La
vera passione
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di
Enzo Bianchi
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Il fondamento della fede
cristiana, celebrato e proclamato soprattutto nella Pasqua, è la
passione-morte e risurrezione di Gesù. E’ un fondamento molto
fragile, facilmente svuotabile e depauperabile, perché è
costituito da un equilibrio delicatissimo tra due eventi, tra loro
opposti e contraddittori: la passione-morte, che è evento
umanissimo, esperito da ogni uomo al di là della diversa forma
concreta che assume, e la risurrezione, evento che è azione di Dio
esercitata nella storia solo sull’uomo Gesù di Nazareth.
Equilibrio delicatissimo che va custodito con molta vigilanza dai
cristiani: per questo preoccupa la mancanza di sensus fidei, di «senso
della fede» che emerge in questa stagione. Di fatto, in quest’ultimo
decennio, sono molti quelli che si sentono «culturalmente»
cristiani e che, di conseguenza, anche se non si interrogano sulla
loro quotidiana sequela cristiana, anche se non hanno una prassi
ecclesiale assidua, finiscono per essere abilitati lettori della
vicenda di Gesù. Sì, c’è mancanza di senso della fede, per cui
anche la Pasqua cristiana può essere stravolta senza che molti se
ne diano pensiero.
Proviamo allora oggi, Venerdì Santo, a mettere a fuoco la
passione-morte di Gesù, iniziando dal rapporto tra i Vangeli e la
passione.
Impressiona il fatto che nel primo Vangelo, quello di Marco, scritto
circa tre decenni dopo la morte di Gesù, il racconto della passione
e morte sia lungo, sproporzionato rispetto a quello della vita: un
quinto dell’intero Vangelo. Segnale indubbio di quanto la vicenda
della passione-morte stesse a cuore all’evangelista e di quanto
fosse percepita come determinante per la fede cristiana. Sì, perché
Gesù, il rabbi e il profeta che aveva radunato una comunità di
discepoli e un gruppo di simpatizzanti, era morto condannato dal
potere religioso legittimo e dal potere imperiale romano come uomo
nocivo e avverso al bene comune. Bisognava allora mostrare che Gesù
era «giusto», che era passato facendo il bene, curando, guarendo,
facendo arretrare il potere del demonio, e che nella sua vita spesa
per amore di Dio e dei fratelli non aveva commesso nessun male.
Bisognava dimostrare come si svolse il processo religioso e quello
romano, come Gesù visse le sofferenze delle percosse, della
persecuzione e della morte violenta: per questo il racconto della
passione resta un racconto sobrio, in cui non c’è nessun
compiacimento e nessun attardarsi sul dolore di Gesù. Così il
racconto della passione nei Vangeli sinottici è puntuale ma non
descrive né le ferite della flagellazione, né cadute sotto il peso
della croce, né i colpi di violenza inferti… Dice solo: «Gesù
fu flagellato… fu deriso… fu caricato della croce… fu
crocifisso…». Racconti che non vogliono destare orrore, non
vogliono che ci si attardi a contemplare le torture, non inducono
alla tentazione di esaltare le sofferenze di Gesù e non forniscono
immagini oscene vietate ai minori. Ascoltando quei racconti, non si
è mai portati all’esercizio di una contemplazione del sadismo dei
persecutori e degli eccessi del dolore patito da Gesù. Tutto,
invece, è narrato in modo che l’attenzione del lettore vada alla
mitezza di Gesù, alla sua qualità di agnello afono di fronte ai
suoi carnefici: Gesù, che per diritto avrebbe potuto, come i
salmisti, chiedere a Dio la vendetta, maledire quei suoi nemici, ha
invece chiesto perdono per i suoi persecutori, non ha minacciato
rivalsa e ha scelto di essere vittima tra le vittime della storia.
Non è venuto meno alla sua giustizia e ha continuato ad amare gli
uomini fino alla fine, fino alla morte.
I Vangeli vogliono far entrare il lettore nella preghiera, nel
cammino di conversione: quello «spettacolo» della croce è per
attirare tutti a Cristo, non per impressionarli e destare in loro un
macabro voyeurismo. Gesù non ci ha salvati attraverso una quantità
massima di sofferenze: altri nella storia dell’umanità hanno
sofferto fisicamente più di lui, hanno patito carcere, torture,
persecuzioni più lunghe e più strazianti delle sue. Gesù non ci
ha salvato attraverso i colpi della flagellazione né è stato
complice del piacere sadico dei suoi esecutori. La passione e la
morte di Gesù ci sono narrate unitamente alla sua vita anzi, in
funzione della sua vita, per affermare il termine ad quem cui è
giunta questa vita spesa nel servizio e nell’amore per gli uomini.
In Occidente, purtroppo, c’è sempre stata la tentazione di
leggere Gesù solo nell’evento puntuale della sua morte, quasi che
non abbia vissuto una vita umana fino alla maturità: ma se fosse
venuto solo per morire per noi, allora gli sarebbe bastato morire
nella strage dei bambini di Betlemme voluta da Erode! No, la vita di
Gesù è stata, come dice Paolo, un «volerci insegnare a vivere in
questo mondo»: questa è stata la narrazione di Dio e del suo amore
fino alla croce. Fino alla croce, non nella sola croce! Ben ce lo
ricorda il cardinal Ratzinger quando afferma che va ricusata
assolutamente l’idea di un Dio «la cui giustizia avrebbe
reclamato un sacrificio umano, il sacrificio di suo Figlio: questa
immagine è tanto comune quanto è falsa».
La passione, poi, va letta alla luce della risurrezione. E’ questo
il vero annuncio cristiano: la morte non è più l’ultima parola,
l’odio è vinto dall’amore, il dolore è trasfigurato in gloria.
La Chiesa lo ha sempre capito: infatti, nella liturgia del Venerdì
Santo essa legge la passione secondo Giovanni, racconto della gloria
di Gesù che si manifesta proprio nella narrazione della passione,
gloria di chi depone la vita per amore e nella libertà. La passione
come la narra Giovanni è l’antidoto contro ogni
strumentalizzazione pornografica della vicenda delle ultime ore di
Gesù, l’antidoto contro ogni abuso osceno o sadico. E’ una
passione in cui emerge la gloria, il peso di Dio nella vita di Gesù
e il peso dell’amore di Gesù che tutto ha compiuto non per
eseguire una volontà del Padre che pretendeva la sua morte, ma per
restare fedele al Padre che chiede a ogni uomo amore, perdono,
giustizia. E’ restando fedele alla volontà di Dio sulla forma
della vita dell’uomo che Gesù ha incontrato una morte inflittagli
dagli uomini ingiusti perché, in un mondo ingiusto, il giusto può
solo essere condannato, rifiutato, ucciso.
I cristiani, allora, quando leggono o ascoltano la passione,
contemplano sì un volto sfigurato, ma sapendolo ormai glorioso e
trasfigurato: non si arrestano alla morte come se fosse una realtà
definitiva. Per ben dodici secoli i cristiani di Oriente e di
Occidente si sono rifiutati di rappresentare Gesù morto in croce:
per i primi tre secoli, quelli precedenti la cristianità, non hanno
mai raffigurato la croce, poi hanno dipinto un Cristo in croce
ritto, con gli occhi aperti, glorioso, in posizione di Signore e di
Risorto. Sapienza di una Chiesa che, senza analgesie né dolorismi,
manteneva intatto l’equilibrio morte-risurrezione e che sapeva
che, se c’erano stigmate nel corpo di alcuni santi, queste non
erano un invito al dolorismo ma tracce e segnali che nel vissuto di
quei santi si poteva scorgere la conformità a Cristo, il Maestro e
Signore.
Le nostre ossessioni contemporanee possono essere grandi tentazioni
nel leggere la passione di Gesù: angoscia del male, fascino della
violenza, ricerca dei colpevoli… In questo modo, come osserva
acutamente il teologo Giuseppe Colombo, «la croce prevale sul
crocifisso, dando libero sfogo alle tendenze ambigue insite nel
subconscio dell’uomo: non è la croce a far grande Gesù Cristo,
ma è Gesù Cristo che riscatta persino la croce, la quale è
propriamente da comprendere, non retoricamente da esaltare».
Oggi resta allora una preoccupazione: se si continua ad aver così
poco sensus fidei, presto non riusciremo più a capire la differenza
tra la liturgia cristiana e le rappresentazioni popolari della
passione. Con ragione Sergio Luzzatto teme che la tentazione di
rincorrere la pietà popolare - io la chiamerei «folklore paesano»
- finisca per produrre un certo numero di mostri. La lettura
autentica della passione di Cristo si fa contemplando i poveri, gli
ultimi, i bisognosi della terra («Ogni volta che l’avete fatto a
uno di questi ultimi, l’avete fatto a me») e, possibilmente,
vivendola come vita spesa per i fratelli. Sì, sono molte le ragioni
per cui numerosi credenti oggi soffrono di questa poca chiarezza, e
per cui altri rischiano di essere scandalizzati non dalla «parola
della croce» - come la chiama l’apostolo Paolo -, ma da una
strumentalizzazione della croce indegna se fatta da parte di
cristiani. Diffidiamo di chi pensa di poter evangelizzare in questo
modo, diffidiamo di chi scambia per contemplazione profonda lo
spettacolo osceno del dolore umano: come diceva Guigo il Certosino,
«nuda e appesa alla croce va adorata la verità!».
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testo integrale tratto da "La Stampa" - 9 aprile 2004
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