiama noia, cioè nel desiderio di felicità lasciato puro, senza infelicità nè felicità positiva, e differendo solo nel grado da quella che noia comunemente è chiamata. E differisce nel grado, in quanto ell'è noia, in certo modo più intensa, sensibile e viva, qualità che l'avvicinano all'infelicità così chiamata positivamente, e che paiono poco convenevoli [3880] alla noia. Ella infatti, benchè del genere stesso, è più passione è più penosa, che la noia, così comunemente chiamata, non è. Ed è tale perch'ella nasce e consiste in un desiderio più vivo, e al tempo stesso ugualmente vano. Questa sorta di passione è quella che provano generalmente i giovani quando sono in istato di non piacere e non dispiacere. Essi sono poco capaci della noia comunemente detta. Essi sono poco capaci di trovarsi giammai senza un'attuale, ancorchè indeterminata passione, (31) più viva d'essa noia, perchè il loro amor proprio, e quindi il lor desiderio di felicità e di piacere, ugualmente vano che nell'altre età, è molto più vivo, generalmente parlando. Incapaci di noia comunemente detta, benchè privi di piacere e dispiacere, sono ancora similmente quegli stati dell'individuo, di cui ho detto p. 3835-6. 3876-8. e simili. Altresì lo stato di desiderio presente e vivo determinato a qual si sia cosa; benchè privo anche questo stato, di piacere e dispiacere positivo ec. E così discorrendo. Questa sorta di passione, diversa dalla noia comunemente detta, ma dello stesso genere ec., questa ancora io voglio comprendere sotto il nome di noia, e ad essa ancora si deve intendere ch'io abbia riguardo quando affermo che la noia corre immancabilmente e immediatamente a riempiere qualunque vuoto lasciato dal piacere o dispiacer così detto ec. e che l'assenza dell'uno e dell'altro è noia per sua natura, e che mancando essi, v'è la noia necessariamente, e che posta tal mancanza è posta la noia ec. come alle p. 3713-5. (13. Nov. 1823.)

[3881] Come fra gli antichi le cose e funzioni sacre fossero in mano de' profani ec. del che altrove, vedi la Polit. di Aristotele, l.6. fine, Florent. 1576. p.543. massime in fine, e quivi il Vettori. (14. Nov. 1823.)

Monosillabi latini. Pluo, secondo le nostre osservazioni sulla monosillabia antica e volgare di tali dittonghi (come uo) non riconosciuti da' grammatici. (14. Nov. 1823.). V. il pens. seg.

Alla p.3850. fine. Buo è andato in disuso restando il composto imbuo. Se però imbuo è da in e buo (v. Forc.) e non piuttosto corruzione e pronunzia d'imbibo (che pur sussiste) pronunziato imbivo (imbevere, imbevo che vale appunto imbuo, ed è certo da bibo, e v. i francesi e spagnuoli) - imbiuo - imbuo, come lavo ne' composti e nel greco è luo, e per lo contrario da pluere noi facciamo piovere, llover ec. E mille esempi in questi propositi si potrebbero addurre. (32) Così exbuae sarebbe corruzione o pronunziazione di exbibae, vinibuae di vinibibae, fors'anche bua (bumba) di biba. Di tali cangiamenti nati dall'affinità ec. tra il v e l'u, ho detto altrove. Ovvero Imbuo può esser fatto direttamente da in e da bua (bevanda), sia che questa voce sia alterazione di biba, o che sia un antico monosillabo significante bevanda, restato poi solo per usi puerili, sia anche in origine una voce puerile. (14. Nov. 1823.)

Il vino, il cibo ec. dà talvolta una straordinaria prontezza vivacità, rapidità, facilità, fecondità d'idee, di ragionare, d'immaginare, di motti, d'arguzie, sali, risposte ec. vivacità di spirito, furberie, risorse, trovati, sottigliezze grandissime di pensiero, profondità, verità astruse, tenacità [3882] e continuità ed esattezza di ragionamento anche lunghissimo e induzioni successive moltissime, senza stancarsi, facilità di vedere i più lontani e sfuggevoli rapporti, e di passare rapidamente dall'uno all'altro senza perderne il filo ec. volubilità somma di mente ec. Questo secondo le condizioni particolari delle persone, ed anche le loro circostanze sì attuali in quel punto, sì abituali in quel tempo, sì abituali nel resto della vita ec. Ma quello accrescimento di facoltà prodotto dal vino, ec. è indipendente per se stesso dall'assuefazione. E gli uomini più stupidi di natura, d'abito ec. divengono talora in quel punto spiritosi, ingegnosissimi ec. V. p. 3886. Questo si applichi alle mie osservazioni dimostranti che il talento e le facoltà dell'animo ec. essendo in gran parte cosa fisica, e influita dalle cose fisiche ec. la diversità de' talenti in gran parte è innata, e sussiste anche indipendentemente dalla diversità delle assuefazioni, esercizi, circostanze, coltura ec. (14. Nov. 1823.)

Alla p. 3801. Sì nelle nazioni barbare o selvagge sì nelle civili, sì nelle corrotte ec. la società ha prodotto infiniti o costumi o casi fatti ec. particolari, volontari o involontarii ec. che o niuno può negare esser contro la natura sì generale, sì nostra, contro il ben essere della specie, della società stessa ec. contro il ben essere eziandio delle altre creature che da noi dipendono ec.; ovvero se ciò si nega, ciò non viene che dall'assuefazione, e dall'esser quei costumi ec. nostri propri: onde dando noi del barbaro ai costumi e fatti d'altre nazioni e individui, ec. meno snaturati talora de' nostri, non lo diamo a questi ec. E generalmente noi chiamiamo barbaro quel ch'è diverso [3883] dalle nostre assuefazioni ec. non quel ch'è contro natura, in quanto e perciocch'egli è contro natura. Ma tornando al proposito, tali costumi o fatti snaturatissimi che senza la società non avrebbero mai avuto luogo, nè esempio alcuno in veruna delle specie dell'orbe terracqueo, hanno avuto ed hanno ed avranno sempre luogo in qualsivoglia società, selvaggia, civile, civilissima, barbara, dove e quando gli uni, quando gli altri, ma da per tutto cose snaturatissime. Il che vuol dire che la società gli ha prodotti, e che non potea e non può non produrli, cioè non produr costumi e fatti snaturati, e se non tali, tali, e se non questi, quelli, ma sempre ec. P.e. Il suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggi fondamentali dell'esistenza, ai principii, alle basi dell'essere di tutte le cose, anche possibili; contraddizione ec. da che cosa è nato se non dalla società? ec. ec. V. p. 3894. Ora in niuna specie d'animali, neanche la più socievole, si potrà trovare che abbiano mai nè mai avessero luogo non pur costumi, ma fatti particolari, non pur così snaturati come quelli degl'individui e popoli umani in qualunque società, ma molto meno. Eccetto solo qualche accidentalissimo disordine, o involontario, e quindi da non attribuirsi alla specie, o volontario, ma di volontà determinata da qualche straordinarissima circostanza e casualissima. E la somma di questi casi non sarà neppure in una intera specie, contando dal principio del mondo, comparabile a quella de' casi di tal natura in una sola popolazione di uomini dentro un secolo, [3884] anzi talora dentro un anno. Questo prova bene che la naturale società ch'è tra gli animali non è causa di cose contrarie a natura per se medesima e necessariamente, ma per solo accidente, e il contrario circa la società umana. E si conferma che l'uomo è per natura molto men disposto a società che moltissimi altri animali ec. (14. Nov. 1823.)

Les Dames vous devront ce que la langue italienne devait au Tasse; cette langue d'ailleurs molle et dépourvue de force, prenait un air male et de l'énergie lorsqu'elle était maniée par cet habile poëte. Così scriveva il principe reale di Prussia, poi Federico II alla marchesa du Châtelet, da Rémusberg agli 9. Nov. 1738. (Oeuvres complettes de Frédéric II. Roi de Prusse. 1790. tome 16. Lettres du Roi de Prusse et de la Marquise du Châtelet. Lettre 5e p. 307.) E nóto queste parole perchè si veda l'esattezza del giudizio degli stranieri sulla nostra letteratura, e la verità della material cognizione ch'essi ne hanno. Lascio quello che Federico dice in generale sulla nostra lingua, ma il particolare del Tasso, ch'è un fatto, e che poco si richiedeva a essere istruito come stésse, non è egli tutto il contrario del vero? Federico dice del Tasso quel ch'è vero di Dante, del quale il Tasso è tutto il contrario, anche più dell'Ariosto, e quasi dello stesso Petrarca ec. V. p. 3900. (14. Nov. 1823.). Eccetto se Federico non considera o non intende di parlare del Tasso in comparazione del Metastasio, e più se de' frugoniani, degli arcadici de' nostri poeti e prosatori sia puristi sia barbaristi del [3885] passato secolo, insomma di quelli che nè scrissero nè seppero l'italiano; nel qual caso il suo detto è certamente esente da ogni rimprovero e controversia. (15. Nov. 1823.). V. p. 3949.

Alla p. 3706. Se però, come dubito, fuvi per fui non è un raddoppiamento dell'u, fatto per proprietà di pronunzia, della qual proprietà in questo e simili casi v'hanno molti altri esempi ec. (v. la pag. 3881. ec.). Il qual raddoppiamento bensì può avere avuto luogo e occasione dal voler evitare l'iato, ma in modo che ad evitarlo sia stato interposto il v, non in quanto semplicemente atto e solito ad interporsi tra le vocali ianti, ma in quanto l'una e la più sonante di queste nel nostro caso era l'u, cioè appunto un altro v, secondo il detto altrove circa la medesimezza di queste lettere u e v presso i latini massimamente. I quali non usavano che un carattere per esprimer l'una e l'altra, cioè anticamente e nel maiuscolo il V, più recentemente e nel semimaiuscolo o unciale, o forse in quello ch'era allora, o anche anticamente, il corsivo e l'usuale, sia tutt'uno coll'unciale, sia diverso, ec. l'u, come ne' palimpsesti vaticani, ambrogiani, sangallesi, veronesi ec. (15. Nov. 1823.)

Alla p. 3588. marg. Di ciò che io, sapendo essere vostro servitio, senza altri vostri commandamenti era tenuto di fare. Cioè senz'alcun vostro comandamento, di proprio moto. Bernardo Tasso Lettere. Venetia 1603. appresso Lucio Spineda. Libro primo car. 27. pag. 2. in 8vo piccolo. (17. Nov. 1823.)

[3886] Altrove osservo che il cul de' latini si cangia assai sovente nell'italiano in chi o cchi (o-cu-lus, o-cchi-o) o gli (pe-ri-cul-um, peri-gli-o), nello spagnuolo in i (o-cu-lus, oj- o) nel francese in ill o il o eil o eill o ail o aill ec. (péril, abeille, vermeil, ouaille, o-cul-us, o-eil ec.). Nótisi che tali cangiamenti non sono certo direttamente stati fatti da cul, ma da cl contratto nella volgar pronunzia latina, come si vede anche non di rado nel latino illustre e scritto, massime appo i poeti; come seclum, periclum ec. (17. Nov. 1823.)

Saltuaris, saltuarius, saltuatim, saltuensis, saltuosus da saltus us. (17. Nov. 1823.)

Salitio voce di Vegezio dimostra l'antico supino salitum di salio pel contratto irregolare, ma solo superstite, saltum, da cui si farebbe saltio, non salitio, giacchè tali verbali son fatti da' supini o seguono la forma del supino. (17. Nov. 1823.) Alla p. 3882. E quelli che per l'ordinario non dimostrano ingegno nè talento se non per le cose gravi e serie, allora lo dimostrano non di rado notabilissimo per lo scherzo ec. E gli uomini di talento profondo ec. ma scarsissimi o alienissimi da quello che si chiama spirito, e fors'anche tutto l'opposto che spiritosi; tardi, bisognosi di molto tempo a concepire a inventare ec. freddi, secchi ec. allor divengono spiritosissimi, prontissimi ec. E gli uomini d'ingegno riflessivo o simile, ma non inventivo non immaginoso ec. allor dimostrano e veramente acquistano per quel poco di tempo una notabile facoltà d'invenzione, immaginazione ec. ec. E così discorrendo sulle diversità dei talenti ec. (17. Nov. 1823.)

[3887] Alla p. 3856. L'Italia produsse nel 500 ec. molti capitani illustri, come il Trivulzio, il Montecuccoli ec. sia che questi servissero alle loro rispettive nazioni italiane, o ad altra nazione italiana diversa dalla propria, come la Repubblica di Venezia spesso conduceva Generali italiani d'altri stati, a comandar le sue forze di terra o di mare; o a principi stranieri, i quali in quel tempo si servirono spessissimo di Generali e uffiziali italiani pel governo de' loro eserciti, conducendoli, anche con grossi partiti, al loro servizio. Del che è curiosa a leggere un'osservazioncella di Bernardo Tasso, Lettere citate qui dietro (p. 3885. fine), lib.1. car.29. e tutta quella lettera. Similmente dico de' politici e ministri ec. italiani, e negoziatori italiani ec. di quel secolo, e anche de' seguenti, fino agli ultimi tempi, in cui siamo veramente arrivati all'estremo della nullità politica, e passività, ed incapacità di ogni sorta di operazione, o certo totale inazione di fatto, sì in casa sì fuori. Come il Mazarino, l'Alberoni, il Bentivoglio, ed anche il Lucchesini ec. Il dominio della religione ai tempi passati, e fino alla rivoluzione, (benchè sempre decrescente, ma non estinto fino ad essa rivoluzione) ma specialmente prima del 600, e per conseguenza il credito, l'influenza, e l'importanza del Papa e della Corte di Roma, contribuirono grandemente, e forse, massime in certi tempi, principalmente, a tener l'Italia in azione, a darle campo di esercitarsi nella politica e negli affari, materia e modo di negoziare, importanza e peso, negoziatori, diplomatici, politici, uomini che ebbero parte attiva negli avvenimenti e ne' destini d'Europa, e i cui nomi divennero propri della storia. [3888] Sia nelle materie strettamente religiose, che allora erano strettamente legate colle politiche, e di grande importanza temporale, sia nelle materie anche puramente politiche, gl'italiani ebbero allora dalla religione grandi e continue opportunità occasioni e necessità di agire e di pensare. Quanta politica ec. non fu dovuta mettere in opera dagl'italiani nel Concilio di Trento e in tutti gli affari del Luteranismo, Calvinismo ec. Grandi negoziazioni e trattative e maneggi e grandi e gravi affari furono allora operati dagl'italiani, o da una Corte italiana, qual era quella del Papa, e da membri che ad una corte italiana appartenevano; e tra questi brillarono non pochi politici ec. Cardinali e nunzi e prelati e Vescovi ec. potenti appo i forestieri ec. Negoziazioni ec. degli stranieri appo noi, che conservavano l'uso e l'esercizio della politica e degli affari in casa nostra ec. ec. Questa causa di azione e di qualche vita per l'Italia non si ristringeva ne' suoi effetti alla sola politica, diplomatica, affari pubblici. Naturalmente i suoi effetti si stendevano a tutte le parti della società e del civile consorzio. V'era una vita in Italia. Or dunque tutte le parti della nazione e della società ne partecipavano, come suole accadere. Quindi lo splendor delle arti, le grandi imprese di edifizi ec. massime in Roma, sede della più importante politica italiana ec. la chiesa di S. Pietro, le scolture, le pitture, le poesie, le orazioni, le storie, il secolo di Leon X, la industria, il commercio ec. Massime nel 500. ma dipoi ancora, fino alla rivoluzione, [3889] Roma riunendo e ponendo in azione gli spiriti di conto sì propri, sì italiani, sì forestieri, e dando materia agl'ingegni di svilupparsi, e occasione ai già sviluppati di concorrere ad essa e quivi esercitarsi, stante l'esser sede d'importanti affari; ebbe spirito di società, e conversazioni ec. sempre decrescenti, fino ad estinguersi, ma pur non estinte affatto fino agli ultimi anni. ec. ec. (17. Nov. 1823.)

Come altrove ho dimostrato, il solo perfetto stato di una società umana stretta, si è quello di perfetta unità, cioè d'assoluta monarchia, quando il monarca viva e governi e sia monarca pel ben essere de' suggetti, secondo lo spirito la ragione e l'essenza della vera monarchia, e secondo che accadeva in principio. Ma quando l'effetto della monarchia si riduca in somma a questo, che un solo nella nazione, viva, e tutti gli altri non vivano se non se in un solo e per un solo, e i suggetti servano unicamente al ben essere del monarca, in vece che questo a quelli, e che l'effetto e la sostanza dell'unità della nazione sia questo, che quanto essa unità è più perfetta, tanto la vita e il ben essere più si ristringa in un solo, o almeno lo spirito d'essa unità e il proposito della costituzion nazionale miri in effetto a questo fine; allora è certamente meglio qualsivoglia altro stato; perocchè senza la perfetta unità, gli uomini in società stretta non possono veramente godere del perfetto [3890] ben esser sociale, nè la nazione è capace di perfetta vita; ma egli è peggio non vivere e non essere (or la nazione sotto una tal monarchia, non è) che non vivere perfettamente e non essere perfetta. Or, come ho altresì provato altrove, non può assolutamente accadere che l'assoluta monarchia non cada nel detto stato, nè che conservi il suo stato vero per alcuna cagione intrinseca ed essenziale, e per altro che per caso, il quale è straordinariamente difficile che abbia luogo, e mille cagioni intrinseche ed essenziali alla monarchia assoluta considerata rispettivamente alla natura dell'uomo, si oppongono positivamente alla detta conservazione ec. 17. Nov. 1823.)

 Σχεδὸν μὲν οὖν καὶ τὰ ἄλλα δεῖ νομίζειν εὑρῆσϑαι πολλάκις ἐν τῷ πολλῷ χρόνῳ, μᾶλλον δὲ ἀπειρακις τὰ μὲν γὰρ ἀναγκαῖα τὴν χρείαν διδάσκειν εἰκὸς αὐτήν, τὰ  δὲ  εἰς εὐσχημοσύνην καὶ περιουσίαν (Victor. splendorem et ubertatem), ὑπαρχόντων ἤδη τούτων (scil. τῶν ἀναγκαίων), εὔλογον λαμβάνειν τὴν αὔξησιν. ῞Ωστε καὶ τὰ περὶ τὴς πολιτείας ἴεσϑαι δεῖ ἔχειν τὸν τρόπον τοῦτον. ῞Οτι δὲ πάντα ἀρχαῖα, σημεῖον τὰ περὶ αἴγυπτον ἐστιν∙ οὗτοι γὰρ ἀρχαιότατοι μὲν δοκοῦσιν εἶναι, νόμον δὲ τετυχήκασι καὶ τὰξεως πολιτικῆς. Διὸ δεῖ τοῖς ῴμὲν εἰρημένοις ἱκανῶς, χρῆσϑαι, τὰ δὲ παραλελεμμένα πειρᾶσϑαι ζητεῖν. Aristot. Polit. l. 7. Florent. 1576. p. 593. (iis quae tradita sunt ita ut satis esse possint. Victor.). (18. Nov. 1823.)

[3891] Quelli che ci dicono che le cose di questa vita, la gloria, le ricchezze e l'altre illusioni umane, beni o mali ec. nulla importano, convien che ci mostrino delle altre cose le quali importino veramente. Finchè non faranno questo, noi, malgrado i loro argomenti, e la nostra esperienza, ci attaccheremo sempre alle cose che non importano, perciò appunto che nulla importa, e quindi nulla è che meriti più di loro il nostro attaccamento e sia più degno di occuparci. E così facendo, avrem sempre ragione, anche, anzi appunto, parlando filosoficamente. (18. Nov. 1823.)

Il carattere ec. ec. degli uomini è vario, e riceve notabili differenze non solo da clima a clima, ma eziandio da paese a paese, da territorio a territorio, da miglio a miglio; non parlando che delle sole differenze naturali. Ne' luoghi d'aria sottile, gl'ingegni sogliono esser maggiori e più svegliati e capaci, e particolarmente più acuti e più portati e disposti alla furberia. I più furbi per abito e i più ingegnosi per natura di tutti gl'italiani, sono i marchegiani: il che senza dubbio ha relazione colla sottigliezza ec. della loro aria. Similmente gl'italiani in generale a paragone delle altre nazioni. Mettendo il piede ne' termini della Marca si riconosce visibilmente una fisonomia più viva, più animata, uno sguardo più penetrante e più arguto che non è quello de' convicini, nè de' romani stessi che pur vivono nella società e nell'uso di una gran capitale. Così discorrasi delle altre [3892] differenze ec. Gli abitatori de' monti differiscono notabilmente, se non di corpo, certo di spirito, carattere, inclinazione ec. da quelli degli stessi piani e valli lor sottoposte; i littorani da' mediterranei lor confinanti ec. ec. anche parlando delle sole differenze cagionate dalle diversità naturali de' luoghi ec. Infinito è il numero delle cagioni anche semplicemente naturali che producono differenze tra gli uomini, e queste, benchè or maggiori or minori, sempre notabili, e più notabili assai che in niun'altra specie di viventi, a causa dell'estrema conformabilità e modificabilità dell'uomo, e quindi suscettibilità di essere influito dalle cagioni anche menome di varietà, di alterazione ec. che in altri esseri o non producono niuna varietà, o piccolissima ec. Le dette cagioni di varietà s'incrociano per così dir tra loro, perchè il calor del clima produce un effetto, la grossezza dell'aria un altro contrario, e ambedue le dette cagioni s'incontrano bene spesso insieme; e così discorrendo. Esse si temperano, si modificano, si alterano, si diversificano, s'indeboliscono, si rinforzano scambievolmente in mille guise secondo le infinite diversità loro, e de' loro gradi, e delle loro combinazioni scambievoli ec. ec. e altrettante diversità, cioè infinite, e diversità di diversità, e tutte notabili, ne seguono ne' caratteri degli uomini. Queste osservazioni si applichino a quelle della p. 3806-10. e a quelle sopra le differenze vere, cioè naturali, de' talenti, o innate, o acquisite e contratte [3893] naturalmente, e per cause e circostanze semplicemente naturali e indipendenti nell'esser loro dalle sociali, dagli avvenimenti ec. e che avrebbero operato ed operano per se stesse proporzionatamente anche negli uomini primitivi, ne' selvaggi ec. che operano ancora, benchè infinitamente meno, negli animali, piante ec. ec. a proporzione, e secondo la loro suscettibilità, e la qualità e il grado e le combinazioni ec. d'esse cause e circostanze ec. ec. (18. Nov. 823.)

Tio spagn. Zio ital. ϑεῖος grec. (19. Nov. 1823.)

A proposito del danno recato al valore dall'invenzione delle armi da fuoco, vedi il detto di Archidamo appresso il Vettori ad Aristot. Polit. l. 7. Florent. 1576. p. 602. il qual detto è riportato da Senofonte, s'io non m'inganno, nell'Agesilao, ed attribuito forse a costui; ovvero nella Repubbl. de' Lacedemonii. Oltre le invettive dell'Ariosto contro l'armi da fuoco in uno de' dieci primi Canti del Furioso, a proposito di Cimosco ec. (19. Nov. 1823.)

Gli Americani consideravano per mostruosità la barba negli europei perocchè quei popoli naturalmente erano sbarbati, come i mori e altri popoli d'Affrica ec. Si applichi alle osservazioni sul bello. Solìs, Hist. de Mexico; De Cieça Chron. del Peru, ec. (19. Nov. 1823.)

Diminutivi positivati. Gesticulor, (33) ec. Vedi il Forcellini. Franc. gesticuler. Noi ancora volgarmente gesticolare. [3894] Vedi l'Alberti. ec. (19. Nov. 1823.). Corbeau da corvus. Gero-gestum, gesto, gestito. (19. Nov. 1823.)

Alla p. 3883. La superstizione sia speculativa sia pratica è figlia della società, ed inseparabile da essa società quanto si voglia civile come dimostrano tutte le istorie. Anzi par ch'ella, a differenza di tanti altri incomodi e barbarie della società primitiva, cresca a proporzione della civiltà; e certo si son trovati e trovano alcuni popoli selvaggi senza superstizione alcuna, almeno efficace e che influisca sulla vita in niun modo, e che sia causa di veruna infelicità esteriore nè interiore; ma niun popolo civile si trovò mai nè si trova nè troverassi in cui la superstizione più o manco, e in uno o altro modo, non regni, per civilissimo ch'ei si fosse, o si sia, o che sia per essere. (34) Or di quanti e quanto gran mali sia stata e sia causa la superstizione per sua natura sì a' popoli sì agl'individui, sì verso gli altri sì verso se stessi, travagliandoli sì esternamente sì internamente, per rispetto ai costumi, agl'istituti, alle azioni, alle opinioni ec.; quanti beni e quanto grandi abbia impedito e impedisca per sua natura ec. non accade dilungarsi a mostrarlo, anzi neppure a ricordarlo, essendo già e provato e notissimo. (19. Nov. 1823.). Certo la superstizione non ha luogo negli animali anche i più socievoli. Dunque l'uomo per natura è men sociale che alcun'altra specie ec. V. la p. 3896.

Diminutivi positivati. Faisceau da fascis e per fascis. Similmente fastello, quasi fascettello. Gocciola, gocciolare sgocciolare ec. diminutivi equivalenti ai positivi goccia, gocciare, sgocciare ec. da gutta. Questi diminutivi cioè gocciola (e così frombola [3895] di cui p. 3636. marg. benchè fromba non sia nome latino), ec. e simili altri in olo ec. breve, sono alla latina; il che è da notare. (20. Nov. 1823.)

Il sonno e tutto quello che induce il sonno, ec. è per se stesso piacevole, secondo la mia teoria del piacere ec. Non c'è maggior piacere (nè maggior felicità) nella vita, che il non sentirla. (20. Nov. 1823.)

Alla p. 3876. Venio ha già perduto il suo i in veni il cui i non è il radicale, ma quello della terminazione del perfetto, se già esso non comprende ambo gl'u, come negli antichi codici e monumenti si trova assai spesso audi per audii, Tulli per Tullii, anzi regolarmente Tulli e non Tullii ec. del che vedi il Conspectus orthographiae cod. vaticani de republica di Niebuhr. In ogni modo è certo che virtualmente l'i p.e. di Tulli, contiene due i, come il moderno nostro (e latino) j. Del resto, anomalie che faccian perdere l'i radicale ai temi della quarta, sono moltissime. P.e. vincio-vinxi (dove l'u secondo, non è il radicale) sentiosensi ec. Contrazioni altresì moltissime, come saltum di salio per salitum ec. ec. ec. Audisti audistis ec. sono contrazioni, non, cred'io, di audiistis ec. ma di audivisti, come amasti di amavisti; onde in audisti audistis ec. l'u radicale non sarebbe perduto, ma sola la sillaba interposta, vi. (20. Nov. 1823.)

[3896] D'emblée viene evidentemente dal greco ἐμβάλλω. Grecismi del volgare italiano vedine ap. il Vettori Commentar. in Aristot. Polit. Lib.7. fin. Florent. 1576. p. 646 fin.-647 princip. Il luogo di Aristot. quivi citato è ib. p. 641. fine. (21. Nov. 1823.)

Diminutivi positivati: pocillator da pocillum, invece di dir poculator da poculum, ma collo stesso senso, cioè di οἰνοχόος. (21. Nov. 1823.). Gemellus coi derivati, diminutivo di geminus (come pagella di pagina. Gemello, iumeau, v. gli spagn. Femelle da femella per femina, femme, passato in francese al semplice significato di donna. Così favellare da fabella, in vece e nel senso di fabulare da fabula, del che vedi la p. 3844. (21. Nov. 1823.)

Monosillabi latini. V. Forcell. in Leo es. (21. Nov. 1823.)

Alla p. 3894. marg. La ragione di cui l'uomo solo è provveduto (ossia quel grado di facoltà intellettuale che si chiama ragione, ed a cui il solo intelletto dell'uomo arriva e può arrivare), come per mille parti è utile, per mille necessaria alla società, ed origine e cagione effettiva di essa, così per mille altre parti (come p.e. per la superstizione la qual non sarebbe senza il grado di facoltà mentale che noi abbiamo, e che le bestie non hanno, e per cento mila altri effetti) è di sua natura nocevole e anche direttamente contraria alla società degli uomini, e al lor ben essere e lor perfezione nello stato sociale ec. ec. Parlo qui di quella facoltà di ragione che l'uomo ha per natura, anche nello stato primitivo, e dico che questa medesima dimostra che l'uomo per natura è men disposto a società che gli altri animali, benchè per altra parte ella sembri invitta e principalissima prova del contrario ec. ec. (21. Nov. 1823.)

[3897] La negativa francese ne è l'antichissima de' latini, i quali dicevano ne e nec per non, come ho discorso in proposito di nihilum parlando della voce silva e della sua origine, e mostrato ancora che ne serviva in composizione di particella privativa, come in greco νη, νε, ν, e per conseguenza sì essa che le dette greche originariamente dovettero certo essere particelle negative, cioè assolutamente servienti alla negazione ec. (35) E v. il Forc. in Ne, Nec ec. e i Lessici greci in νε ec. (22. Nov. 1823.)

Febricito as, viene forse da un febrico as atum, ovvero ui itum (come applico, explico ec. ui itum ec. e simili, di cui altrove) che sarebbe affine a febricosus? (22. Nov. 1823.)

Non solo aggettivi si son fatti da' participii in us, come altrove più volte, ma spessissimo essi participii son passati in sostantivi, come factum, actum, iussum ec. ec. Onde anche da tali sostantivi si può talora argomentare e de' veri participii, e dell'esistenza di verbi ignoti, di cui questi sostantivi saranno stati originalmente participii, benchè or non si sappia, ec. ec. (22. Nov. 1823.)

Alla p. 3636. È da notare che quando il positivo de' diminutivi positivati (come di martello ec.), sieno latini, sieno moderni, latini di origine, o di origine moderna ec., non si trova, [3898] o non se ne sa almeno il significato (sia nella stessa lingua, sia nella latina, o nelle altre ec.), allora può essere che questo fosse diverso da quello de' loro diminutivi noti, o diverso affatto, o diverso in quanto più generale, o appartenente ad una specie di cose dello stesso genere ma pur diversa da quella significata dal diminutivo ec. Onde tali diminutivi non possono con certezza chiamarsi positivati, con tutto che nella loro significazione non si vegga causa nè vestigio alcuno di diminuzione; perocchè positivati si vogliono intendere quei diminutivi che son giunti ad essere usati in vece de' loro positivi (o coesistenti, o andati in disuso), e per conseguenza nel medesimo senso di questi. E i diminutivi de' quali io raccolgo gli esempi, han da esser di questo genere, e non altro. (22. Nov. 1823.). V. p. 3945.

Alla p. 3513. Come le donne naturalmente e generalmente parlando (e basta all'effetto, che così sia pernatura) vivono alquanto meno degli uomini, o son destinate ad uno spazio di vita alquanto più breve, ed infatti il loro sviluppo, e la decadenza ed estinzione delle loro facoltà e della giovanezza loro, è certamente più pronto, e la loro carriera fisica generalmente più rapida; così è ben verisimile che le date quantità di tempo, ad esse paiono alquanto maggiori che agli uomini, secondo la piccola proporzione che risulta dal poco svantaggio di lunghezza che ha la lor vita naturalmente dalla nostra; la qual differenza e proporzione essendo assai piccola, non è maraviglia se il detto effetto non si nota, [3899] e se riesce impercettibile, essendo quasi menomo ec. Forse anche simili differenze impercettibili si potrebbero supporre tra diversi individui di uno stesso sesso, nazione ec. come derivanti e proporzionate a certe relative differenze fisiche o morali, ec. che si potrebbe forse notare a questo proposito, e come atte a cagionare detto effetto ec. ec. (22. Nov. 1823.)

Je me rappelle souvent ce vers anglais: L'homme est fait pour agir, et tu prétends penser? Frédéric II Lettres à d'Alembert, tome XIII. p. 203. (22. Nov. 1823.). V. p. 3931.

Voce comune alle tre lingue: Ciabatta, zapato, savate (è noto che il nostro c molle, in ispagnuolo è z, in francese vale s), savaterie, savetier, zapatero, ciabattino, acciabattare ec. ec. Anche le metafore di tali voci, come di saveter e acciabattare, di ciabattino e savetier per mauvais ouvrier ec. ec. sono conformi, almeno tra l'italiano e il francese, giacchè il significato di ciabatta, savate, zapato, benchè simile, è alquanto diverso nello spagnuolo ec. (23. Nov. Domenica. 1823.)

Alla p. 3851. marg. Anche tra noi però avvisato per prudente, può essere participio di avvisarsi, verbo reciproco, o neutro passivo, in senso di avvedersi ec., e in tal caso non apparterrebbe al nostro discorso, niente più di quello che gli appartenga appunto avveduto di avvedersi (che vale lo stesso che avvisato), accorto di accorgersi (che vale altresì lo stesso: dico aggettivamente presi accorto, avveduto, avvisato), e gli altri participi de' neutri passivi o reciprochi. (23. Nov. 1823.)

[3900] Alla p. 3869. marg. Da queste osservazioni è chiaro che si dee dir vivisco e non vivesco, anche per regola e analogia e ragion generale. - Es. di verbo incoativo fatto da verbo della 4. può essere scisco da scio - Hisco da hiohiatum, non è che corruzione d'hiasco che pur si trova, e che è proprio degli antichi; come hieto è corruzione d'hiato, che pur si trova, del che altrove. (23. Nov. 1823.)

Al detto altrove sopra il continuativo hietare, aggiungi quello che puoi vedere nel pensiero precedente. (23. Nov. 1823.)

Alla p. 3869. marg. principio. Arcesso, - Capesso, - Facesso (v. Forcell. in Facesso princ. e fin.) - is ivi itum. E credo che anche gli altri tali verbi frequentativi o desiderativi o come si chiamino (v. Forc. in Facesso princ.), se altri ve n'ha, facciano allo stesso modo, cioè una mescolanza della 3. e 4. coniugazione Anche Arcesso fa nell'infinito passivo arcessi e arcessiri. E v. Forcell. in arcesso princ. (23. Nov. 1823.). V. p.3904.

Alla p. 3884. Se la qualità dello stile del Tasso, considerato in generale, pecca in qualche cosa, questo si è più che in altro, nel molle. E certo non di rado esso dà nel debole, anzi pur nel freddo, e in quel basso che nasce da debolezza, da mancanza di nervo e di forza per sostenersi in alto e ritto ec. ec., in poca sostenutezza ec. Questo è molto più frequente nel Tasso che o in Dante o in Petrarca, e più ancora che in parecchi poeti del 2. ordine. (23. Nov. 1823.)

Alla p. 2843. Che inceptare in questo senso d'incettare, cioè [3901] come composto di capto, non sia alieno dall'antica latinità, secondo che ho detto in una delle pagg. citate in quella a cui questo pensiero appartiene, me lo persuade eziandio il vedere che detto senso è tutto latino, e alla latina ec. e quasi è lo stesso che quello del semplice captare, se non che è determinato ad un certo modo di far quello che si denota col verbo captare. Del resto che la mutazione dell'a in e ne' composti, e l'altre tali, usitate regolarmente nell'antico e buon latino, fossero trascurate ne' composti de' tempi bassi e delle lingue moderne, ne può essere una prova appunto accattare (acheter). Vedi Glossar. in accaptare. (36) (23. Nov. 1823.)

Simile esempio a quello di traer usato talora dagli spagnuoli nel senso di tractare, come nel primo principio della mia teoria de' continuativi, si è quello di affecter spesso usato da' francesi nel significato stesso (o simile) di afficere. V. Forcell. in affecto fin. e inaffector aris; il Gloss., gli spagn. ec. (23. Nov. 1823.)

Alla p. 3753. marg. - come forse sono contrazioni quei diminutivi di cui a p. 3844. ec., cioè a dire pagella per paginella, asellus per asinellus, che noi diciamo, fabella per fabulella ec. (23. Nov. 1823.). V. p.3992.

Alle cose dette altrove in più luoghi sopra il g protetico dei latini avanti la n, aggiungi gnatus, participio o aggettivo, e sostantivo, e gnatula, e v. Forcell. in queste voci. (23. Nov. 1823.)

Al detto altrove sopra l'uso dello spagn. luego simile a quello che i greci fanno degli avverbi significanti statim ec. aggiungi un esempio di Aristot. Polit. l. 8. Florent. 1576 p. 615. princip. 652. fine. p. 675. fine, εὐϑὺς γὰρ ec. male inteso dal Vettori in tutti i tre luoghi, in un de' quali ridonda. (23. Nov. Domenica. 1823.)


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(1) Nomenclator p. nominclator ec. non è che l'alteraz. di pronunzia, e così mille casi simili. (come quello di cui nel marg. della pag. seg. cioè imaguncula).

(2) Imaguncula, incuncula, homuncio, homunculus, latrunculus è lo stesso che imagincula (v. la p. 3007. fra l'altre), e però fatto dagli obliqui d'imago, e non dal retto, come parrebbe a prima vista. E così dicasi dell'altre simili voci.

(3) Agnomen, agnomentum ec. cognomen ec. ignotitia (p. innotitia), tutti derivati da noo. Ignoro ec.

(4) Ne' composti notum o gnotum si cambia in gnitum (cognitum ec.) fuorchè in ignotus nome, e in ignotus partic. e supino. V. anche agnotus ec.

(5) V. p. 3851.

(6) V. p. 3071.

(7) Come il suicidio, o il tormentar se stesso per odio, quello è, questo, se potesse essere, sarebbe evidentemente contro natura, così la guerra tra gl'individui d'una specie medesima, le uccisioni scambievoli, e i mali qualunque proccurati da' simili ai simili, sono cose evidentemente contro natura, mentre pur sono assolutamente inevitabili, e non accidentali (se non a una per una, non generalmente e tutte insieme), ma essenziali e costanti in qualsivoglia società stretta. V. p. 3928.

(8) Vedi la pag. 3813.

(9) Terminò questa prima parte nel Perù l'anno 1550, in età d'anni 32. de' quali n'avea passati 17. nell'Indie meridionali, come dice nell'ultime linee del tomo.

(10) L'antropofagia era e fu p. lunghissimi secoli propria di forse tutti i popoli barbari e selvaggi d'America, sì meridionale che settentrionale (escludo il paese comandato dagl'incas, i quali tolsero questa barbarie, e l'impero messicano e tutti i paesi un poco colti ec.) e lo è ancora di molti, e lo fu ed è di moltissimi altri popoli selvaggi affatto separati tra loro e dagli americani. L'antropofagia fu ben conosciuta da Plinio e dagli altri antichi ec. ec. E forse tutti i popoli ne' loro principii (cioè p. lunghissimo tempo) furono antropofagi. V. p. 3811.

(11) Puoi vedere la p. 3891.

(12) Fuseau. Figliuolo (filiolus), figliuolanza ec. Al detto altrove di scabellum, sgabello ec. aggiungi il franc. escabeau ed escabelle.

(13) Poco manca che Senofonte non ci ritragga ec. Speroni Diall. Ven. 1596. p. 224. fine Il s'en faut tant ou tantt, il s'en faut plus de la moitié, il s'en faut peu, il s'en faut  la maitié ecc. il s'en faut  bien, il s'en faut  de beaucoup, il s'en faut  beaucoup ecc. il s'en faudrait beaucoup ec.

(14) Vedi delle frasi appartenenti a questo discorso nel Diz. dell'Alberti ec. in faillir, e manquer, e v. gli spagn. in faltar ec.

(15) Sellula. Asellulus.

(16) Anche in adbito (che veggasi) il Forc. ha adbito is con questo solo es. di Plauto.

(17) Anche tra noi ramoscello ec. molte volte è positivato, massime nel dir moderno.

(18) Puoi vedere la p. 3842. seg.

(19) V. p. 3905.

(20) V. la pag. 3835. seg. e 3846. fine-8.

(21) V. la p. seg.

(22) Vedi la pag. 3520-5.

(23) Puoi vedere p. 3835. seg. 3842. seg.

(24) S'intendono qui p. monosillabi anche i formati di più d'una vocale contigue, e senza intermissione di consonante, secondo il detto altrove. Altrim. l'iato non potrebbe aver luogo ne' monosillabi ec. ec.

(25) Avisado p. prudente, accorto, e anche dello spagn. ma dubito che in ispagn. avisar abbia quel tal senso attivo analogo a questo di accorto ec., il quale egli ha tra noi. V. p. 3899.

(26) V. p.e. Forcell. in fruniscor p. fruiscor, qualunque de' due sia anteriore. E chi sa che prima non fosse sio, interposta poscia la n p. evitare l'iato, come in greco nel fine delle voci, e come forse v'hanno altri es.i in latino, e fra questi forse il predetto fruniscor.

(27) Detonat uit. Intono avi ed ui ec.

(28) Vedi la pag. 3871.

(29) V. p. 3900.

(30) V. p. 3875. fine.

(31) Se non in quanto essi sono più capaci di occupazione e distrazion forte dell'animo, e quando essi si trovano attualmente in tale stato (che accade loro più frequentem. che agli altri p. molte ragioni) del che vedi la pag. 3878. principio.

(32) Puoi vedere la p. 3885.

(33) Questo però, se non viene da gesticulus (ch'è voce moderna e solo di Tertulliano) può essere piuttosto frequentativo che diminut. o un misto dell'uno e dell'altro, come tanti nostri verbi italiani, di cui altrove ex professo.

(34) Puoi vedere le Lettere di Federico II. e d'Alembert, Lett. 49. p. 125. seg. paragonandola colla lett. 45. p. 117. e lettera 47. p. 120. fine - 121. e lett. 53. p. 135. fin e lett. 70. p. 185. fine.

(35) Ne quidem p. nec quidem, nequam ec. dove il ne è privativo, ec.

(36) Anche abbiamo accettare (accepter ec.) da acceptare, ma non di capto bensì di accipio-acceptus ec.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giacomo Leopardi - Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura", volumi I-VII, Successori Le Monnier, Firenze, 1898-1907  ( Vedi: - 1 -  - 2 -  - 3 -  - 4 -  - 5 -  - 6 -  - 7 -  )







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