Ludovico Ariosto - Opera Omnia >>  Orlando furioso - Cinque canti




 

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[ Tra il 1518 e il 1519 (ma la datazione è controversa) l'autore elabora cinque canti che ruotano intorno al traditore Gano di Maganza. Questo frammento, lacunoso e incompleto, non sarà mai utilizzato da Ariosto, né come "giunta" al Furioso, né come possibile esordio di un nuovo poema. Furono pubblicati postumi nel 1545, in appendice ad un’edizione curata da Virginio Ariosto, figlio del poeta, per i tipi di Paolo Manuzio e ripubblicati, emendati di alcune lacune nel 1548 per conto dell'editore Giolito. Dei Cinque canti esiste anche un manoscritto, di probabile mano di Giulio di Gianmaria Ariosto, risalente alla metà del Cinquecento, che riporta un'ottava iniziale altrimenti ignorata da entrambe le stampe. Questo manoscritto però, pur con qualche modifica nell'ordine delle ottave e con qualche sciatteria linguistica, per lo più imputabile al copista, riporta il medesimo testo pubblicato precedentemente.
FONTE : Wikipedia ]


CANTO PRIMO


alfa

Oltre che già Rinaldo e Orlando ucciso
molti in più volte avean de' lor malvagi,
ben che l'ingiurie fur con saggio aviso
dal re acchetate, e li comun disagi,
e che in quei giorni avea lor tolto il riso
l'ucciso Pinabello e Bertolagi;
nova invidia e nov'odio anco successe,
che Franza e Carlo in gran periglio messe.

beta

Ma prima che di questo altro vi dica,
siate, signor, contento ch'io vi mene
(che ben vi menerò senza fatica)
là dove il Gange ha le dorate arene;
e veder faccia una montagna aprica
che quasi il ciel sopra le spalle tiene,
col gran tempio nel quale ogni quint'anno
l'immortal Fate a far consiglio vanno.

I

Sorge tra il duro Scita e l'Indo molle
un monte che col ciel quasi confina,
e tanto sopra gli altri il giogo estolle,
ch'alla sua nulla altezza s'avicina:
quivi, sul più solingo e fiero colle,
cinto d'orrende balze e di ruina,
siede un tempio, il più bello e meglio adorno
che vegga il Sol, fra quanto gira intorno.

II

Cento braccia è d'altezza, da la prima
cornice misurando insin in terra;
altre cento di là verso la cima
de la cupula d'or ch'in alto il serra:
di giro è dieci tanto, se l'estima
di chi a grand'agio il misurò, non erra:
e un bel cristallo intiero, chiaro e puro,
tutto lo cinge, e gli fa sponda e muro.

III

Ha cento facce, ha cento canti, e quelli
hanno tra l'uno e l'altro uguale ampiezza;
due colonne ogni spigolo, puntelli
de l'alta fronte, e tutte una grossezza;
di cui sono le basi e i capitelli
di quel ricco metal che più s'apprezza;
et esse di smeraldo e di zafiro,
di diamante e rubin splendono in giro.

IV

Gli altri ornamenti, chi m'ascolta o legge
può imaginar senza ch'io 'l canti o scriva.
Quivi Demogorgon, che frena e regge
le Fate, e dà lor forza e le ne priva,
per osservata usanza e antica legge,
sempre ch'al lustro ogni quint'anno arriva,
tutte chiama a consiglio, e da l'estreme
parti del mondo le raguna insieme.

V

Quivi s'intende, si ragiona e tratta
di ciò che ben o mal sia loro occorso:
a cui sia danno od altra ingiuria fatta,
non vien consiglio manco né soccorso:
se contesa è tra lor, tosto s'adatta,
e tornar fassi adietro ogni trascorso;
sì che si trovan sempre tutte unite
contra ogn'altro di fuor, con ch'abbian lite.

VI

Venuto l'anno e 'l giorno che raccorre
si denno insieme al quinquennal consiglio,
chi da l'Ibero e chi da l'Indo corre,
chi da l'Ircano e chi dal Mar Vermiglio;
senza frenar cavallo e senza porre
giovenchi al giogo, e senza oprar naviglio,
dispregiando venian per l'aria oscura
ogni uso umano, ogni opra di natura.

VII

Portate alcune in gran navi di vetro,
dai fier demoni cento volte e cento
con mantici soffiar si facean dietro,
che mai non fu per l'aria il maggior vento.
Altre, come al contrasto di san Pietro
tentò in suo danno il Mago, onde fu spento,
veniano in collo alli angeli infernali:
alcune, come Dedalo, avean l'ali.

VIII

Chi d'oro, e chi d'argento, e chi si fece
di varie gemme una lettica adorna;
portàvane alcuna otto, alcuna diece
de lo stuol che sparir suol quando aggiorna,
ch'erano tutti più neri che pece,
con piedi strani, e lunghe code, e corna;
pegasi, griffi et altri uccei bizarri
molte traean sopra volanti carri.

IX

Queste, ch'or Fate, e da li antichi fòro
già dette Ninfe e Dee con più bel nome,
di preciose gemme e di molto oro
ornate per le vesti e per le chiome,
s'appresentar all'alto Concistoro,
con bella compagnia, con ricche some,
studiando ognuna ch'altra non l'avanzi
di più ornamenti o d'esser giunta innanzi.

X

Sola Morgana, come l'altre volte,
né ben ornata v'arrivò né in fretta;
ma quando tutte l'altre eran raccolte,
e già più d'una cosa aveano detta,
mesta, con chiome rabuffate e sciolte,
alfin comparve squalida e negletta,
nel medesmo vestir ch'ella avea quando
le diè la caccia, e poi la prese, Orlando

XI

Con atti mesti il gran Collegio inchina,
e si ripon nel luogo più di sotto;
e, come fissa in pensier alto, china
la fronte e gli occhi a terra, e non fa motto.
Tacendo l'altre di stupor, fu Alcina
prima a parlar, ma non così di botto;
ch'una o due volte gli occhi intorno volse,
e poi la lingua a tai parole sciolse:

XII

— Poi che da forza temeraria astretta,
non può senza pergiur costei dolerse,
né dimandar né procacciar vendetta
de l'onta ria che già più dì sofferse;
quel ch'ella non può far, far a noi spetta,
ché le occorrenze prospere e l'avverse
convien ch'abbiam communi; e si proveggia
di vendicarla, ancor ch'ella nol chieggia.

XIII

Non accade ch'io narri e come e quando
(perché la cosa a tutto il mondo è piana)
e quante volte e in quanti modi Orlando,
con commune onta, offeso abbia Morgana;
da la prima fiata incominciando
che 'l drago e i tori uccise alla fontana,
fin che le tolse poi Gigliante il biondo,
ch'amava più di ciò ch'ella avea al mondo.

XIV

Dico di quel che non sapete forse;
e s'alcuna lo sa, tutte nol sanno:
più che l'altre soll'io, perché m'occorse
gire al suo lago quel medesimo anno:
alcune sue (ma ben non se n'accorse
Morgana) raccontato il tutto m'hanno.
A me ch'a punto il so, sta ben ch'io 'l dica,
tanto più che le son sorella e amica.

XV

A me convien meglio chiarirvi quella
parte, che dianzi io vi dicea confusa.
Poi che Orlando ebbe preso mia sorella,
rubbata, afflitta e in ogni via delusa,
di tormentarla non cessò, fin ch'ella
non gli fe' il giuramento il qual non s'usa
tra noi mai violar; né ci soccorre
il dir che forza altrui cel faccia tòrre.

XVI

Non è particolare e non è sola
di lei l'ingiuria, anzi appartien a tutte;
e quando fosse ancora di lei sola,
debbiamo unirsi a vendicarla tutte,
e non lasciarla ingiuriata sola;
ché siam compagne e siam sorelle tutte;
e quando anco ella il nieghi con la bocca,
quel che 'l cor vuol considerar ci tocca.

XVII

Se toleriam l'ingiuria, oltra che segno
mostriam di debolezza o di viltade,
et oltra che si tronca al nostro regno
il nervo principal, la maiestade,
facciam ch'osin di nuovo, e che disegno
di farci peggio in altri animo cade:
ma chi fa sua vendetta, oltra che offende
chi offeso l'ha, da molti si difende. —

XVIII

E seguitò parlando, e disponendo
le Fate a vendicar il commun scorno:
che s'io volessi il tutto ir raccogliendo,
non avrei da far altro tutto un giorno.
Che non facesse questo, non contendo,
per Morgana e per l'altre ch'avea intorno;
ma ben dirò che più il proprio interesse,
che di Morgana o d'altre, la movesse.

XIX

Levarsi Alcina non potea dal core
che le fosse Ruggier così fuggito:
né so se da più sdegno o da più amore
le fosse il cor la notte e 'l dì assalito;
e tanto era più grave il suo dolore,
quanto men lo potea dir espedito,
perché del danno che patito avea
era la fata Logistilla rea.

XX

Né potuto ella avria, senza accusarla,
del ricevuto oltraggio far doglianza;
ma perch'ivi di liti non si parla
che sia tra lor, né se n'ha ricordanza,
parlò de l'onta di Morgana, e farla
vendicar procacciò con ogn'instanza;
che senza dir di sé, ben vede ch'ella
fa per sé ancor, se fa per la sorella.

XXI

Ella dicea che, come universale
biasmo di lor son di Morgana l'onte,
far se ne debbe ancor vendetta tale
che sol non abbia da patirne il Conte,
ma che n'abbassi ognun che sotto l'ale
de l'aquila superba alzi la fronte:
propone ella così, così disegna,
perché Ruggier di nuovo in sua man vegna.

XXII

Sapeva ben che fatto era cristiano,
fatto baron e paladin di Carlo;
ché se fosse, qual dianzi era, pagano,
miglior speranza avria di ricovrarlo;
ma poi che armato era di fede, in vano
senza l'aiuto altrui potria tentarlo;
ché se sola da sé vuol farli offesa,
gli vede appresso troppo gran difesa.

XXIII

Per questo avea fier odio, acerbo isdegno,
inimicizia dura e rabbia ardente
contra re Carlo e ogni baron del regno,
contra i populi tutti di Ponente;
parendo lei che troppo al suo disegno
lor bontà fosse avversa e renitente;
né sperar può che mai Ruggier s'opprima,
se non distrugge Carlo o insieme o prima.

XXIV

Odia l'imperator, odia il nipote,
ch'era l'altra colonna a tener ritto,
sì che tra lor Ruggier cader non puote,
né da forza d'incanto esser afflitto.
Parlato ch'ebbe Alcina, né ancor vòte
restar d'udir l'orecchie altro delitto:
ché Fallerina pianse il drago morto
e la distruzion del suo bell'orto.

XXV

Poi ch'ebbe acconciamente Fallerina
detto il suo danno e chiestone vendetta,
entrò l'aringo e tenel Dragontina,
fin che tutt'ebbe la sua causa detta;
e quivi raccontò l'alta rapina
ch'Astolfo et alcun altro di sua setta
fatto le avea dentro alle proprie case
de' suoi prigion, sì ch'un non vi rimase.

XXVI

Poi l'Aquilina e poi la Silvanella,
poi la Montana e poi quella dal Corso;
la fata Bianca, e la Bruna sorella,
et una a cui tese le reti Borso;
poi Griffonetta, e poi questa e poi quella
(ché far di tutte io non potrei discorso)
dolendosi venian, chi d'Oliviero,
chi del figlio d'Amon e chi d'Uggiero;

XXVII

chi di Dudone e chi di Brandimarte,
quand'era vivo, e chi di Carlo istesso.
Tutti chi in una e chi in un'altra parte
avean lor fatto danno e oltraggio espresso,
rotti gli incanti e disprezzata l'arte
a cui natura e il ciel talora ha cesso:
a pena d'ogni cento trovavi una
che non avesse avuto ingiuria alcuna.

XXVIII

Quelle che da dolersi per se stesse
non hanno, sì de l'altre il mal lor pesa,
che non men che sia suo proprio interesse
si duol ciascuna e se ne chiama offesa:
non eran per patir che si dicesse
che l'arte lor non possa far difesa
contra le forze e gli animi arroganti
de' paladini e cavallieri erranti.

XXIX

Tutte per questo (eccettuando solo
Morgana, ch'avea fatto il giuramento
che mai né a viso aperto né con dolo
procacceria ad Orlando nocumento),
quante ne son fra l'uno e l'altro polo,
fra quanto il sol riscalda e affredda il vento,
tutte approvar quel ch'avea Alcina detto,
e tutte instar che se gli desse effetto.

XXX

Poi che Demogorgon, principe saggio,
del gran Consiglio udì tutto il lamento,
disse: — Se dunque è general l'oltraggio,
alla vendetta general consento;
che sia Orlando, sia Carlo, sia il lignaggio
di Francia, sia tutto l'Imperio spento;
e non rimanga segno né vestigi,
né pur si sappia dir: «Qui fu Parigi». —

XXXI

Come nei casi perigliosi spesso
Roma e l'altre republiche fatt'hanno,
c'hanno il poter di molti a un solo cesso,
che faccia sì che non patiscan danno;
così quivi ad Alcina fu commesso
che pensasse qual forza o qual inganno
si avesse a usar; ch'ognuna d'esse presta
avria in aiuto ad ogni sua richiesta.

XXXII

Come chi tardi i suo' denar dispensa,
né d'ogni compra tosto si compiace;
cerca tre volte e più tutta la Sensa,
e va mirando in ogni lato, e tace;
si ferma alfin dove ritrova immensa
copia di quel ch'al suo bisogno face,
e quivi or questa or quella cosa volve,
cento ne piglia, e ancor non si risolve:

XXXIII

questa mette da parte e quella lassa,
e quella che lasciò di nuovo piglia;
poi la rifiuta et ad un'altra passa;
muta e rimuta, e ad una alfin s'appiglia:
così d'alti pensieri una gran massa
rivolge Alcina, e lenta si consiglia;
per cento strade col pensier discorre,
né sa veder ancor dove si porre.

XXXIV

Dopo molto girar, si ferma alfine,
e le par che l'Invidia esser dea quella
che l'alto Impero occidental ruine;
faccia ch'a punto sia come s'appella;
ma di chi dar più tosto l'intestine
a roder debba a questa peste fella,
non sa veder, ne che piaccia più al gusto
creda di lei, che 'l cor di Gano ingiusto.

XXXV

Stato era grande appresso a Carlo Gano
un tempo sì, che alcun non gli iva al paro;
poi con Astolfo quel di Mont'Albano,
Orlando e gli altri che virtù mostraro
contra Marsiglio e contra il re africano,
fér sì che tanta altezza gli levaro;
onde il meschin, che di fumo e di vento
tutto era gonfio, vivea mal contento.

XXXVI

Gano superbo, livido e maligno
tutti i grandi appo Carlo odiava a morte;
non potea alcun veder, che senza ordigno,
senza opra sua si fosse acconcio in corte:
sì ben con umil voce e falso ghigno
sapea finger bontade, et ogni sorte
usar d'ippocrisia, che chi i costumi
suoi non sapea, gli porria a' piedi i lumi.

XXXVII

Poi, quando si trovava appresso a Carlo
(ché tempo fu ch'era ogni giorno seco),
rodea nascosamente come tarlo,
dava mazzate a questo e a quel da cieco:
sì raro dicea il vero, e sì offuscarlo
sapea, che da lui vinto era ogni Greco.
Giudicò Alcina, com'io dissi, degno
cibo all'Invidia il cor di vizi pregno.

XXXVIII

Fra i monti inaccessibili d'Imavo,
che 'l ciel sembran tener sopra le spalle,
fra le perpetue nevi e 'l ghiaccio ignavo
discende una profonda e oscura valle
donde da un antro orribilmente cavo
all'Inferno si va per dritto calle:
e questa è l'una de le sette porte
che conducono al regno de la Morte.

XXXIX

Le vie, l'entrate principal son sette,
per cui l'anime van dritto all'Inferno;
altre ne son, ma tòrte, lunghe e strette,
come quella di Tenaro e d'Averno:
questa de le più usate una si mette,
di che la infame Invidia have il governo:
a questo fondo orribile si cala
sùbito Alcina, e non vi adopra scala.

XL

S'accosta alla spelunca spaventosa,
e percuote a gran colpo con un'asta
quella ferrata porta, mezzo rósa
da' tarli e da la rugine più guasta.
L'Invidia, che di carne venenosa
allora si pascea d'una cerasta,
levò la bocca alla percossa grande
da le amare e pestifere vivande.

XLI

E di cento ministri ch'avea intorno,
mandò senza tardar uno alla porta;
che, conosciuta Alcina, fa ritorno
e di lei nuova indietro le rapporta.
Quella pigra si leva, e contra il giorno
le vien incontra, e lascia l'aria morta;
ché 'l nome de le Fate sin al fondo
si fa temer del tenebroso mondo.

XLII

Tosto che vide Alcina così ornata
d'oro e di seta e di ricami gai
(ché riccamente era vestir usata,
né si lasciò non culta veder mai),
con guardatura oscura e avenenata
gli lividi occhi alzò, piena di guai;
e féro il cor dolente manifesto
i sospiri ch'uscian dal petto mesto.

XLIII

Pallido più che bosso, e magro e afflitto,
arido e secco ha il dispiacevol viso;
l'occhio, che mirar mai non può diritto;
la bocca, dove mai non entra riso,
se non quando alcun sente esser proscritto,
del stato espulso, tormentato e ucciso
(altrimenti non par ch'unqua s'allegri);
ha lunghi i denti, rugginosi e negri.

XLIV

— O delli imperatori imperatrice, —
cominciò Alcina — o de li re regina,
o de' principi invitti domitrice,
o de' Persi e Macedoni ruina,
o del romano e greco orgoglio ultrice,
o gloria a cui null'altra s'avicina,
né serà mai per appressarsi s'anco
il fasto levi all'alto Impero franco;

XLV

una vil gente che fuggì da Troia
sin all'alte paludi de la Tana,
dove ai vicini così venne a noia
che la spinser da sé tosto lontana;
e quindi ancora in ripa alla Danoia
cacciata fu da l'aquila romana;
et indi al Reno, ove in discorso d'anni
entrò con arte in Francia e con inganni:

XLVI

dove aiutando or questo or quel vicino
incontra agli altri, e poi, con altro aiuto,
questi ch'ora gli avea dato il domino
scacciando, a parte a parte ha il tutto avuto,
finché il nome regal levò Pipino
al suo signor, poco all'incontro astuto.
Or Carlo suo figliuol l'Imperio regge,
e dà all'Europa e a tutto il mondo legge.

XLVII

Puoi tu patir che la già tante volte
di terra in terra discacciata gente,
a cui le sedie or questi or quelli han tolte,
né lasciato in riposo lungamente;
puoi tu patir ch'or signoreggi molte
provincie, e freni omai tutto 'l Ponente,
e che da l'Indo all'onde maure estreme
la terra e il mar al suo gran nome treme?

XLVIII

Alle mortal grandezze un certo fine
ha Dio prescritto, a cui si può salire;
che, passandol, serian come divine,
il che natura o il ciel non può patire;
ma vuol che giunto a quel, poi si decline.
A quello è giunto Carlo, se tu mire.
Or questa ogni tua gloria antiqua passa,
se tanta altezza per tua man s'abbassa. —

XLIX

E seguitò mostrando altra cagione
ch'avea di farlo, e mostrò insieme il modo;
però ch'avria un gran mezo, Ganelone,
d'ogni inganno capace e d'ogni frodo:
poi le soggiunse che d'obligazione,
facendol, le porrebbe al cor un nodo
in suoi servigi sì tenace e forte,
che non lo potria sciòrre altro che morte.

L

Al detto de la fata, brevemente
diè l'Invidia risposta, che farebbe.
Gli suoi ministri ha separatamente,
che ciascun sa per sé quel che far debbe:
tutti hanno impresa di tentar la gente;
ognun guadagnar anime vorrebbe:
stimula altri i signori, altri i plebei;
chi fa gli vecchi e chi i fanciulli rei.

LI

E chi gli cortigiani e chi gli amanti,
e chi gli monachetti e i loro abbati:
quei che le donne tentano son tanti,
che seriano a fatica noverati.
Ella venir se li fe' tutti innanti,
e poi che ad un ad un gli ebbe mirati,
stimò sé sola a sì importante effetto
sufficiente, e ciascun altro inetto.

LII

E de' suoi brutti serpi venenosi
fatto una scelta, in Francia corre in fretta,
e giunger mira in tempo ch'ai focosi
destrieri il fren la bionda Aurora metta,
allor ch'i sogni men son fabulosi,
e nascer veritade se n'aspetta:
con nuovo abito quivi e nuove larve
al conte di Maganza in sogno apparve.

LIII

Le fantastiche forme seco tolto
l'Invidia avendo, apparve in sogno a Gano;
e gli fece veder tutto raccolto
in larga piazza il gran popul cristiano,
che gli occhi lieti avea fissi nel volto
d'Orlando e del signor di Mont'Albano,
ch'in veste trionfal, cinti d'alloro,
sopra un carro venian di gemme e d'oro.

LIV

Tutta la nobiltà di Chiaramonte
sopra bianchi destrier lor venìa intorno:
ognun di lauro coronar la fronte,
ognun vedea di spoglie ostili adorno;
e la turba con voci a lodar pronte
gli parea udir, che benediva il giorno
che, per far Carlo a null'altro secondo,
la valorosa stirpe venne al mondo.

LV

Poi di veder il populo gli è aviso,
che si rivolga a lui con grand'oltraggio,
e dir si senta molta ingiuria in viso,
e codardo nomar, senza coraggio;
e con batter di man, sibilo e riso,
s'oda beffar con tutto il suo lignaggio;
né quei di Chiaramonte aver più loda,
che gli suoi biasmo, par che vegga et oda.

LVI


In questa vision l'Invidia il core
con man gli tocca più fredda che neve;
e tanto spira in lui del suo furore,
che 'l petto più capir non può, né deve.
Al cor pon delle serpi la piggiore,
un'altra onde l'udita si riceve,
la terza agli occhi; onde di ciò che pensa,
di ciò che vede et ode ha doglia immensa.

LVII

De l'aureo albergo essendo il Sol già uscito,
lasciò la visione e il sonno Gano,
tutto pien di dolor dove sentito
toccar s'avea con la gelata mano.
Ciò che vide dormendo gli è scolpito
già ne la mente, e non l'estima vano;
non false illusion, ma cose vere
gli par che gli abbia Dio fatto vedere.

LVIII

Da quell'ora il meschin mai più riposo
non ritrovò, non ritrovò più pace:
da l'occulto venen il cor gli è roso,
che notte e giorno sospirar lo face:
gli par che liberale e grazioso
sia a tutti gli altri, et a nessun tenace,
se non a' Maganzesi, il re di Francia;
fuor che la lor premiata abbia ogni lancia.

LIX

Già fuor di tende, fuor de padiglioni
in Parigi tornata era la corte,
avendo Carlo i principi e baroni
e tutti i forestier di miglior sorte
fatto, con gran proferte e ricchi doni,
contenti accompagnar fuor de le porte;
e tra' più arditi cavallier del mondo
stava a goder il suo stato giocondo.

VIII

E come saggio padre di famiglia
la sera dopo le fatiche a mensa
tra gli operari con ridenti ciglia
le giuste parti a questo e a quel dispensa;
così, poi che di Libia e di Castiglia
spentasi intorno avea la face accensa,
rendea a signori e cavallieri merto
di quanto in armi avean per lui sofferto.

LXI

A chi collane d'oro, a chi vasella
dava d'argento, a chi gemme di pregio;
cittadi aveano alcuni, altri castella:
ordine alcun non fu, non fu collegio,
borgo, villa né tempio né capella,
che non sentisse il beneficio regio:
e per dieci anni fe' tutte le genti
ch'avean patito dai tributi esenti.

LXII

A Rinaldo il governo di Guascogna
diede, e pension di molti mila franchi;
tre castella a Olivier donò in Borgogna,
che del suo antiquo stato erano a' fianchi;
donò ad Astolfo in Picardia Bologna;
non vi dirò ch'al suo nipote manchi:
diede al nipote principe d'Anglante
Fiandra in governo, e donò Bruggia e Guante;

LXIII

e promesse lo scettro e la corona,
poi che n'avesse il re Marsiglio spinto,
del regno di Navara e di Aragona,
la qual impresa allor era in procinto.
Ebbe la figlia d'Amon di Dordona
da quello del fratel dono distinto:
le diè Carlo in dominio quel che darle
in governo solea: Marsiglia et Arle.

LXIV

In somma, ogni guerrier d'alta virtute,
chi città, chi castella ebbe, e chi ville.
A Maifisa e a Ruggier fur provedute
larghe provisioni a mille a mille.
Se da lo imperator le grazie avute
tutte ho a notar, farò troppe postille:
nessun, vi dico, o in commune o in privato, .
partì da lui che non fosse premiato.

LXV

Né feudi nominando né livelli,
fur senza obligo alcun liberi i doni;
acciò il non sciorre i canoni di quelli
o non ne tòrre a' tempi investigioni,
potesse gli lor figli o gli fratelli,
gli eredi far cader di sue ragioni:
liberi furo e veri doni, e degni
d'un re che degno era d'imperio e regni.

LXVI

Or, sopra gli altri, quei di Chiaramonte
nei real doni avean tanto vantaggio,
che sospirar facean dì e notte il conte
Gan di Maganza, e tutto il suo lignaggio:
come gli onori d'un fossero l'onte
de l'altra parte, lor pungea il coraggio;
e questa invidia all'odio, e l'odio all'ira,
e l'ira alfine al tradimento il tira.

LXVII

E perché, d'astio e di veneno pregno,
potea nasconder mal il suo dispetto,
e non potea non dimostrar lo sdegno
che contra il re per questo avea concetto;
e non men per fornir alcun disegno
ch'in parte ordito, in parte avea nel petto,
finse aver voto, e ne sparse la voce,
d'ire al Sepolcro e al monte della Croce:

LXVIII

et era il suo pensiero ire in Levante
a ritrovar il calife d'Egitto,
col re de la Soria poco distante;
e più sicuro a bocca che per scritto
trattar con essi, che le terre sante
dove Dio visse in carne e fu traffitto,
o per fraude o per forza da le mani
fosser tolte e dal scettro de' Cristiani.

XIX

Indi andar in Arabia avea disposto,
e far scender quei populi all'acquisto
d'Africa, mentre Carlo era discosto,
e di gente il paese mal provisto.
Già inanzi la partita avea composto
che Desiderio al vicario di Cristo,
Tassillo a Francia, e a Scozia e ad Inghelterra
avesse il re di Dazia a romper guerra;

LXX

e che Marsilio armasse in Catalogna,
e scendesse in Provenza e in Acquamorta,
e con un altro esercito in Guascogna
corresse a Mont'Alban fin su la porta;
egli Maganza, Basilea, Cologna,
Costanza et Aquisgrana, che più importa,
promettea far ribelle a Carlo, e in meno
d'un mese tòrli ogni città del Reno.

LXXI

Or fattasi fornir una galea
di vettovaglia, d'armi e di compagni,
poi che licenza dal re tolto avea
uscì del porto e dei sicuri stagni.
Restar a dietro, anzi fuggir parea
il lito, et occultar tutti i vivagni:
indi l'Alpe a sinistra apparea lunge,
ch'Italia in van da' Barbari disgiunge;

LXXII

indi i monti Ligustici, e riviera
che con aranzi e sempre verdi mirti
quasi avendo perpetua primavera,
sparge per l'aria i bene olenti spirti.
Volendo il legno in porto ir una sera
(in qual a punto io non saprei ben dirti),
ebbe un vento da terra in modo all'orza
ch'in mezo il mar lo fe' tornar per forza.

VLXXIII

Il vento tra maestro e tramontana,
con timor grande e con maggior periglio,
tra l'oriente e mezodì allontana
sei dì senza allentarsi unqua il naviglio.
Fermòssi al fine ad una spiaggia strana,
tratto da forza più che da consiglio,
dove un miglio discosto da l'arena
d'antique palme era una selva amena:

LXXIV

che per mezo da un'acqua era partita
di chiaro fiumicel, fresco e giocondo,
che l'una e l'altra proda avea fiorita
dei più soavi odor che siano al mondo.
Era di là dal bosco una salita
d'un picciol monticel quasi rotondo,
sì facile a montar, che prima il piede
d'aver salito, che salir si vede.

LXXV

D'odoriferi cedri era il bel colle
con maestrevole ordine distinto;
la cui bell'ombra al sol sì i raggi tolle,
ch'al mezodì dal rezzo è il calor vinto.
Ricco d'intagli, e di soave e molle
getto di bronzo, e in parti assai dipinto,
un lungo muro in cima lo circonda,
d'un alto e signoril palazzo sponda.

LXXVI

Gano, che di natura era bramoso
di cose nuove, e dal bisogno astretto
(che già tutto il biscotto aveano roso),
de' suoi compagni avendo alcuno eletto,
si mise a caminar pel bosco ombroso,
tra via prendendo d'ascoltar diletto
da' rugiadosi rami d'arbuscelli
il piacevol cantar de' vaghi augelli.

LXXVII

Tosto ch'egli dal mar si pose in via
e fu scoperto dal luogo eminente,
diversa e soavissima armonia
da l'alta casa insino al lito sente:
non molto va, che bella compagnia
truova di donne, e dietro alcun sergente
che palafreni vuoti avean con loro,
altri di seta altri guarniti d'oro;

LXXVIII

che con cortesi e belli inviti fenno
Gano salir, e chi venìa con lui.
Con pochi passi fine alla via denno
le donne e i cavallieri, a dui a dui.
L'oro di Creso, l'artificio e 'l senno
d'Alberto, di Bramanti, di Vitrui,
non potrebbono far, con tutto l'agio
di ducent'anni, un così bel palagio.

LXXIX

E dai demoni tutto in una notte
lo fece far Gloricia incantatrice,
ch'avea l'esempio nelle idee incorrotte
d'un che Vulcano aver fatto si dice;
del qual restaro poi le mura rotte
quel dì che Lenno fu da la radice
svelta, e gettata con Cipro e con Delo
dai figli de la Terra incontra il cielo.

LXXX

Tenea Gloricia splendida e gran corte,
non men ricca d'Alcina o di Morgana;
né men d'esse era dotta in ogni sorte
d'incantamenti inusitata e strana;
ma non, com'esse, pertinace e forte
ne l'altrui ingiurie, anzi cortese e umana,
né potea al mondo aver maggior diletto
che onorar questo e quel nel suo bel tetto.

LXXXI

Sempre ella tenea gente alla veletta,
a' porti et all'uscita de le strade,
che con inviti i pellegrini alletta
venir a lei da tutte le contrade.
Con gran splendor il suo palazzo accetta
poveri e ricchi e d'ogni qualitade;
e il cor de' viandanti con tai modi
nel suo amor lega d'insolubil nodi.

LXXXII

E come avea di accarezar usanza
e di dar a ciascun debito onore,
fece accoglienza al conte di Maganza
Gloricia, quanto far potea maggiore;
e tanto più, che ben sapea ad instanza
d'Alcina esser qui giunto il traditore:
ben sapeva ella, ch'avea Alcina ordito
che capitasse Gano a questo lito.

LXXXIII

Ell'era stata in India al gran Consiglio
dove l'alto esterminio fu concluso
d'ogni guerriero ubidiente al figlio
del re Pipino; e nessun era escluso,
eccetto il Maganzese, il cui consiglio,
il cui favor stimar atto a quell'uso:
dunque, a lui le accoglienze e' modi grati
che quivi gli altri avean, fur radoppiati.

LXXXIV

Gloricia Gano, com'era commesso
da chi fatto l'avea cacciar dai venti,
acciò quindi ad Alcina sia rimesso
tra'Sciti e l'Indi ai suoi regni opulenti,
fa la notte pigliar nel sonno oppresso,
e gli compagni insieme e gli sergenti.
Così far quivi agli altri non si suole,
ma dar questo vantaggio a Gano vuole.

LXXXV

E benché, più che onor, biasmo si tegna
pigliar in casa sua ch'in lei si fida,
et a Gloricia tanto men convegna,
che fa del suo splendor sparger le grida;
pur non le par che questo il suo onor spegna:
ché tòrre al ladro e uccider l'omicida
tradir il traditor, ha degni esempi,
ch'anco si pon lodar, secondo i tempi.

LXXXVI

Quando dormia la notte più suave,
Gano e i compagni suoi tutti fur presi,
e serrati in un ceppo duro e grave,
l'un presso all'altro, trenta Maganzesi.
Gloricia in terra disegnò una nave
capace e grande con tutt'i suo' arnesi,
e fece gli pregion legare in quella,
sotto la guardia d'una sua donzella.

LXXXVII

Sparge le chiome, e qua e là si volve
tre volte e più, fin che mirabilmente
la nave ivi dipinta ne la polve
da terra si levò tutta ugualmente.
La vela al vento la donzella solve,
per incanto allor nata parimente;
e verso il ciel ne va, come per l'onda
suol ir nocchier che l'aura abbia seconda.

LXXXVIII

Gano e i compagni, che per l'aria tratti
da terra si vedean tanto lontani,
com'assassini istranamente attratti
nel lungo ceppo per piedi e per mani,
tremando di paura, e stupefatti
di maraviglia de' lor casi strani,
volavan per Levante in sì gran fretta
che non gli avrebbe giunti una saetta.

LXXXIX

Lasciando Ptolomaide e Berenice
e tutt'Africa dietro, e poi l'Egitto,
e la deserta Arabia e la felice,
sopra il mar Eritreo fecion traghitto.
Tra Persi e Medi, e là dove si dice
Batra, passan, tenendo il corso dritto
tuttavia fra oriente e tramontana,
e lascian Casia a dietro e Sericana.

XC

E sì come aveduti eran da molti,
di sé davano a molti maraviglia:
facean tener levati al cielo i volti
con occhi immoti e con arcate ciglia.
Vedendoli passar alcuni stolti
da terra alti lo spazio di due miglia,
e non potendo ben scorgere i visi,
ebbon di lor diversi e strani avisi.

XCI

Alcuni imaginar che di Carone,
lo nocchiero infernal, fosse la barca,
che d'anime dannate a perdizione
alla via di Cocito andasse carca.
Altri diceano, d'altra opinione:
— Questa è la santa nave ch'al ciel varca,
che Pietro tol da Roma, acciò ne l'onde
di stupri e simonie non si profonde. —

XCII

Et altra cosa altri dicean dal vero
molto diversa e senza fin remota.
Passava intanto il navilio leggiero
per la contrada a' nostri poco nota,
fra l'India avendo e Tartaria il sentiero,
quella di città piena e questa vuota,
fin che fu sopra la bella marina
ch'ondeggia intorno all'isola d'Alcina.

XCIII

Ne la città d'Alcina, nel palagio,
dentro alle logge la donzella pose
la nave, e tutti li prigioni adagio,
e l'ambasciata di Gloricia espose.
Nei ceppi, come stavano, a disagio
Alcina in una torre al sol ascose
i Maganzesi, avendo riferite
del dono a chi 'l donò grazie infinite.

XCIV

La sera fuor di carcere poi Gano
fe' a sé condurre, e a ragionare il messe
de lo stato di Francia e del romano,
di quel che Orlando e che Ruggier facesse.
Ebbe l'astuto conte chiaro e piano
quanto la donna Carlo in odio avesse,
Ruggiero, Orlando e gli altri; e tosto prese
l'util partito, et a salvarsi attese.

XCV

— S'aver, donna, volete ognun nimico, —
disse — che de la corte sia di Carlo,
me in odio avrete ancora, ché 'l mio antico
seggio è tra' Franchi, e non potrei negarlo;
ma se più tosto odiate chi gli è amico
e di sua volontà vuol seguitarlo,
me non avrete in odio, ch'io non l'amo,
ma il danno e biasmo suo più di voi bramo.

XCVI

E s'ebbe alcun mai da bramar vendetta
di tiranno che gli abbia fatt'oltraggio,
bramar di Carlo e di tutta sua setta
vendetta inanzi a tutti i sudditi aggio;
come di re da cui sempre negletta
la gloria fu di tutto il mio lignaggio,
e che, per sempre al cor tenermi un telo,
con favor alza i miei nimici al cielo.

XCVII

Il mio figliastro Orlando, che mia morte
procurò sempre e ad altro non aspira,
contra me mille volte ha fatto forte;
per lui m'ha mille volte avuto in ira:
Rinaldo, Astolfo et ogni suo consorte
di giorno in giorno a maggior grado tira;
tal che sicuro, per lor gran possanza,
non che in corte non son, ma né in Maganza.

XCVIII

Or, per maggior mio scorno, un fuggitivo
del sfortunato figlio di Troiano,
Ruggier, che m'ha un fratel di vita privo
et un nipote con la propria mano,
tiene in più onor che mai non fu Gradivo
Marte tenuto dal popul romano:
tal che levato indi mi son, con tutto
il sangue mio, per non restar distrutto.

XCIX

Se me e quest'altri ch'avete qui meco,
che sono il fior di casa da Pontiero,
uccidete o dannate a carcer cieco,
di perpetuo timor sciolto è l'Impero;
ch'ogni nimico suo ch'abbia noi seco
per noi può entrar in Francia di leggiero;
ché ci avemo la parte in ogni terra,
fortezze e porti e luoghi atti a far guerra. —

C

E seguitò il parlar astuto e pieno
di gran malizia, sempre mai toccando
quel che vedea di gaudio empirle il seno,
che le vuol dar Ruggier preso et Orlando.
Alcina ascolta, e ben nota il veleno
che l'Invidia in lui sparse ir lavorando:
commanda allora allora che sia sciolto,
e sia con tutti i suoi di prigion tolto.

CI

Volse che poi le promettesse Gano,
con giuramenti stretti e d'orror pieni,
di non cessar, fin che legato in mano
Ruggier col suo figliastro non le meni:
ma per poter non darli impresa in vano,
oltr'oro e gemme e aiuti altri terreni
promise ella all'incontro di far quanto
potea sopra natura oprar l'incanto.

CII

E gli diè ne la gemma d'uno anello
un di quei spirti che chiamiam folletti,
che gli ubedisca, e così possa avello
com un suo servitor de' più soggetti:
Vertunno è il nome, che in fiera, in ucello,
in uomo, in donna e in tutti gli altri aspetti,
in un sasso, in un'erba, in una fonte
mutar vedrete in un chinar di fronte.

CIII

Or perché Malagigi non aiuti,
com'altre volte ha fatto, i Paladini,
gli spiriti infernal tutti fe' muti,
gli terrestri, gli aérii e gli marini;
eccetto alcuni pochi c'ha tenuti
per uso suo, non franchi né latini,
ma di lingua dagli altri sì rimota
ch'a nigromante alcun non era nota.

CIV

Quel ch'alla fata il traditor promise,
promiser gli altri ancor ch'eran con lui.
Fermato il patto, Gano si rimise
nel fantastico legno con gli sui.
Il vento, come Alcina gli commise,
fra i lucidi Indi e gli Cimerii bui
soffiando, ferì in guisa ne l'antenna,
ch'in aria alzò la nave come penna.

CV

Né, men che ratto, lo portò quieto
per la medesma via che venut'era;
sì che, fra spazio di sett'ore, lieto
si ritrovò ne la sua barca vera,
di pan, di vin, di carne e infin d'aceto
fornita e d'insalata per la sera:
fe' dar le vele al vento, e venne a filo
ad imboccar sott'Alessandria il Nilo.

CVI

E già da l'armiraglio avendo avuto
salvocondotto, al Cairo andò diritto,
con duo compagni, in un legno minuto,
secretamente, e in abito di Egitto.
Dal calife per Gano conosciuto,
ché molte volte inanzi s'avean scritto,
fu di carezze sì pieno e d'onore,
che ne scoppiò quasi il ventoso core.

CVII

In questo mezo che l'Invidia ascosa
il traditor rodea di chi io vi parlo,
come l'altrui bontà fu da lui rosa,
ché poco dianzi il simigliavo a un tarlo;
ira, odio, sdegno, amor facea angosciosa
Alcina, e un fier disio di strugger Carlo;
e quanto più credea di farlo in breve,
tant'ogn'indugio le parea più greve.

CVIII

Il conte di Pontier le avea narrato
che, prima che di Francia si partisse,
da lui fu Desiderio confortato,
per ambasciate e lettere che scrisse,
che con Tedeschi et Ungheri da un lato,
che facil fòra che a sue genti unisse,
saltasse in Francia; e che Marsiglio ispano
saltar faria da l'altro, e l'Aquitano.

CIX

E che quel glien'avea dato speranza;
poi venia lento a metterla in effetto,
o che tema di Carlo la possanza,
o sia mal di sua lega il nodo astretto.
Alcina, che si mor di desianza
di por Francia e l'Impero in male assetto,
adopra ogni saper, ogni suo ingegno,
per dar colore a così bel disegno.

CX

Et è bisogno al fin ch'ella ritruovi,
per far muover di passo il Longobardo,
sproni che siano aguzzi più che chiovi:
tanto le par a questa impresa tardo!
E come fece far disegni nuovi
dianzi l'Invidia a quel cochin pagliardo,
così spera trovar un'altra peste
che 'l pigro re de la sua inerzia deste.

CXI

Conchiuse che nessuna era meglio atta
a stimularlo e far più risentire,
d'una che nacque quando anco la matta
Crudeltà nacque, e le Rapine e l'Ire.
Che nome avesse e come fosse fatta,
ne l'altro Canto mi riserbo a dire,
dove farò, per quanto è mio potere,
cose sentir maravigliose e vere.



CANTO SECONDO


I

Pensar cosa miglior non si può al mondo,
d'un signor giusto e in ogni parte buono,
che del debito suo non getti il pondo,
benché talor ne vada curvo e prono;
che curi et ame i populi, secondo
che da' lor padri amati i figli sono;
che l'opre e le fatiche pei figliuoli
fan quasi sempre, e raro per sé soli:

II

ponga ai perigli et alle cose strette
il petto inanzi, e faccia agli altri schermo:
che non sia il mercenario il qual non stette,
poi che venir vide a sé il lupo, fermo;
ma sì bene il pastor vero, che mette
la vita propria pel suo gregge infermo,
il qual conosce le sue pecorelle
ad una ad una, e lui conoscono elle.

III

Tal fu in terra Saturno, Ercole e Giove,
Bacco, Poluce, Osiri e poi Quirino,
che con giustizia e virtuose prove,
e con soave e a tutti ugual domino,
fur degni in Grecia, in India, in Roma, e dove
corse lor fama, aver onor divino;
che riputar non si potrian defunti,
ma a più degno governo in cielo assunti.

IV

Quando il signor è buono, i sudditi anco
fa buoni; ch'ognun imita chi regge:
e s'alcun pur riman col vizio, manco
lo mostra fuor, o in parte lo corregge.
O beati gli regni a chi un uom franco
e sciolto da ogni colpa abbi a dar legge!
Così infelici ancora e miserandi,
ove un ingiusto, ove un crudel commandi;

V

che sempre accresca e più gravi la soma,
come in Italia molti a' giorni nostri,
de' quali il biasmo in questo e l'altro idioma
faran sentir anco i futuri inchiostri:
che migliori non son che Gaio a Roma,
o Neron fosse, o fosser gli altri mostri:
ma se ne tace, perché è sempre meglio
lasciar i vivi, e dir del tempo veglio.

VI

E dir qual sotto Fallari Agrigento,
qual fu sotto i Dionigi Siracusa,
qual Fere in man del suo tiran cruento;
dai quali e senza colpa e senza accusa
la gente ogni dì quasi a cento a cento
era troncata, o in lungo esiglio esclusa.
Ma né senza martìr sono essi ancora,
ch'al cor lor sta non minor pena ognora.

VII

Sta lor la pena de la qual si tacque
il nome dianzi, e de la qual dicea
che nacque quando la brutt'Ira nacque,
la Crudeltade e la Rapina rea:
e quantunque in un ventre con lor giacque,
di tormentarle mai non rimanea.
Or dirò il nome, ch'io non l'ho ancor detto:
nomata questa pena era il Sospetto.

VIII

Il Sospetto, piggior di tutti i mali,
spirto piggior d'ogni maligna peste
che l'infelici menti de' mortali
con venenoso stimolo moleste;
non le povere o l'umili, ma quali
s'aggiran dentro alle superbe teste
di questi scelerati, che per opra
di gran fortuna agli altri stan di sopra.

IX

Beato chi lontan da questi affanni
nuoce a nessun, perché a nessun è odioso!
Infelici altretanto e più i tiranni,
a cui né notte mai né dì riposo
dà questa peste, e lor ricorda i danni,
e morti date od in palese o ascoso!
Quinci dimostra che timor sol d'uno
han tutti gli altri, et essi n'han d'ognuno.

X

Non v'incresca di starmi un poco a udire,
ché non però dal mio sentier mi scosto;
anzi farò questo ch'or narro uscire
dove poi vi parrà che sia a proposto.
Uno di questi, il qual prima a nudrire
usò la barba, per tener discosto
chi gli potea la vita a un colpo tòrre,
nel suo palazzo edificò una torre,

XI

che, d'alte fosse cinta e grosse mura,
avea un sol ponte che si leva e cala;
fuor ch'un balcon, non v'era altra apertura,
ove a pena entra il giorno e l'aria esala:
quivi dormia la notte, et era cura
de la moglier di mandar giù la scala:
di quella entrata è un gran mastin custode,
ch'altri mai che lor due non vede et ode.

XII

Non ha ne la moglier però sì grande
fede il meschin, che prima ch'a lei vada,
quand'uno e quando un altro suo non mande,
che cerchi i luoghi onde a temer gli accada.
Ma ciò poco gli val, ché le nefande
man de la donna, e la sua propria spada,
fér d'infinito mal tarda vendetta,
e all'inferno volò il suo spirto in fretta.

XIII

E Radamanto, giudice del loco,
tutto il cacciò sotto il bollente stagno,
dove non pianse e non gridò: — I' mi cuoco —,
come gridava ogn'altro suo compagno;
e la pena mostrò curar sì poco,
che disse il giustiziere: — Io te la cagno —;
e lo mandò ne le più oscure cave,
dov'è un martìr d'ogni martìr più grave.

XIV

Né quivi parve ancor che si dogliesse;
e domandato, disse la cagione:
che quando egli vivea, tanto l'oppresse
e tal gli diè il Sospetto afflizione
(che nel capo quel giorno se gli messe,
che si fece signor contra ragione),
che sol ora il pensar d'esserne fuore
sentir non gli lasciava altro dolore.

XV

Si consigliaro i saggi de l'inferno
come potesse aver degno tormento;
che saria contra l'instituto eterno
se peccator là giù stesse contento;
e di nuovo mandarlo al caldo, al verno
concluso fu da tutto il parlamento;
e di nuovo al Sospetto in preda darlo,
ch'entrasse in lui senza più mai lasciarlo.

XVI

Così di novo entrò il Sospetto in questa
alma, e di sé e di lei fece tutt'uno,
come in ceppo salvatico s'inesta
pomo diverso, e 'l nespilo sul pruno;
o di molti colori un color resta,
quando un pittor ne piglia di ciascuno
per imitar la carne, e ne riesce
un differente a tutti quei che mesce.

XVII

Di sospettoso che 'l tiràn fu in prima,
or divenuto era il Sospetto istesso;
e, come morte la ragion di prima
avesse in lui, gli parea averla appresso.
Ma ritornando al mio parlar di prima,
ché per questo in oblio non l'avea messo,
Alcina se ne va dove sul tergo
d'un alto scoglio ha questo spirto albergo.

XVIII

Lo scoglio ove 'l Sospetto fa soggiorno
è dal mar alto da seicento braccia,
di rovinose balze cinto intorno,
e da ogni canto di cader minaccia.
Il più stretto sentier che vada al Forno,
là dove il Grafagnino il ferro caccia,
la via Flamminia o l'Appia nomar voglio
verso quel che dal mar va in cima al scoglio.

XIX

Prima che giunghi alla suprema altezza,
sette ponti ritrovi e sette porte:
tutte hanno con lor guardie una fortezza;
la settima de l'altre è la più forte.
Là dentro, in grande affanno e in gran tristezza,
ché gli par sempre a' fianchi aver la morte,
il Sospetto meschin solo s'annida;
nessun vuol seco e di nessun si fida.

XX

Grida da' merli e tien le guardie deste,
né mai riposa al sol né al cielo oscuro;
e ferro sopra ferro e ferro veste:
quanto più s'arma, è tanto men sicuro.
Muta et accresce or quelle cose or queste
alle porte, al serraglio, al fosso, al muro:
per darne altrui, munizion gli avanza;
e non gli par che mai n'abbia a bastanza.

XXI

Alcina, che sapea ch'indi il Sospetto
né a prieghi né a minacce vorria uscire,
e trarlone era forza al suo dispetto,
tutto pensò ciò che potea seguire.
Avea seco arrecato a questo effetto
l'acqua del fiume che fa l'uom dormire,
et entrando invisibil ne la rocca,
con essa ne le tempie un poco il tocca.

XXII

Quel cade addormentato; Alcina il prende,
e scongiurando gli spirti infernali
fa venir quivi un carro, e su vel stende,
che tiran duo serpenti c'hanno l'ali;
poi verso Italia in tanta fretta scende,
che con la più non van di Giove i strali.
La medesima notte è in Lombardia,
in ripa di Ticin dentro a Pavia:

XXIII

là dove il re de' Longobardi allora
l'antiquo seggio, Desiderio, avea.
Nel ciel oriental sorgea l'aurora
quando perdé il vigor l'acqua letea:
lasciò il sonno il Sospetto; e quel, che fuora
e lontan dal castel suo si vedea,
morto saria, se non fosse già morto;
ma la fata ebbe presta al suo conforto.

XXIV

Gli promesse ella indietro rimandarlo
senza alcun danno; e in guisa gli promesse,
che poté in qualche parte assicurarlo,
non sì però ch'in tutto le credesse;
ma prima in Desiderio, che di Carlo
temea le forze, entrasse gli commesse,
e che non se gli levi mai del seno
fin che tutto di sé non l'abbia pieno.

XXV

Mentre fu Carlo i giorni inanzi astretto
dal re d'Africa a un tempo e da Marsiglio,
il re de' Longobardi, per negletto
e per perduto avendo posto il giglio,
non curando né papa né interdetto
alla Romagna avea dato di piglio;
po' entrando ne la Marca, con battaglia
e Pesaro avea preso e Sinigaglia.

XXVI

Indi sentendo ch'era il foco spento,
morto Agramante e il re Marsiglio rotto,
de la temerità sua mal contento
si riputò a mal termine condotto.
Or viene Alcina, e accresceli tormento:
ché fa 'l rio spirto entrar in lui di botto,
che notte e dì l'afflige, crucia et ange,
e più che sopra un sasso in letto il frange.

XXVII

Gli par veder che lassi il Reno e l'Erra
il popul già troiano e poi sicambro,
et apra l'Alpi e scenda ne la terra
che riga il Po, l'Ada, il Ticino e l'Ambro:
veder s'aspetta in casa sua la guerra,
e sua ruina più chiara che un ambro;
né più certo rimedio al suo mal truova,
che contra Francia ogni vicin commova.

XXVIII

E come quel che gran tesori uniti
avea d'esazioni e di rapine,
et avea i sacri argenti convertiti
in uso suo da le cose divine;
con doni e con proferte e gran partiti
colligò molte nazion vicine,
come già il conte di Pontier gli scrisse
prima che da la corte si partisse.

XXIX

Tutta avea Gano questa tela ordita,
che 'l Longobardo dovea tesser poi;
e quella poi non era oltre seguita,
e fin qui stava ne' principii suoi.
Or la mente, d'un stimolo ferita
piggior di quel che caccia asini e buoi,
conchiuse e fece nascer com'un fungo
quel che più giorni avea menato in lungo.

XXX

Fe' in pochi dì che Tassillone, ch'era
suo genero e cugin del duca Namo,
tutta la stirpe sua fuor di Bavera
cacciò, senza lasciarvene un sol ramo:
fe' similmente ribellar la fera
Sansogna, e ritornar a re Gordamo;
e trasse, per por Carlo in maggior briga,
con gli Ungheri Boemi in una liga;

XXXI

e 'l re di Dazia e il re de le due Marche
pór tra la Frisa e il termine d'Olanda
tante fuste, galee, carache e barche,
per gir ne l'Inghilterra e ne l'Irlanda,
che per fuggir avean le some carche
molte terre da mar da quella banda.
Da un'altra parte si sentiva il vecchio
nimico in Spagna far grande apparecchio.

XXXII

Tutto seguì ciò ch'avea ordito Gano,
ch'era d'insidie e tradimenti il padre.
Fu suscitato Unnuldo l'aquitano
a soldar genti faziose e ladre:
mettendo terre a sacco, capitano
di ventura era detto da le squadre;
nascosamente da Lupo aiutato,
di Bertolagi di Baiona nato.

XXXIII

Fér queste nove, per diversi avisi
venute, a Carlo abbandonar le feste,
e a donne e a cavallieri i giochi e' risi,
e mutar le leggiadre in scure veste.
De' saccheggiati populi et uccisi
per ferro, fiamme, oppressioni e peste,
le memorie percosse ad ora ad ora
prometteano altrotanto e peggio ancora.

XXXIV

O vita nostra di travaglio piena,
come ogni tua allegrezza poco dura!
Il tuo gioir è come aria serena,
ch'alla fredda stagion troppo non dura:
fu chiaro a terza il giorno, e a vespro mena
sùbita pioggia, et ogni cosa oscura.
Parea ai Franchi esser fuor d'ogni periglio,
morto Agramante e rotto il re Marsiglio;

XXXV

et ecco un'altra volta che 'l ciel tuona
da un'altra parte, e tutto arde de lampi,
sì che ogni speme i miseri abbandona
di poter frutto cor de li lor campi.
E così avvien ch'una novella buona
mai più di venti o trenta dì non campi,
perché vien dietro un'altra che l'uccide;
e piangerà doman l'uom ch'oggi ride.

XXXVI

Per le cittadi uomini e donne errando,
con visi bassi e d'allegrezza spenti,
andavan taciturni sospirando,
né si sentiano ancor chiari lamenti:
qual ne le case attonite avvien, quando
mariti o figli o più cari parenti
si veggon travagliar ne l'ore estreme,
ch'infinito è il timor, poca è la speme.

XXXVII

E quella poca pur spegnere il gelo
vuol de la tema, e dentro il cor si caccia:
ma come può d'un piccolin candelo
fuoco scaldar dov'alta neve agghiaccia?
Chi leva a Dio, chi leva a' Santi in cielo
le palme giunte e la smarrita faccia,
pregandoli che, senza più martìre,
basti il passato a disfogar lor ire.

XXXVIII

Come che il popul timido per tema
disperi, e perda il cor e venga manco,
nel magnanimo Carlo non iscema
l'ardir, ma cresce, e nei paladini anco:
ché la virtù di grande fa suprema,
quanto travaglia più, l'animo franco;
e gloria et immortal fama ne nasce,
che me' d'ogn'altro cibo il guerrier pasce.

XXXIX

Carlo, a cui ritrovar difficilmente,
la terra e 'l mar cercando a parte a parte,
si potria par di santa e buona mente,
e d'ogni finzion netta e d'ogn'arte
(e lasso ancor oltre l'età presente
volgi l'antique e più famose carte);
a Dio raccomandò sé, i figli e il stato,
né più curò ch'esser di fede armato.

XL

Né men saggio che buono, poi ch'avuto
ebbe ricorso alla Maggior Possanza,
che non mancò né mancherà d'aiuto
ad alcun mai che ponga in lei speranza,
fece che, senza indugio, proveduto
fu a tutti i luoghi ov'era più importanza:
gli capitani suoi per ogni terra
mandò a far scelta d'uomini da guerra.

XLI

Non si sentiva allor questo rumore
de' tamburi, com'oggi, andar in volta,
invitando la gente di più core,
o forse (per dir meglio) la più stolta,
che per tre scudi e per prezzo minore
vada ne' luoghi ove la vita è tolta:
stolta più tosto la dirò che ardita,
ch'a sì vil prezzo venda la sua vita.

XLII

Alla vita l'onor s'ha da preporre;
fuor che l'onor non altra cosa alcuna:
prima che mai lasciarti l'onor tòrre
déi mille vite perdere, non ch'una.
Chi va per oro e vil guadagno a porre
la sua vita in arbitrio di fortuna,
per minor prezzo crederò che dia,
se troverà chi compri, anco la mia.

XLIII

O, com'io dissi, non sanno che vaglia
la vita quei che sì l'estiman poco;
o c'han disegno, inanzi alla battaglia,
che 'l piè gli salvi a più sicuro loco.
La mercenaria mal fida canaglia
prezzar li antiqui imperatori poco:
de la lor nazion più tosto venti
volean, che cento di diverse genti.

XLIV

Non era a quelli tempi alcun escluso
che non portasse l'armi e andasse in guerra,
fuor che fanciul da sedici anni in giuso,
o quel che già l'estrema etade afferra:
ma tal milizia solo era per uso
di bisogno e d'onor de la sua terra:
sempre sua vita esercitando sotto
buon capitani, in arme era ognun dotto.

XLV

Carlo per tutta Francia e per la Magna,
per ogni terra a' suoi regni soggetta,
fa scriver gente, e poi la piglia e cagna
secondo che gli par atta et inetta;
sì che fa in pochi giorni alla campagna
un esercito uscir di gente eletta,
da far che Marte fin su nel ciel treme,
non che a' nimici l'impeto non sceme.

XLVI

Gli elmi, gli arnesi, le corazze e scudi,
che poco dianzi fur messi da parte,
e de lor fatte ampie officine ai studi
de l'ingegnose aragne era gran parte,
sì che forse tornar in su gli incudi
temeano, e farsi ordigni a più vil arte;
or imbruniti, fuor d'ogni timore,
godeano esser riposti al primo onore.

XLVII

Sonan di qua, di là tanti martelli,
che n'assorda di strepito ogni orecchia:
quei batton piastre e le rifanno, e quelli
vanno acconciando l'armatura vecchia;
altri le barde torna alli penelli,
coprirle altri di drappo s'apparecchia:
chi cerca questa cosa, e chi ritrova
quell'altra; altri racconcia, altri rinuova.

XLVIII

Poi che Carlo al tesor ruppe il serraglio,
ebbon da travagliar tutti i mestieri:
ma né maggior né più commun travaglio
era però, che di trovar destrieri:
ché gli disagi e de le spade il taglio
tolto n'avean da le decine i zeri:
quali si fosson (ché i buon eran rari),
come il sangue e la vita erano cari.

XLIX

Carlo, oltra l'ordinario che solea
aver d'uomini d'armi alle frontiere,
e de la gente che a piè combattea,
che per pace era usato anco tenere,
de l'un canto e de l'altro fatto avea
che pieno era ogni cosa di bandiere:
trenta sei mila armati in su l'arzoni,
e quattro tanto e più furo i pedoni.

L

E per gli molti esempi che già letto
de' capitani avea del tempo veglio,
com'uom ch'amava sopra ogni diletto
d'udir istorie e farne al viver speglio;
e più perché vedutone l'effetto
per propria esperienzia, il sapea meglio;
conobbe al tempo la prestezza usata
aver più volte la vittoria data;

LI

e ch'era molto meglio ch'egli andasse
i nimici a trovar ne la lor terra,
e sopra gli lor campi s'alloggiasse,
e desse lor de' frutti de la guerra;
che dentro alle confine gli aspettasse
che l'Alpi e 'l Pireneo fra dui mar serra.
Fatta la mostra, i populi divise
in molte parti, e a' suoi capi i commise.

LII

In quel tempo era in Francia il cardinale
di Santa Maria in Portico venuto,
per Leon terzo e pel seggio papale
contra Lombardi a domandarli aiuto;
ché mal era tra spada e pastorale,
e con gran disvantaggio combattuto.
L'imperator, dunque, il primier stendardo
che fe' espedir, fu contra il Longobardo.

LIII

Era Carlo amator sì de la Chiesa,
sì d'essa protettor e di sue cose,
che sempre l'augumento e la difesa,
sempre l'util di quella al suo prepose:
però, dopo molt'altre, questa impresa
nome di Cristianissimo gli pose,
e dal santo Pastor meritamente
sacrato imperador fu di Ponente.

LIV

Mandò il nipote Orlando, e mandò fanti
seco, a cavallo e una gran schiera d'archi.
Subito Orlando a pigliar l'Alpi inanti
fece ir gli suoi più d'armatura scarchi;
ma trovar ch'i nemici vigilanti
avean prima di lor pigliato i varchi,
e fur constretti d'aspettar il Conte
con tutto l'altro campo a piè del monte.

LV

Orlando quei da l'armi più leggiere,
quando pedoni e quando gente equestre,
cominciò a la sua giunta a far vedere
or su le manche or su le piagge destre;
e far fuochi avampar tutte le sere,
di qua e di là, per quelle cime alpestre;
e di voler passar mostra ogni segno
fuor ch'ove di passar forse ha disegno.

LVI

A Mon Ginevra, al Mon Senese avea,
e a tutti i monti ove la via più s'usa,
provisto il Longobardo, e vi tenea
con fanti e cavallieri ogni via chiusa;
sopra Saluzzo i monti difendea
un suo figliuolo, et esso quei di Susa.
Per tutti questi passi, or basso or alto,
Orlando movea loro ogni dì assalto.

LVII

Spesso fa dar all'armi, e mai non lassa
l'inimico posar né dì né notte:
né però l'un su quel de l'altro passa,
e ben si puon segnar pari le botte.
Ma sarebb'ita in lungo e forse cassa
d'effetto sua fatica in quelle grotte,
se non gli avesse la vittoria in mano
fatta cader un nuovo caso strano.

LVIII

Nel campo longobardo un giovane era,
signor di Villafranca a piè de' monti,
capitan de li armati alla leggiera,
che n'avea mille ad ogn'impresa pronti,
di tanto ardir, d'audacia così fiera,
che sempre inanzi iva alle prime fronti;
e sue degne opre non pur fra gli amici,
ma laude anco trovar da gli nimici.

LIX

Era il suo nome Otton da Villafranca,
di lucid'armi e ricche vesti adorno,
che la fida moglier, nomata Bianca,
in ricamar avea speso alcun giorno.
La destra parte era oro, era la manca
argento, et anco avean dentro e d'intorno,
quella d'argento e questa in nodi d'oro,
le note incomincianti i nomi loro.

LX

Avea un caval sì snello e sì gagliardo,
che par non avea al mondo, et era còrso,
sparso di rosse macchie il col leardo,
l'un fianco e l'altro, e dal ginocchio al dorso.
Men sicuro di lui parea e più tardo,
volga alla china o drizzi all'erta il corso,
quell'animal che da le balze cozza
coi duri sassi, e lenta la camozza.

LXI

Su quel destrier Ottone, or alto or basso
correndo, era per tutto in un momento,
quando lanciando un dardo e quando un sasso,
ché la persona sua ne valea cento.
Or s'opponeva a questo, or a quel passo;
né sol valea di forza e d'ardimento,
ma facea con la lingua e con la fronte
audaci mille cor, mille man pronte.

LXII

Poi che Fortuna a quella audacia arriso
ebbe cinque o sei giorni, entrò in gran sdegno;
ché pur troppa baldanza l'era aviso
ch'Otton pigliasse nel suo instabil regno,
ch'avendo di lontano alcuno ucciso,
d'entrar nel stuol facesse anco disegno;
e gli ruppe in un tratto, come vetro,
ogni speranza di tornar a dietro.

LXIII

Baldovin con molt'altri gli la tolse,
ch'a un stretto passo il colse per sciagura:
il cavallo al voltar dietro gli colse
dove i schinchi e le cosce hanno giuntura;
sì che lo fe' prigion, volse o non volse,
quantunque il cavallier senza paura
non si rendette mai, fra la tempesta
di mille colpi, fin ch'ebbe elmo in testa.

LXIV

Perduto l'elmo, non fe' più contrasto,
ma disse: — Io mi vi rendo —; e lasciò il brando,
molto più del destrier che vedea guasto
che del maggior suo danno sospirando.
La presa di quest'uomo venne il basto,
com'io vi dirò appresso, rassettando,
sul qual fur poi le gravi some poste
ch'a Desiderio si rupper le coste.

LXV

Lasciato a Villafranca avea la fida,
casta, bella, gentil, diletta moglie,
quando di quella schiera si fe' guida,
seguendo più l'altrui che le sue voglie:
or restando prigion, n'andar le grida
là dove più poteano arrecar doglie;
alla moglie n'andar casta e fedele,
che mandò al cielo i pianti e le querele.

LXVI

Sparso la Fama avea, com'è sua usanza
di sempre aggrandir cosa che rapporte,
che Otton preso e ferito era, non sanza
grandissimo periglio de la morte.
Perciò il figliuol del re, ch'avea la stanza
vicino a lei con parte di sua corte,
andò per visitarla e trar di pianto,
se valesse il conforto però tanto.

LXVII

Penticon (ché quel nome avea il figliuolo
del re de' Longobardi) poi che venne
a veder la beltà che prima, solo
conoscendo per fama, minor tenne;
com'augel ch'entra ne le panie a volo,
né può dal visco poi ritrar le penne,
si ritrovò nel cieco laccio preso,
che nel viso di lei stava ognor teso.

LXVIII

E dove era venuto a dar conforto,
non si partì che più bisogno n'ebbe.
Dal camin dritto immantinente al torto
voltò il disio, che smisurato crebbe:
or, non che preso, ma che fosse morto
Otton suo amico, intendere vorrebbe:
l'uom che pur dianzi con ragione amava,
contra ragione or mortalmente odiava.

LXIX

Né può d'un mutamento così iniquo
render la causa o far scusa migliore,
che attribuirlo all'ordine che, obliquo
da tutti gli umani ordini, usa Amore;
di cui per legge e per costume antiquo
gli effetti son d'ogn'altro esempio fuore.
Non potea Penticon al disio folle
far resistenza; o se potea, non volle.

LXX

E lasciandosi tutto in preda a quello,
senza altra escusa e senza altro rispetto,
cominciò a frequentar tanto il castello,
ch'a tutto il mondo dar potea sospetto:
indi fatto più audace, col più bello
modo che seppe, a palesarle il petto,
a pregar, a promettere, a venire
a' mezi onde aver speri il suo desire.

LXXI

La bella donna, che non men pudica
era che bella, e non men saggia e accorta,
prima che farsi oltre il dovere amica
di sì importuno amante, esser vuol morta.
Ma quegli, avegna ch'ella sempre dica
di non voler, però non si sconforta;
et è disposto di far altre prove,
quando il pregar e proferir non giove.

LXXII

Ella conosce ben di non potere
mantener lungamente la contesa;
e stando quivi, se non vuol cadere,
non può, se non da morte, esser difesa.
Ma questa suol, fra l'aspre, orride e fiere
condizion, per ultima esser presa:
quindi, prima fuggir, e perder prima
ciò ch'altro ha al mondo, che l'onor, fa stima.

LXXIII

Ma dove può ella andar, ch'ogni cittade
che tra il mar, l'Alpi e l'Appennino siede,
del padre de l'amante è in podestade,
né sicuro per lei luogo ci vede?
Passar l'Alpi non può, ch'ivi le strade
chiude la gente, chi a caval, chi a piede:
non ha il destrier che fe' alle Muse il fonte,
né il carro in che Medea fuggì Creonte.

LXXIV

Di questo fe' tra sé lungo discorso,
né mai seppe pigliar util consiglio.
Ad un suo vecchio al fin ebbe ricorso,
che amava Otton come signore e figlio.
Costui s'imaginò tosto il soccorso
di trar l'afflitta donna di periglio,
e le propose per segreti calli
salva ridurla alle città dei Galli.

LXXV

Stato era cacciator tutta sua vita,
ma molto più quand'eran gli anni in fiore;
et avea per quei monti ogni via trita,
di qua errando e di là, dentro e di fuore.
Pur che non fosse nel partir sentita,
la condurrebbe salva al suo signore:
solo si teme che la prima mossa
occulta a Penticon esser non possa;

LXXVI

che, non che un dì, ma poche ore interpone
che non sia seco, e v'ha sempre messaggio.
Mentre va d'una in altra opinione
come abbia a proveder il vecchio saggio,
vede che lei salvar, e con ragione
Otton può vendicar di tanto oltraggio,
portar facendo al folle amante pena
di quel desir ch'a tanto obbrobrio il mena.

LXXVII

Esorta lei ch'anco duo dì costante
stia, fin che di là torni ove andar vuole;
e, come saggia, intanto al sciocco amante
prometta largamente e dia parole.
Fatto il pensier, si parte in uno instante
per una via ch'in uso esser non suole,
con lunghi avolgimenti, ma assai destra
quanto creder si può d'una via alpestra.

LXXVIII

Tosto arrivò dove occupava il monte
la gente del figliuol del re Pipino,
e dimandò voler parlar al Conte;
ma la guardia il condusse a Baldovino,
che del campo tenea la prima fronte.
Costui d'Orlando frate era uterino:
vuo' dir ch'ambi eran nati d'una madre;
ma l'un Milon, l'altro avea Gano padre.

LXXIX

Il Maganzese, poi che di costui
attentamente ebbe il parlar inteso,
di liberar il signor suo, e per lui
darli il figliuol del re nimico preso;
non lasciò che parlasse al Conte, in cui
di virtù vera era un disio sì acceso,
che di ciò non seria stato contento,
ch'aver gli parria odor di tradimento.

LXXX

E dubitava non facesse Orlando
quel che Fabrizio e che Camil già féro,
che l'uno a Pirro, e l'altro già assediando
Falisci, in mano i traditor lor diero.
Finse voler la notte occupar (quando
la strada avea imparata) un poggio altiero
che si vedea all'incontro oltre la valle,
e i nimici assalir dietro alle spalle.

LXXXI

Con volontà d'Orlando, in su la sera
Baldovin se ne va con buona scorta
de cavallieri armati alla leggiera,
e un fante ognun di lor dietro si porta.
La luna in mezo 'l ciel, che ritond'era,
vien lor mostrando ogni via dritta e torta:
appresso a terza, si trovar dal loco
dove s'hanno a condur lontani poco.

LXXXII

Si fermar quivi, e ricrear alquanto
sé et i cavalli in una occulta piaggia;
che seco vettovaglia aveano, quanto
bastar potea per quella via selvaggia.
Il vecchio corre alla sua donna intanto,
e le divisa ciò ch'ordinato aggia.
A Villafranca Penticon rimena
il suo desio, che 'l giorno spunta a pena.

LXXXIII

La donna, che dal dì che le fu tolto
il suo marito andò sempre negletta;
questo, che spera di vederlo sciolto
e far d'ogni sua ingiuria alta vendetta,
ritrova i panni allegri, e il crine e 'l volto,
quanto più sa, per più piacer rassetta;
e fe' quel dì, quel che non fe' più inante,
grata accoglienza al poco cauto amante.

LXXXIV

E con onesta forza, la mattina,
e dolci preghi, a mangiar seco il tenne.
Il vecchio intanto a Baldovin camina,
ch'al venir ratto aver parve le penne:
piglia tosto ogni uscita, indi declina
ove il dì si facea lieto e solenne;
e quivi, senza poter far difese,
e Penticone e de' suoi molti prese.

LXXXV

Lasciato avea chi sùbito al fratello
la vera causa del suo andar narrassi;
ch'avea per prender Penticon, non quello
monte occupar, volti la sera i passi;
sì che per l'orme sue verso il castello
pregava che col resto il seguitassi.
Benché non piacque al Conte che tacciuto
questo gli avesse, pur non negò aiuto:

LXXXVI

e con tutti gli altri ordini si mosse,
senza che tromba o che tambur s'udisse;
e perché inteso il suo partir non fosse,
lasciò chi 'l fuoco insino al dì nutrisse.
La presa del figliuol, non che percosse,
ma al vecchio padre in modo il cor trafisse,
che si levò de l'Alpi; e mezza rotta
salvò a Chivasco et a Vercei la frotta.

LXXXVII

Né a Vercei né a Chivasco il paladino
di voler dar l'assalto ebbe disegno;
anzi i passi volgea dritto al Ticino,
alla città che capo era del regno.
Desiderio, per chiuderli il camino,
lo va a trovar, ma non gli fa ritegno;
et è sì inferior nel gran conflitto,
che ne riman perpetuamente afflitto.

LXXXVIII

Quivi cader de' Longobardi tanti,
e tanta fu quivi la strage loro,
che 'l loco de la pugna gli abitanti
Mortara dapoi sempre nominoro.
Ma prima che seguir questo più inanti,
ritornar voglio agli altri gigli d'oro,
che Carlo ai capitani raccommanda
ch'alle sue giuste imprese altrove manda.

LXXXIX

Con dieci mila fanti e settecento
lance e duo milla arcier andò Rinaldo
verso Guascogna, per far mal contento
di sua perfidia l'Aquitan ribaldo.
Bradamante e Ruggier, che 'l regimento
avean del lito esposto al fiato caldo,
ebbon di fanti non so quanti miglia,
e legni armati a guardia di Marsiglia.

XC

Come chi guardi il mar, così si pone
chi a cavallo, chi a piè, che guardi il lito.
Olivier guardò Fiandra, Salamone
Bretagna, Picardia Sansone ardito:
dico per terra; ch'altra provisione,
altro esercito al mar fu statuito.
Con grossa armata cura ebbe Ricardo
da la foce del Reno al Mar Picardo.

XCI

E dal Picardo al capo di Bretagna,
avendo uomini e legni in abondanza,
uscì Carlo col resto alla campagna,
e venne al Reno, e lo passò a Costanza;
et arrivò sì presto ne la Magna,
che la fama al venir poco l'avanza;
passò il Danubio, e si trovò in Bavera,
che mosso Tassillone anco non s'era.

XCII

Tassillon, de Boemi e de Sassoni
esercito aspettando e d'Ungheria,
alle squadre di Francia e legioni
tempo di prevenirli dato avia.
Carlo fermò ad Augusta i confaloni,
e mandò all'inimico ambasceria
a saper se volesse esperienza
far di sua forza o pur di sua clemenza.

XCIII

Tassillon, impaurito de la presta
giunta di Carlo, ch'improviso il colse,
con tutto il stato se gli diè in podesta,
e Carlo umanamente lo raccolse;
ma che rendesse alla prima richiesta
il tolto a Namo et a' consorti, volse;
e che lor d'ogni danno et interesse
ch'avean per questo avuto, sodisfesse;

XCIV

e settecento lance per un anno,
e dieci mila fanti gli pagasse;
la qual gente volea ch'allora a danno
di Desiderio in Lombardia calasse.
Con gli statichi i Franchi se ne vanno;
e prima che 'l passaggio altri vietasse
(ché de' Boemi prossimi avean dubio),
tornar ne l'altra ripa del Danubio.

XCV

E verso Praga in tanta fretta andaro,
di nostra fede a quella età nimica
(ben che né ancora a questa nostra ho chiaro
che le sia tutta la contrada amica),
ch'a prima giunta i varchi le occupato,
cacciato e rotto con poca fatica
re Cardoranno, che mezo in fracasso
quivi era accorso a divietar il passo.

XCVI

Gli Franceschi cacciar fa su le porte
di Praga gli Boemi in fuga e in rotta.
Quella città, di fosse e muta forte,
salvò col suo signor la maggior frotta:
le diè Carlo l'assalto; ma la sorte
al suo disegno mal rispose allotta,
ch'a gran colpi di lance il popul fiero
fe' ritornar la gente de lo Impero.

XCVII

Ché, mentre era difeso et assalito
da un lato il muro, il forte Cardorano
(di cui se si volesse un uom più ardito,
si cercheria forse pel mondo in vano)
fuor d'una porta era d'un altro uscito,
et avea fatto un bel menar di mano;
e dentro, con prigioni e preda molta,
sua gente seco salva avea raccolta.

XCVIII

E fe' che Carlo andò più ritenuto
et ebbe miglior guardia alle sue genti,
avendo lor d'un sito proveduto
da porvi più sicuri alloggiamenti,
dove il fiume di Molta è ricevuto
da l'acque d'Albi all'Oceàn correnti:
la barbara cittade in loco sede,
che quinci un fiume e quindi l'altro vede.

XCIX

Tra le due ripe, alla città distanti
un tirar d'arco, s'erano alloggiati,
sì che s'avean la città messa inanti,
che gli altri fiumi avea dietro e dai lati.
Carlo, perché dai luoghi circonstanti
non abbian vettovaglia gli assediati,
e perché il campo suo stia più sicuro,
tra un fiume e l'altro in lungo tirò un muro;

C

che era di fuor di travi e di testura
di grossi legni, e dentro pien di terra;
e perché non uscisson de le mura
dal canto ove la doppia acqua gli serra,
su le ripe di fuor ebbe gran cura
di por ne le bastie genti da guerra,
che con velette e scolte a nissun'ora
lassassino uomo entrar o venir fuora.

CI

Quindi una lega appresso, era una antica
selva di tassi e di fronzuti certi,
che mai sentito colpo d'inimica
secure non avea né d'altri ferri:
quella mai non potesti fare aprica,
né quando n'apri il dì né quando il serri,
né al solstizio, né al tropico, né mai,
Febo, vi penetrar tuoi chiari rai.

CII

Né mai Diana, né mai Ninfa alcuna,
né Pane mai, né Satir, né Sileno
si venne a ricrear all'ombra bruna
di questo bosco di spavento pieno;
ma scelerati spirti et importuna
religion quivi dominio avieno,
dove di sangue uman a Dei non noti
si facean empi sacrifici e voti.

CIII

Quivi era fama che Medea, fuggendo
dopo tanti inimici al fin Teseo,
che fu, con modo a ricontarlo orrendo,
quasi ucciso per lei dal padre Egeo;
né più per tutto il mondo loco avendo
ove tornar se non odioso e reo,
in quelle allora inabitate parti
venne, e portò le sue malefiche arti.

CIV

So ch'alcun scrive che la via non prese,
quando fuggì dal suo figliastro audace,
verso Boemia, ma andò nel paese
che tra i Caspi e l'Oronte e Ircania giace,
e che 'l nome di Media da lei scese:
il che a negar non serò pertinace;
ma dirò ben ch'anco in Boemia venne
o dopo o allora, e signoria vi tenne;

CV

e fece in mezo a questa selva oscura,
dove il sito le parve esser più ameno,
la stanza sua di così grosse mura
che non verria per molti secol meno;
e per potervi star meglio sicura,
di spirti intorno ogn'arbor avea pieno,
che rispingean con morti e con percosse
chi d'ir nei suoi segreti ardito fosse.

CVI

E perché, per virtù d'erbe e d'incanti,
de le Fate una et immortal fatt'era,
tanto aspettò, che trionfar di quanti
nimici avea vid'al fin Morte fiera:
indi a grand'agio ripensando a tanti
a' quai fatt'avea notte inanzi sera,
all'ingiurie sofferte, affanni e lutto,
vid'esser stato Amor cagion di tutto.

CVII

E fatta omai per lunga età più saggia
(ché van di par l'esperienze e gli anni),
pensa per lo avvenir come non caggia
più negli error ch'avea passati, e danni;
e vede, quando Amor poter non v'aggia,
ch'in lei né ancor avran poter gli affanni;
e studia e pensa e fa nuovi consigli,
come di quel tiran fugga gli artigli.

CVIII

Ma perché, essendo de la stirpe antica
che già la irata Vener maledisse,
vide che non potea viver pudica,
et era forza che 'l destin seguisse;
pensò come d'amor ogni fatica,
ogni amarezza, ogni dolor fuggisse;
come gaudi e piacer, quanti vi sono,
prender potesse, e quanto v'è di buono.

CIX

Cagion de la sua pena l'era aviso
che fosse, com'avea visto l'effetto,
il tener l'occhio tuttavia pur fiso,
e l'animo ostinato in uno oggetto;
ma quando avesse l'amor suo diviso
fra molti e molti, arderia manco il petto:
se l'un fosse per trarla in pena e in noia,
cento serian per ritornarla in gioia.

CX

Di quel paese poi fatta regina,
che venne a lungo andar pieno e frequente,
perché ammirando ognun l'alta dottrina
le facea omaggio volontariamente;
nuova religione e disciplina
instituì, da ogn'altra diferente:
che, senza nominar marito o moglie,
tutti empìano sossopra le sue voglie.

CXI

E de li dieci giorni aveva usanza
di ragunarsi il populo gli sei,
femine e maschi, tutti in una stanza,
confusamente i nobili e i plebei:
in questa dimandavan perdonanza
d'ogni gaudio intermesso agli lor Dei,
ch'era a guisa d'un tempio fabricata
di vari marmi, e di molt'oro ornata.

CXII

Finita l'orazion, facean due stuoli,
da un lato l'un, da l'altro l'altro sesso;
indi levati i lumi, a corsi e a voli
venian al nefandissimo complesso;
e meschiarsi le madri coi figliuoli,
con le sorelle i frati accadea spesso:
e quella usanza, ch'ebbe inizio allora,
tra gli Boemi par che duri ancora.

CXIII

Deh! perché quando, o figlia del re Oeta,
o d'Atene o di Media tu fuggisti,
deh! perché a far l'Italia nostra lieta
con sì gioconda usanza non venisti?
Ogni mente per te seria quieta,
senza cordoglio e senza pensier tristi;
e quella gelosia che sì tormenta
gli nostri cor, serìa cacciata e spenta.

CXIV

Oh come, donne, miglior parte avreste
d'un dolce, almo piacer, che non avete!
Dove voi digiunate, e senza feste
fate vigilie in molta fame e sete,
tal satolle e sì fatte prendereste,
che grasse vi vedrei più che non sete.
Ma bene io stolto a porre in voi desire
da farvi, per gir là, da noi fuggire!

CXV

Visse più d'una età leggiadra e bella,
regina di quei populi, Medea;
ch'ad ogni suo piacer si rinovella,
e da sé caccia ogni vecchiezza rea;
e questo per virtù d'un bagno ch'ella
per incanto nel bosco fatto avea;
al qual, perché nissun altro s'accosti,
avea mille demoni a guardia posti.

CXVI

Questa fata del populo boemme
ebbe per tanti secoli governo,
che 'l tempo si potria segnar con l'emme,
e quasi credea ognun che fosse eterno:
ma poi che a partorir in Bettelemme
Maria venne il figliuol del Re superno;
quivi regnare non poté, o non volse,
e di vista degli uomini si tolse.

CXVII

E ne l'antiqua selva, fra la torma
de li demoni suoi tornò a celarsi,
dove ogni ottavo dì sua bella forma
in bruttissima serpe avea a mutarsi.
Per questa opinion, vestigio et orma
di piede uman nissun potea trovarsi
inanzi a questo dì di ch'io vi parlo,
che l'aurea fiamma alzò in Boemia Carlo.

CXVIII

L'imperador commanda che dal piede
taglin le piante a lor bisogno et uso:
l'esercito non osa, perché crede,
da lunga fama e vano error deluso,
che chi ferro alza incontra il bosco, fiede
sé stesso e more, e ne l'inferno giuso
visibilmente in carne e in ossa è tratto,
o resta cieco o spiritato o attratto.

CXIX

Carlo, fatta cantar una solenne
messa da l'arcivescovo Turpino,
entra nel bosco, et alza una bipenne,
e ne percuote un olmo più vicino:
l'arbor, che tanta forza non sostenne,
ché Carlo un colpo fe' da paladino,
cadde in duo tronchi, come fu percosso;
e sette palmi era d'intorno grosso!

CXX

Chi si ricorda il dì di san Giovanni,
che sotto Ercole o Borso era sì allegro?
che poi veduto non abbian molt'anni,
come né ancora altro piacere integro,
di poi che cominciar gli assidui affanni
dei quali è in tutta Italia ogni core egro:
parlo del dì che si facea contesa
di saettar dinanzi alla sua chiesa.

CXXI

Quel dì inanzi alla chiesa del Battista
si ponean tutti i sagittari in schiera;
né colpo uscia fin ch'al bersaglio vista
la saetta del principe non era;
poi con la nobiltà la plebe mista
l'aria di frecce a gara facea nera:
così ferito ch'ebbe il bosco Carlo,
fu presto tutto il campo a seguitarlo.

CXXII

Sotto il continuo suon di mille accette
trema la terra, e par che 'l ciel ribombi;
or quella pianta or questa in terra mette
il capo, e rompe all'altre braccia e lombi.
Fuggon da' nidi lor guffi e civette,
che vi son più che tortore o colombi;
e, con le code fra le gambe, i lupi
lascian l'antiche insidie e i lochi cupi.

CXXIII

Per la molta bontà ch'era in effetto
e vera in Carlo, non mendace e fata,
fu sì la forza al diavol maledetto
da l'aiuto di Dio quivi rispinta,
ch'a lui non nocque, né, per suo rispetto,
a chi s'avea per lui la spada cinta:
sì che mal grado de l'inferno tutto
alli demoni il nido era distrutto.

CXXIV

Un fremito, qual suol da l'irate onde
del tempestoso mar venir a' lidi,
cotal si udì fra le turbate fronde,
meschio di pianti e spaventosi gridi;
indi un vento per l'aria si difonde
che ben appar che Belzebù lo guidi:
ma né per questo avvien ch'al saldo e fermo
valor di Carlo abbia la selva schermo.

CXXV

Cade l'eccelso pin, cade il funebre
cipresso, cade il venenoso tasso,
cade l'olmo atto a riparar che l'ebre
viti non giaccian sempre a capo basso;
cadono, e fan cadendo le latebre
cedere agli occhi et alle gambe il passo:
piangon sopra le mura i Pagan stolti,
vedendo alli lor Dei gli seggi tolti.

CXXVI

Alcun dentro ne gode, ché n'aspetta
di veder sopra a Carlo e tutti i Franchi
scender dal ciel così dura vendetta
ch'a sepelirli il populo si stanchi.
Com'è troncato un arbore, si getta
nel fiume ch'alla selva bagna i fianchi;
e quello, ubidiente, ai corni sopra
lo porta al loco ov'è poi messo in opra.

CXXVII

In questo tempo avea l'iniquo Gano,
per dar a Carlo in ogni parte briga,
composto il re d'Arabia e il Soriano
col Calife d'Egitto in una liga;
e dopo il colpo, per celar la mano,
in guisa d'uom che conscienza instiga,
per voto a cui già s'obligasse inanti,
era andato al Sepolcro, ai Luoghi santi.

CXXVIII

Quivi da Sansonetto ricevuto,
che da Carlo in governo avea la terra,
era stato alcun giorno, e poi venuto
verso Costantinopoli per terra;
dove certa notizia avendo avuto
di Carlo che in Boemia facea guerra,
s'era voltato, per la dritta via
di Servia e di Belgrado, in Ungheria.

CXXIX

Ritrovò, essendo già Filippo morto,
aver il regno un figlio d'Otacchiero,
che come l'avol dritto, così ei torto
ebbe l'animo sempre da lo Impero.
Gano gli venne in tempo a dar conforto,
ch'era pel re di Francia in gran pensiero,
del qual nimico discoperto s'era
per la causa del duca di Baviera:

CXXX

e molto si dolea di Tassillone
ch'avesse senza lui fatta la pace,
di che il Boemme e l'Ungaro e il Sassone
restava in preda alla francesca face.
Avea d'aiutar Praga intenzione,
ma de lo assunto si vedea incapace:
impossibil gli par che in così breve
tempo far possa quel ch'in ciò far deve.

CXXXI

Ma se lo assedio si potea produrre,
se potea andar in lungo ancora un mese,
tanta gente era certo di condurre,
oltre il soccorso che daria il paese,
che i gigli d'or ne le bandiere azzurre
quivi restar faria con l'altro arnese:
ma s'ora andasse, non farebbe effetto
se non d'attizzar Carlo a più dispetto.

CXXXII

Gano promesse che farebbe ogn'opra
che Praga ancor un mese si terrebbe;
e poi che molto han ragionato sopra
quanto far ciascun d'essi in questo debbe,
parte Gano da Buda, e tra via adopra
lo 'ngegno che molt'atto a tradire ebbe:
va da Strigonia in Austria, indi si tiene
a destra mano et in Boemia viene.

CXXXIII

Il peregrino di Gerusalemme,
con quanti avea condotti a' suoi servigi,
umilmente, senza oro e senza gemme
ma di panni vestiti grossi e bigi,
nel campo tolto al popolo boemme
baciò la mano al buon re di Parigi,
ch'avendolo raccolto ne le braccia,
di qua e di là gli ribaciò la faccia.

CXXXIV

Era inclinato di natura molto
a Gano Carlo, e ne facea gran stima,
e poche cose fatte avria, che tolto
il suo consiglio non avesse prima;
com'ogni signor quasi in questo è stolto,
che lascia il buono et il piggior sublima;
né, se non fuor del stato, o dato in preda
degli inimici, par che 'l suo error veda.

CXXXV

Per non saper dal finto il vero amico
scernere, in tal error misero incorre.
Di questo vi potrei, ch'ora vi dico,
più d'un esempio inanzi agli occhi porre;
e senza ritornar al tempo antico,
n'avrei più d'uno a nostra età da tòrre:
ma se più verso a questo Canto giungo,
temo vi offenda il suo troppo esser lungo.



CANTO TERZO


I

D'ogni desir che tolga nostra mente
dal dritto corso et a traverso mande,
non credo che si trovi il più possente
né il più commun di quel de l'esser grande:
brama ognun d'esser primo, e molta gente
aver dietro e da lato, a cui commande;
né mai gli par che tanto gli altri avanzi,
che non disegni ancor salir più inanzi.

II

Se questa voglia in buona mente cade
(ch'in buona mente ha forza anco il desire),
l'uom studia che virtù gli apra le strade,
che sia guida e compagna al suo salire:
ma se cade in ria mente (ché son rade
che dir buone possiam senza mentire),
indi aspettar calunnie, insidie e morte,
et ogni mal si può di piggior sorte.

III

Gano, non gli bastando che maggiore
non avea alcuno in corte, eccetto Carlo,
era tanto insolente, che minore
lui vorria ancora, e avea disio di farlo;
et or che sopranatural favore
si sentia da colei che potea darlo,
oltra il desir avea speme e disegno
fra pochi giorni d'occupargli il regno.

IV

E pur che fosse il suo desir successo,
non saria dal fellon, senza rispetto
che tra gli primi suoi baroni messo
Carlo l'avea di luogo infimo e abietto,
stato ferro né tòsco pretermesso,
né scelerato alcun fatto né detto;
e mille al giorno, non che un tradimento,
ordito avria per conseguir suo intento.

V

Carlo tutto il successo de la guerra
narrò senza sospetto al Maganzese,
e gli mostrò ch'avria in poter la terra
prima ch'a mezo ancor fosse quel mese.
Questo nel petto il traditor non serra,
ma tosto a Cardoran lo fa palese;
e per un suo gli manda a dar consiglio
come possa schifar tanto periglio

VI

Da quella volpe il re boeme instrutto,
mandò un araldo in campo l'altro giorno,
che così disse a Carlo, essendo tutto
corso ad udir il populo d'intorno:
— Il mio signor, da la tua fama indutto,
o imperador d'ogni virtute adorno,
per crudeltà non pensa né avarizia
ch'abbi raccolto qui tanta milizia;

VII

né che tu metta il fin di tua vittoria
in averli la vita o il stato tolto,
ma solo in aver vinto; ché tal gloria
più che sua morte o che 'l suo aver val molto
acciò che il nome tuo ne la memoria
del mondo viva e mai non sia sepolto:
ché contra ogni ragion saresti degno,
come tu sei, se fessi altro disegno.

VIII

Ma tu non guardi fosse che l'effetto
tutto contrario appar a quel che brami:
tu brami d'esser glorioso detto,
e con l'effetto tuttavia t'infami.
Che tu sia entrato nel nostro distretto
con cento mille armati, gloria chiami;
ma quanto ella sia grande estimar déi,
che noi siamo a fatica un contra sei.

IX

Milziade e Temistocle converse
a parlar in suo onor tutte le genti,
perché con pochi armati, questi Xerse,
quel vinse Dario, in terra e in mar possenti.
Vincer pochi con molti, mai tenerse
non sentisti fra l'opere eccellenti.
S'in te è valor, pon giù il vantaggio, e poi
vien alla prova, e vincine, se puoi.

X

Da sol a sol la pugna t'offerisce,
da dieci a dieci, o voi da cento a cento,
il mio signor; e accresce e minuisce,
secondo che accettar tu sei contento:
con patto che se Dio lui favorisce,
sì che tu resti vinto o preso o spento,
che tu gli abbi a rifar e danni e spese,
e tornar col tuo campo in tuo paese;

XI

né chi la Francia e chi l'Imperio regge
fino a cento anni lo guerreggi mai:
ma se tu vinci lui, torrà ogni legge
ch'imporre a senno tuo tu gli vorrai.
Il buon pastor pon l'anima pel gregge:
essendo tu quel re di che fama hai,
la tua persona o di pochi altri arrisca,
acciò così gran popul non perisca. —

XII

Così disse lo araldo, né risposta
lo imperador gli diede allora alcuna;
ma da la moltitudine si scosta
e i consiglieri suoi seco raguna,
ché lor sentenzie sopra la proposta
de l'araldo udir vuol ad una ad una.
Il primo fu Turpin che consigliasse
che l'invito del Barbaro accettasse,

XIII

non già da sol a sol, ma in compagnia
di quattro o sei de' suoi guerrier più forti;
dei quali egli esser uno si offeria.
Così Namo et Uggier par che conforti;
e che fra dieci dì la pugna sia,
o quanto può che 'l termine più scorti:
perché, successo che lor sia ben questo,
possano volger poi l'animo al resto.

XIV

Era in quei cavallier tanta arroganza
pei fortunati antichi lor successi,
che tutti in quella impresa, con baldanza
di restar vincitor, si sarian messi.
Poi disse il suo parer quel di Maganza,
che la pugna accettar pur si dovessi;
ma non però venir a farla inante
che Rinaldo ci fosse o quel d'Anglante;

XV

che ci fosse Olivier con ambi i figli,
Ruggier et alcun altro dei famosi:
ché quando senza questi ella si pigli,
fòran di Carlo i casi perigliosi.
— Tenete voi sì privi di consigli
gli inimici, — dicea — che fosser osi
di domandar a par a par battaglia,
se non han gente ch'al contrasto vaglia?

XVI

Se non ci intervenisse la corona
di Francia, non avrei tanti riguardi;
benché, né senza ancor, di scelta buona
si de' mancar in tòrre i più gagliardi:
ma dovendo venirci il re in persona,
come a bastanza potremo esser tardi
a darli, con consiglio ben maturo,
compagnia con la qual sia più sicuro?

XVII

Io non vi contradico che valenti
cavallier qui non sian come coloro
che nominati v'ho per eccellenti;
ma non sappiàn così le prove loro.
Questo luogo non è da esperimenti
di chi sia, al paragon, di rame o d'oro:
vogliàn di quei che cento volte esperti,
de la virtute lor n'han fatti certi. —

XVIII

E seguitò mostrando, con ragioni
di più efficacia ch'io non so ridire,
che non doveano senza i dui campioni,
lumi di Francia, a tal pruova venire;
e la sua vinse l'altre opinioni,
che la pugna si avesse a diferire
fin che venisse a così gran bisogna
l'uno d'Italia e l'altro di Guascogna.

XIX

Queste parole et altre dicea Gano
per carità non già del suo signore;
ma di vietar che non gli andasse in mano
quella città studiava il traditore,
e tanto prolungar, che Cardorano
l'aiuto avesse che attendea di fuore:
in somma, il suo parer parve perfetto,
e fu per lo miglior di tutto eletto.

XX

Che dieci guerrier fossero, si prese
conclusion, pur come Gano volse;
e da' dieci di maggio al fin del mese
di giugno un lungo termine si tolse.
In questo mezo si levar le offese,
e quello assedio tanto si disciolse,
che Praga potea aver di molte cose
che fossino alla vita bisognose.

XXI

Nuove intanto venian de l'apparecchio
che l'Ungaro facea d'armata grossa;
ma sempre Gano a Carlo era all'orecchio,
che dicea: — Non temer che faccia mossa. —
Io lessi già in un libro molto vecchio,
né l'auttor par che sovvenir mi possa,
ch'Alcina a Gano un'erba al partir diede,
che chi ne mangia fa ch'ognun gli crede.

XXII

Quella mostrò nel monte Sina Dio
a Moise suo, sì che con essa poi
il popul duro fece umile e pio,
e ubidiente alli precetti suoi.
Poi la mostrò il demonio a Macon rio,
a perdizion degli Afri e degli Eoi:
la tenea in bocca predicando, e valse
ritrar chi udiva alle sue leggi false.

XXIII

Gano, avendo già in ordine l'orsoio,
di sì gran tela apparecchiò la trama;
e quel demon che d'uno in altro coio
si sa mutar, a sé da l'anel chiama.
— Vertunno, — disse — di disir mi moio
di fornir quel che da me Alcina brama;
e pensando la via, veggio esser forza
che d'alcun ch'io dirò tu pigli scorza. —

XXIV

E le parole seguitò, mostrando
che tramutar s'avea prima in Terigi:
Terigi che scudiero era d'Orlando,
venuto da fanciul ai suo' servigi;
e dopo in altre facce, e seminando
dovea gir sempre scandali e litigi.
Presa che di Terigi ebbe la forma,
di quanto avesse a far tolse la norma.

XXV

Di sua mano le lettere si scrisse
credenzial, come dettolli Gano;
che, con stupor vedendole, poi disse
Orlando, e Carlo, ch'eran di sua mano.
Postole il sigil sopra, dipartisse
Vertunno, e col signor di Mont'Albano,
ch'era a campo a Morlante, ritrovosse
prima che giunto al fin quel giorno fosse.

XXVI

Presso a Morlante avea Rinaldo, e sotto
il vicin monte, avuto aspra battaglia;
et in essa lo esercito avea rotto
de li nimici, e morto e messo a taglia.
Unuldo ne la terra era ridotto,
e Rinaldo gli avea fatto serraglia,
pien di speranza, in uno assalto o dui,
d'aver in suo poter la terra e lui.

XXVII

Veduto il viso et il parlar udito,
che di Terigi avean chiara sembianza,
Rinaldo fa carezze in infinito
al messaggier del conte di Maganza:
che sia d'Orlando, e quello avea sentito
per fama, gli dimanda con instanza;
come abbia a piè de l'Alpi, et indi appresso
Vercelli, in fuga il Longobardo messo.

XXVIII

Come presente alle battaglie stato
fosse il demonio, gli facea risposta;
e la lettera intanto, che portato
di credenza gli avea, gli ebbe in man posta.
Quel l'apre e legge; e lui per man pigliato,
da chi lo possa udir seco discosta.
Vertunno, prima ch'altro incominciasse,
di petto un'altra lettera si trasse.

XXIX

Poi disse: — Il cugin vostro mi commise
ch'io vi facessi legger questa appresso. —
Rinaldo mira le note precise,
che gli paion di man di Carlo istesso;
il qual Orlando di Boemia avise
d'esser pentito senza fin, che messo
così potente esercito abbia in mano
de l'audace signor di Mont'Albano:

XXX

però che, vinto Unuldo (come crede
che vincer debbia) e toltoli Guascogna,
egli d'Unuldo esser vorrà l'erede,
ché crescer stato a Mont'Alban agogna;
e la sospizion c'ha de la fede
di Rinaldo corrotta, non si sogna:
in somma, par che sia disposto Carlo,
per forza o per amor, quindi levarlo.

XXXI

Ma che prima tentar vuol per amore:
finger ch'al maggior uopo lo dimande
per un dei dieci il cui certo valore
abbatta a Cardoran l'orgoglio grande;
e vuol per questo che dia un successore
all'esercito c'ha da quelle bande;
e che disegna mai più non gli porre
governo in man, se gli può questo tòrre.

XXXII

Vuol ch'Orlando gli scriva ch'esso ancora
serà in questa battaglia un degli eletti,
e gl'insti che, rimossa ogni dimora,
veduto il successor venire, affretti.
Rinaldo, mentre legge, s'incolora
per ira in viso, e par che fuoco getti;
morde le labbia, or l'uno or l'altro; or geme,
e più che 'l mar quand'ha tempesta freme.

XXXIII

Letta la carta, il spirto gli soggiunge,
pur da parte d'Orlando: — Abbiate cura,
che se alla discoperta un dì vi giunge,
vi farà Carlo peggio che paura;
però che tuttavia Gano lo punge
che la corte di voi faccia sicura:
la qual, sì come dice egli, ogni volta
che voglia ve ne vien, sossopra è volta.

XXXIV

Al cugin vostro acerbamente duole
che 'l re tenga con voi questa maniera,
che cerchi, a instanza di chi mal vi vuole,
far parer vostra fé men che sincera;
e che più creda alle false parole
d'un traditor, ch'a tanta prova vera
che si vede di voi: ma dagli ingrati
son le più volte questi modi usati.

XXXV

Ché, quando l'avarizia gli ritiene
di render premio a chi di premio è degno,
studian far venir causa, e se non viene,
la fingon, per la quale abbiano sdegno;
e di esilio, di morte o d'altre pene,
in luogo di mercé, fanno disegno;
per far parer ch'un vostro error seguito
quel ben che far voleano abbia impedito.

XXXVI

Orlando, perché v'ama, e perché aspetta
il medesmo di sé fra pochi giorni,
che 'l re in prigion, Gano instigando, il metta
o gli dia bando o gli faccia altri scorni
(ché, come contra voi, così lo alletta
contra esso ancor), senza far più soggiorni
per me vi esorta a prender quel partito
ch'egli ha di tòr di sé già statuito:

XXXVII

che di quel mal che senza causa teme
facciate morir Carlo, come merta.
Prendete accordo con Unuldo, e insieme
con lui venite a fargli guerra aperta:
vegga se Gano, e se 'l suo iniquo seme,
contra il valor e la possanza certa
di Chiaramonte, e l'una e l'altra lancia
tanto onorata, può difender Francia. —

XXXVIII

E seguitò dicendoli che Orlando
prima favor occulto gli darebbe;
poscia in aiuto alla scoperta, quando
fosse il tempo, in persona li verrebbe.
Rinaldo avea grand'ira, et attizzando
il fraudolente spirto, sì l'accrebbe,
ch'allora allora pensò armar le schiere
e levar contra Carlo le bandiere;

XXXIX

poi diferì fin che arrivasse il messo
ch'alla pugna boemica il chiamasse,
e che sentisse commandarsi appresso
ch'in guardia altrui l'esercito lasciasse.
Quel che Gano gli avea quivi commesso,
Vertunno a fin con diligenzia trasse:
poi, con lettere nuove e nuovo aspetto,
venne a Marsiglia e fece un altro effetto.

XL

D'Arriguccio s'avea presa la faccia,
ch'era di Carlo un cavallaro antico:
egli scrive le lettere, egli spaccia
se stesso e chiude egli in la bolgia il plico:
l'insegna al petto e il corno al fianco allaccia,
e fu a Marsiglia in men ch'io non lo dico;
e le dettate lettere da Gano
pose a Ruggiero et alla moglie in mano.

XLI

Alla sorella di Ruggier, Marfisa,
mostrò che Carlo lo mandasse ancora,
come a tutti tre insieme, e poi divisa-
mente a ciascun da Carlo scritto fòra.
Sotto il nome del re Gano gli avisa
che navighi Ruggier senza dimora
ver' le colonne che Tirinzio fisse,
e sorga sopra la città d'Ulisse;

XLII

e Marfisa con gli altri da cavallo
si vada con Rinaldo a porre in schiera;
ché vinto Unuldo, come senza fallo
vederlo vinto in pochi giorni spera,
vuol ch'assalti Galizia e Portogallo;
né l'impresa esser può se non leggiera:
ché gli dà aiuto, passo e vettovaglia
Alfonso d'Aragon, re di Biscaglia.

XLIII

Appresso scrive all'animosa figlia
del duca Amon che stia sicuramente:
che né da terra né da mar Marsiglia
ha da temer di peregrina gente.
Se false o vere son non si consiglia,
né si pensa alle lettere altrimente:
Ruggier va in Spagna, Marfisa a Morlante,
resta a guardar Marsiglia Bradamante.

XLIV

L'imperadore, intanto, che le frode
non sa di Gano, e solo in esso ha fede,
di tutti gli altri amici il parere ode,
ma solamente a quel di Gano crede;
né cavallier, se non che Gano lode,
a far quella battaglia non richiede:
con lui consiglia chi si debba porre
nei luoghi onde gli due s'aveano a tòrre.

XLV

Quando Gano ha risposto, ogn'altro chiude
la bocca, né si replica parola.
In luogo di Rinaldo egli conclude
che mandi Namo; e l'intenzion è sola
perché Rinaldo, a cui le voglie crude
l'ira facea, lo impichi per la gola;
ché pensarà che sol lo mandi Carlo
per levarli l'esercito e pigliarlo.

XLVI

Consiglia che si lassi Baldovino
a governar in Lombardia le squadre;
il qual fratel d'Orlando era uterino,
nato, com'ho già detto, d'una madre;
cortese cavalliero e paladino,
e degno a cui non fosse Gano padre,
per consiglio del qual Carlo lo elesse
ch'all'imperio fraterno succedesse.

XLVII

Gli dieci eletti alla battaglia fòro
Carlo, Orlando, Rinaldo, Uggier, Dudone,
Aquilante, Grifone, il padre loro,
e con Turpino il genero d'Amone.
Fatta la elezione di costoro,
si spacciaro in diversa regione
prima gli avisi, e poi quei che ordinati
in luogo fur dei capitan chiamati.

XLVIII

Namo fu il primo, il qual, correndo in posta,
insieme con l'aviso era venuto.
Già Rinaldo sua causa avea proposta,
e dimandato alla sua gente aiuto;
che tanto in suo favor s'era disposta,
che, dai maggiori al populo minuto,
tutti affatto volean prima morire
che Rinaldo lasciar così tradire.

XLIX

Tra Rinaldo et Unuldo già fatt'era
accordo et amicizia, ma coperta.
Allo arrivar del duca di Baviera
Rinaldo, che la fraude avea per certa,
di sdegno arse e di còlera sì fiera,
che tre volte la man pose a Fusberta,
con voglia di chiavargliela nel petto;
pur (non so già perché) gli ebbe rispetto.

L

Ma spesso nominandol traditore,
e Carlo ingrato, e minacciandol molto
che lo faria impiccar in disonore
di Carlo, lo raccolse con mal volto.
Namo, a cui poco noto era l'errore
in che Vertunno avea Rinaldo involto,
mirando ove da l'impeto era tratto,
stava maraviglioso e stupefatto:

LI

ma magnanimamente gli rispose
che, traditor nomandolo, mentia.
Rinaldo, se non ch'uno s'interpose,
alzò la mano e percosso lo avria:
prender lo fece, et in prigion lo pose;
e tolto ch'ebbe Unuldo in compagnia,
le ville, le cittadi e le castella
dal re per forza e per amor rubella.

LII

E dovunque ritrovi resistenza
o dà il guasto o saccheggia o mette a taglia:
gli dà tutta Guascogna ubidienza,
e poche terre aspettan la battaglia.
Gan da Pontier, che n'ebbe intelligenza,
ché del tutto Vertunno lo raguaglia,
con lieto cor, ma con dolente viso,
fu il primo che ne diede a Carlo aviso.

LIII

Gano gli diè l'aviso, e poi che 'l varco,
come bramato avea, vide patente
di potersi cacciar a dire incarco
et ignominia del nimico absente,
sciolse la crudel lingua, e non fu parco
a mandar fuor ciò che gli venne in mente:
dei falli di Rinaldo, poi che nacque,
che fece o puoté far, nessuno tacque.

LIV

Come si arruota e non ritruova loco
né in ciel né in terra un'agitata polve,
come nel vase acqua che bolle al foco,
di qua di là, di su di giù si volve:
così il pensier gira di Carlo, e poco
in questa parte o in quella si risolve.
Provision già fatta nulla giova;
tutta lasciar conviensi, e rifar nuova.

LV

Se padre, a cui sempre giocondo e bello
fu di mostrarsi al suo figliuol benigno,
se lo vedesse incontra alzar coltello,
fatto senza cagione empio e maligno;
più maraviglia non avria di quello
ch'ebbe Carlo, vedendo in corvo il cigno
Rinaldo esser mutato, e contra Francia
volta senza cagion la buona lancia.

LVI

Quel ch'averria a un nocchier che si trovasse
lontano in mar, e fremer l'onde intorno,
tornar di sopra, e andar le nubi basse
vedesse negre et oscurarsi il giorno;
che mentre a divietar s'apparecchiasse
di non aver da la fortuna scorno,
il governo perdesse, o simil cosa
alla salute sua più bisognosa;

LVII

quel ch'averrebbe a una cittade astretta
da nimici crudel, privi di fede,
che d'alcun fresco oltraggio far vendetta
abbian giurato e non aver mercede;
che, mentre la battaglia ultima aspetta
e all'ultima difesa si provede,
vegga la munizione arsa e distrutta,
in ch'avea posto sua speranza tutta;

LVIII

quel ch'averria a ciascun che già credesse
d'aver condotto un suo desir a segno,
dove col tempo la fatica avesse,
l'aver, posto, gli amici, ogni suo ingegno;
e cosa nascer sùbito vedesse
pensata meno, e romperli il disegno:
quel duol, quell'ira, quel dispetto grave
a Carlo vien, come l'aviso n'have.

LIX

Or torna a Carlo il conte di Pontiero,
e gli dà un altro aviso di Marsiglia,
ch'indi sciolta l'armata avea Ruggiero
per uscir fuor del stretto di Siviglia,
né ad alcun avea detto il suo pensiero;
e certo, poi che questa strada piglia,
gli è manifesto che, voltando intorno,
si troverà sorto in Guascogna un giorno.

LX

E de la coniettura sua non erra:
perché Marfisa ad un medesmo punto
se n'era coi cavalli ita per terra,
et a Rinaldo avea potere aggiunto.
Or, se Carlo temea di questa guerra,
ché Rinaldo lo fa restar consunto;
quanto ha più da temer, se questi dui
di tal valor, si son messi con lui?

LXI

Gano con molta instanza lo conforta
che di Rinaldo tolga la sorella,
prima che di Provenza et Acquamorta
seco gli faccia ogni città rubella,
et al fratello apra quest'altra porta
d'entrar in Francia sin ne le budella;
ché ben deve pensar ch'ella il partito
piglierà del fratello e del marito.

LXII

E che mandasse sùbito a Ricardo,
ch'avea l'armata in punto, anco gli disse,
acciò che dal Fiamingo e dal Picardo
ne l'Atlantico mar ratto venisse;
et il rubello e truffator stendardo
di Ruggier inimico perseguisse,
che con tutte le navi s'avea, senza
sua commission, levato di Provenza;

LXIII

e che sùbito a Orlando paladino
con diligenza vada una staffetta
ad avisarlo, come avea il cugino
del perfido Aquitan preso la setta;
e ch'egli dia la gente a Balduino,
ripassi l'Alpi, e a Francia corra in fretta,
e con lui meni tutta quella schiera
che dianzi gli ha mandata di Baviera;

LXIV

e che tra via faccia cavalli e fanti,
quanti più può, da tutte le contrade;
non quelli sol che gli verranno inanti,
ma che constringa a darne ogni cittade,
altre mille, altre il doppio, altre non tanti,
come più e men avran la facultade:
e ch'egli dare il terzo gli volea
di questi che in Boemia seco avea.

LXV

Carlo pensava chi d'Orlando in vece,
e chi degli altri dui poner dovea
nella battaglia, che da diece a diece
dianzi promessa a Cardorano avea.
Come quel mulatiero, in somma, fece,
ch'avea il coltel perduto e non volea
che si stringesse il fodro vòto e secco,
e 'n luogo del coltel rimesse un stecco:

LXVI

così, in luogo d'Orlando e di Ruggiero
e di Rinaldo, fu da Carlo eletto
Ottone, Avolio e il frate Berlingiero:
ch'Avino infermo era già un mese in letto.
Gli dà consiglio il conte di Pontiero
che di Giudea si chiami Sansonetto,
per valer meglio, quando a tempo giugna,
che i tre figli di Namo in questa pugna.

LXVII

A danno lo dicea, non a profitto
di Carlo, il traditor; perché all'offesa
che di far in procinto ha il re d'Egitto,
non sia in Ierusalem tanta difesa.
A Sansonetto fu sùbito scritto,
e dal corrier la via per Tracia presa,
il qual, mutando bestie, sì le punse,
ch'in pochi giorni a Palestina giunse.

LXVIII

Di tòr Marsiglia si proferse Gano,
senza che spada stringa o abbassi lancia:
vuol sol da Carlo una patente in mano
da poter commandar per tutta Francia.
Nulla propone il fraudolente in vano:
se giova o nuoce, Carlo non bilancia;
né vèntila altrimenti alcun suo detto,
ma sùbito lo vuol porre ad effetto.

LXIX

Di quanto avea ordinato il Maganzese
andò l'aviso all'Ungaro e al Boemme,
ne le Marche, in Sansogna si distese,
in Frisa, in Dazia, all'ultime maremme.
Gano de' suoi parenti seco prese,
seco tornati di Ierusalemme;
e quindi se n'andò per tòr la figlia
del duca Amon, con frode, di Marsiglia.

LXX

Di Baviera in Suevia, et indi, senza
indugio, per Borgogna e Uvernia sprona;
e molto declinando da Provenza,
sparge il rumor d'andar verso Baiona:
finge in un tratto di mutar sentenza,
e con molti pedoni entra in Narbona,
che per Francia in gran fretta e per la Magna
raccolti e tratti avea seco in campagna.

LXXI

Giunge in Narbona all'oscurar del giorno,
e, giunto, fa serrar tutte le porte,
e pon le guardie ai ponti e ai passi intorno,
che novella di sé fuor non si porte.
D'un corsar genoese (Oria od Adorno
fosse, non so) quivi trovò a gran sorte
quattro galee, con che predando gia
il mar di Spagna e quel di Barberia.

LXXII

Gano, dato a ciascun debiti premi,
sopra i navigli i suoi pedoni parte;
e, come biancheggiar vide gli estremi
termini d'oriente, indi si parte,
e va quanto più può con vele e remi:
ma tien l'astuto all'arrivar quest'arte,
che non si scuopre a vista di Marsiglia
prima che 'l sol non scenda oltra Siviglia.

LXXIII

La figliuola d'Amon, che non sa ancora
che Rinaldo rubel sia de l'Impero,
veduto il giglio che sì Francia onora,
la croce bianca e l'uccel bianco e il nero,
e poi Vertunno in su la prima prora,
ch'avea l'insegna e il viso di Ruggiero,
senza timor, senz'armi corse al lito,
credendosi ire in braccio al suo marito;

LXXIV

il qual sia, per alcun nuovo accidente,
tornato a lei con parte de l'armata:
non dal marito, ma dal fraudolente
Gano si ritrovò ch'era abbracciata.
Come chi còrre il fior volea, e il serpente
truova che 'l punge; così disarmata,
e senza poter farli altra difesa,
dagli nimici suoi si trovò presa.

LXXV

Si trovò presa ella e la rocca insieme,
ché non vi poté far difesa alcuna.
Il popul, che ciò sente e peggio teme,
chi qua chi là con l'armi si raguna;
il rumor s'ode, come il mar che freme
vòlto in furor da sùbita fortuna:
ma poi Gano parlandogli, e di Carlo
mostrando commission, fece acchetarlo.

LXXVI

Disegna il traditor che di vita esca
la sua inimica, innanzi ch'altri il viete;
poi muta voglia, non che gli n'incresca
né del sangue di lei non abbia sete;
ma spera poter meglio con tal ésca
Rinaldo e Ruggier trarre alla sua rete:
e tolti alcuni seco, con speranza
di me' guardarla, andò verso Maganza.

LXXVII

Dui scudier de la donna, ch'a tal guisa
trar la vedean, montar sùbito in sella
e l'uno andò a Rinaldo et a Marfisa
verso Guascogna a darne la novella;
l'altro Orlando trovar prima s'avisa,
che 'l campo non lontano avea da quella,
da quella strada, per la qual captiva
la sfortunata giovane veniva.

LXXVIII

Orlando avendo in commissione avuto
di dar altrui l'impresa de' Lombardi
et a' Franceschi accorrere in aiuto
contra Rinaldo e gli fratei gagliardi,
era già in ripa al Rodano venuto,
e fermati a Valenza avea i stendardi
dove da Carlo esercito aspettava,
altro n'avea et altro n'assoldava.

LXXIX

Venne il scudiero, e gli narrò la froda
ch'alla donna avea fatto il Conte iniquo,
e ch'in Maganza lungi da la proda
del fiume la traea per calle obliquo;
poi gli soggiunse: — Non patir che goda
d'aver quest'onta il tuo avversario antiquo
fatta al tuo sangue. Se ciò non ti preme,
come potranno in te gli altri aver speme?— —

LXXX

Di sdegno Orlando, ancor che giusto e pio,
fu per scoppiar, perché volea celarlo,
come di Gano il nuovo oltraggio udio;
e benché fa pensier di seguitarlo,
pur se ne scusa e mostrasi restio,
ché far non vuol sì grave ingiuria a Carlo,
per commission del qual sa ch'avea Gano
posto in Marsiglia e ne la donna mano.

LXXXI

Così risponde, e tuttavia dirizza
a far di ciò il contrario ogni disegno;
ché l'onta sì de la cugina attizza,
sì accresce il foco de l'antiquo sdegno,
che non truova per l'ira e per la stizza
loco che 'l tenga, e non può stare al segno:
a pena aspettar può che notte sia,
per pigliar dietro al traditor la via.

LXXXII

Né Brigliador né Vaglientino prese,
perché troppo ambi conosciuti furo;
ma di pel bigio un gran corsier ascese,
ch'avea il capo e le gambe e il crine oscuro:
lassò il quartiero e l'altro usato arnese,
e tutto si vestì d'un color puro:
partì la notte, e non fu chi sentisse,
se non Terigi sol, che si partisse.

LXXXIII

Gano per l'acque Sestie, indi pel monte
alla man destra avea preso il camino;
passò Druenza et Issara, ove il fonte
a men di quattro miglia era vicino:
ché nel paese entrar volea del conte
Macario di Losana, suo cugino;
e per terre di Svizzeri andar poi,
e per Lorena, a' Maganzesi suoi.

LXXXIV

Orlando venne accelerando il passo,
ch'ogni via sapea quivi o breve o lunga;
e come cacciator ch'attenda al passo
ch'a ferire il cingial nel spiedo giunga,
si mise fra dui monti dietro un sasso;
né molto Gano il suo venir prolunga,
che dinanzi e di dietro e d'ambi i lati
cinta la donna avea d'uomini armati.

LXXXV

Lassò di molta turba andare inante
Orlando, prima che mutasse loco;
ma come vide giunger Bradamante,
parve bombarda a cui sia dato il foco:
con sì fiero e terribile sembiante
l'assalto cominciò, per durar poco:
la prima lancia a Gano il petto afferra,
e ferito aspramente il mette a terra.

LXXXVI

Passò lo scudo, la corazza e il petto;
e se l'asta allo scontro era più forte,
gli seria dietro apparso il ferro netto,
né data fòra mai più degna morte.
Pur giacer gli conviene a suo dispetto,
né quindi si può tòr, ch'altri nol porte:
Orlando il lassa in terra e più nol mira,
volta il cavallo e Durindana aggira.

LXXXVII

Le braccia ad altri, ad altri il capo taglia;
chi fin a' denti e chi più basso fende;
chi ne la gola e chi ne la inguinaglia,
chi forato nel petto in terra stende.
Non molto in lungo va quella battaglia,
ché tutta l'altra turba a fuggir prende:
gli caccia quasi Orlando meza lega,
indi ritorna e la cugina slega.

LXXXVIII

La quale, eccetto l'elmo, il scudo e il brando,
tutto il resto de l'armi ritenea:
ché Gano, per alzar sua gloria, quando
non più ch'una donzella presa avea,
pensò, avendola armata, ir dimostrando
che 'l medesimo onor se gli dovea
ch'ad Ercole e Teseo gli antiqui dènno
di quel ch'a Termodonte in Scizia fenno.

LXXXIX

Orlando, che non volse conosciuto
esser d'alcun, indi accusato a Carlo;
e per ciò con un scudo era venuto
d'un sol color, che fece in fretta farlo;
andò là dove Gano era caduto,
e prima l'elmo, senza salutarlo,
e dopo il scudo, la spada gli trasse,
e volse che la donna se n'armasse.

XC

Poi se n'andò fin che a Mattafellone,
il buon destrier di Gan, prese la briglia,
e ritornando fece ne l'arcione
salir d'Amon la liberata figlia;
né, per non dar di sé cognizione,
levò mai la visiera da le ciglia:
poi, senza dir parola, il freno volse,
e di lor vista in gran fretta si tolse.

XCI

Bradamante lo prega che 'l suo nome
le voglia dire, et ottener nol puote:
Orlando in fretta il destrier sprona, e come
corrier che vada a gara, lo percuote.
Va Bradamante a Gano, e per le chiome
gli leva il capo, e due e tre volte il scuote;
et alza il brando nudo ad ogni crollo,
con voglia di spiccar dal busto il collo.

XCII

Ma poi si avvide che, lasciandol vivo,
potria Marsiglia aver per questo mezo,
e gli faria bramar, d'ogn'agio privo,
che di sé fosse già polvere e lezo.
Come ladro il legò, non che cattivo,
e col capo scoperto al sole e al rezo,
per lunga strada or dietro sel condusse,
or cacciò innanzi a gran colpi di busse.

XCIII

Quella sera medesima veduto
le venne quel scudier del quale io dissi
ch'andò a Valenza a dimandare aiuto,
né parve a lui che Orlando lo esaudissi;
indi era dietro all'orme egli venuto
di Gano, per veder ciò che seguissi
de la sua donna, e per poter di quella
ai fratelli portar poi la novella.

XCIV

A costui diede la capezza in mano,
che pel collo, pei fianchi e per le braccia,
sopra un debol roncin l'iniquo Gano
traea legato a discoperta faccia.
Curar la piaga gli fe' da un villano,
che per bisogno in tal opre s'impaccia;
il qual, stridendo Gano per l'ambascia,
tutta l'empie di sal, e a pena fascia.

XCV

Il Maganzese al collo un cerchio d'oro
e preziose annella aveva in dito,
et alla spada un cinto di lavoro
molto ben fatto e tutto d'or guarnito;
e queste cose e l'altre che trovoro
di Gano aver del ricco e del polito,
la donna a Sinibaldo tutte diede,
ch'era di maggior don degna sua fede.

XCVI

A Sinibaldo, che così nomato
era il scudier, con l'altre anco concesse
la gemma in che Vertunno era incantato,
ma non sapendo quanto ella gli desse;
né sapendolo ancora a chi fu dato,
con l'altre annella in dito se lo messe;
stimòllo et ebbe in prezzo, ma minore
di quel ch'avria, sapendo il suo valore.

XCVII

Pel Delfinato, indi per Linguadoca
ne va, dove trovar spera il fratello,
ch'avea Guascogna, o ne restava poca,
omai ridotta al suo voler ribello.
Come la volpe che gallina od oca,
o lupo che ne porti via l'agnello
per macchie o luoghi ove in perpetuo adugge
l'ombra le pallide erbe, ascoso fugge;

XCVIII

ella così da le città si scosta
quanto più può, né dentro mura alloggia;
ma dove trovi alcuna casa posta
fuor de la gente, ivi si corca o appoggia:
il giorno mangia e dorme e sta riposta,
la notte al camin suo poi scende e poggia:
le par mill'anni ogni ora che 'l ribaldo
s'indugi a dar prigion al suo Rinaldo.

XCIX

Come animal selvatico, ridotto
pur dianzi in gabbia o in luogo chiuso e forte,
corre di qua e di là, corre di sotto,
corre di sopra, e non trova le porte;
così Gano, vedendosi condotto
da' suoi nimici a manifesta morte,
cercava col pensier tutti gli modi
che lo potesson trar fuor di quei nodi.

C

Pur la guardia gli lascia un dì tant'agio,
che dà de l'esser suo notizia a un oste;
e gli promette trarlo di disagio
s'andar vuol a Baiona per le poste,
et al Lupo figliuol di Bertolagio
far che non sien le sue miserie ascoste:
ch'in costui spera, tosto che lo intenda,
ch'alli suoi casi alcun rimedio prenda.

CI

L'oste, più per speranza di guadagno
che per esser di mente sì pietosa,
salta a cavallo, e la sferza e 'l calcagno
adopra, e notte o dì poco riposa:
giunse, io non so s'io dica al Lupo o all'agno:
so ch'io l'ho da dir agno in una cosa:
ch'era di cor più timido che agnello,
nel resto lupo insidioso e fello.

CII

Tosto che 'l Lupo ha la novella udita,
senza far il suo cor noto a persona,
con cento cavallier de la più ardita
gente ch'avesse, uscì fuor di Baiona;
e verso dove avea la strada uscita
che facea Bradamante, in fretta sprona;
poi si nasconde in certe case guaste
ch'era tra via, ma ch'a celarlo baste.

CIII

L'oste quivi lasciando i Maganzesi,
andò per trovar Gano e Bradamante,
ché da l'insidie e dagli lacci tesi
non pigliassero via troppo distante.
Non molto andò che di lucenti arnesi
guarnito un cavallier si vide inante,
che cacciando il destrier più che di trotto,
parea da gran bisogno esser condotto.

CIV

Galoppandoli innanzi iva un valletto,
due damigelle poi, poi veniva esso:
le damigelle avean l'una l'elmetto,
la lancia e 'l scudo all'altra era commesso.
Prima che giunga ove lor possa il petto
vedere o 'l viso, o più si faccia appresso,
l'oste all'incontro la figlia d'Amone
vede venir col traditor prigione.

CV

Poi vide il cavallier da le donzelle,
tosto ch'a Bradamante fu vicino,
ire a 'bracciarla, et accoglienze belle
far l'una all'altra a capo umile e chino;
e poi ch'una o due volte iterar quelle,
volgersi e ritornar tutte a un camino:
e chi pur dianzi in tal fretta venia,
lasciar per Bradamante la sua via.

CVI

Quest'era l'animosa sua Marfisa,
la qual non si fermò, tosto ch'intese
de la cognata presa, et in che guisa;
e per ir in Maganza il camin prese,
certa di liberarla, pur ch'uccisa
già non l'avesse il Conte maganzese;
e se morta era, far quivi tai danni,
che desse al mondo da parlar mill'anni.

CVII

L'oste giunse tra lor e salutolle
cortesemente, e mostrò far l'usanza,
ché la sera albergar seco invitolle,
e finse che non lungi era la stanza;
poi, mal accorto, a Gano accennar volle,
e del vicino aiuto dar speranza:
ma dal scudier che Gano avea legato
fu il misero veduto et accusato.

CVIII

Marfisa, ch'avea l'ira e la man presta,
lo ciuffò ne la gola, e l'avria morto,
se non facea la cosa manifesta
ch'avea per Gano ordita, et il riporto;
pur gli travolse in tal modo la testa,
ch'andò poi, fin che visse, a capo torto.
Le chiome in fretta armar, ch'eran scoperte,
de le vicine insidie amendue certe.

CIX

Tolgon tra lor con ordine l'impresa,
che Bradamante non s'abbia a partire,
ma star del traditor alla difesa,
ch'alcun nol scioglia né faccia fuggire;
e che Marfisa attenda a fare offesa
a' Maganzesi, ucciderli e ferire.
Così ne van verso la casa rotta,
dove i nimici ascosi erano in frotta.

CX

L'altre donzelle e i dui scudier restaro,
ch'eran senz'armi, non troppo lontano;
Bradamante e Marfisa se n'andaro
verso gli aguati, avendo in mezo Gano.
Tosto che dritto il loco si trovaro,
saltò Marfisa con la lancia in mano
dentro alla porta, e messe un alto grido,
dicendo: — Traditor, tutti vi uccido. —

CXI

Come chi vespe o galavroni o pecchie
per follia va a turbar ne le lor cave,
se gli sente per gli occhi e per l'orecchie
armati di puntura aspera e grave;
così fa il grido de le mura vecchie
del rotto albergo uscir le genti prave
con un strepito d'armi e, da ogni parte,
tanto rumor ch'avria da temer Marte.

CXII

Marfisa, che dovunque apparia il caso
più periglioso divenia più ardita,
con la lancia mandò quattro all'occaso,
che trovò stretti insieme in su l'uscita;
e col troncon, ch'in man l'era rimaso,
solo in tre colpi a tre tolse la vita.
Ma tornate ad udir un'altra volta
quel che fe' poi ch'ebbe la spada tolta.



CANTO QUARTO


I

Donne mie care, il torto che mi fate
bene è il maggior che voi mai feste altrui:
che di me vi dolete et accusate
che nei miei versi io dica mal di vui,
che sopra tutti gli altri v'ho lodate,
come quel che son vostro e sempre fui:
io v'ho offeso, ignorante, in un sol loco;
vi lodo in tanti a studio, e mi val poco.

II

Questo non dico a tutte, ché ne sono
di quelle ancor c'hanno il giudicio dritto,
che s'appigliano al più che ci è di buono,
e non a quel che per cianciare è scritto;
dàn facilmente a un leve error perdono,
né fan mortal un veni al delitto.
Pur, s'una m'odia, ancor che m'amin cento,
non mi par di restar però contento:

III

ché, com'io tutte riverisco et amo,
e fo di voi, quanto si può far, stima,
così né che pur una m'odii bramo,
sia d'alta sorte o mediocre o d'ima.
Voi pur mi date il torto, et io mel chiamo;
concedo che v'ha offese la mia rima:
ma per una ch'in biasmo vostro s'oda,
son per farne udir mille in gloria e loda.

IV

Occasion non mi verrà di dire
in vostro onor, che preterir mai lassi;
e mi sforzerò ancor farla venire,
acciò il mondo empia e fin nel ciel trapassi;
e così spero vincer le vostr'ire,
se non sarete più dure che sassi:
pur, se sarete anco ostinate poi,
la colpa non più in me serà, ma in voi.

V

Io non lasciai per amor vostro troppo
Gano allegrar di Bradamante presa,
ché venir da Valenza di galoppo
feci il signor d'Anglante in sua difesa;
et or costui che credea sciorre il groppo
di Gano, e far alle guerriere offesa,
a vostro onor udite anco in che guisa,
con tutti i suoi, trattar fo da Marfisa.

VI

Marfisa parve al stringer de la spada
una Furia che uscisse de lo inferno;
gli usberghi e gli elmi, ovunque il colpo cada,
più fragil son che le cannucce il verno;
o che giù al petto o almen che a' denti vada,
o che faccia del busto il capo esterno,
o che sparga cervella, o che triti ossa,
convien che uccida sempre ogni percossa.

VII

Dui ne partì fra la cintura e l'anche:
restar le gambe in sella e cadde il busto;
da la cima del capo un divise anche
fin su l'arcion, ch'andò in dui pezzi giusto;
tre ferì su le spalle o destre o manche;
e tre volte uscì il colpo acre e robusto
sotto la poppa dal contrario lato:
dieci passò da l'uno all'altro lato.

VIII

Lungo saria voler tutti gli colpi
de la spada crudel, dritti e riversi,
quanti ne sveni, quanti snervi e spolpi,
quanti ne tronchi e fenda porre in versi.
Chi fia che Lupo di viltade incolpi,
e gli altri in fuga appresso a lui conversi,
poi che dal brando che gli uccide e strugge
difender non si può se non chi fugge?

IX

Creduto avea la figlia di Beatrice
d'esser venuta a far quivi battaglia,
e si ritrova giunta spettatrice
di quanto in armi la cognata vaglia:
ché non è alcun del numero infelice
ch'a lei s'accosti pur, non che l'assaglia:
che fan pur troppo, senza altri assalire,
se puon, volgendo il dosso, indi fuggire.

X

D'ogni salute or disperato Gano,
di corvi, d'avoltor ben si vede ésca;
ché, poi che questo aiuto è stato vano,
altro non sa veder che gli riesca.
Lo trasser le cognate a Mont'Albano,
che più che morte par che gli rincresca;
e fin ch'altro di lui s'abbia a disporre,
lo fan calar nel piè giù d'una torre.

X

Ruggiero intanto al suo viaggio intento,
ch'ancor nulla sapea di questo caso,
carcando or l'orza et or la poggia al vento,
facea le prore andar volte all'occaso.
Ogni lito di Francia più di cento
miglia lontano a dietro era rimaso.
Tutta la Spagna, che non sa a ch'effetto
l'armata il suo mar solchi, è in gran sospetto.

XII

La città nominata da l'antico
Barchino Annon, tumultuar si vede;
Taracona e Valenza, e il lito aprico
a cui l'Alano e il Gotto il nome diede;
Cartagenia, Almeria, con ogni vico,
de' bellicosi Vandali già sede;
Malica, Saravigna, fin là dove
la strada al mar diede il figliuol di Giove.

XIII

Avea Ruggier lasciato poche miglia
Tariffa a dietro, e da la destra sponda
vede le Cade, e più lontan Siviglia,
e ne le poppe avea l'aura seconda;
quando a un tratto di man, con maraviglia,
un'isoletta uscir vide de l'onda:
isola pare, et era una balena
che fuor dal mar scopria tutta la schena.

XIV

L'apparir del gran mostro, che ben diece
passi del mar con tutto il dosso usciva,
correr all'armi i naviganti fece,
et a molti bramar d'essere a riva.
Saette e sassi e foco acceso in pece
da tutto il stuolo in gran rumor veniva
di timpani e di trombe, e tanti gridi,
che facea il ciel, non che sonare i lidi.

XV

Poco lor giova ir l'acqua e l'aer vano
di percosse e di strepiti ferendo:
che non si fa per questo più lontano,
né più si fa vicino il pesce orrendo;
quanto un sasso gittar si può con mano,
quel vien l'armata tuttavia seguendo:
sempre le appar col smisurato fianco
ora dal destro lato, ora dal manco.

XVI

Andar tre giorni et altre tante notti,
quanto il corso dal stretto al Tago dura,
che sempre di restar sommersi e rotti
dal vivo e mobil scoglio ebbon paura:
gli assalse il quarto dì, che già condotti
eran sopra Lisbona, un'altra cura:
ché scoperson l'armata di Ricardo
che contra lor venia dal mar Picardo.

XVII

Insieme si conobbero l'armate,
tosto che l'una ebbe de l'altra vista:
Ruggier si crede ch'ambe sian mandate
perché lor meno il Lusitan resista;
e non che, per zizanie seminate
da Gano, l'una l'altra abbia a far trista:
non sa il meschin che colui sia venuto
per ruinarlo, e non per darli aiuto.

XVIII

Fa sugli arbori tutti e in ogni gabbia
e le bandiere stendere e i pennoni,
dare ai tamburi, e gonfiar guance e labbia
a trombe, a corni, a pifari, a bussoni:
come allegrezza et amicizia s'abbia
quivi a mostrar, fa tutti i segni buoni;
gittar fa in acqua i palischermi, e gente
a salutarlo manda umanamente.

XIX

Ma quel di Normandia, ch'assai diverso
dal buon Ruggier ha in ogni parte il core,
al suo vantaggio intento, non fa verso
lui segno alcun di gaudio né d'amore;
ma, con disir di romperlo e sommerso
quivi lasciar, ne vien senza rumore;
e scostandosi in mar, l'aura seconda
si tolle in poppa, ove Ruggier l'ha in sponda.

XX

Poi che vide Ruggiero assenzo al mèle,
armi a' saluti, odio all'amore opporse;
e che, ma tardi, del voler crudele
del capitan di Normandia s'accorse;
né più poter montar sopra le vele
di lui, né per fuggir di mezo tòrse,
si volse e diede a' suoi duri conforti,
ch'invendicati almen non fosser morti.

XXI

L'armata de' Normandi urta e fracassa
ciò che tra via, cacciando Borea, intoppa;
e prore e sponde al mare aperte lassa,
da non le serrar poi chiovi né stoppa:
ch'ogni sua nave al mezo, ove è più bassa,
vince dei Provenzal la maggior poppa.
Ruggier, col disvantaggio che ciascuna
nave ha minor, ne sostien sei contr'una.

XXII

Il naviglio maggior d'ogni normando,
che nel castel da poppa avea Ricardo,
per l'alto un pezzo era venuto orzando:
come su l'ali il pellegrin gagliardo,
che mentre va per l'aria volteggiando,
non leva mai da la riviera il sguardo;
e vista alzar la preda ch'egli attende,
come folgor dal ciel ratto giù scende.

XXIII

Così Ricardo, poi che in mar si tenne
alquanto largo, e vedut'ebbe il legno
con che venia Ruggier, tutte l'antenne
fece carcar fino all'estremo segno;
e, sì come era sopra vento, venne
ad investire, e riuscì il disegno:
ché tutto a un tempo fur l'àncore gravi
d'alto gittate ad attaccar le navi;

XXIV

e correndo alle gomone in aita
più d'una mano, i legni gionti furo.
Da pal di ferro intanto e da infinita
copia di dardi era nissun sicuro:
che da le gagge ne cadea, con trita
calzina e solfo acceso, un nembo scuro:
né quei di sotto a ritrovar si vanno
con minor crudeltà, con minor danno.

XXV

Quelli di Normandia, che di luogo alto
e di numero avean molto vantaggio,
nel legno di Ruggier féro il mal salto,
dal furor tratti e dal lor gran coraggio;
ma tosto si pentir del folle assalto:
ché non patendo il buon Ruggier l'oltraggio,
presto di lor, con bel menar de mani,
fe' squarzi e tronchi e gran pezzi da cani;

XXVI

e via più a sé valer la spada fece,
che 'l vantaggio del legno lor non valse,
o perché contra quattro fosson diece:
con tanta forza e tanto ardir gli assalse!
Fe' di negra parer rossa la pece,
e rosseggiar intorno l'acque salse:
ché da prora e da poppa e da le sponde
molti a gran colpi fe' saltar ne l'onde.

XXVII

Fattosi piazza, e visto sul naviglio
che non era uom se non de' suoi rimaso,
ad una scala corse a dar di piglio,
per montar sopra quel di maggior vaso;
ma veduto Ricardo il gran periglio
in che incorrer potea, provide al caso:
fu la provision per lui sicura,
ma mostrò di pochi altri tener cura.

XXVIII

Mentre i compagni difendean il loco,
andò alli schiffi e fe' gettarli all'acque:
quattro o sei n'avisò; ma il numer poco
fu verso agli altri a chi la cosa tacque.
Poi fe' in più parti al legno porre il foco,
ch'ivi non molto addormentato giacque;
ma di Ruggier la nave accese ancora,
e da le poppe andò sin alla prora.

XXIX

Ricardo si salvò dentro ai batelli,
e seco alcuni suoi ch'ebbe più cari;
e sopra un legno si fe' por di quelli
ch'in sua conserva avean solcati i mari:
indi mandò tutti i minor vasselli
a trar i suoi dei salsi flutti amari:
che per fuggir l'ardente dio di Lenno
in braccio a Teti et a Nettun si denno.

XXX

Ruggier non avea schiffo ove salvarse,
ché, come ho detto, il suo mandato avea
a salutar Ricardo et allegrarse
di quel di che doler più si dovea;
né all'altre navi sue, ch'erano sparse
per tutto il mar, ricorso aver potea:
sì che, tardando un poco, ha da morire
nel foco quivi, o in mar se vuol fuggire.

XXXI

Vede in prua, vede in poppa e ne le sponde
crescer la fiamma, e per tutte le bande:
ben certo è di morir, ma si confonde,
se meglio sia nel foco o nel mar grande:
pur si risolve di morir ne l'onde,
acciò la morte in lungo un poco mande:
così spicca un gran salto da la nave
in mezo il mar, di tutte l'armi grave.

XXXII

Qual suol vedersi in lucida onda e fresca
di tranquillo vivai correr la lasca
al pan che getti il pescator, o all'ésca
ch'in ramo alcun de le sue rive nasca;
tal la balena, che per lunga tresca
segue Ruggier perché di lui si pasca,
visto il salto, v'accorre, e senza noia
con un gran sorso d'acqua se lo ingoia.

XXXIII

Ruggier, che s'era abbandonato e al tutto
messo per morto, dal timor confuso,
non s'avvide al cader, come condutto
fosse in quel luogo tenebroso e chiuso;
ma perché gli parea fetido e brutto,
esser spirto pensò di vita escluso,
il qual fosse dal Giudice superno
mandato in purgatorio o giù all'inferno.

XXXIV

Stava in gran tema del foco penace,
di che avea ne la nuova Fé già inteso.
Era come una grotta ampia e capace
l'oscurissimo ventre ove era sceso:
sente che sotto i piedi arena giace,
che cede, ovunque egli la calchi, al peso:
brancolando le man quanto può stende
da l'un lato e da l'altro, e nulla prende.

XXXV

Si pone a Dio, con umiltà di mente,
de' suoi peccati a dimandar perdono,
che non lo danni alla infelice gente
di quei ch'al ciel mai per salir non sono.
Mentre che in ginocchion divotamente
sta così orando al basso curvo e prono,
un picciol lumicin d'una lucerna
vide apparir lontan per la caverna.

XXXVI

Esser Caron lo giudicò da lunge,
che venisse a portarlo all'altra riva:
s'avvide, poi che più vicin gli giunge,
che senza barca a sciutto piè veniva.
La barba alla cintura si congiunge,
le spalle il bianco crin tutto copriva;
ne la destra una rete avea, a costume
di pescator; ne la sinistra un lume.

XXXVII

Ruggier lo vedea appresso, et era in forse
se fosse uom vivo, o pur fantasma et ombra.
Tosto che del splendor l'altro s'accorse
che feria l'armi e si spargea per l'ombra,
si trasse a dietro e per fuggir si torse,
come destrier che per camino adombra;
ma poi che si mirar l'un l'altro meglio,
Ruggier fu il primo a dimandar al veglio:

XXXVIII

— Dimmi, padre, s'io vivo o s'io son morto,
s'io sono al mondo o pur sono all'inferno:
questo so ben, ch'io fui dal mar absorto;
ma se per ciò morissi, non discerno.
Perché mi veggo armato, mi conforto
ch'io non sia spirto dal mio corpo esterno;
ma poi l'esser rinchiuso in questo fondo
fa ch'io tema esser morto e fuor del mondo.

XXXIX

— Figliuol, — rispose il vecchio — tu sei vivo,
com'anch'io son; ma fòra meglio molto
esser di vita l'uno e l'altro privo,
che nel mostro marin viver sepolto.
Tu sei d'Alcina, se non sai, captivo:
ella t'ha il laccio teso, e al fin t'ha colto,
come colse me ancora, con parecchi
altri che ci vedrai, giovani e vecchi.

XL

Vedendoti qui dentro, non accade
di darti cognizion chi Alcina sia;
che se tu non avessi sua amistade
avuta prima, ciò non t'avverria.
In India vedut'hai la quantitade
de le conversion che questa ria
ha fatto in fere, in fonti, in sassi, in piante,
dei cavallier di ch'ella è stata amante.

XLI

Quei che, per nuovi successor, men cari
le vengono, muta ella in varie forme;
ma quei che se ne fuggon, che son rari,
sì come esserne un tu credo di apporme,
quando giunger li può negli ampli mari
(però che mai non ne abbandona l'orme),
gli caccia in ventre a quest'orribil pesce,
donde mai vivo o morto alcun non esce.

XLII

Le Fate hanno tra lor tutta partita
e l'abitata e la deserta terra:
l'una ne l'Indo può, l'altra nel Scita,
questa può in Spagna e quella in Inghilterra;
e ne l'altrui ciascuna è proibita
di metter mano, et è punita ch'erra:
ma comune fra lor tutto il mare hanno,
e ponno a chi lor par quivi far danno.

XLIII

Tu vederai qua giù, scendendo al basso,
degli infelici amanti i scuri avelli,
de' quali è alcun sì antico, che nel sasso
gli nomi non si puon legger di quelli.
Qui crespo e curvo, qui debole e lasso
m'ha fatto il tempo, e tutti bianchi i velli;
che quando venni, a pena uscìan dal mento
com'oro i peli ch'or vedi d'argento.

XLIV

Quanti anni sien non saprei dir, ch'io scesi
in queste d'ogni tempo oscure grotte:
che qui né gli anni annoverar né i mesi,
né si può il dì conoscer da la notte.
Duo vecchi ci trovai, dai quali intesi
quel da che fur le mie speranze rotte:
che più de la mia età ci avean consunto,
et io gli giunsi a sepelire a punto.

XLV

E mi narrar che, quando giovenetti
ci vennero, alcun'altri avean trovati,
che similmente d'Alcina diletti,
di poi qui presi e posti erano stati:
sì che, figliuol, non converrà ch'aspetti
riveder mai più gli uomini beati,
ma con noi che tre eramo, et ora teco
siam quattro, starti in questo ventre cieco.

XLVI

Ci rimasi io già solo, e poscia dui,
poi da venti dì in qua tre fatti eramo,
et oggi quattro, essendo tu con nui:
ch'in tanto mal grand'aventura chiamo
che tu ci trovi compagnia, con cui
pianger possi il tuo stato oscuro e gramo;
e non abbi a provar l'affanno e 'l duolo
che quel tempo io provai che ci fui solo. —

XLVII

Come ad udir sta il misero il processo
de' falli suoi che l'han dannato a morte,
così turbato e col capo demesso
udia Ruggier la sua infelice sorte.
— Rimedio altro non ci è — soggiunse appresso
il vecchio — che di oprar l'animo forte.
Meco verrai dove, secondo il loco,
l'industria e il tempo n'ha adagiati un poco.

XLVIII

Ma voglio proveder prima di cena,
che qui sempre però non si digiuna. —
Così dicendo, Ruggier indi mena,
cedendo al lume l'ombra e l'aria bruna,
dove l'acqua per bocca alla balena
entra, e nel ventre tutta si raguna:
quivi con la sua rete il vecchio scese
e di più forme pesci in copia prese.

XLIX

Poi, con la rete in collo e il lume in mano,
la via a Ruggier per strani groppi scorse:
al salir et al scendere la mano
ai stretti passi anco talor gli porse.
Tratto ch'un miglio o più l'ebbe lontano,
con gli altri dui compagni al fin trovorse
in più capace luogo, ove all'esempio
d'una moschea, fatto era un picciol tempio.

L

Chiaro vi si vedea come di giorno,
per le spesse lucerne ch'eran poste
in mezzo e per gli canti e d'ogn'intorno,
fatte di nicchi di marine croste:
a dar lor l'oglio traboccava il corno,
ché non è quivi cosa che men coste,
pei molti capidogli che divora
e vivi ingoia il mostro ad ora ad ora.

LI

Una stanza alla chiesa era vicina,
di più famiglia che la lor capace,
dove su bene asciutta alga marina
nei canti alcun commodo letto giace.
Tengono in mezo il fuoco la cucina:
che fatto avea l'artefice sagace,
che per lungo condutto di fuor esce
il fumo, ai luoghi onde sospira il pesce.

LII

Tosto che pon Ruggier là dentro il piede,
vi riconosce Astolfo paladino,
che mal contento in un dei letti siede,
tra sé piangendo il suo fero destino.
Lo corre ad abbracciar, come lo vede:
gli leva Astolfo incontro il viso chino:
e come lui Ruggier esser conosce,
rinuova i pianti, e fa maggior l'angosce.

LIII

Poi che piangendo all'abbracciar più d'una
e di due volte ritornati furo,
l'un l'altro dimandò da qual fortuna
fosson dannati in quel gran ventre oscuro.
Ruggier narrò quel ch'io v'ho già de l'una
e l'altra armata detto, il caso oscuro,
e di Ricardo senza fin si dolse;
Astolfo poi così la lingua sciolse:

LIV

— Dal mio peccato (che accusar non voglio
la mia fortuna) questo mal mi avviene.
Tu di Ricardo, io sol di me mi doglio:
tu pati a torto, io con ragion le pene.
Ma, per aprirti chiaramente il foglio
sì che l'istoria mia si vegga bene,
tu déi saper che non son molti mesi
ch'andai di Francia a riveder mie' Inglesi.

LV

Quivi, per chiari e replicati avisi
essendo più che certo de la guerra
che 'l re di Danismarca e i Dazii e i Frisi
apparecchiato avean contra Inghilterra;
ove il bisogno era maggior mi misi,
per lor vietar il dismontar in terra,
dentro un castel che fu per guardia sito
di quella parte ov'è men forte il lito:

LVI

ché da quel canto il re mio padre Otton
temea che fosse l'isola assalita.
Signor di quel castell'era un barone
ch'avea la moglie di beltà infinita;
la qual tosto ch'io vidi, ogni ragione,
ogni onestà da me fece partita;
e tutto il mio voler, tutto il mio core
diedi in poter del scelerato amore.

LVII

E senza aver all'onor mio riguardo
che quivi ero signor, egli vassallo
(ché contra un debol, quanto è più gagliardo
chi le forze usa, tanto è maggior fallo),
poi che dei prieghi ire il rimedio tardo
e vidi lei più dura che metallo,
all'insidie aguzzar prima l'ingegno,
et indi alla violenzia ebbi il disegno.

LVIII

E perché, come i modi miei non molto
erano onesti, così ancor né ascosi,
fui dal marito in tal sospetto tolto,
che in lei guardar passò tutti i gelosi.
Per questo non pensar che 'l desir stolto
in me s'allenti o che giamai riposi;
et uso atti e parole in sua presenza
da far romper a Giobbe la pacienza.

LIX

E perché aveva pur quivi rispetto
d'usar le forze alla scoperta seco,
dov'era tanto populo, in conspetto
de' principi e baron che v'eran meco;
pur pensai di sforzarlo, ma l'effetto
coprire, e lui far in vederlo cieco;
e mezzo a questo un cavalier trovai,
il qual molt'era suo, ma mio più assai.

LX

A' preghi miei, costui gli fe' vedere
com'era mal accorto e poco saggio
a tener dov'io fossi la mogliere,
che sol studiava in procacciargli oltraggio;
e saria più laudabile parere,
tosto che m'accadesse a far viaggio
da un loco a un altro, com'era mia usanza,
di salvar quella in più sicura stanza.

LXI

Còrre il tempo potea la prima volta
che, per non ritornar la sera, andassi:
che spesso aveva in uso andar in volta
per riparar, per riveder i passi.
Gualtier (che così avea nome) l'ascolta,
né vuol ch'indarno il buon consiglio passi:
pensa mandarla in Scozia, ove di quella
il padre era signor di più castella.

LXII

Quindi segretamente alcune some
de le sue miglior cose in Scozia invia.
Io do la voce d'ir a Londra; e, come
mi par il tempo, un dì mi metto in via;
et ei con Cinzia sua (che così ha nome),
senza sospetto di trovar tra via
cosa ch'all'andar suo fosse molesta,
del castello esce, et entra in la foresta.

LXIII

Con donne e con famigli disarmati
la via più dritta inverso Scozia prese:
non molto andò, che cadde negli aguati,
ne l'insidie che i miei li avean già tese.
Avev'io alcuni miei fedel mandati,
che co' visi coperti in strano arnese
gli furo adosso, e tolser la consorte,
e a lui di grazia fu campar da morte.

LXIV

Quella portano in fretta entro una torre,
fuor de la gente, in loco assai rimoto;
donde a me senza indugio un messo corre,
il qual mi fa tutto il successo noto.
Io già avea detto di volermi tòrre
de l'isola; e la causa di tal moto
era, ch'udiva esser Rinaldo a Carlo
fatto nemico, et io volea aiutarlo.

LXV

Alli amici fo motto; e, come io voglia
passar quel giorno, inverso il mar mi movo;
poi mi nascondo, et armi muto e spoglia,
e piglio a' miei servigi un scudier novo;
e per le selve ove meno ir si soglia,
verso la torre ascosa via ritrovo;
e dove è più solinga e strana et erma,
incontro una donzella che mi ferma,

LXVI

e dice: «Astolfo, giovaràtti poco»
che mi chiamò per nome «andar di piatto;
che ben sarai trovato, e a tempo e a loco
ti punirà quello a chi ingiuria hai fatto.»
Così dice; e ne va poi come foco
che si vede pel ciel discorrer ratto:
la vuo' seguir; ma sì corre, anzi vola,
che replicar non posso una parola.

LXVII

E se n'andò quel dì medesimo anco
a ritrovar Gualtiero afflitto e mesto,
che per dolor si battea il petto e 'l fianco,
e gli fe' tutto il caso manifesto:
non già ch'alcun me lo dicessi, e manco
che con gli occhi i'l vedessi, io dico questo;
ma, così, discorrendo con la mente,
veggo che non puote esser altramente.

LXVIII

Conietturando, similmente, seppi
esser costei d'Alcina messaggera;
che dal dì ch'io mi sciolsi dai suoi ceppi,
sempre venuta insidiando m'era.
Come ho detto, costei Gualtier pei greppi
pianger trovò di sua fortuna fiera;
né chi offeso l'avea gli mostra solo,
ma il modo ancor di vendicar suo duolo.

LXIX

E lo pon, come suol porre alla posta
il mastro de la caccia i spiedi e i cani;
e tanto fa, ch'un mio corrier, ch'in posta
mandav'a Antona, gli fa andar in mani.
Io scrivea a un mio, ch'ivi tenea a mia posta
un legno per portarmi agli Aquitani,
il giorno ch'io volea che fosse a punto
in certa spiaggia per levarmi giunto.

LXX

Né in Antona volea né in altro porto,
per non lasciar conoscermi, imbarcarmi:
del segno ancora io lo faceva accorto
col qual volea dal lito a lui mostrarmi,
acciò stando sul mar tuttavia sorto
mandasse il palischermo indi a levarmi;
et, all'incontro, il segno che dovessi
far egli a me in la lettera gli espressi.

LXXI

Ben fu Gualtier de la ventura lieto,
che sì gli apria la strada alla vendetta.
Fe' che tornar non poté il messo, e, cheto,
dov'era un suo fratel se n'andò in fretta,
e lo pregò che gli armasse in segreto
un legno di fedele gente eletta.
Avuto il legno, il buon Gualtiero corse
al capo di Lusarte, e quivi sorse.

LXXII

Vicino a questo mar sedea la rocca,
dove aspettava in parte assai selvaggia,
sì ch'apparir veggo lontan la cocca
col segno da me dato in su la gaggia:
io, d'altra parte, quel ch'a me far tocca
gli mostro da la torre e da la spiaggia.
Manda Gualtier lo schiffo, e me raccoglie,
et un scudier c'ho meco, e la sua moglie.

LXXIII

Né sé né alcun de' suoi ch'io conoscessi
prima scopersi che sul legno fui;
ove lasciando a pena ch'io dicessi:
— Dio aiutami —, pigliar mi fece ai sui,
che come vespe e galavroni spessi
mi s'aventaro; e, comandando lui,
in mar buttarmi, ove già questa fera,
come Alcina ordinò, nascosa s'era.

LXXIV

Così 'l peccato mio brutto e nefando,
degno di questa e di più pena molta,
m'ha chiuso qui, onde di come e quando
io n'abbia a uscir, ogni speranza è tolta;
quella protezion tutta levando,
che san Giovanni avea già di me tolta. —
Poi ch'ebbe così detto, allentò il freno
Astolfo al pianto, e bagnò il viso e 'l seno.

LXXV

Ruggier, che come lui non era immerso
sì nel dolor, ma si sentia più sorto,
gli studiava, inducendogli alcun verso
de la Scrittura, di trovar conforto.
— Non è — dicea — del Re de l'universo,
l'intenzion che 'l peccator sia morto,
ma che dal mar d'iniquitadi a riva
ritorni salvo, e si converti e viva.

LXXVI

Cosa umana è a peccar; e pur si legge
che sette volte il giorno il giusto cade;
e sempre a chi si pente e si corregge
ritorna a perdonar l'Alta bontade:
anzi, d'un peccator che fuor del gregge
abbi errato, e poi torni a miglior strade,
maggior gloria è nel regno degli eletti,
che di novantanove altri perfetti. —

LXXVII

Per far nascer conforto, cotal seme
il buon Ruggier venìa spargendo quivi;
poi ricordava ch'altra volta insieme
d'Alcina in Oriente fur captivi;
e come di là usciro, anco aver speme
dovean d'uscir di questo carcer vivi.
— S'allora io fui — dicea — degno d'aita,
or ne son più, che son miglior di vita. —

LXXVIII

E seguitò: — Se quando ne l'errore
de la dannata legge ero perduto,
e ne l'ozio sommerso e nel fetore
tutto d'Alcina, come animal bruto,
mi liberò il mio sommo almo Fattore;
perché sperar non debbo ora il suo aiuto,
che per la Fede essendo puro e netto
di molte colpe, io so che m'ha più accetto?

LXXIX

Creder non voglio che 'l demonio rio,
dal qual la forza di costei dipende,
possa nuocere agli uomini che Dio
per suoi conosce e che per suoi difende.
Se vera fede avrai, se l'avrò anch'io,
Dio la vedrà che i nostri cori intende:
e vedendola vera, abbi speranza
che non avrà il demonio in noi possanza. —

LXXX

Astolfo, presa la parola, disse:
— Questo ogni buon cristian de' tener certo.
Non scese in terra Dio, né con noi visse,
né in vita e in morte ha tanto mal sofferto,
perché il nimico suo dipoi venisse
a riportar di sua fatica il merto.
Quel che sì ricco prezzo costò a lui,
non lascerà sì facilmente altrui.

LXXXI

Non manchi in noi contrizione e fede,
e di pregar con purità di mente;
che Dio non può mancarci di mercede:
Egli lo disse, e il dir suo mai non mente.
Scritto ha nel suo Evangelio: «Ch'in me crede,
uccide nel mio nome ogni serpente,
il venen bee senza che mal gli faccia,
sana gli infermi e gli demoni scaccia.»

LXXXII

E dice altrove: «Quando con perfetta
fede ad un monte a commandar tu vada:
"“Di qui ti leva, e dentro il mar ti getta"”;
che 'l monte piglierà nel mar la strada.»
Ma perché fede quasi morta è detta
quella che sta senza fare opre a bada,
procacciamo con buon'opre che sia
più grata a Dio la tua fede e la mia.

LXXXIII

Proviam di trarre alla vera credenza
quest'altri che son qui presi con nui;
di che già fatto ho qualche esperienza,
ma poco un parer mio può contra dui.
Forse saremo a mutar lor sentenza
meglio insieme tu et io, ch'io sol non fui;
e se potiam questi al demonio tòrre,
non ha qua dentro poi dove si porre.

LXXXIV

E Dio, tutti vedendone fedeli
pregar la sua clemenza che n'aiute,
dal fonte di pietà scender dai cieli
farà qua dentro un fiume di salute. —
Così dicean; poi salmi, inni e vangeli,
orazion che a mente avean tenute,
incominciar i cavallier devoti,
e a porr'in opra i prieghi e i pianti e i voti.

LXXXV

Intanto gli altri dui con studio grande
cercavan di far vezzi al novell'oste.
Di vari pesci varie le vivande
a rosto e lesso al foco erano poste.
Poco inanzi, un naviglio da le bande
di Vinegia, spezzato ne le coste,
la balena s'avea cacciato sotto
e tratto in ventre in molti pezzi rotto;

LXXXVI

e le botte e le casse e gli fardelli
tutti nel ventre ingordo erano entrati.
Gli naviganti soli coi batelli
ai legni di conserva eran campati:
sì che v'è da dar foco, e nei piatelli
da condir buoni cibi e delicati
con zucchero e con spezie; et avean vini
e còrsi e grechi, preciosi e fini.

LXXXVII

Passavano pochi anni, ch'una o due
volte non si rompesson legni quivi;
donde i prigion per le bisogne sue
cibi traean da mantenersi vivi.
Poser la cena, come cotta fue;
s'avessen pane o se ne fosson privi,
non so dir certo: ben scrive Turpino
che sotto il gorgozulle era un molino,

LXXXVIII

che con l'acque ch'entravan per la bocca
del mostro, il grano macinava a scosse,
il quale o in barcia o in caravella o in cocca
rotta, là dentro ritrovato fosse.
D'una fontana similmente tocca,
ch'a ridirla le guance mi fa rosse:
lo scrive pure, et il miracol copre
dicendo ch'eran tutte magich'opre.

LXXXIX

Non l'afferm'io per certo né lo niego:
se pane ebbono o no, lo seppon essi.
Gli dui fedel, de' dui infedeli al prego,
fen punto ai salmi, e a tavola son messi.
Ma di Astolfo e Ruggier più non vi sego:
diròvvi un'altra volta i lor successi.
Finch'io ritorno a rivederli, ponno
cenare ad agio, e dipoi fare un sonno.

XC

Intanto Carlo, alla battaglia intento
che 'l re boemme aver dovea con lui,
senza sospetto ignun che tradimento
(quel che non era in sé) fosse in altrui,
facea provar destrier, che cento e cento
n'avea d'eletti alli bisogni sui;
e gli migliori, a chi facea mestieri,
largamente partia fra i suoi guerrieri.

XCI

Non solo aver per sé buona armatura
quanto più si potea forte e leggiera,
ma trovarne ai compagni anco avea cura,
che se mai lor ne fu bisogno, or n'era.
Seco gli usava alla fatica dura
due fiate ogni dì, mattino e sera;
e seco in maneggiar arme e cavallo
facea provarli, e non ferire in fallo.

XCII

Ma Cardoran, che non ha alcun disegno
di por lo stato a sorte d'una pugna,
viene aguzzando tuttavia l'ingegno,
sì come tronchi all'augel santo l'ugna.
Aspetta e spera d'Ungheria, e dal regno
de li Sassoni ormai, ch'aiuto giugna:
la notte e il giorno intanto unqua non testa
di far più forte or quella cosa or questa.

XCIII

E ridur si fa dentro a poco a poco
e vettovaglia e munizione e gente,
ché per la tregua, in assediar quel loco
l'esercito era fatto negligente;
e parea quasi ritornata in gioco
la guerra ch'a principio era sì ardente;
e scemata di qui più d'una lancia,
contra Rinaldo era tornata in Francia.

XCIV

Sansogna e Slesia et Ungheria una bella
e grossa armata insieme posta avea:
la gente di Sansogna, e così quella
di Slesia, i pedestri ordini movea;
venir con questi, e la più parte in sella,
l'esercito de l'Ungar si vedea;
poi seguia un stuol di Traci e di Valachi,
Bulgari, Servian, Russi e Polachi.

XCV

Questi mandava il greco Costantino,
e per suo capitano un suo fratello;
sì come quel ch'a Carlo di Pipino
portava iniqua invidia et odio fello,
per esser fatto imperador latino
e usurparli il coronato augello.
Ben di lor mossa e di lor porse in via
avuto Carlo avea più d'una spia;

XCVI

ma, com'ho detto, Gano con diversi
mezi gli avea cacciato e fisso in mente
che si metteva insieme per doversi
mandar verso Ellesponto quella gente,
e tragittarsi in Asia contra i Persi
ch'avean presa Bittinia nuovamente;
e ch'era a petizion fatta et instanza
del greco imperator la ragunanza.

XCVII

Né ch'ella fosse alli suoi danni volta
prima sentì, ch'era in Boemmia entrata;
sì che ben si pentì più d'una volta
che la sua più del terzo era scemata.
Già credendo aver vinto, quindi tolta
n'avea una parte et al nipote data.
Ma quel ch'oggi dir volsi è qui finito:
chi più ne brama udir, domani invito.



CANTO QUINTO


I

Un capitan che d'inclito e di saggio
e di magno e d'invitto il nome merta,
non dico per ricchezze o per lignaggio,
ma perché spesso abbia fortuna esperta,
non si suol mai fidar sì nel vantaggio,
che la vittoria si prometta certa:
sta sempre in dubbio ch'aver debbia cosa
da ripararsi il suo nimico ascosa.

II

Sempre gli par veder qualche secreta
fraude scoccar, ch'ogni suo onor confonda:
ché pur là dove è più tranquilla e queta,
più perigliosa è l'acqua e più profonda;
perciò non mai prosperità sì lieta
né tal baldanza a' suoi desir seconda,
che lasciar voglia gli ordini e i ripari
che faria avendo uomini e Dei contrari.

III

Io 'l dirò pur, se bene audace parlo,
che quivi errò quel sì lodato ingegno
col qual paruto era più volte Carlo
saggio e prudente e più d'ogn'altro degno:
ma il vincer Cardorano, e vinto trarlo,
glorioso spettacolo, al suo regno,
quivi gli avea così occupati i sensi,
ch'altro non è che ascolti, vegga e pensi.

IV

Né si scema sua colpa, anzi augumenta,
quando di Gano il mal consiglio accusi.
Per lui vuol dunque ch'altri vegga o senta,
et ei star tuttavia con gli occhi chiusi?
Dunque l'aloppia Gano e lo addormenta,
e tutti gli altri ha dai segreti esclusi?
Ben seria il dritto che tornasse il danno
solamente su quei che l'error fanno.

V

Ma, pel contrario, il populo innocente,
il cui parer non è chi ascolti o chieggia,
è le più volte quel che solamente
patisce quanto il suo signor vaneggia.
Carlo, che non ha tempo che di gente,
né che d'altro ripar più si proveggia,
quella con diligenzia, che si trova,
tutta rivede e gli ordini rinova.

VI

E come che passar possa la Molta
sul ponte che v'è già fatto a man destra,
e sua gente ne li ordini raccolta
ritrarre ai monti et alla strada alpestra;
e ver' le terre Franche indi dar volta,
o dove creda aver la via più destra:
pur ogni condizion dura et estrema
vuol patir, prima che mostrar che tema.

VII

Or quel muro ch'opposto avea alla terra
tra un fiume e l'altro con sì lungo tratto,
fa con crescer di fosse, e legne e terra,
più forte assai che non avea già fatto;
e con gente a bastanza i passi serra,
acciò non, mentre attende ad altro fatto,
questi di Praga, ritrovato il calle
di venir fuor, l'assaltino alle spalle.

VIII

L'un nimico avea dietro e l'altro a fronte,
e vincer quello e questo animo avea.
L'esercito de' Barbari su al monte
passò l'Albi, vicino ove sorgea.
Carlo tenea sopra l'altr'acqua il ponte,
ch'uscìa verso la selva di Medea;
e quello alla sua gente, che divise
in tre battaglie, al destro fianco mise.

IX

E così fece che 'l sinistro lato
non men difeso era da l'altro fiume:
si pose dietro l'argine e il steccato,
da non poter salir senza aver piume.
Il corno destro ad Olivier fu dato,
del sangue di Borgogna inclito lume,
che cento fanti avea per ogni fila,
le file cento, con cavai seimila.

X

Ebbe il Danese in guardia l'altro corno,
con numer par de fanti e de cavalli.
L'imperator, di drappo azurro adorno
tutto trapunto a fior de gigli gialli,
reggea nel mezo; e i Paladini intorno,
duchi, marchesi e principi vassalli,
e sette mila avea di gente equestre,
e duplicato numero pedestre.

XI

All'incontro, il stuol barbaro, diviso
in tre battaglie, era venuto inanti,
men d'una lega appresso a questi assiso,
e similmente avea i dui fiumi ai canti.
Cento settanta mila era il preciso
numer, ch'un sol non ne mancava a tanti;
e in ogni banda con ugual porzioni
partiti i cavalli erano e i pedoni.

XII

Ogni squadra de' Barbari non manco
ivi quel giorno stata esser si crede,
che tutto insieme fosse il popul franco,
quanto ve n'era, chi a caval, chi a piede:
ma tal ardir e tal valor, tal anco
ordine avean questi altri, e tanta fede
nel suo signor, d'ingegno e di prudenza,
che ciascun valer quattro avea credenza.

XIII

Ma poi sentir, che si trovar in fatto,
che pur troppo era un sol, non che a bastanza;
né di quella battaglia ebbono il patto
che lor promesso avea lor arroganza:
e potea Carlo rimaner disfatto
se Dio, che salva ch'in lui pon speranza,
non gli avesse al bisogno proveduto
d'un improviso e non sperato aiuto.

XIV

E non poteron sì l'insidie astute,
l'arte e l'ingan del traditor crudele,
che non potesse più chi per salute
nostra morendo, volse bere il fele:
Gano le ordì, ma al fin l'Alta virtute
fece in danno di lui tesser le tele:
lo fe' da Bradamante e da Marfisa
metter prigione, e detto v'ho in che guisa.

XV

Quelle gli avean già ritrovato adosso
lettere e contrasegni e una patente,
per le quali apparea che Gano mosso
non s'era a tòr Marsiglia di sua mente,
ma che venuto il male era da l'osso:
Carlo n'era cagion principalmente;
e vider scritto quel ch'in mar appresso
per distrugger Ruggier s'era commesso.

XVI

E leggendo, Marfisa vi trovoro
e Ruggier traditori esser nomati,
perché, partiti da le guardie loro,
in favor di Rinaldo erano andati;
e per questo ribelli ai gigli d'oro
eran per tutto il regno divulgati;
e Carlo avea lor dietro messo taglia,
sperando averli in man senza battaglia.

XVII

Marfisa, che sapea che alcun errore,
né suo né del fratello, era precorso,
pel qual dovesse Carlo imperatore
contr'essi in sì grand'ira esser trascorso,
di giusto sdegno in modo arse nel core,
che, quanto ir si potea di maggior corso,
correr penso in Boemia e uccider Carlo,
che non potrian suoi Paladin vietarlo.

XVIII

E ne parlò con Bradamante, e appresso
col Selvaggio Guidon, ch'ivi era allora:
ché Mont'Alban gli avea il fratel commesso
che vi dovesse far tanta dimora
che Malagigi, come avea promesso,
venisse; e l'aspettava d'ora in ora
per dar a lui la guardia del castello,
e poi tornar in campo al suo fratello.

XIX

Marfisa ne parlò, come vi dico,
ai dui germani, e gli trovò disposti
che s'abbia a trattar Carlo da nimico
e far che l'odio lor caro gli costi;
che si meni con lor Gano, il suo amico,
e che s'un par di forche ambi sian posti;
e che si scanni, tronchi, tagli e fenda
qualunque d'essi la difesa prenda.

XX

Guidon, ch'andar con lor facea pensiero
né lasciar senza guardia Mont'Albano,
espedì allora allora un messaggiero,
ch'andò a far fretta al frate di Viviano;
e gli parve che fosse quel scudiero
che tratto avea quivi legato Gano;
per narrar lui che la figlia d'Amone
libera e sciolta, e Gano era prigione.

XXI

Sinibaldo, il scudier, calò del monte
e verso Malagigi il camin tenne;
e noi potendo aver in Agrismonte,
più lontan per trovarlo ir gli convenne.
Ma il dì seguente Alardo entrò nel ponte
di Mont'Albano; e bene a tempo venne,
ché, lui posto in suo loco, entrò in camino
Guidon, senza aspettar più il suo cugino.

XXII

Egli e le donne, tolto i loro arnesi,
in Armaco e a Tolosa se ne vanno
due donzelle e tre paggi avendo presi,
col conte di Pontier che legato hanno.
Lasciànli andar, che forse più cortesi
che non ne fan sembianti, al fin seranno:
diciam del messo il qual da Mont'Albano
vien per trovar il frate di Viviano.

XXIII

Non era in Agrismonte, ma in disparte,
tra certe grotte inaccessibil quasi,
dove imagini sacre, sacre carte,
sacri altar, pietre sacre e sacri vasi,
et altre cose appartinenti all'arte,
de le quai si valea per vari casi,
in un ostello avea ch'in cima un sasso
non ammettea, se non con mani, il passo.

XXIV

Sinibaldo, che ben sapea il camino
(ché vi venne talor con Malagigi,
del qual da' tener'anni piccolino
fin a' più forti stato era a' servigi),
giunse all'ostello, e trovò l'indovino
ch'avea sdegno coi spirti aerii e stigi,
ché scongiurati avendoli due notti
gli lor silenzi ancor non avea rotti.

XXV

Malagigi volea saper s'Orlando
nimico di Rinaldo era venuto,
sì come in apparenza iva mostrando,
o pur gli era per dar secreto aiuto:
perciò due notti i spirti scongiurando,
l'aria e l'inferno avea trovato muto;
ora s'apparecchiava al ciel più scuro
provar il terzo suo maggior scongiuro.

XXVI

La causa che tenean lor voci chete
non sapeva egli, et era nigromante;
e voi non nigromanti lo sapete,
mercé che già ve l'ho narrato inante.
Quando contra l'imperio ordì la rete
Alcina, s'ammutiro in un instante,
eccetto pochi, che serbati fòro
da quelle Fate alli servigi loro.

XXVII

Malagigi, al venir di Sinibaldo,
molto s'allegra udendo la novella
che sia di man del traditor ribaldo
in libertà la sua cugina bella,
e ch'in la gran fortezza di Rinaldo
si truovi chiuso in potestà di quella;
e gli par quella notte un anno lunga,
che veder Gano preso gli prolunga.

XXVIII

Perciò s'affretta con la terza prova
di vincer la durezza dei demoni;
e con orrendo murmure rinova
preghi, minacce e gran scongiurazioni,
possenti a far che Belzebù si mova
con le squadre infernali e legioni.
La terra e il cielo è pien di voci orrende;
ma del confuso suon nulla s'intende.

XXIX

Il mutabil Vertunno, ne l'anello
che Sinibaldo avea sendo nascosto
(sapete già come fu tolto al fello
Gan di Maganza, e in altro dito posto:
non che 'l scudier virtù sapesse in quello,
ma perché il vedea bello e di gran costo),
Vertunno, a cui il parlar non fu interdetto,
là si trovò con gli altri spirti astretto.

XXX

E perché il silinguagnolo avea rotto,
narrò di Gano l'opera volpina,
ch'a prender varie forme l'avea indotto
per por Rinaldo e i suoi tutti in ruina;
e gli narrò l'istoria motto a motto,
e da Gloricia cominciò e d'Alcina,
fin che sul molo Bradamante ascesa
per fraude fu con la sua terra presa.

XXXI

Maravigliossi Malagigi, e lieto
fu ch'un spirto a sé incognito gli avesse
a caso fatto intendere un secreto
che saper d'alcun altro non potesse.
L'anel in ch'era chiuso il spirto inquieto,
nel dito onde lo tolse, anco rimesse;
e la mattina andò verso Rinaldo,
pur con la compagnia di Sinibaldo.

XXXII

Rinaldo dava il guasto alla campagna
de li Turoni e la città premea;
ché, costeggiando Arverni e quei di Spagna,
col lito di Pittoni e di Bordea,
se gli era il pian renduto e la montagna,
né fatto colpo mai di lancia avea:
ma già per l'avvenir così non fia,
poi ch'Orlando al contrasto gli venia.

XXXIII

Orlando amò Rinaldo, e gli fu sempre
a far piacer e non oltraggio pronto;
ma questo amore è forza che distempre
il veder far del re sì poco conto.
Non sa trovar ragion per la qual tempre
l'ira c'ha contra lui per questo conto:
cagion non gli può alcuna entrar nel core,
che scusi il suo cugin di tanto errore.

XXXIV

Or se ne vien il paladino innanti
quanto più può verso Rinaldo in fretta;
e seco ha cavallieri, arcieri e fanti,
varie nazion, ma tutta gente eletta.
Sa Rinaldo ch'ei vien; né fa sembianti
quali far debbe chi 'l nimico aspetta:
tanto sicur di quello si tenea
ch'in nome suo detto 'l demon gli avea.

XXXV

Da campo a Torse, ove era, non si mosse,
né curò d'alloggiarsi in miglior sito.
È ver che nel suo cuor maravigliosse
che, dopo che Terigi era partito,
avisato dal conte più non fosse,
per tramar quanto era tra loro ordito:
molto di ciò maravigliossi, e molto
ch'avessi il baston d'or contra sé tolto;

XXXVI

e non gli avesse innanzi un dei mal nati
del scelerato sangue di Maganza
mandato a castigar de li peccati
indegni di trovar mai perdonanza:
ma tal contrari non puon far che guati
fuor di quanto gli mostra la fidanza,
né che per suo vantaggio se gli affronti,
dove vietar gli possa guadi o ponti.

XXXVII

Ben mostra far provision; ma solo
fa per dissimulare e per coprire
l'accordo ch'aver crede col figliuolo
del buon Milon, da non poter fallire.
Ma 'l Conte, che non sa di Gano il dolo,
fa le sue genti gli ordini seguire;
né questa né altra cosa pretermette,
ch'a valoroso capitan si spette.

XXXVIII

Alla sua giunta, tutti i passi tolle,
che non venga a Rinaldo vettovaglia;
e di quanti ne prese, alcun non volle
vivo serbar, ma impicca e i capi taglia.
Quel donde più Rinaldo d'ira bolle,
è che 'l cugin fa publicar la taglia,
la qual su la persona il re de' Franchi
bandita gli ha di cento mila franchi.

XXXIX

Et ha fatto anco publicar per bando
che 'l re vuol perdonar a tutti quelli
che verran ne l'esercito d'Orlando
e lasceran Rinaldo e gli fratelli.
Rinaldo al fin si vien certificando
ch'Orlando esser non vuol de li ribelli;
e si conosce, in somma, esser tradito,
ma quando non vi può prender partito.

XL

Vede che se non vien al fatto d'arme,
ancor che noi può far con suo vantaggio,
di fame sarà vinto, se non d'arme,
ch'a lui nave ir non può né cariaggio;
e teme appresso, che la gente d'arme
un giorno non si levi a farli oltraggio:
ché non è cosa che più presto chiame
a ribellarsi un campo, che la fame.

XLI

Mirava le sue genti, e gli parea
che di febre sentissero ribrezo:
sì la giunta d'Orlando ognun premea,
ch'avean creduto dover star di mezo.
Rinaldo, poiché forza lo traea,
fece tutto il suo campo uscir del rezo,
e cautamente, in quattro schiere armato,
al Conte il fe' veder fuor del steccato.

XLII

Già prima i fanti e i cavallieri avea
con Unuldo partito e con Ivone;
quei di Medoco il duca conducea,
con quei di Villanova e di Rione,
da San Macario, l'Aspara e Bordea,
Selva Maggior, Caorsa e Talamone,
e gli altri che dal mar fino in Rodonna
tra Cantello s'albergano e Garonna.

XLIII

Usciti erano gli Auscii e gli Tarbelli
sotto i segni d'Unuldo alla campagna;
gli Cotueni e gli Ruteni, e quelli
de le vallee che Dora e Niva bagna;
e gli altri che le ville e gli castelli
quasi vuoti lasciar de la montagna
che già natura alzò per muro e sbarra
al furore aquitano e di Navarra.

XLIV

Rinaldo gli Vassari e gli Biturgi,
Tabali, Petrocori avea in governo,
e Pittoni e gli Movici e Cadurgi,
con quei che scesi eran dal monte Arverno;
e quei ch'avean tra dove, Loria, surgi,
e dove è meta al tuo viaggio eterno,
le montagne lasciate e le maremme,
con quei di Borgo, Blaia et Angolemme.

XLV

Et oltre a questi, avea d'altro paese
e fanti e cavallier di buona sorte;
di quai parte avea prima, e parte prese
dal suo signor, quando partì di corte;
tutti all'onor di lui, tutti all'offese
di suoi nimici pronti sino a morte.
Dato avea in guardia questo stuol gagliardo
a Ricciardetto et al fratel Guicciardo.

XLVI

Unuldo d'Aquitania era nel destro,
Ivo sul fiume avea il sinistro corno;
de la schiera di mezo fu il maestro
Rinaldo, che quel dì molto era adorno
d'un ricco drappo di color cilestro
sparso di pecchie d'or dentro e d'intorno,
che cacciate parean dal natio loco
da l'ingrato villan con fumo e foco.

XLVII

E perché ad ogni incommodo occorresse
(che non men ch'animoso, era discreto),
contra quei de la terra il fratei messe,
con buona gente, per far lor divieto
che, mentre gli occhi e le man volte avesse
a quei dinanzi, non venisser drieto,
o venisser da' fianchi, e con gran scorno,
oltre il danno, gli dessero il mal giorno.

XLVIII

Da l'altra parte il capitan d'Anglante
quelli medesimi ordini gli oppone:
fa lungo il fiume andar Teone innante,
figliuolo e capitan di Tassillone;
da l'altro corno al conte di Barbante,
alla schiera di mezo egli s'oppone.
Bianca e vermiglia avea la sopravesta,
ma di ricamo d'or tutta contesta.

XLIX

Ne l'un quartiero e l'altro la figura
d'un rilevato scoglio avea ritratta,
che sembra dal mar cinto, e che non cura
che sempre il vento e l'onda lo combatta.
L'uno di qua, l'altro di là procura
pigliar vantaggio, e le sue squadre adatta
con tal rumor e strepito di trombe
che par che triemi il mar e 'l ciel ribombe.

L

Già l'uno e l'altro avea, con efficace
et ornato sermon, chiaro e prudente,
cercato d'animar e fare audace
quanto potuto avea più la sua gente.
Era d'ambi gli eserciti capace
il campo, sino al mar largo e patente;
ché non s'era indugiato a questo giorno
a levar boschi e far spianate intorno.

LI

Gli corridori e l'arme più leggiere,
e quei che i colpi lor credono al vento,
or lungi, or presso, intorno alle bandiere
scorrono il pian con lungo avvolgimento;
mentre gli uomini d'arme e le gran schiere
vengon de' fanti a passo uguale e lento,
sì che né picca a picca o piede a piede,
se non quanto vuol l'ordine, precede.

LII

L'un capitano e l'altro a chiuder mira
dentro 'l nimico, e poi venirli a fianco.
Teon, per questo, il corno estende e gira,
e Ivo il simil fa dal lato manco.
Andar da l'altra parte non s'aspira,
ché l'acqua vi facea sicuro e franco
a Rinaldo il sinistro, al Conte serra
il destro corno il gran fiume de l'Erra.

LIII

L'un campo e l'altro venìa stretto e chiuso
con suo vantaggio, stretto ad affrontarsi:
tutte le lance con le punte in suso
poteano a due gran selve assimigliarsi,
le quai venisser, fuor d'ogn'uman uso,
forse per magica arte, ad incontrarsi.
Cotali in Delo esser doveano, quando
andava per l'Egeo l'isola errando.

LIV

All'accostarsi, al ritener del passo,
all'abbassar de l'aste ad una guisa,
sembra cader l'orrida Ircina al basso,
che tutta a un tempo sia dal piè succisa:
un fragor s'ode, un strepito, un fracasso,
qual forse Italia udì quando divisa
fu dal monte Apennin quella gran costa
che su Tifeo per soma eterna è imposta.

LV

Al giunger degli eserciti si spande
tutto 'l campo di sangue e 'l ciel di gridi:
a un volger d'occhi in mezo e da le bande
ogni cosa fu piena d'omicidi:
in gran confusion tornò quel grande
ordine, e non è più chi regga o guidi,
o ch'oda o vegga; ché conturba e involve,
assorda e accieca il strepito e la polve.

LVI

A ciascuno a bastanza, a ciascun troppo
era d'aver di se medesmo cura.
La fanteria fu per disciorre il groppo,
perduto 'l lume in quella nebbia oscura:
ma quelli da cavallo al fiero intoppo
già non ebbon la fronte così dura;
le prime squadre sùbito e l'estreme
di qua e di là restar confuse insieme.

LVII

Le compagnie d'alcuni, che promesso
s'avean di star vicine, unite e strette,
e l'un l'altro in aiuto essersi appresso
né si lasciar se non da morte astrette,
in modo si disciolser che rimesso
non fu più 'l stuol fin che la pugna stette;
e di cento o di più ch'erano stati,
al dipartir non foro i dui trovati.

LVIII

Ché da una parte Orlando e da l'altra era
Rinaldo entrato, e prima con la lancia
forando petti e più d'una gorgiera,
più d'un capo, d'un fianco e d'una pancia;
poi, l'un con Durindana, e con la fera
Fusberta l'altro, i dui lumi di Francia,
a' colpi, qual fece in Val Flegra Marte,
poneano in rotta e l'una e l'altra parte.

LIX

Come nei paschi tra Primaro e Filo,
voltando in giù verso Volana e Goro,
nei mesi che nel Po cangiato ha il Nilo
il bianco uccel ch'a' serpi dà martoro,
veggiàn, quando lo punge il fiero asilo,
cavallo andare in volta, asino e toro,
così veduto avreste quivi intorno
le schiere andar senza pigliar soggiorno.

LX

A Rinaldo parea che, distornando
da quella pugna il cavallier di Brava,
gli suoi sarebbon vincitori, quando
sol Durindana è che gli afflige e grava;
di lui parea il medesimo ad Orlando:
che se da le sue genti il dilungava,
facilmente alli Franchi e alli Germani
cederiano i Pittoni e gli Aquitani.

LXI

Perciò l'un l'altro, con gran studio e fretta
e con simil desir, par che procacci
di ritrovarsi, e da la turba stretta
tirarse in parte ove non sia ch'impacci.
Per vietarli il camin nessun gli aspetta,
non è chi lor s'opponga o che s'affacci;
ma in quella parte ove gli veggon volti,
tutti le spalle dàn, nissuno i volti.

LXII

Come da verde margine di fossa
dove trovato avean lieta pastura,
le rane soglion far sùbita mossa
e ne l'acqua saltar fangosa e scura
se da vestigio uman l'erba percossa
o strepito vicin lor fa paura;
così le squadre la campagna aperta
a Durindana cedono e a Fusberta.

LXIII

Gli duo cugin, di lance proveduti
(che d'olmo l'un, l'altro l'avea di cerri),
s'andaro incontro, e i lor primi saluti
furo abbassarsi alle visiere i ferri.
Gli dui destrier, che senton con ch'acuti
sproni alli fianchi il suo ciascun afferri,
si vanno a ritrovar con quella fretta
che uccel di ramo o vien dal ciel saetta.

LXIV

Negli elmi si feriro a mezo 'l campo
sotto la vista, al confinar dei scudi:
suonar come campane, e gittar vampo,
come talor sotto 'l martel gl'incudi.
Ad amendui le fatagion fur scampo,
che non potero entrarvi i ferri crudi:
l'elmo d'Almonte e l'elmo di Mambrino
difese l'uno e l'altro Paladino.

LXV

Il cerro e l'olmo andò, come se stato
fosser di canne, in tronchi e in schegge rotto:
messe le groppe Brigliador sul prato,
ma, come un caprio snel, sorse di botto.
L'uno e l'altro col freno abbandonato,
dove piacea al cavallo, era condotto,
coi piedi sciolti e con aperte braccia,
roverscio a dietro, e parea morto in faccia.

LXVI

Poi che per la campagna ebbono corso
di più di quattro miglia il spazio in volta,
pur rivenne la mente al suo discorso,
e la memoria sparsa fu raccolta:
tornò alla staffa il piè, la mano al morso,
e rassettati in sella dieder volta;
e con le spade ignude aspra tempesta
portaro al petto, agli omeri e alla testa.

LXVII

Tutto in un tempo, d'un parlar mordente
Rinaldo a ferir venne, e di Fusberta,
al cavallier d'Anglante, e insiememente
gli dice — Traditor — a voce aperta;
e la testa che l'elmo rilucente
tenea difesa, gli fe' più che certa
ch'a far colpo di spada di gran pondo
si ritrovava altro che Orlando al mondo.

LXVIII

Per l'aspro colpo il senator romano
si piegò fin del suo destrier sul collo;
ma tosto col parlare e con la mano
ricompensò l'oltraggio e vendicollo:
gli fe' risposta che mentia, e villano
e disleal e traditor nomollo;
e la lingua e la mano a un tempo sciolse
e quella il core e questa l'elmo colse.

LXIX

Multiplicavan le minacce e l'ire,
le parole d'oltraggio e le percosse;
né l'un l'altro potea tanto mentire
che detto traditor più non gli fosse.
Poi che tre volte o quattro così dire
si sentì Orlando dal cugin, fermosse;
e pianamente domandollo come
gli dava, e per che causa, cotal nome.

LXX

Con parole confuse gli rispose
Rinaldo, che di còlera ardea tutto;
Carlo, Orlando e Terigi insieme pose
in un fastel, da non ne trar construtto:
come si suol rispondere di cose
donde quel che dimanda è meglio instrutto.
— Pian, pian, fa ch'io t'intenda, — dicea Orlando
— cugino; e cessi intanto l'ira e 'l brando. —

LXXI

In questo tempo i cavallieri e i fanti
per tutto il campo fanno aspra battaglia,
né si vede anco in mezo, né dai canti
qual parte abbia vantaggio e che più vaglia.
Le trombe, i gridi, i strepiti son tanti,
che male i duo cugin alzar, che vaglia,
la voce ponno, e far sentir di fuore
perché l'un l'altro chiami traditore.

LXXII

Per questo fur d'accordo di ritrarsi
e diferir la pugna al nuovo sole;
poi, la mattina, insieme ritrovarsi
nel verde pian con le persone sole;
e qual fosse di lor certificarsi
il traditor, con fatti e con parole.
Fatto l'accordo, dier subito volta,
e per tutto sonar féro a raccolta.

LXXIII

Al dipartir vi fur pochi vantaggi;
pur, s'alcun ve ne fu, Rinaldo l'ebbe:
che, oltre che prigioni e carriaggi
vi guadagnasse, a grand'util gli accrebbe,
ché alloggiò dove aver da li villaggi
copia di vettovaglie si potrebbe.
L'altra mattina, com'era ordinato,
si trovò solo alla campagna armato.

LXXIV

Scendono a basso a Basilea et al Reno,
e van lungo le rive insino a Spira,
lodando il ricco e di cittadi pieno
e 'l bel paese ove il gran fiume gira.
Entrano quindi alla Germania in seno,
e son già a Norimbergo, onde la mira
lontan si può veder de la montagna
che la Boemia serra da la Magna.

LXXV

.....................................
.....................................
.....................................
.....................................
Venner, continuando il lor viaggio,
su 'n monte onde vedean giù ne la valle
la pugna che Sassoni, Ungari e Traci
facean crudel contra i Francesi audaci:

LXXVI

e gli aveano a tal termine condotti,
per esser tre, come io dicea, contr'uno;
e sì gli avean ne l'antiguardia rotti,
che senza volger volto fuggia ognuno:
né per fermargli i capitani dotti
de la milizia avean riparo alcuno;
anzi, i primi che 'n fuga erano volti,
i secondi e i terzi ordini avean sciolti.

LXXVII

L'ardite donne, con Guidone, e 'nsieme
gli altri venuti seco a questa via,
sul monte si fermar che da l'estreme
rive d'intorno tutto il pian scopria:
dove sì Carlo e li suoi Franchi preme
la gente di Sansogna e d'Ungheria,
e l'altre varie nazioni miste,
barbare e greche, ch'a pena resiste.

LXXVIII

Con gran cavalleria russa e polacca,
l'esercito di Slesia e di Sansogna
guida Gordamo; e sì fiero s'attacca
con la gente di Fiandra e di Borgogna,
e sì l'ha rotta, tempestata e fiacca
al primo incontro, che fuggir bisogna;
né può Olivier fermargli, ch'è lor guida,
e prega invano e 'nvan minaccia e grida.

LXXIX

Or, mentre questo et or quell'altro prende
ne le spalle, nel collo e ne le braccia,
volge per forza l'un, l'altro riprende,
che 'l nemico veder non voglia in faccia;
Gordamo di traverso a lui si stende,
e s'un corsier ch'a tutta briglia caccia
sì con l'urto il percuote e sì l'afferra
con la gross'asta, che lo stende in terra.

LXXX

Non lunge da Olivier era un Gherardo
et un Anselmo: il primo è di sua schiatta,
ché di don Buovo nacque, ma bastardo
(però avea il nome del vecchio da Fratta);
il secondo fiamingo, il cui stendardo
seguia una schiera in sue contrade fatta:
restar questi dui soli alle difese,
fuggendo gli altri, del gentil marchese.

LXXXI

Gherardo col caval d'Olivier venne,
e si volea accostar perché montassi;
et Anselmo, menando una bipenne,
gli andava innanzi e disgombrava i passi:
quando Gordamo alzò la spada, e fenne
con un gran colpo i lor disegni cassi:
ché da la fronte agli occhi a quello Anselmo
divise il capo, e non li valse l'elmo.

LXXXII

Tutto ad un tempo, o con poco intervallo,
con la spada a due man menò Baraffa,
venuto quivi con Gordamo, et hallo
accompagnato il dì sempre alla staffa;
e le gambe troncò dietro al cavallo
de l'altro sì, che parve una giraffa:
ch'alto dinanzi e basso a dietro resta.
Sopra Gherardo ognun picchia e tempesta;

LXXXIII

e tanto gli ne dàn che l'hanno morto
prima ch'aiutar possa il suo parente.
Dolse a Olivier vederli far quel torto,
ma vendicar non lo potea altrimente;
perché, da terra a gran pena risorto,
avea da contrastar con troppa gente;
pur, quanto lungo il braccio era e la spada,
dovunque andasse si facea far strada.

LXXXIV

E se non fosser stati sì lontani
da lui suoi cavallieri in fuga volti,
che fuggian come il cervo inanzi a' cani
o la perdice alli sparvieri sciolti;
tra lor per forza de piedi e di mani
saria tornato, e gli avria ancor rivolti:
ma che speme può aver perché contenda
che forza è ch'egli muoia o che s'arrenda?

LXXXV

Ecco Gordamo, senza alcun rispetto
ch'egli a cavallo e ch'Olivier sia a piede,
arresta un'altra lancia, e 'n mezzo il petto
a tutta briglia il Paladino fiede;
e lo riversa sì, che de l'elmetto
una percossa grande al terren diede.
Tosto ch'in terra fu, sentì levarsi
l'elmo dal capo, e non potere aitarsi:

LXXXVI

ché li son più di venti adosso a un tratto,
su le gambe, sul petto e su le braccia;
e più di mille un cerchio gli hanno fatto:
altri il percuote et altri lo minaccia;
chi la spada di mano, chi gli ha tratto
dal collo il scudo, e chi l'altre arme slaccia.
Al duca di Sansogna al fin si rende,
che lo manda prigione alle sue tende.

LXXXVII

Se non tenea Olivier, quando avea ancora
l'arme e la spada, la sua gente in schiera,
come fermarla e come volgerl'ora
potrà, che disarmato e prigion era?
Fuggesi l'antiguardia, et apre e fora
l'altra battaglia, e l'urta in tal maniera
che, confondendo ogn'ordine, ogni metro,
seco la volge e seco porta indietro.

LXXXVIII

E perché Praga è lor dopo le spalle,
i fiumi a canto e gli Alemanni a fronte,
non sanno ove trovar sicuro calle
se non a destra, ov'era fatto il ponte;
e però a quella via sgombran la valle
con li pedoni i cavallieri a monte;
ma non riesce, perché già re Carlo
preso avea il passo e non volea lor darlo.

LXXXIX

Carlo, che vede scompigliata e sciolta
venir sua gente in fuga manifesta,
la via del ponte gli ha sùbito tolta,
perché ritorni, o ch'ivi faccia testa;
né vi può far però ripar, ché molta
l'arme abbandona e di fuggir non resta;
e qualche un, per la tema che l'affretta,
lascia la ripa e nel fiume si getta.

XC

Altri s'affoga, altri nuotando passa,
altri il corso de l'acqua in giro mena;
chi salta in una barca e 'l caval lassa,
chi lo fa nuotar dietro alla carena;
o dove un legno appare, ivi s'ammassa
la folta sì, che, di soverchio piena,
o non si può levar se non si scarca,
o nel fondo tra via cade la barca.

XCI

Non era minor calca in su l'entrata
del ponte, che da Carlo era difesa;
e sì cresce la gente spaventata,
a cui più d'ogni biasmo il morir pesa,
che 'l re non pur, con tutta quella armata
che seco avea, ne perde la contesa,
ma, con molt'altri uomini e bestie a monte,
nel fiume è rovesciato giù del ponte.

XCII

Carlo ne l'acqua giù dal ponte cade,
e non è chi si fermi a darli aiuto;
che sì a ciascun per sé da fare accade,
che poco conto d'altri ivi è tenuto:
quivi la cortesia, la caritade,
amor, rispetto, beneficio avuto,
o s'altro si può dire, è tutto messo
da parte, e sol ciascun pensa a se stesso.

XCIII

Se si trovava sotto altro destriero
Carlo, che quel che si trovò quel giorno,
restar potea ne l'acqua di leggiero,
né mai più in Francia bella far ritorno.
Bianco era il buon caval, fuor ch'alcun nero
pelo, che parean mosche, avea d'intorno
il collo e i fianchi fin presso alla coda:
da questo al fin fu ricondotto a proda.


Manca il fine

EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Ludovico Ariosto, Opere minori", a cura di C. Segre, Ricciardi, Milano-Napoli, 1954







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