Storia: il sessantotto
Il Sessantotto come fenomeno mondiale.
L'elemento che più colpisce, del
complesso di fenomeni sociali e politici generalmente indicati come "il '68", è
senza dubbio la dimensione internazionale. Quella fortissima circolazione di esperienze -
tanto più significativa in quanto si tratta di esperienze non istituzionalizzate, cioè
non promosse da soggetti consolidati e tra loro coordinati - che ha indotto alcuni
studiosi a parlare di "sincronicità casuale" dei movimenti del '68.
È sufficiente ricordare alcuni eventi di quell'anno per rendere conto delle dimensioni
del fenomeno: il "mitico" maggio francese (diventato quasi "il '68"
per antonomasia), la primavera di Praga, l'esplodere dei movimenti studenteschi in
Germania e in Italia, il ferimento del leader tedesco Rudi Dutschke, l'opposizione negli
Stati Uniti alla guerra in Vietnam, l'assassinio di Martin Luther King, le sanguinose
rivolte dei ghetti neri, la terribile strage di Piazza delle 3 culture a Città del
Messico, in prossimità delle Olimpiadi (con un numero di vittime che non fu mai
accertato, ma sicuramente superiore alle duecento persone), il famoso gesto di protesta
degli atleti afroamericani alla premiazione olimpica dei 200 metri piani, con Tommy Smith
e John Carlos sul podio a pugno chiuso, a segnare l'adesione al movimento del Black Power
(immagine fortemente simbolica, riprodotta in fotografie e manifesti che fecero il giro
del mondo). È stato osservato che in quell'anno forse solo il continente africano non fu
toccato da simili movimenti di protesta; ed anche questo non è del tutto vero, perché le
cronache dell'epoca ricordano lotte studentesche all'università di Alessandria d'Egitto
(ma si trattò, in effetti, di episodi minori nel panorama internazionale).
Il quadro d'insieme è indubbiamente suggestivo. Alcuni studiosi, come Giovanni Arrighi,
Immanuel Wallerstein, Terence Hopkins, Marco Revelli, hanno proposto addirittura un
parallelo storico tra questi movimenti e quelli del 1848: "Ci sono state solo due
rivoluzioni mondiali - hanno scritto -. Una nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe hanno
fallito. Entrambe hanno trasformato il mondo". Un'interpretazione forte, che può
essere accettata o respinta ma che comunque ha il pregio di spingerci a considerare questi
fenomeni proprio nella loro dimensione internazionale. Non si può parlare del '68 - in
altre parole - in chiave nazionale, paese per paese, ma bisogna necessariamente coglierne
il carattere mondiale.
Tuttavia è necessaria molta cautela, quando si voglia ragionare in termini storici. Gli
studi e le ricerche, di carattere veramente storiografico, in questo campo sono ancora nel
complesso piuttosto deboli. Ed è difficile comprendere davvero in un unico schema
interpretativo tutti i movimenti che si manifestarono in quegli anni, attorno al
1968, senza incorrere in generalizzazioni un po' superficiali. Il caso più macroscopico
è forse quello della Rivoluzione culturale cinese e del movimento delle Guardie rosse,
che a volte si ha la tendenza ad accomunare ai movimenti studenteschi dell'Occidente, ma
che rimandano evidentemente - se, appunto, si ragiona in termini storici - a un contesto
del tutto particolare e affatto diverso. Tra l'altro, va detto che il '68 in Cina vide la
fine della Rivoluzione culturale, la sua "normalizzazione" da parte del regime,
che pure in parte l'aveva promossa. Ed era un po' paradossale - a ben vedere - che tanti
attivisti studenteschi in Europa facessero proprio un modello che era al tramonto e già
sconfitto (ma bisognerebbe parlare, in questo senso, del ruolo complesso e contraddittorio
che i miti hanno sempre avuto nella storia dei movimenti collettivi).
Pur con tutte queste necessarie cautele, rimane il dato di fatto, incontestabile, che le
lotte del '68 furono un fenomeno mondiale, che toccò non solo le nazioni più sviluppate
del mondo capitalistico (Stati Uniti, Europa occidentale, Giappone) ma anche alcune aree
in forte via di sviluppo (soprattutto in America Latina) e alcuni paesi del blocco
sovietico. Si pone dunque il problema di quali chiavi di lettura ne siano possibili,
proprio per tentare di cogliere le radici di quella complessità e di quella circolazione
di esperienze. Non si tratta, naturalmente, di interpretazioni univoche, quanto piuttosto
di un insieme di spiegazioni storiche che tendono a collegare i movimenti del '68 (ma è
più corretto dire degli anni sessanta) a diversi fattori di natura sia economico-sociale,
sia politica e culturale. Il '68, in altre parole, sarebbe stato un ciclo internazionale
di mobilitazione collettiva prodotto da alcuni processi contraddittori di sviluppo della
società postbellica: la manifestazione, in forme clamorose, di un'evoluzione che nessuno
aveva saputo prevedere e che proprio per questo produsse nelle classi dirigenti dei
diversi paesi l'impressione di un grande disordine, di un moto improvviso che veniva a
turbare equilibri ritenuti invece solidi e duraturi.
In queste interpretazioni si fa riferimento soprattutto al quadro di sviluppo
"neocapitalistico" avvenuto, a partire dagli Stati Uniti, tra gli anni cinquanta
e i primi anni sessanta, con la forte tendenza all'unificazione del mercato mondiale e
alla produzione di nuovi modelli di consumo e di società. Uno sviluppo alimentato anche
dalla diffusione dei grandi mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione, giornali)
e che produceva nuove forme di cultura - soprattutto nelle generazioni più giovani - che
andavano dal cinema alla musica, ai costumi e alle abitudini di vita. Gli studenti in
lotta del '68 (ma le prime lotte nei campus americani, ricordiamolo, sono dei primi
anni sessanta) erano il prodotto della scolarizzazione di massa e della nuova civiltà dei
consumi; costituivano la prima generazione politica del dopoguerra, fatta in maggioranza
di persone che erano nate dopo la fine della guerra mondiale. Avevano alle spalle non le
tragiche esperienze di quella che è stata definita la "lunga guerra civile
europea" della prima metà del secolo, ma le culture della "nuova
frontiera" e del "miracolo economico". Erano l'espressione di quelle forme
di mobilità sociale che stavano interessando vasti settori della piccola e media
borghesia, ma anche della classe operaia e del mondo contadino; e non a caso molti settori
del movimento studentesco (come quello che in Italia elaborò le cosiddette "tesi
della Sapienza") parlavano di "forza lavoro in formazione" e di creazione
di un nuovo proletariato intellettuale di massa, volendo con ciò indicare una linea di
sviluppo del capitalismo più moderno che coinvolgeva fette sempre più ampie della
popolazione, al di là dei confini tradizionalmente intesi del proletariato.
Accanto a questi motivi, vanno poi ricordati tutti quei fattori di politica internazionale
che senza dubbio contribuirono a creare un quadro di forte instabilità nei rapporti tra
le maggiori potenze mondiali, mettendo in crisi quel modello biunivoco di relazioni tra
Stati Uniti e Unione Sovietica che aveva prodotto la "guerra fredda" e la
minaccia atomica. Le lotte di liberazione dal colonialismo in alcuni paesi del Terzo
Mondo, la vittoria della rivoluzione castrista a Cuba, i fermenti nell'America Latina
contro le nuove forme di dipendenza economica e politica dall'imperialismo americano, i
primi contrasti tra la Cina maoista e la Russia, il fenomeno del "non
allineamento" di numerose nazioni in Africa e in Asia: erano tutti elementi che negli
anni sessanta concorrevano a creare l'impressione - soprattutto nelle generazioni più
giovani e meno legate agli schemi ideologici ereditati dalla guerra - di una nuova
situazione internazionale, aperta a equilibri più avanzati di quelli della "guerra
fredda" e del bipolarismo atomico, con un nuovo protagonismo dei popoli del Terzo
Mondo (le "periferie del mondo") e una crisi endemica degli imperialismi, sia
militari sia economici.
Una visione che oggi molti tendono a considerare un'ingenuità o una sciocchezza, e alla
quale possono facilmente essere rimproverate molte ambiguità ideologiche (l'esaltazione
delle rivoluzioni terzomondiste, per esempio, non sempre era in grado di riconoscere il
loro condizionamento da parte dell'imperialismo sovietico; mentre l'entusiasmo per la
rivoluzione maoista e l'opposizione al regime sovietico nascondevano a volte una nostalgia
per lo stalinismo perduto). Non ci si può però dimenticare che quella visione dello
sviluppo geopolitico internazionale sembrava davvero avere delle buone chances,
verso la metà degli anni sessanta, e non era affatto considerata una stravaganza o
un'ingenua utopia dalla cultura dell'epoca: anzi, la speranza che dalle nuove rivoluzioni
nazionali e dai movimenti di liberazione nel Terzo Mondo potesse nascere veramente un'area
indipendente dai due imperialismi era considerata con un certo favore anche in ambienti
molto distanti dal radicalismo di estrema sinistra, come quelli socialisti o democratici
riformatori. Cioè in tutti quegli ambienti per i quali la critica del capitalismo e
dell'imperialismo americano non significava affatto adesione al modello sovietico.
Anche l'opposizione alla guerra in Vietnam, che fu uno dei motivi più forti di
aggregazione dei movimenti di protesta in tutto il mondo, va interpretata in questo
contesto. I giovani e gli studenti che scendevano in piazza per il Vietnam non intendevano
certo schierarsi in favore dell'Unione Sovietica (anche se è legittimo pensare che le
manifestazioni di protesta nei paesi dell'Est fossero effettivamente organizzate dai
regimi comunisti), ma vedevano nella crisi dell'egemonia militare americana l'elemento
decisivo per una ridefinizione complessiva degli equilibri internazionali, aperta a
soluzioni più avanzate e nient'affatto subalterne agli interessi strategici del blocco
orientale. In questo senso il terzomondismo, il castrismo, il maoismo e l'appoggio alla
rivoluzione vietcong erano espressioni di una tendenza progressiva della quale è giusto
sottolineare tutti i limiti e le ambiguità, ma che non può assolutamente essere
considerata subalterna al comunismo sovietico (come invece, sovente, tendono a fare oggi
molti critici un po' superficiali).
Pertanto, se esiste un filo conduttore nei movimenti del '68, un loro carattere storico
comune, esso va individuato nell'essere stati i primi movimenti di contestazione radicale
del modello sociale "neocapitalistico" e dell'equilibrio mondiale fondato
sull'egemonia statunitense, condotta in forme di massa ma culturalmente non ascrivibile
alla tradizione comunista. Una critica "da sinistra", senza dubbio, e che
sovente ricorreva a immagini, slogan, linguaggi tratti dalla tradizione del movimento
operaio organizzato, ma che al tempo stesso esprimeva una cultura e un sistema di valori
profondamente diversi da quelli delle sinistre politiche del dopoguerra (cioè il richiamo
fondamentale all'esperienza sovietica, il mito della pianificazione economica, il valore
del lavoro come perno della società, eccetera). Una critica dello sviluppo e della
"razionalità" del capitalismo che non puntava in realtà alla riproduzione
storica dei vecchi schemi rivoluzionari, ma pretendeva di dare corpo a esperienze e
percorsi originali (anche se mai del tutto chiariti e definiti), comunque irriducibili
alle esperienze del passato.
Non c'è dubbio che sotto questo profilo i movimenti "di contestazione" (come
spesso venivano indicati all'epoca dall'opinione pubblica) contenessero forti elementi di
innovazione nei confronti della tradizione politica e culturale delle sinistre (verso la
quale, non a caso, erano fortemente critici). E questo spiega anche la varietà delle
reazioni che essi provocarono, proprio da parte dell'intellettualità progressista e dei
partiti democratici, socialisti e comunisti, profondamente divisi tra l'appoggio alle
istanze di rinnovamento espresse dalle lotte studentesche e la forte preoccupazione per
l'eccessivo radicalismo di cui davano prova i giovani attivisti del movimento. Il rifiuto
aprioristico della delega alle organizzazioni costituite, l'esaltazione del
"movimento" come unico fattore dinamico della società, la ricerca dello scontro
ad ogni costo, l'insofferenza per le mediazioni istituzionali e per la politica
tradizionalmente intesa, un certo tipo di linguaggio irrituale e non di rado volutamente
provocatorio, erano tutti elementi di una cultura che a molti osservatori appariva
fortemente ambigua, potenzialmente aperta addirittura a esiti antidemocratici. Il filosofo
tedesco Jürghen Habermas, per esempio, agitò in quegli anni lo spettro di un
"fascismo rosso", quale esito possibile delle esagerazioni del movimento
studentesco. E qualcosa di analogo sosteneva anche Theodor Adorno, come ci conferma la
recente pubblicazione delle sue lettere a Herbert Marcuse, l'autore del celebre libro
"L'uomo a una dimensione" che tanto aveva influenzato i giovani militanti
radicali.
Preoccupazioni di questo tipo erano piuttosto diffuse anche nella sinistra italiana,
soprattutto nel Partito comunista; ne può essere considerata una manifestazione anche la
famosa poesia di Pier Paolo Pasolini sugli studenti che a Roma, a Valle Giulia, si erano
scontrati con la polizia. Non è affatto strano che esistessero simili diffidenze verso
gli studenti, se solo si tiene presente come nell'esperienza storica di chi aveva visto
nascere e trionfare il fascismo essi potessero rievocare il ricordo dell'interventismo,
dell'avanguardismo giovanile, dell'odio antioperaio e anticontadino degli squadristi. Né
si può dire che fossero problemi sepolti dal tempo: a più riprese, ancora negli anni
cinquanta e nei primi anni sessanta, alcune manifestazioni di protesta politica - come
quelle contro i trattati per la definizione del confine italo-jugoslavo - avevano avuto un
carattere chiaramente di destra e avevano visto di nuovo gli studenti in piazza a
sventolare i tricolori e a tentare di aggredire i militanti antifascisti. È pienamente
comprensibile, dunque, che una parte della generazione che aveva vissuto il fascismo e la
guerra considerasse gli studenti un gruppo sociale ambiguo e potenzialmente pericoloso.
Certo, non esistevano solo questi atteggiamenti e queste diffidenze. Anzi, il nascere del
movimento degli studenti suscitò grandi speranze nell'opinione pubblica progressista, che
vi vedeva in genere un potenziale fattore di rinnovamento della società, a fianco del
movimento operaio tradizionale. Furono semmai alcune manifestazioni "estremiste"
del movimento, divenute evidenti fin dai primi mesi delle agitazioni nelle università, a
suscitare perplessità e timori. Molto interessanti, per esempio, sono le riflessioni che
sviluppò all'epoca un intellettuale di cultura democratica e di orientamento
liberalsocialista come Norberto Bobbio, il quale sulla rivista azionista
"Resistenza" aveva ben colto - già nella primavera del 1969 - la trasformazione
del movimento studentesco in forza politica indipendente e ne aveva indicato l'elemento
distintivo proprio in un particolare sistema di valori oppositivi alla società
capitalistica. I giovani del movimento, diceva il professore torinese (padre tra l'altro
di uno dei leader della rivolta studentesca di palazzo Campana), non imputavano al
capitalismo i ritardi e i limiti dello sviluppo economico e sociale, ma le modalità
stesse di quello sviluppo. Non si battevano più (e qui stava la novità rispetto alla
tradizione italiana di sinistra) per lo sviluppo e la modernizzazione, ma contro le
caratteristiche autoritarie e di classe di quello sviluppo e di quella modernizzazione.
La loro era dunque la prima critica della modernità, fatta non in nome delle nostalgie
passatiste della destra, ma in nome di una modernità più libera e giusta; anche se,
precisava criticamente, "si può discutere se in un paese semi-contadino, come
l'Italia, la battaglia non sia intempestiva e quindi destinata alla sconfitta prima di
essere data, oppure a trasformarsi strada facendo in una battaglia di retroguardia; se
l'insofferenza per l'efficientismo non sia prematura in un paese travagliato, salvo poche
isole industriali, d'inefficienza cronica". "La rivolta giovanile - affermava
comunque Bobbio - è, per la prima volta in Italia, portatrice e trasmettitrice
dell'ideale o dell'utopia (utopia di oggi ma realtà di domani), di una società
post-industriale".
Va detto, però, che questa interpretazione (avanzata in un momento di grande sviluppo di
quei movimenti in Italia) è stata in seguito fortemente contestata e oggi incontra in
genere molte resistenze. L'estrema sinistra - si tende piuttosto a dire - non era altro
che un coacervo di massimalismi ideologici e di velleità politiche. Ma quale
post-industriale? Quelli volevano fare una rivoluzione di tipo leninista, o maoista;
agitavano il libretto delle Guardie rosse, predicavano un egualitarismo antistorico,
avrebbero voluto livellare tutti gli stili di vita verso il basso. Una posizione di questo
tipo, per esempio, fu esposta a chiare lettere da Gianni De Michelis - allora ministro
socialista- che, a chi proponeva l'immagine di un '68 creativo e modernizzatore, replicava
ricordando le astruserie ideologiche di tanti gruppetti marxisti-leninisti dell'epoca e
provocatoriamente affermava: "C'era persino un gruppo che faceva un giornale
intitolato 'Servire il popolo'. Se quella era la modernità, ve la lascio
volentieri...". La cultura del movimento sarebbe stata, dunque, sostanzialmente
conservatrice, soprattutto perché si opponeva con violenza a quelle posizioni
democratiche e riformiste che invece, sì, volevano modernizzare e trasformare il mondo in
senso progressivo e avanzato.
A dire il vero, queste interpretazioni un po' sbrigative e liquidatorie del '68 si sono
diffuse sempre più largamente, con il passare del tempo, sino a diventare per certi versi
un luogo comune, nelle pagine dei giornali o nei servizi delle televisioni. Al massimo si
è disposti a concedere a quei movimenti l'attenuante della buona fede, o di un certo
utopismo romantico. Ma non c'è dubbio che il giudizio storico e politico più diffuso
nell'opinione pubblica di massa sia drasticamente negativo: gli anni sessanta e settanta
sarebbero stati una stagione di ideologie nefaste e pericolose, di agitazioni inconsulte e
distruttive, sfociate non a caso nella violenza e - in molti casi - nel terrorismo.
Opinione che credo sia tuttora diffusissima, sia a destra sia a sinistra, sia nel campo
conservatore sia nel campo progressista. Basti considerare come non esista oggi nessuna
forza politica di primo piano che si richiami, in qualche modo, a quel patrimonio di
esperienze e a quelle culture. E come una considerazione sul loro significato non compaia
quasi mai nel dibattito politico attuale.
Ora, il problema è senz'altro molto complesso. Da un lato, infatti, è senz'altro vero
che le culture del '68 furono un intreccio di elementi fortemente contraddittori, nel
quale potevano convivere le suggestioni della cultura di massa (prevalentemente
anglosassone) e il bagaglio ideologico della tradizione rivoluzionaria (comunista,
anarchica, sindacalista), l'influenza delle avanguardie artistiche del Novecento e il
retaggio dell'utopismo ottocentesco. Il '68 mondiale fu davvero un coacervo di culture,
nel quale il pacifismo e le pratiche libertarie di gruppo potevano convivere con la prassi
rivoluzionaria delle organizzazioni politiche, e nel quale non esisteva contraddizione tra
la lettura dei testi marxiani e la fruizione dei prodotti intellettuali di massa (dai
fumetti al cinema, alla televisione), tra i poster del "Che" e quelli di Jimi
Hendrix. E non c'è dubbio che proprio questa contraddittorietà consentì la creazione di
uno spazio comunicativo aperto, nel quale riuscivano a interagire istanze sociali,
politiche e culturali anche assai differenziate, da settori minoritari del movimento
operaio a nuovi movimenti come quello delle donne, da tematiche di liberazione individuale
a forti ideologie collettive.
Ma d'altro lato è altrettanto vero che questa complessità di riferimenti e la sua stessa
contraddittorietà non possono essere liquidate sbrigativamente, come un frutto di
insipienza collettiva o di incultura di massa, se non addirittura come la manifestazione
di un processo di decadenza della civiltà nel suo complesso (il '68, secondo una certa
interpretazione di segno reazionario, avrebbe causato con la sua critica distruttiva del
concetto di autorità una crisi generale di valori, dalle conseguenze devastanti). I
giudizi storici non sono giudizi politici o morali, ma devono inquadrare ogni fenomeno nel
suo tempo, nelle contraddizioni che una determinata epoca storica esprime. E non si può
negare, in ogni caso, che quel tipo di cultura sia stato una delle manifestazioni più
rilevanti della storia delle idee di questo secolo, che ha coinvolto alcune generazioni e
tra l'altro ha indirettamente influenzato una larga parte delle classi dirigenti attuali
nell'economia, nella politica, nel campo della comunicazione.
I movimenti degli anni sessanta e settanta sono stati, al tempo stesso, l'espressione di
una realtà sociale complessa, in forte evoluzione e con grandi tratti di novità, e del
permanere di un bagaglio intellettuale in larga parte inadeguato. Tra la loro natura di
fatto e le ideologie che utilizzarono, in particolare sul terreno politico, esisteva
un'evidente contraddizione, che ebbe senza dubbio conseguenze assai negative. I movimenti
di protesta coglievano spesso elementi fondamentali delle trasformazioni in atto, con
grande capacità di anticipazione teorica e culturale; il fatto stesso di sottoporre ogni
sfera dell'attività sociale a una critica politica, di classe, stava a indicare che
"il sistema", il capitalismo, aveva ormai permeato di sé l'intero universo
delle relazioni umane, e aveva quindi un valore di rottura notevole nei confronti della
tradizione intellettuale. Ma si pensi anche, in ambito sindacale, al ruolo innovatore che
hanno avuto le teorie movimentiste sull'operaio-massa e sulle nuove figure produttive nel
capitalismo più avanzato. Eppure tutti questi elementi non riuscirono mai a mettere capo
a una visione della trasformazione sociale veramente e compiutamente alternativa. L'idea
della rivoluzione, che i movimenti coltivarono e tentarono in vario modo di declinare,
rimase sempre del tutto inadeguata alla complessità dei problemi sollevati: o era il
tentativo - in sé anacronistico - di riproporre in un modo nuovo e più libertario le
esperienze rivoluzionarie classiche (la Russia bolscevica o la Cina maoista, ma anche la
Spagna repubblicana o i diversi tentativi consiliari del primo dopoguerra), oppure
diventava una teoria del movimento perenne, della "lotta continua" (come, non a
caso, scelse di chiamarsi uno dei maggiori gruppi italiani di estrema sinistra), una sorta
di "azionismo" di massa insofferente di ogni mediazione ma anche incapace di
indicare tappe e obiettivi concreti della prassi rivoluzionaria.
Movimenti sociali in larga parte non tradizionali non riuscirono, in altre parole, a
mettere capo a una cultura politica davvero nuova. E questo è vero non solo per alcune
realtà europee (come sovente si sostiene, soprattutto in Italia), ma costituì esso
stesso un fenomeno mondiale. Basti considerare gli Stati Uniti, dove alcuni movimenti
(quello afroamericano e in parte anche quello studentesco) finirono per adottare linguaggi
e forme di espressione politica spesso di derivazione vetero-comunista, come nel caso
delle Pantere Nere - il Black Panther Party - o dei Weathermen Underground,
un'organizzazione di tipo clandestino con un programma quasi da socialismo reale.
Quegli anni, che qualcuno ha definito "la stagione dei movimenti", sono dunque
importanti sul piano internazionale proprio perché hanno segnato - al tempo stesso -
l'ultima grande esperienza di questo secolo all'insegna delle ideologie radicali e
comuniste, e l'anticipazione di tendenze e sviluppi innovatori, irriducibili a quelle
ideologie. La contraddittorietà di questi elementi ne è stata insieme la forza e il
limite strutturale più vistoso.
Quei movimenti forse hanno contribuito, come molti sostengono, a cambiare il mondo. Ma di
certo lo hanno fatto in un modo che non era quello progettato e sognato in quegli anni di
forti mobilitazioni collettive. La rivoluzione che essi sognavano non c'è stata, né
poteva esserci (almeno, nei termini un po' confusi in cui essa veniva prospettata). Forse,
per le centinaia di migliaia di attivisti che in tutto il mondo inseguirono il sogno di
una rivoluzione comunista ma antiautoritaria, egualitaria ma ricca delle mille diversità
del presente, contavano più il movimento in sé, la lotta, dell'obiettivo finale .
probabilmente il movimento e quindi la presa di coscienza che ci è stata in termini di
svecchiamento della cultura, superamento di antichi pregiudizi soprattutto in campo
sessuale, emancipazione delle donne e delle minoranze, miglioramento della scuola e delle
condizioni di vita degli operai e dei lavoratori in generale è stata la forza motrice che
ha portato alla nascita di leggi e riforme che hanno cambiato almeno in parte,
lassetto sociale. Perché il movimento e la rivoluzione sono evoluzione come
esplicato da Fidel Castro "Si inizia un giorno ad essere rivoluzionario e non si
finisce più di esserlo, perché ogni giorno la conoscenza si arricchisce, le idee si
chiariscono, lo spirito si rafforza e nessuno può dire che era più rivoluzionario ieri
di oggi o che domani sarà meno rivoluzionario di oggi".
Il Maggio Francese : " Chiediamo il diritto di pensare; pensare è pericoloso perché significa contestare".
La vitalità della
gioventù francese si esprime nelle fabbriche (come si vede nel gennaio 1968 alla Saviem
di Caen), nei concerti rock e pop, in determinate organizzazioni politiche (l'Uec, il
Ceres, i gruppi di estrema sinistra), ma soprattutto nelle università. La massificazione
dell'insegnamento, durante gli ultimi anni (50 mila universitari nel 1936, 250 mila nel
1960, 500 mila nel 1968) non resta senza conseguenze.
L'università è uscita dalle mura delle città, ha costruito dei campus in campagna o sui
terreni abbandonati della periferia di Parigi, senza però abbandonare le sue tradizioni:
corsi solenni, dominio dei mandarini, trasmissione autoritaria del sapere, costumi
conformisti (soprattutto nelle relazioni sessuali). Nel 1968, i giovani sono cresciuti
nell'abbondanza priva di uguaglianza della società dei consumi.
Non hanno l'assillo di trovare un lavoro e possono indulgere alle suggestioni culturali
dell'epoca, scegliendo liberamente il proprio corso di studi e infiammandosi per le
ideologie più radicali.
La rivendicazione di maggior libertà in una società rigida, il terzomondismo, la
contestazione della guerra americana in Vietnam e, per gli studenti liceali, la minaccia
della selezione al momento di entrare nell'università: ecco i temi capaci di mobilitarli.
Le prime scintille nascono dalla mistura tra rivendicazioni riguardanti le relazioni tra
ragazze e ragazzi nelle residenze studentesche e militanza contro la guerra nel Vietnam.
Il 22 marzo si crea un movimento di solidarietà a favore di un compagno di studi,
attivista trotzkista, arrestato per qualche ora dopo un attentato alla sede parigina
dell'American Express, simbolo degli Stati Uniti. In questa occasione, si ha la conferma
di un leader: Daniel Cohn-Bendit, di famiglia tedesca ma residente in Francia, di
ascendenze anarchiche, notevole oratore. Dopo aver occupato simbolicamente la facoltà di
Nanterre, i giovani "arrabbiati" (è così che si definiscono) partecipano, il
29 marzo, malgrado la presenza guardinga delle forze di polizia, all'occupazione della
Sorbona, il prestigioso bastione dell'università francese. La scena sarà recitata di
nuovo in primavera, con le stesse caratteristiche ma in crescendo: da parte degli
studenti, un misto di audacia, improvvisazione e creatività, soprattutto negli slogan, i
manifesti, i discorsi; da parte delle istituzioni - che si tratti del potere, delle
autorità universitarie o della sinistra ufficiale - una incomprensione dello stato
d'animo giovanile, la preoccupazione di evitare la diffusione dell'incendio e di non
creare martiri, il timore dello straripamento irresponsabile. L'incendio temuto si
produrrà comunque a partire dal 3 maggio, in seguito al fermo per il controllo
dell'identità di qualche centinaio di studenti, tra i quali alcuni leaders ancora
sconosciuti al grande pubblico, in particolare Jacques Sauvageot, dell'Unef, il trotzkista
Alain Krivine e Daniel Cohn-Bendit. Nella sorpresa generale, gli studenti si mobilitano
numerosi contro "la repressione poliziesca", al grido di "Crs=SS".
È la prima giornata di disordini nel quartiere latino, contraddistinta dalla violenza
degli scontri tra manifestanti e poliziotti.
La condanna di quattro studenti al carcere senza condizionale rilancerà la spirale degli
scontri, allargando l'area dei contestatori (che include lo SneSup di Alain Geismar).
Il massimo
dello scompiglio è raggiunto il 29 maggio con la sparizione, durata qualche ora, del
generale De Gaulle: il potere vacilla, ma coloro che vorrebbero prenderlo, non ne sono in
grado; e coloro che potrebbero impadronirsene, non lo desiderano. La situazione cambia
all'improvviso quando De Gaulle, rincuorato, riprende le redini dello Stato, che Pompidou
ha tenuto con sangue freddo. Il 30 maggio, in un discorso radiofonico, De Gaulle annuncia,
col tono deciso e solenne che gli è consueto, la sua intenzione di restare al potere,
ripristinare l'autorità, sciogliere l'Assemblea nazionale per sottoporsi alla verifica
democratica delle elezioni.
Una imponente manifestazione gollista in quello stesso giorno a Parigi, seguita presto da
altre in provincia, segna una svolta, ratificata di lì a poco dagli scrutini del 23 e del
30 giugno, anche se, per buona parte del mese, si protrarranno scioperi e scontri di
piazza. La Quinta Repubblica continua, la società francese ritrova i suoi valori e i suoi
week-end, che provocano ben più morti sulle strade, ma i semi di numerosi cambiamenti
sono gettati.
De Gaulle si ritirerà l'anno seguente, dopo la sconfitta del suo referendum-test. La
ricomposizione della sinistra socialista diventerà possibile, anche se non facile, e il
declino del Pcf si accentuerà. L'università sarà riformata e il mondo del lavoro
trarrà qualche beneficio dalla crisi. L'eredità del Maggio si tradurrà soprattutto
nella rapida evoluzione dei costumi, accolta sul piano legislativo, e dall'affermarsi nel
dibattito pubblico e nella sensibilità comune dell'idea che, grazie a una ispirazione
più libera e inventiva, esista un altro modo di vivere la propria vita e altri mezzi per
cambiarla.
Il Vietnam nel 68
Il Vietnam
non fu una delle tante guerre coloniali. Per i giovani che nel '68 si ribellavano, in
tutto il mondo, contro i poteri dominanti, il Vietnam fu molto di più. Fu il primo atto
della presa di coscienza dei limiti dellOccidente democratico. La resistenza tenace
e i sacrifici di quel remoto popolo contadino mostrarono ai giovani dell'Occidente che la
grande democrazia Usa non era abbastanza democratica da consentire che qualcuno, in una
lontana provincia dell'Asia, scegliesse di percorrere una strada diversa dalla sua. Il
Vietnam ebbe ovunque valore d'esempio perché mostrava che la più grande potenza
militare, tecnologica e finanziaria mondiale non riusciva ad aver ragione d'un popolo che
combatteva per la propria indipendenza e libertà. Dopo la vittoria del 1975, le asprezze
della politica vietnamita e i conflitti per l'egemonia nell'area delusero le aspettative
di chi per il Vietnam libero si era battuto. Ma il Vietnam resta comunque l'esempio unico
di una guerra che fu combattuta non solo nella giungla e nelle risaie, ma nelle strade,
nelle piazze e nelle università di tutto il mondo. Fu lì che si consumò la vera
sconfitta degli Stati Uniti. In Vietnam il '68 inizia con quella che passerà alla storia
come l'offensiva del Tet. Per il Tet, il capodanno lunare che si festeggia alla fine di
gennaio, Van Thieu, presidente del Sud Vietnam, aveva annunciato una tregua di 48 ore. Il
27 gennaio iniziava la tregua di una settimana proclamata dal Fnl (Fronte nazionale di
liberazione).
Ma il 30 gennaio, di sorpresa, l'Fnl e l'esercito nordvietnamita lanciano la grande
offensiva del Tet: i guerriglieri spuntano dalla giungla e attaccano simultaneamente 140
centri grandi e piccoli, i quartieri generali dell'esercito di Saigon, otto comandi di
divisione su undici, trenta aeroporti e quattordici basi aeree. E' l'attacco più
massiccio nella storia della guerra vietnamita. Nel Vietnam gli americani avevano
rimpiazzato il colonialismo francese, sconfitto nel 1954 a Dien Bien Phu dall'esercito del
Viet Minh, guidato dal generale Giap. Il Viet Minh era stato fondato nel 1941 per volontà
del Partito comunista indocinese, presieduto da Ho Chi Min. Contro il regime fantoccio di
Diem, insediato nel Sud del Vietnam con l'appoggio americano, si costituì nel dicembre
del 1960 il Fronte nazionale di liberazione del Vietnam del Sud. Già l'anno successivo i
guerriglieri occupavano buona parte delle campagne, mentre nelle città si andava
sviluppando la protesta buddista: nel 1963 il primo monaco, a Saigon, si dà fuoco; al
rafforzarsi dell'opposizione e della guerriglia il regime di Diem, e poi di Van Thieu,
risponde con una spietata repressione. Nel frattempo cresce in modo progressivo e costante
l'impegno Usa per sostenere il regime sudvienamita. Durante la presidenza Kennedy
(1960-1963) si sostituisce al piano di guerra speciale una forma di intervento più
massiccia: consiglieri militari Usa dirigono sul campo l'esercito sudvietnamita, comincia
l'impiego delle bombe al napalm contro i villaggi dei contadini, e l'uso massiccio dei
diserbanti e dei defolianti, che hanno compromesso per lungo tempo i raccolti e la salute
dei sudvietnamiti. Nel 1964 il presidente Johnson inizia l'escalation, con l'uso dei
megabombardieri B52 per colpire il territorio del Vietnam del Nord. Alla fine del 1965 le
truppe Usa arrivano a 175mila unità. Ma in Usa e nel mondo si rafforza l'opposizione
contro la guerra, e un gruppo di grandi intellettuali di diverse nazioni (tra cui Lelio
Basso, Guenther Anders, Jean-Paul Sartre, Bertrand Russell), dà vita a quello che sarà
noto come il Tribunale Russell, per processare i crimini Usa nel Vietnam. Nel 1967 Che
Guevara lancia la parola dordine "Creare due, tre, molti Vietnam", mentre
negli Stati Uniti partono le grandi manifestazioni contro la guerra (con lo slogan
"Stop the bombing", fermate i bombardamenti sul Nord Vietnam) e la protesta dei
soldati e dei giovani di leva. L'offensiva del Tet fu un tentativo di attacco generale ad
altissima valenza simbolica (un commando riuscì persino a penetrare nell'ambasciata Usa a
Saigon) ma non fu un grande successo da un punto di vista militare. Non riuscì a
conquistare stabilmente obiettivi importanti e non trovò grande riscontro nelle città,
dove non ci furono quelle insurrezioni che i partigiani si attendevano.
Militarmente gli americani riuscirono a riconquistare quasi tutte le postazioni che in un
primo tempo avevano perso, compresa l'antica capitale del Vietnam, Huè. Loffensiva
del Tet fu però un grande successo politico, e segnò nella guerra del Vietnam un vero e
proprio punto di svolta: mostrò all'opinione pubblica americana e mondiale che una
vittoria sul campo degli Stati Uniti non era raggiungibile in tempi brevi, e forse era del
tutto impossibile. Nel mese di marzo si combatte ancora duramente: le truppe Usa lanciano
una controffensiva nel delta del Mekong, iniziando quella che sarà ricordata come la
battaglia delle risaie.
Intanto prosegue, da parte delle forze di liberazione, l'assedio alla base americana di
Khe Shan, che era iniziato con l'attacco del 21 gennaio. Continuano i pesanti
bombardamenti Usa su Hanoi, capitale del Vietnam del Nord. Il 7 marzo si contano ad Hanoi
centinaia di vittime tra i civili. Il 16 marzo, anche se la notizia non si diffonderà
immediatamente, è per gli Stati Uniti il giorno del disastro morale: guidati dal tenente
Calley i berretti verdi occupano il villaggio di Mylai e, non trovando nessun vietcong,
sterminano più di cento tra donne, bambini e vecchi. Dopo vari tentativi di
insabbiamento, le cronache del crimine arriveranno sulle prime pagine dei giornali solo
verso la fine dell'anno.
Ma la pressione dell'opinione pubblica e dei movimenti di protesta spinge il presidente
Johnson a imboccare la via della trattativa finalizzata al ritiro delle truppe americane
dal Sud Vietnam. Dopo aver tolto il comando delle truppe in Vietnam al generale
Westmoreland, il 31 marzo del '68, con un drammatico discorso televisivo, Johnson annuncia
che non si ricandiderà alla presidenza nelle elezioni di novembre, lasciando la
candidatura al senatore Hubert Humprey e che interromperà i bombardamenti sul Vietnam del
Nord. Il 9 aprile Hanoi dà il suo assenso alla apertura delle trattative con gli Stati
Uniti; il 3 maggio Usa e Vietnam del Nord raggiungono un accordo per l'inizio di una
pre-trattativa che comincerà a Parigi il 10 maggio. Per condizionare i colloqui, il 5 del
mese il Fronte di liberazione lancia una nuova, imponente offensiva. L'attacco colpisce
122 località, ma si concentra soprattutto sulla capitale del Sud, Saigon.
I vietcong occupano il quartiere industriale e commerciale di Cholon, che viene bombardato
dagli aerei Usa. I combattimenti a Saigon continuano fino ai primi di giugno, quando i
governativi riprendono il quartiere di Cholon, mentre, nei palazzi del potere di Saigon,
si scontrano la linea del presidente Van Thieu e quella più dura del vicepresidente Cao
Ky. Il 27 giugno, dopo mesi di assedio, i marines abbandonano Khe Shan, rompendo
l'accerchiamento. E' una pesante sconfitta, che spinge gli americani ad intensificare per
rivalsa i bombardamenti sul Nord Vietnam, che erano stati ridotti in maggio e giugno.
Ormai però la via verso il tavolo delle trattative è aperta. Il 7 novembre Nixon,
repubblicano, succede a Johnson alla Casa Bianca L'8 dicembre arriva a Parigi la
delegazione sudvietnamita, composta da sessanta membri e guidata dal numero due del
regime, Cao Ky. La delegazione americana è guidata da Cyrus Vance. Dopo lunghissimi
preliminari la trattativa vera e propria comincia solo il 18 gennaio 1969: al tavolo
siedono i due governi vietnamiti, gli Usa e il Fronte di liberazione, che incassa così il
definitivo riconoscimento politico-diplomatico. Le trattative, interrotte da fasi di
violenta ripresa del conflitto, porteranno agli accordi di pace firmati il 27 gennaio
1973, che prevedono il ritiro delle forze Usa, la cessazione delle ostilità e la
riunificazione del paese. Van Thieu prosegue la guerra, ma nel 1975 Saigon viene liberata.