Il vero cristiano sa comunicare la gioiadi Enzo Bianchi Nel nostro orizzonte ci sono oggi due fenomeni con cui l’evangelizzazione si trova a fare i conti: l’indifferentismo della maggior parte degli uomini delle nostre società post-cristiane e il pluralismo religioso, dovuto soprattutto alle migrazioni di credenti di altre religioni nel nostro continente. Entrambi mettono in crisi non solo le forme e i modi, ma la stessa plausibilità dell’evangelizzazione: sono fenomeni dolorosi per la coscienza credente perché non la contestano frontalmente, non la combattono apertamente, ma affermano, con il loro stesso esserci, che il cristianesimo può essere insignificante e che si può vivere bene anche senza di esso. L’indifferenza religiosa pone la chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza e inutilità, mentre il pluralismo religioso fa intravedere al cristianesimo la possibilità di doversi considerare una proposta tra le altre, senza titoli di superiorità né, tanto meno, di assolutezza. L’indifferenza è percepita come un ospite inatteso, un intruso indesiderato, una presenza ingombrante di fronte alla quale si è tentati o di rimuoverla con la nostalgia di un mondo popolato da militanti, oppure di condannarla con giudizi sommari e definitivi: così l’indifferenza sarebbe il risultato di un individualismo esasperato, di una cultura incapace di discernimento e contrassegnata da una radicale incertezza… L’indifferenza di chi è deluso dalle fine delle ideologie, l’indifferenza di ex-credenti frustrati nella loro attesa di un rinnovamento ecclesiale, l’indifferenza dell’homo technologicus convinto di poter dominare tutto attraverso la tecnica appare ai cristiani come enigmatica e grande nemica. Eppure, li stimola a porsi domande salutari: perché il cristianesimo ha cessato di essere interessante agli occhi di molti? E i cristiani, sono essi stessi davvero “evangelizzati”, così da poter essere efficaci “evangelizzatori”? Sanno davvero esprimere e comunicare la loro peculiarità, la loro “differenza”? Non dimentichiamo che l’indifferenza cresce man mano che scompare la differenza! Del resto, il cristianesimo è un’offerta, non un’imposizione e non pretende di avere il monopolio della felicità, ma afferma di trovarla nella vita secondo Gesù Cristo. Il fatto che vi siano degli atei, allora, non fa che rafforzare la scelta di libertà che sta alla base di una vita cristiana. Il problema serio, se mai, è che non siano i cristiani stessi e le chiese a produrre atei con i loro atteggiamenti disumani e intolleranti, con la pratica dell’autosufficienza e del non ascolto. Quanto al pluralismo religioso, occorre non essere astratti: non si incontra mai l’islam o una religione, bensì uomini e donne che appartengono a determinate tradizioni religiose e per i quali questa appartenenza è un aspetto di un’identità molteplice e non monolitica. In questo “camminare accanto”, in questo vivere gli uni a fianco degli altri, i cristiani non devono imboccare vie apologetiche né assumere atteggiamenti difensivi o, peggio ancora, aggressivi, ma devono saper creare spazi di vita e di accoglienza in vista dell’edificazione di una polis non semplicemente multiculturale e multireligiosa ma interculturale e interreligiosa. Qui più che mai i cristiani sono chiamati a creare spazi comunitari a partire dalla loro capacità di essere uomini e donne di comunione e a rendere le loro chiese autentiche “case e scuole di comunione” per tutti gli uomini. Il cammino di evangelizzazione richiede conoscenza dell’altro e della sua fede, capacità “pentecostale” di parlare la lingua dell’altro, di farsi prossimo in senso evangelico di chi si è fatto vicino a noi fisicamente, mostrando così di credere nell’unico Padre e di riconoscere la fraternità universale. Di fronte all’altro per lingua, etnia, religione, cultura, usi alimentari e medici, prima di evangelizzare occorre imparare l’alfabeto con cui rivolgersi a lui, manifestando concretamente una vicinanza e una simpatia “cordiali”. Solo in questo modo si potrà “costruire una casa comune per l’umanità nella quale Dio possa vivere”. Oggi ai cristiani è chiesto di non venir meno al loro compito di annunciare il Vangelo, ma questo annuncio non può essere disgiunto da una buona comunicazione, un comportamento limpido, una pratica cordiale dell’ascolto, del confronto e dell’alterità. Sì, l’annuncio cristiano non deve avvenire a ogni costo, né attraverso forme arroganti, né con un’ostentazione di certezze che mortificano o con splendori di verità che abbagliano. Infatti, come ricordava già Ignazio di Antiochia all’inizio del ii secolo: “il cristianesimo è opera di grandezza, non di persuasione”. Paolo VI ha più volte chiesto alla chiesa, in vista dell’evangelizzazione di “farsi dialogo, conversazione, di guardare con immensa simpatia al mondo perché, se anche il mondo sembra estraneo al cristianesimo, la chiesa non può sentirsi estranea al mondo, qualunque sia l’atteggiamento del mondo verso la chiesa”. Ecco perché occorre innanzitutto che i cristiani siano loro stessi “evangelizzati”, discepoli alla sequela del Signore piuttosto che militanti improvvisati: così sapranno mostrare la “differenza” cristiana. I cristiani non cerchino visibilità a ogni costo, non rincorrano la sovraesposizione per evangelizzare, non si servano di strumenti forti di potere ma, custodendo con massima cura, quasi con gelosia, la Parola cristiana, sappiano innanzitutto essere testimoni di quel Gesù che ha raccontato Dio agli uomini con la sua vita umana. Il primo mezzo di evangelizzazione resta la testimonianza quotidiana di una vita autenticamente cristiana, una vita fedele al Signore, una vita segnata da libertà, gratuità, giustizia, condivisione, pace, una vita giustificata dalle ragioni della speranza. Questa vita improntata a quella di Gesù potrà suscitare interrogativi, far nascere domande, così che ai cristiani verrà chiesto di “rendere conto della speranza che li abita” e della fonte del loro comportamento. Per questo servono uomini e donne che narrino con la loro esistenza stessa che la vita cristiana è “buona”: quale segno più grande di una vita abitata dalla carità, dal fare il bene, dall’amore gratuito che giunge ad abbracciare anche il nemico, una vita di servizio tra gli uomini, soprattutto i più poveri, gli ultimi, le vittime della storia? Teofilo di Antiochia, un vescovo del ii secolo, ai pagani che gli chiedevano “mostrami il tuo Dio”, ribaltava la domanda: “mostrami il tuo uomo e io ti mostrerò il tuo Dio”, mostrami la tua umanità e noi cristiani, attraverso la nostra umanità, vi diremo chi è il nostro Dio. I cristiani del xxi secolo possono dire questo? Sanno mostrare una fede che plasma la loro vita a imitazione di quella di Gesù, fino a far apparire in essi la differenza cristiana? La loro vita propone una forma di uomo, un modo umano di vivere che racconti Dio, attraverso Gesù Cristo? Altrimenti, come potranno essere credibili nell’annuncio di una “buona notizia”, se la loro vita non riesce a manifestare anche la “bellezza” del vivere? Nella lotta di Gesù contro ciò che è inumano, nella lotta dell’amore, c’è stato spazio anche per un’esistenza umanamente bella, arricchita dalla gioia dell’amicizia, circondata dall’armonia della creazione e illuminata da uno sguardo di amore su tutte le realtà più concrete di un’esistenza umana. Perché anche le gioie e fatiche che il cristiano incontra ogni giorno diventino eventi di bellezza occorre una vita capace di cogliere sinfonicamente la propria esistenza assieme a quella degli altri e del creato intero. Così, la vita del cristiano che vuole annunciare Gesù come “uomo secondo Dio” sarà anche, a imitazione di quella del suo Signore, una vita felice, beata. Certo, non in senso mondano e banale, ma felice nel senso vero, profondo, perché la felicità è la risposta alla ricerca di senso. Tale dovrebbe essere la vita cristiana: liberata dagli idoli alienanti come dalle comprensioni svianti della religione, contrassegnata dalla speranza e dalla bellezza. I grandi maestri della spiritualità cristiana hanno sempre ripetuto: “O il cristianesimo è filocalia, amore della bellezza, via pulchritudinis, via della bellezza, o non è”! E se è via della bellezza saprà attirare anche altri su quel cammino che conduce alla vita più forte della morte, saprà essere narrazione vivente del Vangelo per gli uomini e le donne di questo nostro tempo. Enzo Bianchi testo integrale tratto da "La Stampa" 27 ottobre 2004 |