giovedì 23 agosto 2001

Amori e intrighi di corte.
Storiche Stanze/2

Enio Navonni

TERNI — La Storia del maniero di Castel Rubiaglio si intreccia fortemente nel 1600 con quella della regina Cristina di Svezia. La stessa si trovava in Francia a Fontainebleau ed al suo seguito c’era il Conte Francesco Maria Santinelli di 22 anni che era capitano delle guardie, e il fratello Ludovico di 20. E c’era anche il Marchese orvietano Gian Rinaldo Monaldeschi, che è il protagonista maschile della nostra storia. I Monaldeschi erano i grandi feudatari di Orvieto dello Stato Pontificio; i più potenti. Gian Rinaldo, che aveva all’incirca l’età della Regina, era il suo preferito. Lo nominò infatti Grande Scudiero e Cavalerizzo Maggiore. Naturalmente Cristina se lo prese subito come amante, facendolo odiare da Francesco Maria Santinelli che si vide così scavalcato. Qui la storia - rileva lo storico Sandro Bassetti nel suo libro "Un fiume, un ponte, un castello" - da rosa si fa gialla. E, come sempre avviene, c’è chi racconta i fatti in un modo e chi in un alro. Da moderatore, il grande giornalista soggiornate periodicamente nel plurisecolare maniero di Monte Rubiaglio, dà le varie versioni della vicenda, proseguendo il racconto su Cristiana di Svezia e Gian Rinaldo Monaldeschi da par suo. Secondo alcuni storici - scrive Bassetti - la Regina si vide arrivare spedite non si sa da chi, alcune lettere d’amore che lei aveva scritto a Gian Rinaldo, il quale, quindi, le avrebbe mostrate in giro per farsi bello e, addirittura, se le sarebbe fatte rubare apposta. Di fronte a queste lettere intime che Gian Rinaldo aveva pubblicizzato, la Regina si sentì offesa come donna e come Regina e diventò una vipera, trasformazione che per lei non fu difficile. Convocò allora Gian Rinaldo, gli mostrò quelle lettere, lo investì di contumelie e, sebbene lui cadesse ai suoi piedi giurandole che esse gli erano state rubate a sua insaputa, la Regina, seduta stante, chiamò il conte Santinelli e altri due dignitari e comandò loro di uccidere Gian Rinaldo, ordine che fu eseguito immediatamente.

Fatto a pezzi dall’amante.

I tre, sfilate le loro sciabole, lo idussero in pochi minuti come uno spezzatino. Neppure il regista Dario Argento, che è di bocca buona - nota Bassetti -, avrebbe sopportato una tale vista. Cristina sì. Era il 10 novembre 1657. Secondo un’altra versione di quel fattaccio il nostro Monaldeschi, visto che Cristina si stava invaghendo di un altro nobile al suo servizio, il conte de la Gardie che di Gian Rinaldo era cugino, fece in modo che questi si allontanasse da lei. Per riuscirci gli mostrò alcune lettere della Regina, false perché le aveva scritte lui. In queste lettere - “parla" ancora Sandro Bassetti - Cristina assicurava Gian Rinaldo di amare soltanto lui e non il Conte. Il de la Gardie deluso e irritato abbandonò infatti la Regina e si consolò con la sorella di Gian Rinaldo. Quando lei venne a sapere dell’inganno decise, su due piedi, in un impeto d’ira incontenibile, di fare uccidere il Monaldeschi. Però, secondo ogni buon giallo che si rispetti, c’è l’immancabile terza versione. E Sandro Bassetti ce la racconta. Secondo questa - inizia - il nostro Gian Rinaldo stava tradendo la Regina con una damigella di corte. In una sua lettera, di cui lei era entrata in possesso, Gian Rinaldo scriveva alla sua fiamma che non poteva lasciare la Regina per non perdere il posto, ma che quando trascorreva la notte con lei si comportava “come un tronco secco".

Mica è finita. C’è la versione numero quattro ed è forse - ipotizza Sandro Bassetti - quella vera. Dunque, quando Cristina si mise in testa di dinventare Regina di Napoli, influenzata probabilmente dai tanti amici napoletani che aveva intorno, abbandonò, per riuscirci, la protezione della Spagna, a cui il Regno di Napoli apparteneva, e si avvicinò alla Francia, allora governata dal potente cardinale Mazzarino. Gian Rinaldo Monaldeschi rivelò questo disegno ai Servizi segreti spagnoli e la Spagna inviò a Napoli tremila soldati che impedirono la riuscita dell’impresa. La conclusione - dice Bassetti - è uguale in tutte le versioni: Gian rinaldo morto ammazzato. La notizia di questo assassinio, qualunque ne fosse stata la vera origine, circolò alla svelta in tutte le Corti d’Europa e l’immagine di Cristina di Svezia si macchiò del sangue di un giovane bello, aitante, simpatico. Un poeta serio come Ugo Foscolo - prosegue Sandro Bassetti - scrisse di Cristina di Svezia: “Mezzo regina, mezzo letterata, mezzo regina, mezzo pazza, ma interamente assassina". A dimostrazione delle sue stranezze, dopo quell’assassinio, lei faceva dire delle Messe per l’anima della sua vittima, come una qualunque vedova addolorata. A causa di quel fattaccio, la Regina dovette abbandonare la Francia e decise di ritornare a Roma, sperando di far dimenticare quella tragica storia, ma proponendosi di crearne altre meno “gialle" e più “rosa". Questa volta rimase a Roma otto anni vivendo da grande signora, creando anche un’Accademia di letterati ed artisti a Palazzo Corsini che si trova alle pendici del Gianicolo, al Lungotevere della Lungara, vicino - guarda caso, nota Sandro Bassetti - a Regina Coeli, il carcere. Ma anche questa volta il suo comportamento spesso scandaloso, le sue spese pazze, il suo rifiuto di inginocchiarsi quando andava in chiesa, la tresca con un cardinale, la costrinsero a cambiare aria e decise così di tornare in Svezia, affidando la direzione dell’Accademia da lei creata - attenti al nome - a un nobile di Orvieto, Paolo Antonio Monaldeschi, nipote di quel Gian Rinaldo che la Regina aveva fatto ammazzare nove anni prima.

Una nuova fiamma per Cristina

Cristina aveva allora 40 anni e questo Paolo Antonio 24: un altro bocconcino regale. Ma in Svezia Cristina rimase poco: le sue stranezze, i suoi amori, i suoi scandali, la sua esibizionistica conversione al cattolicesimo, la preoccupazione di chi governava che volesse tornare sul trono, furono le ragioni per cui il Consiglio di Stato svedese le fece capire che non era gradita e che gli svedesi non erano più disposti a renderle onore, come lei avrebbe preteso. Fu perciò costretta a riprendere la via di Roma, l’unica che le rimaneva sempre aperta. Roma in quel momento attraversava un periodo di tale splendore artistico e di tale tolleranza di costumi, da considerare quella ex Regina un personaggio d’attrazione sempre proponibile. La sua visita al Castello di Monterubiaglio avvenne il 22 settembre del 1680. Era domenica. Cristina fu ospite di Paolo Antonio Monaldeschi per alcuni giorni. Lei aveva già 54 anni, lui ne aveva ora 38. Che il nipote dell’ucciso Gian Rinaldo Monaldeschi fosse entrato nelle grazie di Cristina di Svezia, destò vivaci reazioni particolarmente ad Orvieto. Nacque così la leggenda che in quelle notti a Monte

Rubiaglio il fantasma di Gian Rinaldo, vestito da cavallerizzo, si sia aggirato nel Castello per intimorire la sua assassina ed il nipote amante. Poi, siccome in un Castello che si rispetti un fantasma ci sta bene, si raccontò che egli torna ogni anno il 6 novembre, ricorrenza dell’uccisione di Gian Rinaldo Monaldeschi, e il 22 settembre, ricorrenza della visita della Regina. In questi due giorni - testimonia Sandro Bassetti che nel maniero abita - non mi è mai capitato di essere in casa, non per evitare l’incontro. Anzi, un incontro con un fantasma storico come Gian Rinaldo Monaldeschi, a distanza di 350 anni, sarebbe un bello “scoop" giornalistico.

Gli ultimi anni della regina

Gli ultimi anni della Regina - riprende il racconto di Sandro Bassetti -, raffreddati i sensi, furono quasi esclusivamente dedicati a iniziative culturali e a proteggere artisti, poeti, musicisti. Cercò insomma di salvare l’anima “in zona Cesarini", come si dice in termini sportivi per indicare gli ultimi minuti di una partita di calcio. Nel 1687, a 61 anni, organizzò nel suo palazzo una delle più grandi manifestazioni musicali che si siano mai svolte nella Roma barocca. Vi parteciparono tutti i nobili e quasi tutti i Cardinali del Sacro Collegio. Una eccezionale orchestra di 150 professori e un coro di 100 cantori furono diretti dal famoso musicista Arcangelo Corelli. Per il Natale dell’anno seguente Cristina di Svezia si fece cucire un meraviglioso abito di raso bianco e fili d’oro, e, come sempre, domandò alla maga della sua corte in quale cerimonia avrebbe dovuto usarlo. La risposta fu lapidaria: “Per i vostri funerali". Bastò questa risposta perché lei non indossasse quell’abito che costava un occhio. L’anno dopo - era il 1689 e lei aveva 63 anni - la regina fu colpita da un grave male sconosciuto da cui, però, guarì quasi improvvisamente. Sembrò un miracolo - aggiunge Bassetti -, tanto che in molte chiese di Roma venne cantato un Te Deum di ringraziamento. Ma fu un’illusione, perché il male si manifestò di lì a poco ancora più violento. Era evidentemente un tumore. Infatti, all’alba del 19 aprile 1689 Cristina di Svezia morì. Con il suo testamento lasciò le sue residue sostanze all’amante che le era stato più fedele impegnandolo però a fargli dire ventimila Messe. I suoi funerali furono degni di una Regina in carica. Il feretro sfilò su una grande carrozza per le vie di Roma piene di folla. Tutte le botteghe erano chiuse in segno di lutto. L’abito con cui l’avevano rivestita era proprio quello di raso e oro. la sua salma fu sepolta in San Pietro, sia pure nella Sacrestia. 35 anni dopo, però, le costruirono un bel sepolcro che si può ammirare nelle Grotte Vaticane in cui la sua immagine è riprodotta di profilo, più bella di quello che in realtà non fosse. Certo, fa una certa impressione - rivela Sandro Bassetti - vedere raffigurata nel marmo, per giunta in San Pietro, quella Regina omicida dal sangue bollente che per un po’ di tempo abitò nel Castello di Monte Rubiaglio, nell’appartamento del primo piano in cui ora abito con mia moglie Antonietta e la mia gatta Carlotta.

Ed ecco un re senza potere

Un altro personaggio storico a soggiornare nel Castello di Monte Rubiaglio fu Giacomo III, (1688-1766), ed sempre Sandro Bassetti a presentarcelo.

Giacomo III fu riconosciuto Re d’Inghilterra soltanto dalla Francia. Visse e morì da perdente. Forse per questo è stato ritratto da bambino, quasi a sottolineare che non era mai cresciuto. Avrebbe dovuto succedere a Giacomo II, ma questi fu deposto perché cattolico, e il figlio, anche lui cattolico, ne pagò le conseguenze. Dal trono scesero gli Stuart e vi salirono gli Orange con Guglielmo III. La madre di Giacomo era italiana, Maria Beatrice d’Este, duchessa di Modena. I sostenitori degli Stuart tentarono due volte di metterlo sul trono, ma non ci riuscirono e lui vagò esule fra le Corti cattoliche d’Europa fino a quando si stabilì definitivamente a Roma dove morì. Ospite a Orvieto nel 1725 del Conte Negroni, che era divenuto proprietario del Castello per eredità, fu invitato a Monte Rubiaglio. Il Conte Negroni era un appassionato studioso di magia, dedito anche - il cognome si addiceva - a pratiche negromantiche. La sua insegna, imperniata sulla croce, figura ancora sulla torre campanaria a due bifore del Castello. Ha la forma del pipistrello, mammifero alato e notturno sempre caro ai maghi. In quell’insegna si possono vedere intagliate le iniziali del Conte: G. Giovanni, B. Battista, N. Negroni. Il figlio di Giacomo III - spiega Sandro Bassetti -, Charles Eduard, detto il Conte d’Albany (1720-1778), sposò la bella contessa d’Albany la quale divenne amante del nostro Vittorio Alfieri che la sposò segretamente dopo la morte del marito.

Le razzie di Cesare Borgia

Qui giunti, con Cesare Borgia e il Maramaldo a Monte Rubiaglio, Sandro Bassetti si congeda da noi. E la fine dei racconti monterubiagliesi iniziano con la constatazione che il Castello non ha ospitato soltanto Imperatori, Papi, Re e Regine, ma anche, “e purtroppo" due personaggi tristemente famosi come il Valentino e il Maramaldo. Il Borgia (1475-1507), detto anche il Valentino perché era Duca del Valentinois in Francia, era figlio di Rodrigo Borgia che fu poi eletto papa: Alessandro VI. Ambizioso e risoluto, fu nominato prima Vescovo, poi Cardinale e anche Governatore generale e Legato di Orvieto nel 1495, a soli venti anni. Il Papa-padre avrebbe voluto che egli unificasse gli Staterelli italiani - e questa speranza nutrì anche, illudendosi, Niccolò Machiavelli - ma i tentativi che egli fece con spregiudicatezza e anche con crudeltà non gli riuscirono e finì in Spagna dove morì in uno scontro di gruppi armati. Il Valentino conobbe il Castello di Monte Rubiaglio nel dicembre del 1494 e nel gennaio del 1503, ma non come gradito ospite, come erano gli altri. Attraversò infatti Monte Rubiaglio con un esercito di soldati a cavallo razziando tutto quel poco che c’era. L’altro personaggio tristemente famoso fu Fabrizio Maramaldo, capitano di ventura del 1500. Al servizio degli Imperiali seminò la morte in molte contrade partecipando anche al “Sacco di Roma" del 1527 che costrinse Papa Clemente VII a rifugiarsi a Castel Sant’Angelo e poi a soggiornare ad Orvieto per sei mesi. Un’incursione la fece anche a Monte Rubiaglio e a Castel Viscardo per procurare cibo agli uomini che comandava dando saggio di tutta la sua ferocia. Per questo - conclude Sandro Bassetti - è nata l’espressione “maramaldeggiare" per dire “fare violenza ai deboli o ai vinti".

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